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INTERVISTE

BETTARINI

MARIELLA BETTARINI, POESIA E IMPEGNO

 

Mariella Bettarini (Firenze, 1942) è una poetessa, saggista, scrittrice e traduttrice italiana. Nel 1973 ha fondato il quadrimestrale di poesia autogestito e autofinanziato Salvo imprevisti, (sottotitolato Quadrimestrale di poesia e altro materiale di lotta), che ha spesso pubblicato numeri monografici dedicati a temi che collegano cultura, poesia e problemi sociali. Nel 1993 Salvo imprevisti ha continuato le pubblicazioni col nuovo nome L’area di Broca, semestrale di letteratura e conoscenza. Ha curato, sulla rivista Poesia (Crocetti) una rassegna dal titolo Donne e poesia, antologia di poesie di circa cento autrici italiane dal ’63 al ’99. Ha collaborato con svariate riviste, quotidiani e periodici. Dal 1984 ha curato, con Gabriella Maleti le Edizioni Gazebo.

 

RECENSIONI

BETTARINI

MARIELLA BETTARINI, HAIKU ALFABETICI – IL RAMO E LA FOGLIA, ROMA 2021

Mariella Bettarini (Firenze, 1942) poeta, saggista, scrittrice e traduttrice italiana, ha svolto nell’ultimo mezzo secolo un’importante funzione aggregatrice di giovani talenti letterari, fondando riviste di poesia autogestite (Salvo imprevisti, L’area di Broca) e la casa editrice Gazebo.

Definita da Giuliano Manacorda “una delle voci più coraggiose e più originali nel campo delle iniziative culturali e della produzione poetica”, si è sempre prodigata intellettualmente in un incisivo lavoro di sensibilizzazione politica e femminista. Scrittrice feconda, ha da poco pubblicato la raccolta di poesie Haiku Alfabetici, in cui si rincorrono versi in forma di haiku, elencati alfabeticamente dalla A alla Z e raggruppati a tema, con argomenti che spaziano dalla natura alla scienza, dai sentimenti alla socialità: attenta sempre a un’esigenza comunicativa aperta e solidale con l’habitat umano e ambientale che ci circonda.

In questa sua originale rassegna, che partendo da Animali arriva a Zenith, con tappe significative che esplorano soprattutto atteggiamenti interiori dell’anima (Bene, Cuore, Dono, Ricordi, Gioia, Luce, Umanità, Vita), ha segnato un percorso emotivo di illuminazione personale, generosamente trasmesso ai lettori utilizzando la sinteticità dei tre versi canonici della millenaria composizione orientale. “Che cos’è gioia? / Misterioso pensiero / gioia – sì gioia // Gioire come? / Condividere gioia / è maggior gioia // Eppure gioia / è solitaria speme / solinga gioia // Viva la gioia / gioia non solitaria / sì – condivisa // Dunque che cosa? / Gioia contraddittoria / sempre gioiosa”).

Secondo la postfatrice del libro Annamaria Vanalesti, Bettarini “ha costruito una trama sottile, che fa da mappa del vivere, rilanciando a chi legge la sfida di riorganizzare il proprio itinerario esistenziale, ripercorrendolo con maggiore attenzione verso tutto ciò che si dà per scontato e che invece ha perso significato”. Nel riconoscere la gratuità della limpida purezza che ci viene offerta, la poeta esprime la propria gratitudine in un entusiastico omaggio alla luce: “Illuminante / luce che illumini / tu luminosa // Viva lucente / tu che il buio allontani / fammi tu luce // Ti dico grazie / per quello che ci doni: / luce – sì – luce // Se tu non fossi / come faremmo – oscuri / cuori oscurati? // E invece vivi / vivacemente vivi / di vita fonte”. Un’altra manifestazione di lieta adesione alla bellezza materiale del creato, nella convinzione quasi francescana della radice comune di tutto l’esistente (uomini e donne di ogni razza, animali e piante, ma anche aria, fuoco, terra e acqua) si trova nella fresca cinquina di versi dedicata alle foglie: “Stupende foglie / creature viventi / cuor di fogliame // Che dire – dirvi / o foglie maternali? / Son figlia vostra // Quando stormite / con voi l’anima canta / la mente vola // Quando cadete / ci pieghiamo con voi / voi aspettiamo // E sempre sempre / ci è sicura compagna / la beltà vostra”.

Persino la fine (sorella morte, diceva il Santo) è avvertita come traguardo luminoso da raggiungere, nella certezza di un approdo sicuro e confortante cui arrivare dopo un’esistenza spesa nel dono e nel per-dono, nella fratellanza, nella fiducia verso l’altro da sé: “Eccomi giunta – / eccomi – sì – allo zenith – / eccomi giunta // Cos’è lo zenith? / è – sì – l’intersezione / tra l’orizzonte… // … e tutto il cielo – / il cielo che sta sopra – / sopra la testa // E perché zenith? / zenith che non è nadir – / e perché zenith? // Zenith – sì – zenith? / perché è amico del Sole – del Sole amico”. La pace come obiettivo finale da porsi, quindi, come sigillo a una promessa fatta a se stessi e alla comunità amicale in cui si è inseriti, alla koinè espansa che tutto e tutti raccoglie, simbolizzata dalle lettere dell’alfabeto, dalla A iniziale alla Z conclusiva.

© Riproduzione riservata        SoloLibri.net  12 aprile 2021

RECENSIONI

CARIFI

ROBERTO CARIFI, ABLATIVO ASSOLUTO – ANIMAMUNDI, OTRANTO 2021

Ciò che caratterizza principalmente il costrutto dell’ablativo assoluto è la sua totale indipendenza dalla proposizione principale, il suo essere “sciolto” dal contesto. Così ci insegnavano i professori impartendoci i primi, essenziali rudimenti della lingua latina. Ablativo assoluto è il titolo della più recente raccolta di versi di Roberto Carifi (Pistoia 1948), quasi a indicare la volontà del testo di spiegare se stesso essenzialmente attraverso se stesso, in un monologo che trova all’interno della propria espressione le ragioni del suo esistere.

