Mostra: 331 - 340 of 1.629 RISULTATI
RACCONTI

SE DOMANI TI ARRIVANO DEI FIORI

Se domani ti arrivano dei fiori, sappi che non li ho mandati io. Perché avrei dovuto? Per chiederti o concederti perdono, suppongo che tu pretenda. No, cara. Carezza, ti chiamavo quando ti vedevo carina. Fiori cosa e come, di quale banalpresumibile colore.  Bianco innocenza, rosso passione, giallo gelosia. Ti piacevano i tulipani screziati, memoria di un antico viaggio a Istanbul con chissà che faceto fidanzato. Tulipani turchi, non gli ovvi olandesi. Sempre stata originale, tu, anche nei flashback rievocati, più fantasiosi che reali. I primi fiori regalati al nostro secondo appuntamento (imbarazzo! non sapevo con quali gesti e parole accompagnarli, mentre ti avvicinavo spiandoti aggrottata per i miei minimi minuti di ritardo) erano invece pallidi, dolentemente mesti. Non proprio crisantemi, ma quasi. Forse già intuivo quale piega avrebbe preso il nostro rapporto. Mi hai detto, ironica, signorilmente divertita addirittura: “Che gioia!” Te li offrivo esitante, accorgendomi tardivo del loro aspetto cinereo; le corolle incurvate, grondanti acqua. Pioveva.

 

NON LI ASPETTAVO

 Non li aspettavo, non li volevo. Oppure: sì, ci speravo. Avevo preparato sul tavolo della sala un vaso vuoto. Quello cilindrico, di vetro. Allora dicevi che ti sembrava un alambicco ospedaliero.  È ancora lì, inutile, deluso, convalescente. Non sono arrivati fiori, e nemmeno un biglietto di scuse.  Neanche una telefonata: il giusto che mi dovevi. Piove. Tuttavia, anche se ci fosse il sole, non credo che me ne accorgerei, buia dentro quale sono. Rabbiosa rancorosa rognosa. Non è il fuori che si rispecchia in noi, illuminandoci-scurandoci, come si sente dire svagatamente. Siamo noi che rovesciamo brutto e bello nostro su cielo e terra altrui. Noi, minuscole deità della nostra minimezza, e presuntuose.  Per questo piove, stamattina. Per colpa mia, delle mie nuvole. Quindi, anche se improvvisamente squillasse il campanello gioioso similmente a fanfare di festa, se al citofono la voce giovane di un fattorino mi annunciasse “Fiori per lei, signora,” non mi verrebbe da sorridere ponpon. Nemmeno da tremare, primuletta. 

 

POI DOPO

Poi dopo mi hai preso sottobraccio, a riscaldarmi, quasi fossi un tuo alunno umiliato dall’ insufficienza, odiosamente meritata. “Magistra,” ti ho suggerito, “dietro la lavagna, nota sul registro. Punisci.” “Ma no,” hai risposto indulgente docente, e altera. “Una cioccolata calda nel bar lì di fronte.” In questa placida maniera iniziò. Non eri più inquieta o stizzita, non ti importavano ritardo e fiorellini mosci: avevi voglia improvvisa di ridere, parlare, stupire spalmandomi addosso una qualsiasi felicità bambina. Mi chiedevo il motivo di tanta stramba eccitazione. Fosse solo perché avevo rispettato l’impegno di rivederti, o invece già pensavi a un possibile sviluppo della storia, colla tra noi? Incredibile che da subito ti fossi piaciuto, a te bella troppo, io insipido. Sorridono così radiosi solo i contenti; tu lo eri. Fuori pioveva, attraverso le vetrine del bar striate d’acqua si vedevano persone camminare scontrose al riparo degli ombrelli, il cielo oscurarsi e abbassarsi sotto il peso di nuvole grandi. Anche quello avrei dovuto leggerlo come un presagio. Nubi. Grigio.

 

NON DEVO

 Non devo fissarmi col pensiero in, su, per: te.  Ho tanto domani vuoto da saturare, dettagli da rifinire.  Luoghi, tempi. Modi, sensi. Sei passato, il mio passato. Convincermi inflessibile che comunque svanirai, se ancora tergiversi tentatore, impietosendomi. O sono io? Chissà se sono io a temere carità benevolente. Boa da circumnavigare, per non darla vinta alle onde. Mi immagino; naufraga avvilita e adirata. Nuoto, sbatto furenti piedi e braccia, vischiosa acqua a mulinello avvolgente mi blocca, giro a vite, non procedo. Galleggio. Vorrei tornare a riva, invece ninno appena, mi cullo amnio tiepido, faccio il morto. Fingo immobile resistenza, ottima strategia per chi teme l’abisso. Tragico infatti se annegassi, se imprevedibile una tempesta procellosa mi investisse crudele, gonfiandomi salmastra polmoni e viscere, annodandomi i capelli, pelle lisa e squamosa (oh agonia, e io da sola!) Passerà forse una zattera, lontana, all’orizzonte; scialuppa generosa di soccorso; almeno un faro a indicarmi l’approdo. Luce guida, luce duce, luce. So aspettare.   

 

 

SE DOMANI TI ARRIVANO DEI FIORI, GIOVANE HOLDEN EDIZIONI, VIAREGGIO 2021

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

RECENSIONI

MONTALE

EUGENIO MONTALE, DIVINITÀ IN INCOGNITO. Lettere a Margherita Dalmati (1956-1974) – ARCHINTO, MILANO 2020, pp. 116

A quarant’anni dalla morte di Eugenio Montale (1896-1981), le edizioni Archinto pubblicano le lettere inedite che il premio Nobel scrisse alla musicista e poetessa greca Margherita Dalmati, più giovane di lui di ventiquattro anni, tra il 1956 e il 1974. L’epistolario è stato recuperato ad Atene da Alessandra Cenni, che ha ora magistralmente curato introduzione e note del volume Divinità in incognito, in cui il lettore può scoprire non solo aspetti ignorati della biografia montaliana, ma anche particolari rilevanti della sua attività giornalistica e letteraria.

Margherita Dalmati, il cui vero nome era Maria-Nike Zoroyannidis – coltissima esperta di arte, profonda conoscitrice della storia e della letteratura italiana, traduttrice di Kavafis, Seferis, Elytis –  considerava l’Italia sua seconda patria, soggiornando a lungo a Roma (per perfezionarsi nello studio del clavicembalo al Conservatorio di Santa Cecilia), a Firenze  (dove al caffè delle Giubbe Rosse frequentava amici scrittori e pittori di fama: Luzi, Bigongiari, Gatto, Betocchi) e a Palermo, con l’incarico di lettrice dell’Istituto di Cultura greca e bizantina. Proprio nella città siciliana aveva incontrato per la prima volta fuggevolmente Montale,  ma fu soprattutto il breve periodo trascorso insieme in Grecia nel ’62 che approfondì anche sentimentalmente la loro amicizia. Montale, accompagnato dalla moglie Drusilla Tanzi (la “Mosca” di Satura), allora già molto malata, era stato inviato ad Atene dal Corriere della Sera per una serie di reportage di viaggio, e aveva esplicitamente chiesto l’accompagnamento e la guida di Maria-Nike. Da quel momento lo scambio epistolare tra i due, precedentemente episodico e formale, si era intensificato: ci sono rimaste le 42 lettere di Montale, mentre quelle della Dalmati sono state distrutte, o dallo stesso poeta, o dalla sua fedelissima governante Gina Tiossi, probabilmente gelosa del fascino che la giovane donna esercitava sull’anziano poeta, e decisa a salvaguardarne la fedeltà alla moglie. Firmate spesso come Agenore (nome del mitico re fenicio di Tiro, padre di Europa) su carta intestata del Corriere, ci forniscono nuove chiavi interpretative sull’inattesa e sorprendente svolta creativa della maturità montaliana, avvenuta con la pubblicazione, dopo un lungo periodo di silenzio, degli ultimi tre libri caratterizzati dal passaggio dall’ermetismo a uno stile più prosastico, colloquiale e ironico (Satura, Diario del ’71 e del ’72 e Quaderno di quattro anni).

