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RECENSIONI

DE ANGELIS

MILO DE ANGELIS, LINEA INTERA, LINEA SPEZZATA – MONDADORI, MILANO 2021

Milo De Angelis (Milano, 1951), uno dei più noti e importanti poeti italiani, saggista, critico letterario e traduttore, conferma in questo ultimo volume mondadoriano le sue qualità di visionario investigatore dell’inconscio e di funambolico inventore di immagini, sapientemente sciolte in una versificazione che negli ultimi anni si è rivelata capace di duttili trasformazioni. La prima produzione di De Angelis (Somiglianze, 1976; Millimetri, 1983; Distante un padre, 1989), che l’aveva giustamente segnalato come dissacrante innovatore, si era infatti contraddistinta per una vena simbolista di difficile interpretazione, assolutamente estranea alla tradizione poetica italiana del dopoguerra, indifferente sia allo sperimentalismo sia all’impegno ideologico: la frammentarietà e la disarticolazione dei versi, la loro oscurità semantica, gli avevano valso l’accusa da parte di alcuni commentatori di elitarismo criptico e oracolare.

Negli anni duemila, la scrittura deangelisiana ha assunto forme più distese e narrative, in cui i temi della sofferenza e della morte, pur illuminati da improvvise epifanie di esaltata adesione alla vita e da sfumature di tenerezza, sono diventati prevalenti e quasi ossessivi, in una perenne ambivalenza tra accettazione e rifiuto, rigore e delirio, incubo e liberazione. In questo nuovo libro, Linea intera, linea spezzata (già dal cantabile novenario del titolo, con l’anafora allusiva a una regolarità drammaticamente infranta) il poeta si concede a una confidente apertura sentimentale, rinunciando sia ad arroccarsi in ermetismi difensivi, sia a trasgressive violazioni formali. Ne sono già avvisaglia i versi dolcissimi (nella loro armoniosa musicalità e nel riverbero di una recuperata e fragile adolescenza) riportati sulla quarta di copertina: “E allora facciamo silenzio, mio piccolo amore, slacciamo / i sandali, togliamo il braccialetto di cuoio: / chiuderemo la porta e scenderemo, scenderemo / con i nostri pochissimi anni nell’occulto che ci chiama, / mentre il pavimento prende il colore della notte, / scenderemo noi due, scenderemo noi soli, perderemo / la vita”.

La Milano dell’infanzia e degli anni giovanili fa da sfondo brumoso alle prime due sezioni del volume, una Milano rivissuta nei suoi tram e negli ambienti frequentati allora (edifici scolastici, sale di biliardo e di bowling, lunapark, campetti sportivi, piscine, cinemini periferici), e oggi contemplata di notte (“la notte che ti scruta e ti attende” è momento privilegiato nella poetica dell’autore), in sguardi che abbracciano dall’alto elementi architettonici di contrasto, o girovagando “con i passi del fuggiasco” tra le risaie della Barona e i grattacieli, bar malfamati e chiese romaniche. Affiora la consapevolezza, in un terrore che spesso sfocia nell’incubo, dell’inessenzialità e trascurabilità delle vite comuni (“dell’infinita moltitudine in cui sei immerso anche tu”), a cui si può sfuggire solo aggrappandosi alla concretezza di un vissuto personale, privato, che sappia illudere della propria unicità.

Notte, paura, ricordo, silenzio, morte/morti sono i termini più ricorrenti nei versi di Linea intera, linea spezzata, e assediano il poeta in un delirio di visioni allucinatorie, di spettri o minacciose figure fiabesche (“senti ardere le sinapsi, entri nel dedalo / delle piccole convulsioni”), a cui nemmeno la dolcezza della memoria sembra offrire salvezza. Anche gli incontri con persone amate e perdute si risolvono spesso in rivisitazioni dolorose, angustiate da rimorsi, sensi di colpa, nostalgie feroci. Nella terza sezione, Dialoghi con le ore contate, il sentimento pressante della precarietà dell’esistenza, e il rimpianto di un passato irrecuperabile, spinge il poeta a un’angosciosa discesa nell’Ade dei trapassati (“e allora scendo, scendo di più, / scendo fino in fondo, scendo ancora”), per abbracciare tra tante altre ombre il fratello Puia, il primo allenatore di calcio, un riflessivo amico piemontese, il critico Alberico Sala, un compagno sessantottino della Statale, un’invincibile nuotatrice, spinto dal doveroso compito di ricordarli, questi fantasmi di un mitico passato, non solo mentalmente, ma scolpendoli sulla pagina, ripagati così di colpevoli disattenzioni lontane.