“Settanta celle scavate nel linguaggio, ‘rovina dichiarata a bassa voce’, raccolta concava di ‘marmata preghiera’, i versi si offrono qui salati, scarni, deposti. E percepiamo il clima, a un tempo gelido e rovente, implicato dal taglio della parola, dall’incandescenza del trauma e da una resa lampeggiante alla corporeità della preghiera”: così esordisce nella sua dottissima e ammirata postfazione Benedetta Silj, dando della produzione di Carifi un’interpretazione che, a partire dalla concretezza della sofferenza fisica, si innalza verso la rarefatta spiritualità della sua meditazione trascendente.

Roberto Carifi – poeta, critico letterario, traduttore e filosofo – si è accostato alla scrittura attraverso l’insegnamento del concittadino Piero Bigongiari e le esperienze dell’ermetismo fiorentino. Studioso di Rilke e Heidegger, nella maturità ha approfondito l’interesse per la psicanalisi e il buddhismo, in particolare dopo la dolorosa prova della malattia, che dal 2004 lo costringe alla semi-immobilità. Temi fondamentali della sua ricerca letteraria sono il ricordo dell’infanzia (rivissuta soprattutto attraverso il recupero della figura materna e della città natale), la rivelazione epifanica della bellezza, l’utopia di una verità raggiungibile, il raccoglimento silenzioso intorno ai temi della morte e della mancanza.

La madre, abbandonata dal padre quando Roberto aveva tre anni, è il principale referente emotivo all’interno della sfera degli affetti, nel rimpianto e nella pena: “Guardo le giacche appese ai rami / mamma tu sai la guerra combattuta / come un salice spenzolo da un ponte, la notte sanguina nel tuo sonno / verso sud-nord / non ha importanza”, “Scese per me il tuo tramonto / fatto di pietra, mamma dove sei / in fondo ad un pozzo o nel Nirvana, / oggi mi esercito a morire / i corvi attendono me / o qualche altra cosa”. La morte della madre si sovrappone a quella temuta del poeta – prostrato dal male, stanco e impaurito – e all’agonia di tutte le creature innocenti che animano terra, cielo, acque: “Ora vorrei che mi portassi via, / dove c’è luce, / invece ci sono grotte, / cunicoli fangosi / lasciati alla mortalità”, “Nel mio povero letto / patisco le grotte, avvisaglie / del mio trapassare / cratere occhi cavati / presto si ammaleranno, / sarò tramutato in sasso”, “Mare scuro, pesci morti / gabbiano a strapiombo sopra una roccia, / stecchiti sopra il canale, / esistenza di piccoli passi / gli animali in fila / moriranno”.

Sollievo alla sofferenza è offerto dall’esercizio filosofico per raggiungere l’illuminazione interiore, appreso attraverso la pratica del buddhismo. Senza essere dei veri e propri haiku, molte poesie di Carifi riprendono temi e immagini dell’antica poesia sapienziale dell’Oriente, sulle orme dei suoi più noti maestri: Li Po, T’ao Ch’ien, Bashō, Ikkyū. Gli argomenti toccati dal poeta pistoiese sono l’abbandono alla dolcezza delle visioni naturali, l’esigenza etica di spogliazione dai beni materiali, l’esperienza del vuoto, l’imitazione della figura esemplare del monaco viandante, ricco solo della propria saggezza: “Prega con un pezzo di pane / il santo è ricco / senza avere più niente, / prende la sua ciotola di riso / e va di casa in casa”, “La perfezione della primavera / quando fioriscono i ciliegi / e i flutti somigliano al mare / il monaco prega in un angolo / e piange per le cose del mondo / e sorride per la propria morte / quando le cose del mondo / saranno sparite e anche lui sarà / tutt’uno con i ciliegi”.

Formalmente i versi esprimono il gusto ribadito per la levità, il minimalismo espressivo, l’indifferenza a qualsiasi sperimentalismo linguistico: abbandonandosi invece al conforto carezzevole della ripetizione e alla giustapposizione di immagini per analogia. La parola, allora, assume la gentile vibrazione della preghiera, della litania monastica, dell’armonia celeste di pianeti e stelle.

© Riproduzione riservata        SoloLibri.net › Ablativo-assoluto-Carifi             7 aprile 2021

 

 

 

 

RECENSIONI

ROTH

JOSEPH ROTH, HOTEL SAVOY – PASSIGLI, FIRENZE 2020

Ho voluto riprendere in questi giorni la lettura dei romanzi di Joseph Roth, che mi avevano incuriosito e coinvolto più di trent’anni fa, con il proposito di dedicarmici fino all’estate, proprio per verificare se l’impressione positiva di allora permaneva anche dopo tanto tempo, successivi approfondimenti letterari, e l’inevitabile affinamento o, al contrario, inaridimento emotivo. Prendendo spunto dalla recente riproposta delle edizioni Passigli, ho iniziato il mio percorso rothiano da un romanzo che mi aveva colpito per il suo disegno caleidoscopico, un vero e proprio microcosmo di caratteri particolari: Hotel Savoy. Di un altro libro di poco successivo, Fuga senza fine, si stagliava ancora nella mia memoria la sagoma del protagonista, il tenente dell’esercito austriaco Franz Tunda, uomo futile e inane, che la lapidaria frase conclusiva condannava a un inesorabile fallimento: “Superfluo come lui non c’era nessuno al mondo”.