L’epistolario, inoltre, ci illustra il proficuo scambio culturale tra il poeta e la sua corrispondente, con il reciproco arricchimento derivato dalla collaborativa traduzione di Kavafis, con i riferimenti arguti agli scrittori contemporanei (Moravia, Pasolini, Quasimodo, Ferrata, Zampa, Spaziani…) e alla situazione delle arti e della musica in Italia (“la Scala è un grosso teatro inutile, incapace di formare artisti e legato a un repertorio che ormai sappiamo a memoria”).

Montale confessa il suo fastidio per gli impegni ufficiali e le cerimonie mondane cui deve presenziare, per la routine del lavoro giornalistico, per i progressivi disturbi dovuti all’avanzare dell’età. L’aperta confidenza che si instaura tra loro lo induce a sfogarsi anche sulla difficile quotidianità familiare, costretta tra l’invalidità della moglie e l’opprimente custodia della governante, “l’Erinni domestica”. Alla morte di Drusilla, il 24 novembre 1963, così scrive all’amica: “Margherita cara, spostare i mobili, prendere un cane, vedere amici, ahimè, mi servirebbe poco. Si tratta di 36 anni vissuti insieme nella
buona e nella cattiva sorte, venti dei quali occupati da una lotta eroica per vincere il male che covava, la cecità che progrediva, gli anni che crescevano, l’amministratore che la derubava e tutto il resto che non ti dico. 36, dei quali almeno venti di orrore; ed ora la fedele Gina che vive con noi da vent’anni, stesa al suolo in lacrime, incapace di prender cibo, con le fotografie della morta stese sul letto, sul suolo, dappertutto… Mi capisci?”.

L’amitié amoureuse tra i due dopo l’incontro ateniese era diventata più esplicitamente accesa e coinvolgente, fino a trasformarsi in un’approfondita intesa sentimentale, concretizzata in pochi incontri fisici, a Roma e a Milano, ma esplicitata dal poeta con accenti di reale devozione e gratitudine: “Ti voglio bene, Margherita cara, anche se questo mi spaventa…  lasciami la speranza che un giorno  potrò ripiombare in Grecia e sentirti almeno per un giorno, una notte intera, mia, tutta mia. Ti voglio bene, Maria Nike, ti amo (sono vent’anni che non scrivo una simile parola) e spero che questo mi ringiovanisca e mi faccia vivere a lungo, fino al   giorno in cui potrò sentirmi unito a te anima e corpo per un istante o per un secolo” (19 maggio 1962); “Margherita mia cara e adorata… Io sono fedele per costituzione, anche se mi sono innamorato tre o quattro volte in vita mia (solo i morti non lo fanno), ma ora è davvero l’ultima volta ed anche se è l’ultima è la più preziosa e mi fa camminare un centimetro più alto del suolo… Ti abbraccio con tutto il cuore e con tutto il resto” (22 maggio 1962); “Mia adorata… Così come sei ora mi sembri adorabile e ti sogno la notte come Tristano poteva sognare Isotta. Con feroce desiderio” (2 giugno 1962); “My angel… Io ti posso solo dire che vivo con te ogni minuto e che la mia sofferenza mi aiuta tuttavia a vivere… ora tutto mi pare diverso, più incorruttibile, anche se non si svolge nella stratosfera e accende furiosamente il mio sangue!” (11 giugno 1962); “Mio caro tesoro… Ora che cosa posso aggiungere? Che ti voglio bene, lo sai; che ti amo, anche; che ti ammiro, anche; che ho per te una devozione senza limiti, anche; e allora? Ciò non toglie che io sia un fantasma senza esistenza fisica, senza direzione e senza bussola” (25 agosto 1962); ” Vorrei tanto poter abbracciarti ancora una volta prima di morire. Non ho mai conosciuto nessuno (nessuna) che ti valga. Non credevo di arrivare fino al 68: che me ne faccio del poco tempo che mi resta? Credo di averti detto tutto, mia carissima. Ti amo in modo inverosimile, inutile e non desidero nemmeno di rivederti. Sei come una di quelle stelle che gli astrofisici conoscono: io amo un raggio di luce che vedo appena al telescopio. Non meritavo nulla di più. Si può baciare una stella? Se si può ti mando un bacio lunghissimo, con tanta riconoscenza per la vita o il caso che mi ha permesso d’incontrarti. (22 novembre 1968); “Amo tanto la vita, ma più di tutto Maria Nike” (30 settembre 1969). Fino all’ultima lettera, scritta a settantasette anni: “Voglio dirti semplicemente una cosa. Ed è che TI AMO e che penso a te con infinita tenerezza. Mandami una tua fotografia: ne ho già una ma ne vorrei due. Ti abbraccio e bacio fin la punta dei tuoi piedi. Il tuo Agenore” (12 gennaio 1974).

Margerita/Maria-Nike non è Clizia, non è la Volpe, non è la Mosca: le donne più decantate da Montale ne Le Occasioni, ne La Bufera, in Satura; a lei dedica una sola poesia, Botta e risposta III, in cui è rievocato il viaggio in Grecia del 1962: “Ma ero pur sempre nel divino”, scrive. Una Divinità in incognito, questa giovane, riservata, comprensiva e solidale amica straniera, che con assoluta discrezione seppe offrire squarci di miracolosa felicità all’esistenza ormai fragilmente in declino del nostro più importante poeta novecentesco.

© Riproduzione riservata         «Gli Stati Generali», 12 marzo 2021

 

RECENSIONI

AGAMBEN

GIORGIO AGAMBEN, LA FOLLIA DI HŌLDERLIN – TORINO, 2021

L’ultimo libro di Giorgio Agamben, La follia di Hölderlin. Cronaca di una vita abitante (1806-1843), ricostruisce in forma letteraria la vicenda biografica del poeta tedesco Friedrich Hölderlin (nato a Lauffen am Neckar nel 1770 e morto a Tubinga nel 1843), la cui esistenza fu divisa esattamente in due metà: i primi 36 anni trascorsi nella normalità dei rapporti con il mondo, e i successivi 36 anni segregati a Tubinga in casa di un falegname, in preda alla follia che lo portò a rifiutare qualsiasi relazione con gli eventi esterni.

L’intento di Agamben nel raccontare il lungo periodo di reclusione domestica del celebre poeta non è stato quello di indagare storicamente, clinicamente o psicologicamente i motivi che lo portarono a evitare ogni rapporto con la società, quanto invece, basandosi su sintetici dati di cronaca e sull’analisi degli ultimi scritti – considerati incomprensibili dalla maggior parte dei critici –, di proporre un’interpretazione etico-politica della sua incapacità di vivere in comunità. Secondo il filosofo romano “il tenore di verità di una vita non può essere definito esaurientemente in parole, ma deve in qualche modo restare nascosto”: in ogni biografia convergono vari fatti, circostanze, episodi, ma non sono essi a dare il senso reale dell’esistenza di un individuo, che si costituisce e va rispettata come “figura” informulabile e mai completamente conoscibile. Gli avvenimenti sono una traccia, indicano una direzione da seguire, insieme alle vicende storiche che ad essi si intrecciano.

Ecco quindi la ricostruzione succinta degli eventi che condussero Friedrich Hölderlin alla condizione mentale che i contemporanei definirono pazzia. A metà maggio 1802, il poeta abbandonò il posto di istitutore presso la famiglia del console Meyer a Bordeaux che occupava da soli tre mesi, e si mise in viaggio a piedi verso la Germania, raggiungendo nei primi giorni di luglio, dopo essere stato derubato del bagaglio, prima Stoccarda, quindi la casa materna a Nürtigen in condizioni fisiche spaventose: magro, sporco, in preda a stato confusionale. La notizia della morte della donna amata Susette Borkenstein sembra avesse accresciuto il suo sconforto, ma per un breve periodo riprese le forze, completando le traduzioni dell’Antigone e dell’Edipo di Sofocle e componendo gli inni Patmos e Andenken, su cui aveva lavorato indefessamente. Nel giugno 1803 Hölderlin raggiunse a piedi, “attraversando i campi come guidato dall’istinto”, il convento di Murrhardt, dove incontrò Schelling, compagno di studi universitari, che di quella visita scrisse a Hegel in maniera turbata, avendo trovato l’amico “in uno stato di assoluta assenza di spirito”. L’impegno costante della traduzione senz’altro esacerbava la già compromessa salute del poeta, nello sforzo inaudito di rendere il testo greco non soltanto traducendo parola per parola come calco dell’originale, ma forzando la sintassi tedesca ad aderire all’articolazione sintattica del greco, in una personalissima ri-creazione e correzione, con l’innesto di azzardati neologismi. L’intervento “estraniante” sul testo greco fu poco apprezzato e addirittura deriso da molti letterati, tra cui Schiller e Goethe, quando il volume venne pubblicato dall’editore Wilmans nell’aprile del 1804. La madre di Hölderlin, che nelle sue comunicazioni epistolari lo chiamava costantemente “l’infelice”, riuscì a far ricoverare il figlio in una clinica a Tubinga e poi ad alloggiarlo nel 1807 in maniera definitiva nella casa del falegname Ernst Zimmer, senza mai recarsi a trovarlo.

Agamben dedica centocinquanta pagine del suo volume a una cronaca dettagliata dei trentasei anni trascorsi dal poeta nella torre (una stanza a forma circolare all’ultimo piano della casa, con una splendida vista sul Neckar e la valle circostante), riportando le testimonianze dei rari visitatori, stralci di lettere e di diari, elenchi delle spese per il mantenimento e dei medicinali somministrati, puntuali riferimenti agli avvenimenti storici coevi. E dubitando della completa follia del suo protagonista, commenta: “A metà pazzo, ma forse sano, pazzo furioso e tuttavia veggente: i giudizi sulla condizione di Hölderlin continuano a oscillare fra due poli opposti”.

Nel dicembre 1808 lo scrittore Karl Varnhagen von Ense, andato a trovare il poeta rinchiuso, così lo descrisse: “Non delira, ma parla ininterrottamente seguendo la sua immaginazione, si crede circondato da visitatori che gli rendono omaggio, discute con loro, ascolta le loro obiezioni e li contraddice con grande vivacità, cita le grandi opere che ha scritto e altre, che sta ora scrivendo e tutto il suo sapere, tutta la sua conoscenza del linguaggio e la sua familiarità con gli autori antichi sono ancora presenti in lui; di rado però un autentico pensiero e una connessione logica fluiscono nella corrente delle sue parole, che nel complesso sono solo una comune insensatezza”. Eppure, nelle lettere scritte alla madre, Hölderlin dimostra ancora una discreta lucidità, e l’esasperato formalismo con cui le si rivolge assume calcolate sfumature ironiche e parodistiche: “La mia partecipazione a Lei non si è ancora esaurita; quanto durevole è la sua bontà, tanto immutata è la mia memoria per lei, venerabile madre! La Sua tenerezza ed eccellente bontà risvegliano la mia devozione alla gratitudine e la gratitudine è una virtú. Io penso al tempo che ho passato con lei, venerandissima madre! con molta riconoscenza. Il suo esempio pieno di virtú mi rimarrà nella lontananza sempre indimenticabile e mi incoraggerà a seguire i Suoi precetti e a imitare un cosí virtuoso esempio” (1813).

Lo studente Wilhelm Waiblinger, autore del saggio Vita, poesia e follia di Hölderlin, pubblicato postumo nel 1831, scrisse che il poeta nel corso dei loro ripetuti incontri si esprimeva con termini talvolta incomprensibili mescolati al francese, ripetendo frasi stereotipate (“Es geschieht mir nichts”, – non mi succede nulla –, oppure “A questo non posso, non mi è lecito rispondere”), rivolgendosi agli ospiti con un inchino,  in maniera cerimoniosa: “Vostra maestà, Vostra Santità, Vostra Grazia, Vostra Eccellenza, Signor Padre! Graziosissimo, io attesto la mia soggezione”, improvvisando musica sul pianoforte, passeggiando in giardino con i membri della famiglia Zimmer o fissando immobile fuori dalla finestra il fiume e la campagna. A volte sembrava vegetare in uno stato catatonico, altre dava in improvvise escandescenze. La sua produzione poetica, affidata a fogli singoli, negli anni della reclusione si limitò perlopiù a liriche in due strofe dedicate alla natura e alle stagioni, oppure a quartine ripetitive e monotone dall’umile struttura rimata, “definite da un’estrema paratassi e dalla deliberata assenza di ogni coordinazione ipotattica”, firmate con pseudonimi e riportanti date di fantasia.

Secondo Agamben, sembra “quasi che Hölderlin cercasse di articolare un altro modo – non logico – della connessione fra i pensieri”. Come nel vissuto quotidiano e nei ragionamenti slegati, così anche nei versi non esisteva coordinazione: sembravano semplicemente giustapposti e poi bloccati in un isolamento asemantico, con un continuo avvicinamento e distanziamento dal proprio significato. Walter Benjamin aveva intuito a quale dedizione il poeta tedesco si fosse votato, optando per una poetica disarticolata e spesso incomprensibile: “il senso precipita di abisso in abisso, fino a rischiare di perdersi in profondità linguistiche senza fondo”.