Di Hotel Savoy, invece, non ricordavo tanto la figura del personaggio principale, quanto la struttura rutilante dell’affresco. Apparso per la prima volta nel 1924, è la seconda prova narrativa di Roth e segna già il suo approdo a una piena maturità stilistica. Narra le vicende del giovane reduce Gabriel Dan, che dopo essere stato prigioniero e aver vagato nella Russia rivoluzionaria per tre anni, arriva in una cittadina dell’Impero asburgico, Lodz – oggi polacca – dove vivono alcuni membri della sua famiglia di origine ebraica. Si presenta, sporco e denutrito, alla reception del raffinato e austero Hotel Savoy, un edificio di sette piani, chiedendo di occupare una stanza, “Sono contento di togliermi di dosso una vecchia vita, come ho già fatto tante volte in questi anni. Vedo il soldato, l’omicida, il quasi ucciso, il risorto, l’incatenato, il viandante”.

Gli assegnano una stanza al sesto piano, e da subito comprende che il livello dei piani corrisponde al ruolo sociale ed economico degli ospiti. In basso la clientela più ricca e rispettabile, in alto i più poveri e screditati. Il proprietario dell’albergo è Kaleguropulos, un misterioso signore greco che sorveglia dal suo ufficio gli affari e il comportamento di tutti, senza mai farsi vedere, circondato da una fama di terribile severità. Factotum e addetto all’ascensore è il vecchio Ignatz, individuo losco e ambiguo, che ricatta gli ospiti debitori spogliandoli dei loro miseri averi in cambio di prestiti e dilazioni sul conto mensile. Intorno tutto un brulicare di esistenze e figuranti incredibili: ballerine, clown, ipnotizzatori, caricaturisti, ma anche medici, notai e affaristi, tutti “trattenuti da qualche sfortuna”, accomunati da un destino di sofferenza e umiliazione, con vite spezzate dalla guerra, fallimenti economici, malattie e voglia rabbiosa di riscatto.

Tra loro, Phöbus Böhlaug, lo zio di Gabriel ricco e avaro che gli rifiuta qualsiasi appoggio, con atteggiamenti di farisaico paternalismo, e il figlio di lui Alexander, vanesio e libertino, pago di umiliare gli altri vantando le sue conquiste sentimentali e finanziarie. Poi alcuni equivoci industriali e commercianti che la sera si riuniscono in una saletta sotterranea dell’albergo a bere e a godersi le esibizioni di spogliarelliste. E il plutocrate Bloomfield, tornato dall’America per rivedere la città natale e visitare la tomba del padre, ormai del tutto indifferente alle sorti politiche dell’Europa.

Esiste infine il sostanzioso gruppo dei falliti infelici, tra cui spicca la giovane e delicata Stasia, artista in varietà di terz’ordine, di cui il protagonista si innamora senza trovare mai il coraggio di dichiararsi. Il vecchio e mite pagliaccio Vladimir Sancin, che muore di tisi e viene sepolto in una fossa comune, accompagnato dal fedele asino con cui si esibiva negli avanspettacoli. Hirsch Fisch, che avendo perso il suo patrimonio, vende i numeri del lotto sognati di notte, e gira nei corridoi in mutande con il pitale in mano in cerca del gabinetto. L’amico croato Zvonimir, compagno d’armi di Gabriel Dan e come lui reduce dalla Russia, coraggioso fomentatore di scioperi e ribellioni sindacali. Intorno a questa variopinta umanità di senza Dio e senza patria, gravitante nell’albergo, cresce lo scontento e il rancore degli esclusi, dei disoccupati, degli emigrati dall’est, degli ex-combattenti, che infine esplode in una rivolta sanguinosa, culminata nell’incendio e nel successivo saccheggio del Savoy, simbolo di un mondo in disfacimento.

Joseph Roth (Brody 1894 – Parigi 1939) non è certo Thomas Mann, non è Schnitzler o Musil o Broch: non eccelle quanto i maestri novecenteschi della narrativa germanica, pur respirando la stessa atmosfera malinconica della finis Austriae. Forte della sua sofferta esperienza esistenziale (esule dalla nativa Galizia a Leopoli, da Vienna a Berlino, da Francoforte a Parigi; volontario nella prima guerra mondiale e prigioniero in Russia; affascinato sia dall’ideale monarchico sia da quello rivoluzionario; fiero delle radici ebraiche eppure fedele al messaggio evangelico), il mondo che amava ritrarre non è quello intellettuale e alto-borghese celebrato dai massimi letterati di lingua tedesca. Giornalista curioso e polemico, inquieto viaggiatore, incostante negli amori e nelle amicizie, tormentato dalle malattie mentali dei parenti, irrecuperabile alcolista, finì i suoi giorni a Parigi nell’ospizio dei poveri, in preda a una crisi di delirium tremens. Quello era il suo mondo, descritto con onestà e pudore in tutti i romanzi maggiori (La marcia di Radetzky, La cripta dei cappuccini, Giobbe, La leggenda del santo bevitore): le periferie delle grandi città europee e i villaggi orientali ebraici, le basiliche gotiche e le sinagoghe, le bettole e palazzi imperiali. I suoi affreschi narrativi hanno tratti corali e fiabeschi, sarcastici e disperati; i suoi personaggi sono criminali e santi, gran dame e prostitute, usurai e banchieri: tutti umanamente dolenti, sopraffatti da un destino di morte e sofferenza. Come scrive in un’appassionata pagina di Hotel Savoy: “Stanno male gli uomini, il dolore si erge di fronte e loro come una grande muraglia. Se ne stanno avviluppati nel grigiore polveroso dei loro affanni e si dibattono come mosche prigioniere”.

© Riproduzione riservata             «Gli Stati Generali», 7 aprile 2021

 

 

POESIE

SYMBOLUM

lo diede ai suoi discepoli  (Matteo 26,26)

 

Nella notte, le strade dell’addio:

strade che portano a tacere

nel buio; al nascosto mistero.

Al dio vero e abbandonato,

a un amore lasciato cadere. All’altare

nei campi, appena schiarito

da fari di auto veloci

come lampi di luce,

o raggi pietosi penetranti.

Ma l’ostia spezzata chiude il gesto

per sempre, e tutto è compiuto

nella notte senza voci,

senza aiuto.