Quando nel 1826 alcuni estimatori si adoperarono per far pubblicare le sue creazioni migliori, il poeta non manifestò particolare interesse. Rimase indifferente anche alla notizia della morte di alcuni amici, della madre (1828) e del falegname Zimmer che lo ospitava (1838). Affidato alle cure amorevoli della figlia di quest’ultimo, Hölderlin morì di polmonite nel 1843, a 73 anni, poco dopo aver firmato la sua ultima composizione, La veduta, con il nome fittizio di Scardanelli; “Quando lontano va la vita abitante degli uomini, / dove lontano splende il tempo delle viti / e vicini sono i vuoti campi dell’estate, / la selva appare con la sua scura immagine; // che la natura compia l’immagine dei tempi, / che essa si fermi e quelli subito trascorrano, / è per la perfezione, l’altezza del cielo / risplende per l’uomo, come alberi incoronati di fiori”.

Alla poesia e non alla riflessione o alla conoscenza, Hölderlin affidò il compito di afferrare e dire la verità dell’essere: la “vita abitante”, quella vissuta per abitudine, nei trentasei anni trascorsi nella torre di Tubinga, era lontana e indifferente allo scorrere del tempo, mentre la perfezione risiedeva nella sommità dei cieli. Per Agamben “Hölderlin non ha cercato la pazzia, ha dovuto accettarla, ma … la sua concezione della follia non aveva nulla a che fare con la nostra idea di una malattia mentale. Era, piuttosto, qualcosa che si poteva o si doveva abitare… E vivere non significa forse per gli uomini innanzitutto abitare?” Proprio al termine “abitare” (wohnen, in tedesco) sono dedicate le venti pagine, intense e partecipate, dell’epilogo nel volume einaudiano. Hölderlin dimorava nelle sue giornate secondo abiti e abitudini liberi da ogni affezione e determinazione, in una passività indefinita che abdicava sia all’essere sia all’avere, sia all’identità sia al nome. La sua vita abitante o abitiva, scandita solo dal ripetersi di atti invariati, non conosceva più l’opposizione tra pubblico e privato, ormai coincidenti in una posizione di stallo: non era tragica, in quanto priva di azioni decisive e imputabili, né era comica, cioè basata su insensatezze deresponsabilizzate. Era invece “un semplice, quotidiano, trito dimorare, una forma di vita anonima e impersonale, che parla e fa gesti, ma alla quale non è possibile imputare azioni e discorsi”.

In questo labile e innocente abitare l’esistere – anche nel fallimento sociale, nel decadimento fisico e mentale, estraneo a successi e trionfi –, rimane il lascito etico e politico del poeta rinchiuso nella torre: nel suo “abitare poeticamente la terra” c’è meno follia di quella in cui l’intera umanità sta colpevolmente precipitando oggi.

 

© Riproduzione riservata                  «Il Pickwick», 9 marzo 2021

 

 

 

 

 

 

 

 

RECENSIONI

BONNEFOY

YVES BONNEFOY, POESIA E FOTOGRAFIA – O BARRA O, MILANO 2015

Yves Bonnefoy (1923-2016), grande classico della poesia francese del ’900, ha dedicato nel 2002 un breve saggio al rapporto tra poesia e fotografia, tradotto e pubblicato nel 2015 dalla casa editrice milanese ObarraO.

Antonio Prete nella prefazione afferma che secondo Bonnefoy la poesia ha il compito di dispiegare il visibile (l’immagine, in tutte le sue declinazioni) alla luce della parola, avvicinandosi al respiro delle cose, al loro mostrarsi nella nudità, e facendole parlare. Si accosta in tal modo alla visione bloccata ed eternizzata della fotografia.

“Le grandi questioni che attraversano tutta la scrittura di Bonnefoy, l’assenza e la presenza, la parola e l’immagine, lo sguardo e il visibile, la singolarità irripetibile del vivente e il caso, l’istante e il fuggitivo tornano e si riformulano intorno a quella vita particolare del soggetto e del mondo che sta nella fotografia”, commenta Prete. La precisione nella rappresentazione dei dettagli, offerta per la prima volta dall’invenzione di Daguerre a metà ’800, rivoluzionò il modo di raffigurare la realtà anche nella pittura e nella scrittura. “Laddove lo sguardo dell’artista sceglieva, e questa scelta lo rendeva umano, la fotografia invece registrava, fissava tutto, il che le permetteva di mostrare, se non addirittura di designare, la manifestazione del caso e di trascinare così al di là di ogni discorso ordinario sugli esseri e sulle cose, mettendo a tacere le parole della supposta verità per far ascoltare, direttamente, il silenzio della materia”.

Bonnefoy innesta la riflessione sull’origine della fotografia nel commento a Igitur, un testo di Mallarmé che narra l’esperienza orrifica di una notte trascorsa a meditare sul vuoto, il nulla, l’assenza, lo scorporarsi delle apparenze. Il poeta simbolista tentava di perseguire la bellezza attraverso un susseguirsi di “distruzioni” di ogni forma di sapere e di illusione, compresa quella di Dio, per ridursi alla pura coscienza del sé materiale. La cancellazione radicale di ogni concettualizzazione e verbalizzazione, restituiva così alle cose e al mondo oggettivo la loro positiva evidenza, “nel loro esserci sensoriale più immediato, più pieno”.

L’abisso terrificante del nulla è stato sperimentato e descritto da molti artisti e filosofi, oltre che dai più ispirati mistici: ma tutti hanno trovato modo di esprimerlo verbalmente o estaticamente, senza annullarsi nella propria singolare specificità. Mallarmé nell’esperire il proprio niente aveva invece recuperato il reale ancorandosi alla luminosa inconfutabilità degli oggetti sensibili, attraverso uno sguardo capace di percepire il solo dato sensoriale nella sua integrità. L’intuizione poetica, la descrizione del dettaglio, si parifica in tal modo allo scatto fotografico: “in Igitur, alla sua stessa origine, vi è il progetto di vedere senza sapere… la riduzione fondamentale e assoluta dell’apparire alla sua purezza”.

Poesia e fotografia, ciascuna con i propri mezzi espressivi, possono mostrare, nello sfondo oscuro del senso, il lampo di una presenza, la concretezza di un particolare, l’ossessione di un volto, anche quando vengano subito riassorbiti dal buio del giorno e della memoria.

Al commento del testo di Mallarmé, Bonnefoy accosta l’esegesi di un racconto di Maupassant del 1887, La notte, in cui il protagonista attraversa Parigi in preda a una sorta di ansiosa vertigine notturna. Percorre i boulevard illuminati dai lampioni, dove i caffè traboccano di vita e rumori, rendendosi conto che la recente scoperta dell’elettricità ha provocato, come la fotografia, un eccesso di intensità percettiva, privando brutalmente le cose e le persone di ogni alone misterioso, svelandole nella loro indifendibile esteriorità. Cerca allora rifugio nel buio della periferia, nel silenzio di strade deserte, nel Bois de Boulogne, perdendo ogni cognizione del tempo e del luogo, finché, oppresso da allucinazioni e terrore, raggiunge la Senna per immergersi nelle sue acque gelide.

La troppa chiarezza (nell’arte, nella poesia, nella fotografia, nella luce artificiale), offrendo un’immagine del tutto evidente della realtà, può illudere e sgomentare: “La fotografia è pericolosa. Il moltiplicarsi all’infinito delle fotografie che colgono solo il fuori della vita può contribuire alla fine del mondo”, commenta Bonnefoy.