 

 

Fu tradito: una porta sbarrata,

il passaggio taciuto, o chissà

che miscuglio nel vino.

E c’era chi brindava, c’era chi bestemmiava

lì intorno.

Più lontano qualcuno godeva

tra lenzuola macchiate,

rito antico a chiusura

di una indegna vittoria.

Oltraggio verso una storia arresa;

il tradito implora pietà

da chi lo consegna al nemico

perduto, anche lui,

di paura.

 

 

Prese il pane materia, il pane grano

nostro quotidiano sostentamento.

Pane del padre e simbolo di fame

per sempre domata, sudore di terra

o immeritata manna dal cielo.

Mano di madre che si infarina,

forno di legna, cenere e fuoco.

Crosta dorata, profumo

che lento si sparge in cucina.

Prese il pane e lo spezzò,

nutrimento della carne;

guardò fuori

aspettando il rumore del giorno.

 

 

Grazie per l’aria e per la luce,

grazie per la croce futura.

“Nolite quaerere a Deo”, sola preghiera

riconoscente, misura di un sorriso,

del ginocchio piegato.

In questa sera oscura, o truce notte

ardente; fatti benedizione,

voce dall’alto, “nisi Deum”,

ha supplicato:

ucciso.

 

 

Lo diede offerta, gratuito dono,

  • amici non più servi – disse;

mangiate tutti, mangiamo insieme

in questa cena ultima, mia mensa

e mia comunità. Certa alleanza

perché non vi abbandono,

unica vera vena del cuore

e ricompensa, umanità di Dio

raccolta in una stanza.

 

 

Corpo sacrificato, sacrificante

corpo: muto, in ascolto, angosciato,

tremante nell’ orto. Corpo

rivestito di spini e sudari,

vivente carne sofferente;

corpo svuotato, fino alla morte

obbediente: spogliato e sputato.

Come agnello portato al macello;

sgozzato, mangiato.

E fu sepolto.

Risorto poi, corpo glorioso elevato,

liberato dal male, rinato.

Corpo sdoppiato

eterno e bambino, immobile

e in cammino: anima crocefissa

alla materia, anima bella, luce

da luce generata.

Questo è il mio corpo,

umano e divino.

 

 

Sangue vendemmia raccolto

in un calice, deterso dal volto,

mani inchiodate e cuore trafitto;

sangue stillante dai rami,

dai mali di ogni palestina;

rappreso incrostato indelebile,

castigo e delitto,

flebile pianto di neonato,

canto roco di uno

disperso nel deserto, mestruo

colante di babilonia.

Sangue che intride la terra

e stride vendetta, si infetta

per una ferita veniale;

sangue di carneficina

o di cerimonia nuziale,

di agguato e di guerra.

Sangue di vite e di una vita,

linfa di tralci aggrappati

alla vigna, sangue

che danza inebriato,

esplode di stupore,

si immola per amore.

 

Per voi, per tutti: l’offerta, il dono.

Che è perdita

di corpo e di pensiero, parola e gesto;

rinuncia alla memoria,

aperta resa

al non più io, al noi,

al resto.

O dio – mio dio. Se pesa

questo lasciare

la propria storia,

sola certezza, vero che sazia…

Cosa chiedere poi?

Grazia e perdono.

 

 

Remissione, assoluzione,

ritorno al prima e nuovo inizio;

magica forza dal niente

al tutto, da notte a giorno.

Servizio

di clemenza e pietà,

abiura del peccato,

impostura del male:

nihil videbat, il dannato,

nel tombale silenzio.

Improvvisa la luce

cum ipso et in ipso.

Carità.

 

 

In memoria. Non cancellate,

mantenete il ricordo:

ogni parola serbate, il bene

il tempo la preghiera.

Quello che è destinato a sparire

  • il non ritorno, gloria del nulla.

Ora della passione,

crocifissione cosmica,

il vuoto sordo e cieco.

Morire del giorno, e sera

inesorabile.

Ma poi di nuovo aurora,

il chiaro, l’eco di una risposta

che aspettavate;

e c’è.

Questo fate,

in memoria di me.

 

 

In Gli Stati Generali, 4 marzo 2021 e in Consacrazione dell’istante, Animamundi, Otranto 2022

RECENSIONI

VALLORTIGARA

GIORGIO VALLORTIGARA, PENSIERI DELLA MOSCA CON LA TESTA STORTA

ADELPHI, MILANO 2021

Giorgio Vallortigara (Rovereto, 1959), professore ordinario di neuroscienze all’Università di Trento e docente all’Università del New England in Australia, è autore di numerose pubblicazioni scientifiche internazionali e di volumi divulgativi di successo. Collabora inoltre alle pagine culturali di varie testate giornalistiche con articoli sul comportamento animale, e più specificamente sulla cognizione numerica e sulla predisposizione biologica al riconoscimento di agenti animati negli uccelli, nei pesci e negli invertebrati.

Nel volume recentemente pubblicato da Adelphi, Pensieri della mosca con la testa storta, Vallortigara avanza una tesi originale, in controtendenza rispetto alle formulazioni più ortodosse della filosofia della mente. Tradizionalmente si riteneva infatti che la coscienza fosse legata alla quantità e alla complessità degli elementi del sistema nervoso, cioè che a un cervello più voluminoso corrispondesse una maggiore qualità intellettiva. Confrontando i risultati di studi recenti sull’attività cognitiva di organismi dotati di cervelli miniaturizzati (api o mosche, ad esempio) l’autore di questo affascinante volume afferma che anche gli esseri viventi più minuscoli sono forniti di facoltà basilari di pensiero, determinate dalla capacità di sentire e di muoversi.

Qualcosa ci accomuna, noi esseri umani dominatori del mondo, con le bestioline tormentanti che ci infastidiscono con il loro ronzio, le zampette pelose posate sulla tovaglia, le punzecchiature brucianti. Ovviamente non hanno la nostra intelligenza complessa, ma non sono prive di una loro specifica consapevolezza: sono infatti creature che hanno esperienza del mondo, creature senzienti che nel corso della storia naturale hanno incorporato alcuni semplici stratagemmi per risolvere problemi specifici atti a garantirne la sopravvivenza.