Se torniamo all’intensa e suggestiva prefazione di Antonio Prete, dobbiamo condividerne la perplessità e il timore riguardo al futuro che ci aspetta: “Un tempo nuovo è possibile nell’epoca delle immagini affollate, disseminate, consumate? Il senso della presenza, della singolarità, del tu è ancora possibile in un’epoca in cui la parola della comunicazione distribuisce illusioni di prossimità nella lontananza, di corporeità nell’astrazione, di relazione nell’estraneità? Perché questo sia possibile, è forse necessario uno sguardo che sappia non solo catturare la bellezza del mondo nell’istante, ma sappia silenziosamente preservarla e custodirla”.

© Riproduzione riservata    «Gli Stati Generali», 4 marzo 2021

 

 

RECENSIONI

VAN GULIK

ROBERT VAN GULIK, IL DELITTO ALLO STAGNO DEI LOTI – OBARRAO, MILANO 2020

Lo scrittore olandese Robert van Gulik (1910-1967) era anche antropologo e musicista. Esperto conoscitore della Cina, delle sue tradizioni e dell’indole dei suoi abitanti, aveva trascorso l’infanzia a Giava, si era specializzato in sinologia all’Università di Leiden e, dopo aver conseguito il dottorato in Filosofia a Utrecht, aveva intrapreso la carriera diplomatica in India, Cina, Giappone, Malesia, in Africa e negli Stati Uniti. Tornato in Cina nel 1943, si era sposato con una ragazza di una nobile famiglia di mandarini. Definito dalla critica “un uomo occidentale con il cuore orientale”; conosceva alla perfezione varie lingue europee, asiatiche e africane. Queste sue eccezionali qualità e competenze gli diedero l’opportunità di cimentarsi non solo in una raffinata saggistica (Adelphi ha pubblicato due suoi testi fondamentali Erotic colour prints of the Ming period e La vita sessuale nell’antica Cina), ma anche con l’invenzione di numerosi romanzi e racconti gialli, ambientati appunto nel continente asiatico, e raccolti nella serie “I casi del giudice Dee”, oggi pubblicati dall’editrice milanese ObarraO.

L’ebook di cui ci interessiamo, Il delitto allo stagno dei loti, è un’elegante short story che narra di un caso avvenuto nell’anno 667 d.C. nell’antica cittadina lacustre di Han-yuan.

Il giudice Dee Jen-djieh, si ritrova a indagare su due crimini: la rapina di dodici barre d’oro al Messo del Tesoro Imperiale e l’assassinio del poeta sessantenne Meng Lan.  Costui, dopo la morte della moglie si era ritirato a vivere nella sua modesta proprietà dietro il Quartiere dei Salici, abitato promiscuamente da personaggi piuttosto equivoci. Aveva quindi comprato e sposato una cortigiana venticinquenne, con cui condivideva una tranquilla vita coniugale, frequentata da pochi amici, ma assillata dalle continue richieste di soldi del giovane fratello della donna. Il poeta era stato accoltellato al cuore mentre contemplava serenamente la luna dal padiglione del suo giardino, posto al centro di uno stagno cosparso di loti, in cui gracchiavano rumorosamente molte rane. Ed è proprio il gracidio delle rane a permettere al giudice Dee di risolvere i due misfatti, il furto e l’omicidio, che si rivelano intrecciati agli interessi economici di un rispettabile conoscente della coppia.

Il racconto, lontano dalle tipiche atmosfere di suspense dei gialli tradizionali, ha però il merito di essere scritto con raffinatezza e un sottile humor, attento alle sfumature caratteriali dei personaggi. Inoltre, introduce i lettori alla scoperta di un autore poliedrico e poco noto, e al lavoro della piccola e vivace editrice ObarraO, accurata nella grafica e innovativa nell’esplorazione delle culture orientali.

 

© Riproduzione riservata      SoloLibri.net › Il-delitto-stagno-loti-Dee-Gulik     3 marzo 2021

 

 

 

RECENSIONI

ATWOOD

MARGARET ATWOOD, ESERCIZI DI POTERE – NOTTETEMPO, MILANO 2020

Margaret Atwood (Ottawa 1939), oltre a essere famosa nel mondo come autrice di bestseller, è anche ragguardevole poeta, e proprio come tale ha esordito negli anni ’60 con la raccolta Double Persephone. Temi principali della sua produzione sono l’identità culturale canadese, l’interesse per l’ambiente e l’impegno femminista. Ma nel volume del 1971 oggi riproposto da Nottetempo, Esercizi di potere, il nucleo fondante intorno a cui ruotano i versi è il rapporto dinamico e tormentato che si instaura nella coppia, in una sorta di duello quotidiano in cui vincitore e vinto, vittima e carnefice si scambiano costantemente i ruoli.

Con testo inglese a fronte, nella limpida traduzione di Silvia Bre, queste poesie della Atwood raccontano (in una forma tranquillamente discorsiva, e con trame narrative che si esauriscono all’interno di un’unica composizione) approcci, esperienze di vita quotidiana, illusioni e tradimenti all’interno di una convivenza, indagata con disinibita sincerità, “con meticolosa crudeltà”, come recita la quarta di copertina. L’autrice non risparmia nulla a se stessa e al suo compagno, analizzando spietatamente il loro rapporto, dalle lusinghe del corteggiamento alla delusione del disamore: ribellioni e tentazioni di fuga, gelosie e rancori, timori e sospetti. Il lettore ha l’impressione di assistere a una rappresentazione teatrale, in cui lo sfondo cambia di continuo (un cinema, un ristorante, la cucina o la stanza da letto, la stazione, l’aeroporto), mentre i protagonisti rimangono sempre due, la moglie e il marito.

La donna ritrae con severità i propri difetti (“Posso cambiare me / stessa più facilmente / di quanto io possa cambiarti”, “prendo pillole, bevo acqua, m’inginocchio”, “ Fatemi uscire da questa trappola, / questo corpo, fatemi essere / come voi, chiusa e utile”), anche alla luce impietosa della sua attività e fama di scrittrice: “Al ristorante discutiamo / su chi di noi pagherà il tuo funerale // sebbene la reale questione sia / se io ti renderò si o no immortale”, “Ti prego muori ho detto / così posso scriverne”.

L’osservazione diventa ancora più feroce e sarcastica quando si focalizza sull’uomo che le è accanto, “alquanto ordinario”, con cui ha in comune solo “silenzi elettrici”: “Io voglio domande e tu / solo risposte”, “Inutile: cammini all’indietro, / rimirandoti le orme”, “Come uova e lumache hai un guscio // Sei diffuso / e nocivo al giardino, / arduo da estirpare // Saprofago, ti nutri solo di carne morta”, “Sei finto come il listello di marmo / intorno al camino, non c’è niente / che non farei per essere via / da qui”, “Quando ti cerco trovo / acqua o ombra mobile // Non c’è verso che io possa perderti / quando sei già perso”, “Sarebbe così bello se solo / rimanessi là / dove ti ho messo”.

In questo canzoniere d’amore sfibrato e ostile, è proprio il rapporto a due che non funziona più, e Margaret Atwood ne è la consapevole e talvolta compiaciuta anatomopatologa: “Mi accosto a questo amore / come una biologa / infilandomi guanti / di gomma & camice bianco”, “Il mio amore per te è l’amore / di una statua per un’altra: in tensione // e statico”, “non c’è nulla / che io voglia fare riguardo al fatto / che sei infelice & malato”, “Siamo duri l’uno con l’altra / e la chiamiamo onestà”. Persino molti titoli delle composizioni esibiscono una voluta impersonalità e freddezza rispetto ai testi poetici: Lui riappare, Lei medita di sfuggirgli, Mangiano fuori, Lui è uno strano fenomeno biologico, Le loro attitudini differiscono, Viaggiano via aria, Lui si sposta da est a ovest, Ci sono modi migliori per far questo, Piccole tattiche, Sono nazioni ostili, Lui viene avvistato per l’ultima volta…

Ed è con malinconia che, in conclusione al volume, l’autrice ammette la propria incapacità di rapportarsi all’altro da sé in maniera comprensiva e solidale: “Considerando gli animali in sparizione / il proliferare di fogne e di paure / l’addensarsi del mare, l’aria / prossima a estinguersi // dovremmo essere gentili, dovremmo / sentire l’allarme, dovremmo perdonarci”.

 

© Riproduzione riservata       «L’Indice dei Libri del Mese» n. 3, marzo 2021

 

RECENSIONI

BENEDETTI

TARCISIO BENEDETTI, ALBORADA. LA TIPOGRAFIA DELLA LIBERTÀ – EDIZIONI LAVORO, ROMA 2021

Il colpo di Stato dell’11 settembre 1973, che in Cile portò alla fine dell’utopia socialista di Salvador Allende e al suo suicidio, provocando la salita al poter del regime dittatoriale di Pinochet, aveva provocato nel mondo e in particolare nel nostro paese un’emozione fortissima. In Italia trovarono rifugio e concreta solidarietà migliaia di profughi cileni, mentre cresceva l’interesse per la cultura della nazione sudamericana attraverso la diffusione della poesia e della musica di artisti impegnati quali Victor Jara, Violeta Parra, Pablo Neruda, gli Inti Illimani, i Quilapayún. Furono soprattutto le confederazioni sindacali a mobilitarsi per sensibilizzare l’opinione pubblica sulla violazione dei diritti democratici del popolo cileno, sulle torture inflitte agli oppositori, sulle disastrose condizioni economiche in cui il golpe aveva ridotto il paese. Vennero avviati fattivi progetti di formazione politica e ricostruzione materiale: tra questi suscitò grande interesse e partecipazione la creazione di un centro grafico ed editoriale cui fu dato il nome augurale di Alborada (Nuova Alba), gestito da una ong della Cisl, la Iscos, che avviò l’installazione di una tipografia utilizzata per stampare manifesti, riviste e quotidiani di opposizione. Tra i più incisivi furono il “Fortín Mapocho”, “La Epoca”, “El Siglo”, che partendo da una situazione di semi o totale clandestinità, raggiunsero presto una straordinaria popolarità tra i lettori, contribuendo così alla ripresa delle libertà costituzionali. Queste testate giornalistiche, spesso prese di mira dal regime con boicottaggi e censure, giocarono un ruolo fondamentale sia nel favorire la campagna per il No a Pinochet nel referendum del 1988, sia nell’appoggiare l’elezione di Patricio Aylwin Azocar alla Presidenza della Repubblica nel 1990.

In questa difficile contingenza storica si inserisce la vicenda umana e politica di Tarcisio Benedetti, che alla sua esperienza di vita e di lotta in Cile ha ora dedicato un libro di memorie e testimonianze: Alborada. La tipografia della libertà. Benedetti, nato in provincia di Verona nel 1947, appena sposato si trasferì in Cile con la moglie pochi mesi dopo il colpo di Stato, per fare il servizio civile in sostituzione di quello militare, insegnando per quattro anni (1974-1978) in una scuola professionale della cittadina mineraria di Curanilahue, nella provincia di Arauco. Braccato dalla polizia del regime per aver stampato bollettini clandestini, fu costretto a lasciare il paese sudamericano per rientrare a Verona, tornando al suo lavoro di grafico alla Mondadori. Nel 1987 partì nuovamente per il Cile proprio per contribuire alla realizzazione del Progetto Alborada, dirigendo la tipografia impegnata a stampare materiale di lotta e resistenza.

Grazie alla sua abilità, alle sue conoscenze tecniche e all’acquisto di una nuova rotativa, i giornali pubblicati raggiunsero presto tirature nazionali, centrando in pieno gli obiettivi programmati di propaganda libertaria e opposizione alla dittatura fascista, e incoraggiando la transizione verso la democrazia. Solo dopo la caduta del regime militare, Benedetti tornò in Italia con la famiglia, continuando nel suo impegno costruttivo di sindacalista e operatore sociale.

Il volume di cui trattiamo prende avvio da una suggestiva e commovente ricostruzione della saga familiare dell’autore: l’infanzia poverissima, sesto tra otto figli, cresciuto in un ambiente rurale e fortemente marchiato dal cattolicesimo; la scuola professionale e il lavoro di apprendista meccanico; la decisione di entrare diciottenne in seminario con il desiderio di diventare missionario in America Latina; il fascino esercitato da figure importanti del cattolicesimo sudamericano (i vescovi Hélder Câmara e Pedro Casaldáliga, il sociologo Paulo Freire… ); l’impegno sindacale e l’obiezione di coscienza; la decisione di abbandonare gli studi teologici e di sposare una giovane fisioterapista, salpando con lei verso Valparaíso nel 1974.

Aldilà delle pur interessanti vicissitudini biografiche, risulta coinvolgente per il lettore seguire lo sviluppo della coscienza civile e intellettuale di Tarcisio Benedetti, la sua dedizione all’ideale di libertà e sviluppo dei paesi sottosviluppati, il coraggio di abbracciare scelte ideologiche ed etiche non scontate, e spesso drammatiche. Vibranti di indignazione appaiono le pagine che raccontano le torture a cui i militari sottoponevano i civili negli anni della sua doppia permanenza in Cile, le perquisizioni e le minacce subite a livello personale e familiare, l’orgoglio per l’attività generosa svolta dalle ong italiane nel soccorrere situazioni di emergenza sanitaria, alimentare e produttiva del paese, i rapporti di amicizia e collaborazione intessuti con singoli e istituzioni.

Ai quindici capitoli in cui si articola il volume, si aggiungono i commenti introduttivi e conclusivi di Alberto Cuevas e Andrea Gandini, l’ultimo discorso di Salvador Allende, una poesia di Mario Benedetti e una bibliografia orientativa.

 

© Riproduzione riservata         «Gli Stati Generali», 23 febbraio 2021

 

 

 

 

 

RECENSIONI

BELPOLITI

MARCO BELPOLITI, PIANURA – EINAUDI, TORINO 2021, pp. 296

La suggestiva immagine di Luigi Ghirri sulla copertina di Pianura, ultimo saggio einaudiano di Marco Belpoliti, recupera e rende l’atmosfera magica di alcune celebri inquadrature di Amarcord, sfocate nell’impalpabilità della nebbia, fluttuanti sulle note malinconiche di Nino Rota. La fotografia di Ghirri attenua nel grigio brumoso i profili di un’edicola sacra e di un cipresso appena individuabili attraverso il velo appannato e cinereo dell’atmosfera nordica. Nebbia incanto, perché sfuma e confonde i contorni delle case, delle cose, delle sagome umane, attenuandone i contrasti.