Un’introduzione e ventitré capitoli ci immettono, attraverso una scrittura sapiente e ironica, nell’universo minimo e immenso in cui si muovono bruchi, farfalle, mosche, lumache, ragni, formiche, pidocchi, scarafaggi, api… Che dalla legislazione europea non sono nemmeno considerati animali, e pertanto non vengono tutelati nel loro diritto alla vita. Eppure, “un’ape possiede nel ganglio encefalico novecentosessantamila neuroni. Con questo bagaglio limitato riesce a compiere prodezze cognitive” di discriminazione, navigazione e memoria spaziale, apprendimento e riconoscimento di luoghi e cose.

Gli imenotteri devono queste abilità ai corpi fungiformi posti nelle porzioni dorsali del cervello, che conferiscono loro strutture nervose associative in cui convergono le informazioni provenienti dalle vie sensoriali visive e olfattive, da utilizzare per riconoscere le fonti di cibo, allontanarsi e rientrare nel nido, intessere rapporti di socialità. Vespe e api (come succede ai nostri neonati e a molte specie di primati), sottoposte a diversi test di discriminazione, riconoscono le sagome delle facce (i due punti neri degli occhi e il taglio della bocca sottostante) prima e meglio di altre figure geometriche o di fantasia, a riprova della loro predisposizione all’interazione con gruppi sociali (le galline, sono addirittura in grado di ricordare centinaia di facce di esseri umani oltre a quelle di altre galline!)

Numerose e dettagliate sono le descrizioni di esperimenti di laboratorio riportati da Vallortigara per suffragare la sua ipotesi di partenza: se anche insetti dai cervelli minuscoli evidenziano componenti basilari dell’intelligenza sociale, forse questa dote non è stato il reale motore della encefalizzazione della specie umana. Il substrato più plausibile per l’insorgere delle abilità sociali va piuttosto ricercato in una caratteristica essenziale delle cellule: la capacità di sentire. Una capacità che si sarebbe manifestata per la prima volta quando, con l’acquisizione del movimento volontario, gli organismi elementari hanno avvertito la necessità di distinguere tra la stimolazione prodotta dalla propria attività e quella procurata dal mondo esterno.

È molto interessante, in questo volume, il continuo rapportare dati ed esperienze del mondo animale a quello umano. Sapere, ad esempio, che i cervelli delle varie specie aumentano di dimensione nelle aree dedicate a funzioni specializzate (quelle uditive per pipistrelli e delfini per finalità di eco-localizzazione; quelle della memoria per gli animali che fanno provviste di cibo, da recuperare poi nei nascondigli…). Forse per questo gli esseri umani, in relazione alla maggiore complessità dei loro rapporti sociali, hanno cervelli più voluminosi (1300 cc, con ottantasei miliardi di neuroni cerebrali, sviluppatisi circa 250.000 anni fa, a partire dal Pleistocene)? Eppure il numero massimo di individui con i quali possiamo mantenere relazioni interpersonali stabili, sembra limitarsi – per l’estensione della nostra corteccia cerebrale – a circa centocinquanta. La mosca Eristalis dal collo mobile che dà il titolo al libro, il grillo a cui si strappano le zampe, il paziente schizofrenico che ode le voci e avverte alterati i confini del proprio corpo, manifestano tutti un minimo comune denominatore di reazioni cerebrali quando vengono sottoposti a stimoli esterni.

Tante le cose curiose raccontate riguardo all’encefalo di animali ed esseri umani. Per esempio, chi sapeva che il nostro cervello costituisce appena il 2 per cento del peso del corpo, ma consuma il 20 per cento delle risorse energetiche dell’intero organismo, e che al suo interno il cervelletto, pur costituendo il 10 per cento della massa cere brale, contiene l’80 per cento di tutti i nostri neuroni? E chi l’avrebbe detto che quello della megattera pesa sette chili, mentre quello del delfino dell’Indo solo un etto e mezzo? Che pappagalli e corvi hanno un numero di neuroni che è circa il doppio di quello di scimmie di peso simile? A dimostrazione che non esiste correlazione tra la grandezza dei cervelli e la loro sofisticatezza cognitiva, l’autore afferma: “cervelli piccoli, in termini di numero assoluto di neuroni, possono comunque funzionare bene se hanno dei vantaggi circuitali rispetto ai cervelli grandi, dotati di un maggior     numero assoluto di neuroni”.

Il surplus di neuroni dei grandi cervelli pare non abbia nulla a che fare con l’elaborazione delle informazioni: i neuroni “che avanzano” non servono per il pensiero, sono lì invece      per la pura gestione delle memorie. Oggi gli scienziati discutono se la grandezza del cervello risponda allo sviluppo di competenze specializzate, che si sono affinate nel corso di molto tempo, o se il cervello abbia a disposizione molto più materiale del necessario, per consentire il mantenimento di una buo na funzionalità cognitiva in età avanzata (generosità verso i nonni!).

Ma la domanda più intrigante che l’autore si pone è su quando e come sia nata la coscienza nelle creature viventi. Pare ormai certo che le cellule nei corpi primordiali abbiano iniziato a produrre una risposta localizzata, reattiva a uno stimolo esterno nocivo, attraverso due diverse modalità: la sensazione, che accade all’interno dell’organismo, e la percezione che accade all’esterno, distinguendo tra la stimolazione autoprodotta dall’attività del proprio sé e quella che gli viene invece procurata dal resto del mondo, dal non-sé. La percezione di uno stimolo esterno (una luce, un odore, una minaccia climatica), producendo una sensazione di protezione o di espansione dentro la cellula – a seconda che venga avvertita come pericolosa o benefica –, la induce a reagire modificando il suo stato corporeo, e attivando un movimento. “Per avere il genere di movimento attivo che renda possibile ‘sentire’ la stimolazione è necessario disporre di un distinto sistema recettoriale che agisca su un distinto sistema motorio. Ci vogliono insomma neuroni e muscoli”.

Le forme essenziali del pensiero, già dagli albori della costituzione dei cervelli, sono quindi le stesse in tutti gli organismi animali, nella loro manifestazione immediata e implicita, necessitando di un numero modesto di cellule nervose; e si sono perfezionate nell’arco di millenni più per quantità che per qualità.

Concludendo la sua avvincente narrazione, Giorgio Vallortigara espone (con la modestia di chi pone quesiti senza avere la presunzione di avere raggiunto una verità definitiva e incontestabile) la sua convinzione: che la coscienza non sia misteriosamente emersa solo al raggiungimento di un certo grado di complessità del sistema nervoso, come si è ritenuto comunemente finora,  ma che  “semplici computazioni condotte da poche, umili e umide cellule” le abbiano fornito un substrato plausibile nella sua manifestazione essenziale: la capacità di sentire e di avere esperienze.

 

© Riproduzione riservata        «Gli Stati Generali», 30 marzo 2021

 

 

 

 

RECENSIONI

BROCK

GEOFFREY BROCK, CONFLUENZE – ELLIOT, ROMA 2021

Le edizioni romane Elliot hanno pubblicato, con la cura del poeta Paolo Febbraro e testo originale a fronte, il volume di versi Confluenze di Geoffrey Brock, tradotto da Damiano Abeni, Moira Egan e dallo stesso Febbraro. Brock (Atlanta,1964) è docente universitario, traduttore e autore di due premiati volumi di poesia, oltreché di numerosi saggi letterari.

La sua è una poesia limpida, facilmente “percorribile” e insieme autorevole, nutrita di sapienza antica e di maestria formale, come suggerisce il prefatore. Poesia descrittiva, di luoghi e di persone, che prende spunto da episodi marginali come da esperienze fondanti del passato, o da posti visitati turisticamente (un cimitero di guerra, un’antica necropoli, la spiaggia vicino a Roma, il Messico) ritrovati con nostalgia nella memoria. Ma anche da brani letti casualmente o studiati con accanimento, opere liriche, documenti storici, trattati di ornitologia, quadri famosi, sogni che si confondono con la realtà: tutto quello, insomma, che nutre la quotidianità di qualsiasi individuo, filtrato dalla coscienza emotiva e scalfibile del poeta. I ricordi, come i sogni, gli incubi, le associazioni fantastiche, sfociano in qualcos’altro che non è, o non è più, la realtà: una verità riformulata, quando i dati concreti possono rivelarsi minacciosi, nella loro appurabile spietatezza. La fidanzata infedele non è tornata indietro pentita, ma si è felicemente risposata; una particolare battaglia tra i Sioux e i soldati bianchi non è mai stata combattuta; lo splendido animale apparso nel bosco a due osservatori spaventati (“annidati come / cucchiai in un cassetto di coltelli”) era forse un fantasma…

“Parlando sommessamente, Brock è in ascolto delle ondulazioni armoniche e degli ultrasuoni che le sue voci, i suoi luoghi producono”, commenta Febbraro. Una voce volutamente smorzata, quella con il poeta americano cui si esprime, lontana da ogni stentorea sicurezza, persino nell’indignazione della denuncia politica, nelle rivisitazioni mitologiche, nelle ricostruzioni epiche. Come lui stesso scrive in una delicata composizione, La stanza al piano di sopra, in cui confessa di tendere l’orecchio con trepidazione per captare i rumori provenienti dall’appartamento dei vicini, testimonianza di presenze umane: “Ed è così / che in me è cresciuta l’assuefazione / al silenzio: al telefono parlo sommessamente, / levo l’audio alla TV”.

Per Brock tutto diventa passibile di poesia, anche l’avvenimento più banale e prosaico: una cena offerta da un facoltoso compagno d’università, la partita a frisbee giocata in un gelido pomeriggio a Filadelfia, il picchio alla finestra del soggiorno, una donna anziana che legge al parco, lo spazzolino da denti. Tanto più, quindi, gli incontri carichi di affettività, come quello con la vecchia madre, in una delle poesie più belle del volume (Viale Per sempre): “Ho incontrato mia madre, sfiorita, / l’altra notte in un sogno febbrile, / soprabito nero come terriccio, / la chioma un bluastro senile. // Dapprima non la riconobbi, / gli anni ebbero il sopravvento: / la spina dorsale mutata a virgola, / ed ogni passo più lento. // … Offrii il braccio a quella donna, / ma lei mi volse un volto sdegnato: / ‘Cos’è che ora ti riporta / alla strada in cui sei nato?’ // La bocca le si chiuse di scatto / come la lama di un pescatore, / il viso mutò in quello di mia figlia, / mia figlia mutò in mia moglie, // e tutte cantavano ‘Happy Birthday’ / come fece Marilyn al Presidente, / e il loro soprabito si schiuse, / e io sentii di cadere nel niente. // Chiunque fosse ora mi stava baciando, / le labbra sulle mie come ghiaccio. / Mi risvegliai in un mare di sudore – / da solo, in fiamme, diaccio”.

Il sentimento prevalente è quello della perdita, il pensiero accorato e pungente riguardo a ciò che non è più recuperabile: l’infanzia, un amore giovane, una casa abbandonata. “Il passato – ecco dove troverai il tuo paradiso. // … Qualunque cosa ora ti sia di fronte / non sarà stato un paradiso finché non è perduto”.