Alla nebbia ci viene da pensare quando ci figuriamo la pianura Padana, come suo primo e ineludibile carattere, e insieme metafora di altro: “La nebbia ha a che fare forse con la noia? Una delle domande suggerite dalla nebbia non è: dove sono? Ma piuttosto: dove sono gli altri? E anche: cosa lega i miei pensieri alle cose che ci sono? La nebbia consente di immaginare, di guardare, di vedere quello che non si riesce a vedere quando tutto è completamente visibile”. Illusione che scherma, nella sua “opacità e trasparenza”, i perimetri tangibili del reale. Nebbia è un termine che ricorre più di quaranta volte nel libro di Belpoliti, dove però di realtà, ce n’è in abbondanza: ci sono paesaggi, fiumi e strade, fabbriche e campagne, uomini e donne concreti, con le loro storie, musiche, poesie, ribellioni, fughe e ritorni. Ma tutti in qualche modo sospesi, avvolti in una patina vaga e indefinita, resa labile proprio dalla nostalgia del ricordo.

Il fascino della pianura anima il lungo viaggio percorso dall’autore, i suoi incontri ritrovati nella memoria, e altri attuali, vivaci. Piatta, piatta a perdita d’occhio, come viene definita dalla prima frase del volume, la Padania è stata suddivisa dagli agrimensori romani nel I secolo a.C. in ordinate centurie quadrate di cinquanta ettari, e con la stessa struttura è rimasta per duemila anni. Una robusta regolarità materiale che sembra aver modellato anche l’indole dei suoi abitanti, solido, pratico, sebbene umorale, “ansiosamente malinconico”.

Il primo dei personaggi raccontati da Belpoliti, con un affetto e una gratitudine che travalicano l’ammirazione, è proprio il fotografo Luigi Ghirri, che ha saputo descrivere con “inquietante tranquillità” le periferie urbane, l’innocenza dell’infanzia, l’ordinarietà del quotidiano, avvicinandosi al consueto con accenti di profonda spiritualità: “La sua era una attenzione fatta di cose antiche, ma sempre nuove, quelle che vedono gli abitanti della campagna emiliana da secoli: pezzi di cielo, oggetti di casa, muri sbrecciati, vecchie cascine, cose di nessuna importanza per cui mai nessuno prima di lui s’era fermato a ritrarle”.

Poi Gianni Celati, magistrale narratore delle pianure, imprevedibile, distratto, affettuoso, trasandato ma di “un’eleganza trascurata”, gran camminatore, sempre a rincorrere una propria misteriosa ansia. E ancora il cantautore Giovanni Lindo Ferretti, i poeti Corrado Costa e Giulia Niccolai, gli scrittori Giuliano Scabia e Pier Vittorio Tondelli, l’attrice Ermanna Montanari, il drammaturgo Marco Martinelli, il pittore Giuliano Della Casa, lo psicologo Sandro Vesce…

Percorsi preferenziali, in questo lungo viaggio fatto in auto, in treno, in corriera, sono quelli che circondano i luoghi natali di Marco Belpoliti, luoghi fisici e dell’anima: Reggio Emilia e Modena, tra paeselli, paesotti, cittadine intorno: Scandiano, Rubiera, Carpi, Correggio, Mirandola, rettilinei asfaltati che tagliano appezzamenti di colture intensive, vigneti, pioppeti, paludi, fiumi melmosi, “l’interminabile Po”, capannoni industriali, fabbriche di piastrelle. In questo paesaggio uniforme, appaiono improvvise epifanie di chiese romaniche, solitarie figure di ciclisti, facce scolpite di anziani, osterie ormai poco frequentate.

La Padania si estende anche al Veneto, al Piemonte, alla Lombardia: ed è quindi anche l’hinterland milanese, anonimo e indistinto, che ha ospitato gli anni maturi di Belpoliti, a nutrire tuttora le sue memorie. “Gli anelli delle superstrade lambiscono i campi coltivati e qua e là qualche sperduta cascina a fare da riferimento, intorno palazzoni e villette a schiera con nuove strade tracciate di fresco. In questa periferia della Brianza tutto invecchia rapidamente, e dopo qualche anno è già una rovina, come se l’umidità mangiasse gli edifici, li invecchiasse e li rendesse decrepiti e squallidi anzitempo”.

Nel libro, puntellato da disegni dello stesso autore, sono frequenti gli excursus storici (regni, invasioni, epidemie, guerre), commenti artistici e architettonici (dettagliate descrizioni del Duomo di Modena, di musei, bastioni, castelli, palazzi signorili), dissertazioni geologiche e note di gastronomia: perché la pianura è ricca di una cultura stratificata in tanti diversi aspetti, naturali o determinati dall’intervento dell’uomo. Sono però soprattutto le memorie private a vivacizzare le pagine del volume einaudiano: incontri, letture, piatti e vini tipici, cortei studenteschi, lezioni universitarie a Bologna con professori eccezionali (Anceschi, Camporesi, Eco). Pianura di Marco Belpoliti è un libro “intimo e collettivo”, come recita il risvolto di copertina: esplorazione di un passato privato che diventa storia comune, e invita ad approfondire la conoscenza di un paesaggio, di un habitat, di una gente nei suoi aspetti più intriganti e meno esplorati.

© Riproduzione riservata      SoloLibri.net › Pianura-Belpoliti22 febbraio 2021

 

 

 

RECENSIONI

PAVESE

CESARE PAVESE, IL DESIDERIO MI BRUCIA – GARZANTI, MILANO 2021

Un Cesare Pavese (1908-1950) inedito e inaspettato, per noi che l’abbiamo conosciuto e amato leggendo i suoi romanzi secchi e disperati, il diario, le poesie petrose di Lavorare stanca: è quello proposto da Garzanti ne Il desiderio mi brucia, che raccoglie versi amorosi scritti a partire dall’ottobre del 1923 fino al 1929, con l’inserimento di pochi testi più tardi. Le composizioni adolescenziali sono assolutamente e retoricamente tradizionali, nel solco della poesia romantica ottocentesca e fors’anche della librettistica d’opera, molto rimate, metricamente composte e regolari, tematicamente prevedibili e ridondanti. Le immagini sono quelle, consuete, del desiderio sensuale fervido e appassionato, della brama di possesso negata, del sogno irrealizzabile, della delusione più amara e avvilente.

Dalla doppia quartina inziale (rimata ABAB-ABAB: “Oh, vagare con lei la sera scura, / perderci tra le piante ed ascoltare / le strida rauche su per la pianura / tremule come la luce stellare!”) ad altre dedicate a un quadro di D.G. Rossetti (“Sorge dall’ombra ed un lento mattino / le piove tra le mani una quieta luce / che il cuore pianamente acqueta / e le imbianca il volto alabastrino”), a una “Chioma d’Oro, bella ballerina”, o a un’ attrice idolatrata, giovanissima, straniera, lontana (“Ti vidi un giorno per alcuni istanti / e so che mai potrò più rivederti”), fino al turbamento smanioso (“Mi strugge l’anima perdutamente / il desiderio d’una donna viva, / spirito e carne, da poterla stringere / senza ritegno e scuoterla, avvinghiato / il mio corpo al suo corpo sussultante”.

Si tratta di evidenti esercizi stilistici di un ragazzo che coniuga la passione per la poesia con le prime inquietudini sessuali e i complessi tipici dell’età, vagando dal più estenuato romanticismo al timore del confronto e alla voglia di sfregiare volgarmente la figura femminile. Stilnovo e Baudelaire si fondono nelle prime prove letterarie di Pavese (“Le tue mani pallide / mi paiono due mistici gigli / fioriti sull’esile stelo, / nero fino al calice, / delle braccia sottili” versus “se fate le puttane o vi cedete / a chi solo vi piace o siete ignare, / soffro tremendamente e insieme godo / al pensiero che forse vi potrò / possedere in un letto”).

Sono già presenti in questi versi giovanili alcuni caratteri tipici delle donne raccontate dallo scrittore maturo: la voce roca, i capelli fini e biondi, i denti forti, la gola fresca, le gambe nervose: attributi più idealizzati che concreti, di un eterno femminino perseguito per tutta la vita.

Le poesie scritte tra la fine degli anni ’30 e la morte assumono ovviamente uno stile più maturo, secco e personale, anche nell’aggettivazione curata (“E l’acuto sorriso / ti percorse sbarrandoti gli occhi stupiti”, “come terra, sei chiusa… Sei riarsa come il mare”, “germogliante silenzio”, “Sei radice feroce”). Così, nella famosissima Verrà la morte e avrà i tuoi occhi troviamo: vizio assurdo, vana parola, grido taciuto, labbro chiuso. E nell’unica composizione in inglese: dappled smile, white-limbed doe, gliding grace.

Avvicinandosi alla scelta estrema, Pavese sembrò volersi asciugare da ogni concessione all’enfasi e all’artificio, per raggiungere l’essenzialità a cui si riduce sempre il dolore.

© Riproduzione riservata      «Gli Stati Generali», 12 febbraio 2021

RECENSIONI

MASSINI

STEFANO MASSINI, STATO CONTRO NOLAN – EINAUDI, 2019

Stefano Massini (Firenze, 1975) ha toccato in questo suo testo teatrale del 2019 – dall’impianto vivacemente cinematografico, con un serrato montaggio scenico –, alcune tematiche cruciali della nostra contemporaneità: il controllo del potere sulle vite degli individui, l’abilità manipolatoria dei media, il pregiudizio generalizzato nei riguardi del diverso, la smania di successo e di ricchezza economica, le responsabilità dell’apparato giuridico, e soprattutto l’ambiguità dei messaggi verbali a cui tutti ci affidiamo, per nostra ingenuità o rassegnazione.

Il caso giudiziario narrato è liberamente ispirato a notizie giornalistiche e a controversie processuali autentiche, ovviamente modificate nei riferimenti alle persone e alla località citate. Chi dà il nome alla pièce è Herbert Nolan, direttore dell’unico giornale di Leister, una tranquilla cittadina americana abitata da contadini taciturni e diffidenti. Nolan è imputato in un processo di natura commerciale; co-protagonisti sono un giudice, un procuratore distrettuale, l’avvocato della difesa e sei testimoni. Il giudice Rutherford apre il dibattimento rivolgendosi direttamente alle parti, ed esortando la giuria a dare un significato non puramente legale a quanto verrà discusso in aula, senza farsi influenzare da preconcetti: “Ciò che valuterete in quest’aula ha più che mai un valore superiore al piccolo caso che trattiamo”.

L’antefatto è quasi banale, ma sconvolgente perché circoscritto in una comunità chiusa, in “un posto tranquillo”, come recita il cartello di benvenuto alle soglie del paese. Uno sconosciuto, vestito con abiti logori, appesantito da una valigia legata da uno spago, cammina sulla statale 40 in una torrida giornata del luglio 1956. Assetato, si ferma davanti alla fattoria della famiglia Robichaux per chiedere da bere. Sulla veranda la giovane Else, con il capo coperto da un velo come in uso tra i cristiani anabattisti, si spaventa e urla. Il nonno, anziano e malato, esce dalla casa e spara all’uomo con un fucile Weiss, uccidendolo. Il Leister Telegraph, proprietà dell’imprenditore Herbert Nolan, pubblica per mesi titoli e servizi sensazionalistici, sfruttando e manipolando la notizia per creare panico tra i cittadini, e indurli così ad acquistare i prodotti dalla Weiss & Co. Armi da Fuoco (fabbrica locale di cui Nolan è principale azionista), che in pochi mesi vede triplicare i suoi profitti. Il processo deve quindi deliberare se i numerosi articoli usciti sul Leister Telegraph riguardo al caso Robichaux siano da ritenersi normale cronaca, o invece si configurino come promozione occulta dei fucili Weiss, celando un vistoso conflitto di interessi dell’imputato.

I sei testimoni chiamati a deporre (la giovane Else, il cronista polacco che aveva scritto gli articoli, il titolare dell’emporio di vendita delle armi, la maestra elementare, il pastore anabattista e il proprietario della fabbrica Weiss & Co.) offrono interpretazioni discordanti dello stesso episodio, ostinati nel difendere la loro verità anche contro ogni evidenza, e decisi a preservare la reputazione del loro operato e della collettività nei confronti dello straniero innocente, ma temibile, che aveva turbato la serenità del luogo con il suo solo inquietante apparire.

La causa in giudizio, che in Stato e Nolan rimane senza verdetto finale, verte essenzialmente sul diritto della stampa di conquistare l’interesse dei lettori anche servendosi di metodi poco onesti, falsificando i particolari dell’accaduto, esaltando o denigrando i protagonisti, ingigantendo titoli e fotografie. Più precisamente, si discute sul valore pubblico delle parole scritte. Come argomenta il cronista nel difendersi dalle accuse: “Usare le parole è rischiare: chiunque parla, chiunque scriva, chiunque si rivolga – in qualsiasi modo – a un altro essere umano, accetta di buon grado il pericolo di essere frainteso, usato, distorto… La normalità dei fatti non interessa mai, ma appena la normalità si spezza, lì c’è spazio per scrivere”.

Quando le parole vengono stampate, da umane quali sono, diventano magia, “sono eterne, immobili, nero su bianco, scritte come scritta è la Bibbia, scritte come scritte sono le leggi”. Producono echi assordanti, germogliano nei pensieri della gente, che non desidera altro se non di essere confermata nelle sue teorie e difesa dalle proprie paralizzanti paure.

Le parole sono pietre, possono orientare e disorientare, condannare e scagionare, santificare o distruggere. Lo sa bene Stefano Massini, che dal 2016 collabora al secondo giornale più venduto e letto in Italia, e da mesi firma un’interessante rubrica di successo proprio sul significato etimologico dei modi di dire e dei termini più comuni. La Repubblica, testata del Gruppo GEDI proprietà della famiglia Agnelli-Elkann, detiene il 25% del mercato editoriale nazionale.

© Riproduzione riservata      STEFANO MASSINI, STATO CONTRO NOLAN – EINAUDI, 2019