La poesia di Geoffrey Brock non nasconde nulla, è percettiva, dichiarativa, non lascia spazio al lettore per una interpretazione personale del testo, anche quando si stempera in aloni onirici. In questa sua trasparenza oggettivata si accomuna alla quasi totalità della poesia americana degli ultimi cinquant’anni, differenziandosene tuttavia per una cura levigata dello schema stilistico, lontano dallo spontaneismo e dall’improvvisazione. L’utilizzo sapiente delle rime e di una metrica composta hanno fatto parlare alcuni critici di formalismo. In realtà Brock aderisce in maniera consapevole e meditata più che a tradizioni obsolete, all’equilibrio rispettoso che debbono avere le parole quando si incastonano nel ricamo elegante della composizione poetica: all’interno di argini collaudati, come giustamente suggerisce Paolo Febbraro, senza strabordare.

 

© Riproduzione riservata          SoloLibri.net › Confluenze-Geoffrey-Brock                                               28  marzo 2021

 

 

 

 

 

 

RECENSIONI

BENEDETTI

CARLA BENEDETTI, LA LETTERATURA CI SALVERÀ DALL’ESTINZIONE – EINAUDI, TORINO 2021

Carla Benedetti, saggista e docente universitaria a Pisa, fondatrice del blog “Nazione indiana” e della rivista “Il primo amore”, è autrice di due volumi di successo che tempo fa hanno suscitato discussioni e polemiche: Pasolini contro Calvino (Bollati Boringhieri, 1998), e Disumane lettere (Laterza, 2011). Con questa più recente pubblicazione, La letteratura ci salverà dall’estinzione (Einaudi 2021), affronta temi di rilevante interesse politico e sociale, lanciando un grido d’allarme sulla situazione di drammatico degrado dell’habitat planetario. Mutamenti climatici, deforestazione, diminuzione della biodiversità, consumazione indiscriminata di risorse non rigenerabili, migrazioni di intere popolazioni, susseguirsi di pandemie sempre meno controllabili, sono problematiche arcinote da decenni, che ci allarmano e ci pongono domande anche sui nostri comportamenti individuali. Tuttavia, a quest’ansia generalizzata che invade l’opinione pubblica internazionale, non sembra corrispondere una altrettanto acuta presa di coscienza da parte dei poteri economici, politici e giuridici sovranazionali riguardo alle strategie da porre in campo per evitare la catastrofe in cui rischia di soccombere l’intera specie umana. Si impone allora non solo un cambiamento radicale negli stili di vita collettivi, ma soprattutto nella sensibilità, nel modo di pensare, nelle forme culturali in cui ci siamo colpevolmente e irresponsabilmente adagiati. Una vera e propria metamorfosi del nostro stare al mondo.

Come recita l’aforisma attribuito a Einstein scelto da Carla Benedetti in esergo al libro, “Non puoi risolvere un problema con lo stesso tipo di pensiero che hai usato per crearlo”: dobbiamo trovare soluzioni nuove per risolvere problemi vecchi e incancreniti. Per salvare noi stessi e le generazioni future dobbiamo farci “acrobati del tempo”, secondo quanto scriveva Günther Anders, mettendoci nei panni di chi vivrà dopo di noi.

Nei sette capitoli che compongono il volume, l’autrice auspica che possano essere la letteratura e la filosofia a offrire agli abitanti del pianeta-terra le modalità adeguate a trasformare schemi di pensiero obsoleti: espandendo le nostre facoltà cognitive, liberando energie vitalizzanti, risvegliando risorse dimenticate, stimolando la fantasia, approfondendo una nuova sensibilità, ma soprattutto incoraggiando una solidarietà altruistica con tutti gli esseri viventi. Leggere, studiare, comprendere i capolavori letterari del presente e del passato, lasciarsi permeare dalla forza suscitatrice della parola poetica e narrativa, può aiutare a sviluppare l’empatia che favorisce i legami sociali in una società democratica e multietnica. “C’è bisogno di immaginare e di inventare qualcosa di diverso dall’esistente, di creare altre possibilità rispetto   al corso odierno della vita e della storia”: non solo nelle scienze ambientali, ma anche nell’arte e nella cultura umanistica.

Oggi sono molti gli autori che si occupano dell’Antropocene e dei “processi di degradazione   in atto nella biosfera, prospettando scenari futuri verosimili”, attraverso una solida problematicità d’indagine teorica. Carla Benedetti ne cita alcuni: Bruno Arpaia (Qualcosa, là fuori),   Cormac McCarthy (La strada), Antonio Moresco (Il grido), insieme a tutta la fantascienza apocalittica, post-apocalittica o collassologica, che tuttavia – facendo leva sul solo sentimento della paura per la catastrofe che ci aspetta – può indurre alla paralisi e alla rassegnazione più che alla ribellione.

Esiste però anche una scrittura profetica “suscitatrice” che, prospettando con realismo il disastro futuro, mira a scuotere gli animi dall’indifferenza, e a provocarne una motivata reazione di contrasto, “spac cando la cornice usuale con cui si è abituati a inquadrare la realtà, e creando varchi per altre visioni del  mondo”.

Tra i “profeti inascoltati” che hanno cercato con le loro opere di risvegliare l’interesse dei lettori, Günther Anders, Ernesto De Martino, Theodor Adorno, Guy Debord, Amitav Ghosh, Chinua Achebe, Richard Powers, Pier Paolo Pasolini, Antonio Moresco e scienziati come Stephen Hawking, si sono espressi con la tragica consapevolezza dell’ineluttabile estinzione della specie umana, non solo per quanto concerne il suo futuro di sopravvivenza biologica, ma anche riguardo alla totale cancellazione del suo passato storico e culturale. “Il crollo dell’illusione della posterità è ciò  che caratterizza l’esperienza odierna della fine, differenziandola da tutte le fini del mondo immaginate nei  secoli precedenti”.

L’apocalisse prospettata dalla filosofia e dalla scienza, resa ancor più verosimile dall’affermazione di un potere di sorveglianza di impronta totalitaria, si situa al di fuori di ogni orizzonte religioso che prometta rigenerazione e salvezza. La consapevolezza dell’emer genza ecologica viene impedita o ritardata, negata o rimossa non solo da arcaici fideismi, ma anche dal cieco ottimismo capitalistico sull’illusoria e infinita prosperità economica determinata dallo sviluppo industriale: entrambe le ideologie utilizzano ancora una cultura umanistica basata su pratiche letterarie arretrate, passatiste, a-scientifiche, che hanno modellato forme mentali passivamente abitudinarie, sottomesse, rinunciatarie.

Eppure, ci sono stati grandi autori classici, da Omero a Gadda, che inserendo l’uomo all’interno dell’ambiente naturale, in uno scambio proficuo e generoso con ciò che lo circonda, sono riusciti a immaginare un’alleanza collaborativa e non prevaricatrice con l’ecosistema. A questa coscienza etica di largo respiro, alla forza rigenerante sprigionata dai capolavori letterari, “che par che ingrandisca l’anima del lettore”, come scriveva Leopardi, dobbiamo saper tornare per rinnovarci culturalmente e moralmente, recuperando modalità scartate o distrutte di leggere il mondo di adesso e quello che verrà. Con la vividezza dell’immaginazione, la   forza delle illusioni, la capacità di meraviglia che ci stanno insegnando i nostri giovani più sensibili ed entusiasti, impegnati a difendere il loro diritto a un futuro migliore di quello prospettato dalla nostra generazione di boomer egoisti.

© Riproduzione riservata               «Gli Stati Generali», 25 marzo 2021

 

 

 

 

 

 

 

 

RECENSIONI

ROTH

JOSEPH ROTH, LA TELA DEL RAGNO – PASSIGLI, FIRENZE 2020

Alla sua prima prova narrativa di grande respiro, rimasta incompiuta, Joseph Roth (1894-1939) seppe imprimere una forza descrittiva e insieme profetica, con stile asciutto e incisivo, di assoluto rilievo. La tela del ragno, apparso a puntate nel 1923 sull’ “Arbeiter-Zeitung“, è stato pubblicato per la prima volta in Italia nel 1975 da Bompiani, e ora viene riproposto dall’editore Passigli, insieme ad altri volumi dello scrittore austriaco. Si è parlato di quest’opera in termini di profezia, perché sembra preconizzare gli orrori e il fanatismo del nazismo, nella descrizione dell’atmosfera violenta e ottusa della Repubblica di Weimar, in cui si muovono personaggi ambiziosi e crudeli, pronti a qualsiasi abiezione pur di raggiungere e mantenere il potere.

Il protagonista è Theodor Lhose, giovane sottotenente dell’esercito tedesco durante la Prima Guerra Mondiale. Di origine modesta, umiliato sia nell’ambiente familiare sia in quello lavorativo, si prefigge di ottenere successo, ricchezza e gloria con ogni mezzo possibile, anche abdicando alla propria dignità di uomo. Lasciato l’esercito, che gli garantiva riconoscibilità e considerazione, Theodor si riduce a fare il precettore in una ricca famiglia ebrea, covando in sé sentimenti di rancorosa invidia nei confronti del padrone di casa, e di morbosa attrazione per la raffinata moglie di lui. Animato da “un’ambizione eternamente viva e tormentosa”, arriva a concedersi sessualmente alle personalità più in vista dell’esercito e del regno, entra a far parte di un’organizzazione segreta, cambia nome, ruba, uccide, tradisce amicizie e ideali, assecondando il suo delirio di onnipotenza: “Io infrango il tempo in cui sono prigioniero, il carcere buio di quest’esistenza, scuoto via l’opprimente giogo dei miei giorni e salgo, sfondo porte che sono state chiuse, io, Theodor Lohse, uomo in pericolo, ma un pericolo io stesso, ben più di un sottotenente, più di un vincitore sul cavallo che trotta in mezzo alla folla acclamante, io, forse il salvatore della patria. Di questi tempi solo chi osa vince”.

I personaggi di cui si circonda, (il Principe Heinrich, il detective Klitsche, il dottor Trebitsch, la spia russa Benjamin Lenz) sono, se possibile, ancora più abietti di lui: ma abilmente Theodor se ne serve, annodando fili invisibili, e costruendo la sua tela di ragno per irretire vittime predestinate. Comunisti ed ebrei, soprattutto, verso cui nutre un odio viscerale. Finge di partecipare a complotti e attentati per poi denunciare i congiurati, stringe false amicizie per introdursi in ambienti politicamente eversivi, scrive articoli e organizza conferenze vagheggiando di guidare un potente partito nazionalista e antisemita, piccolo e misero emulo del Führer. Messosi a capo di un gruppo armato di giovani fanatici, li guida in una strage di braccianti polacchi in sciopero, sempre con l’obiettivo esplicito di rendersi gradito al nascente regime nazista. Nel giro di pochi mesi riesce a diventare uomo di spicco del Reich, guida l’assalto al quartiere ebreo di Berlino, viene nominato capo della sicurezza nazionale. Si sposa con un matrimonio sfarzoso, si arricchisce, viene celebrato dalla folla e dalla stampa. Tuttavia, poiché il male alla lunga si condanna da solo, Theodor Lohse finisce preda della propria paranoia, circondato da nemici concreti e immaginari.

Il giudizio di Joseph Roth sul suo protagonista è severo e definitivo: “La via che seguiva scendeva pendii e traversava bassure… Theodor: l’essere vile e crudele, ottuso e insidioso, ambizioso e inadeguato, avido di denaro e volubile, l’uomo medio, empio, superbo e servile, il calpestato, l’inappagato…senza fede, senza fedeltà, assetato di sangue e limitato d’ingegno”, mediocre rappresentante della follia che stava invadendo l’Europa. L’ultima puntata del romanzo, rimasto incompiuto, fu pubblicata proprio due giorni prima del putsch di Monaco di Hitler, di cui profeticamente aveva raccontato la minacciosa preparazione.

 

© Riproduzione riservata      SoloLibri.net › La-tela-del-ragno-Roth      17 marzo 2021