La morte citata così spesso in varie declinazioni, incombe allegorica anche nelle clausole finali di molte composizioni, imponendo un tombale e disperato mutismo: “per l’ultima volta”, “iniziò la lunga notte silenziosa”, “tutto è silenzioso per sempre”, “sembrava un saluto ma è un addio”, “alla fine divampò la solitudine”. In modo rassicurante e carezzevole, o all’opposto di fissazione ossessiva, imitando la ripetizione di formule e ritornelli infantili, l’uso della reiterazione di vocaboli o di intere frasi all’interno di una composizione – in anafore legate o distanziate –, è la figura retorica più ricorrente in De Angelis (non è di questa terra… non è di questa terra; devi restare, devi restare; scorderai, / scorderai; lui non è tornato, lui non è tornato; si aggirano… si aggirano; non c’è nessuno, non c’è nessuno non c’è nessuno; vergogna vergogna vergogna; ecc.). Altrettanto frequente è il discorso diretto, a cercare interlocutori immediati, e coinvolti con un “tu” vocativo in un colloquio che in realtà cela la malinconica consapevolezza dell’inesorabile monologo.

L’ultimo capitolo della raccolta, Aurora con rasoio, si carica in maniera inattesa di una consistenza ideologica ed esistenziale assolutamente e finalmente consapevole, nel confessare la dipendenza dalla droga, la disarmonia con il mondo esterno vissuta con strazio e frustrazione, la ricorrente tentazione del suicidio, in chi si scopre “clown e martire di un dolore ereditato”, imputato al tribunale dei “giudici antichi” perché, incapace di adeguarsi, vedeva troppo, sentiva troppo, soffriva troppo. Di tutti gli esclusi dall’innocenza e dalla felicità, di tutti i rasoiati nelle loro aurore, si chiamino Milo Daniele Peppino Gianni, la poesia raccoglie la ribellione, la paura e l’affanno, reclamando il dovuto risarcimento.

© Riproduzione riservata   «Gli Stati Generali», 28 gennaio 2021

 

 

RECENSIONI

AGAMBEN

GIORGIO AGAMBEN, QUANDO LA CASA BRUCIA – GIOMETTI & ANTONELLO

MACERATA 2020

Qual è la casa/cosa che sta bruciando, crollando sulle proprie fondamenta, riducendosi a cenere, secondo il filosofo Giorgio Agamben? L’individuo, la famiglia, lo stato? L’Italia, l’Europa o il mondo intero? Certo, nella drammatica fase pandemica che stiamo vivendo, sembra non esserci più spazio per alcuna salvezza, personale o collettiva che sia. Agamben con amara lucidità avverte: intorno a noi solo “panico e furfanteria” di un potere che si illude di governare attraverso uno stato di eccezione permanente, di divieti, di esperti e di medici, di furbi tecnicismi intesi a nascondere “splendore e miseria”. Splendore di un passato come radice comune (“Ci sono ancora rami e fiori nel passato. E se ne può fare ancora miele”), in cui gli uomini mostravano con orgoglio, verità e autonomia il loro volto, rispetto a un presente di rovine, di maschere, in cui prevale la cecità di una vita puramente biologica, “una nuda vita muta e senza storia, in balia dei calcoli del potere e della scienza”, placata e soddisfatta della propria rassegnata mediocrità.

Il ’900, con le sue due guerre mondiali, ha senz’altro contribuito a far divampare le fiamme dell’incendio, che tuttavia già da secoli covavano minacciose sotto le braci, senza che nessuno volesse prestarvi attenzione, per paura o superficialità. “Ora la fiamma ha cambiato forma e natura, si è fatta digitale, invisibile e fredda”, ma continua a distruggere nell’indifferenza dei più, “così inconsapevoli da sembrare quasi innocenti”.

L’eterna contesa tra corpo e spirito, tempo ed eternità, terra e cielo, sembra oggi risolversi nel segno di una trionfante e banale materialità, in attesa che tutto frani definitivamente. Ma non è giusto tirarsi da parte, rinunciare a opporsi: “Può darsi che la vita sparisca dalla terra, che nessuna memoria resti di quello che è stato fatto, nel bene e nel male. Ma tu continua come prima, è tardi per cambiare, non c’è più tempo”.

Quale forma di resistenza allo sfacelo si deve mettere in atto, allora? Agamben suggerisce che l’unica risposta può arrivare dall’esercizio di un pensiero che sappia coniugare filosofia e poesia, capaci entrambe di parlare una lingua sorgiva, vitale, sottratta al rumore indistinto del vaniloquio. La parola della poesia è profetica, oscura, scomoda e quasi sempre inascoltata. Ad essa Agamben dedica il terzo capitolo del suo libro, scandito in paragrafi nominati con le lettere dell’alfabeto ebraico.

Perché è tanto difficile per gli uomini prestare orecchio ai profeti? Perché essi, ricordando l’eterno, fanno continuamente riferimento al Regno, presente qui e ora, sempre, anche se non avvertito né riconosciuto. Il Regno è atteso e annunciato da un segnale, talvolta minimo, spesso incomprensibile: da una parola non significante, non regolata grammaticalmente, ma allusiva e nuova, originaria. La sa cogliere e ripetere il poeta, “un’anima altrimenti vivente”, che inerme e inservibile, esprime sommessamente un annuncio, “al di là e al di qua di ogni lingua”, mentre intorno le fiamme incombono minacciose. Il Regno non è una meta da raggiungere, un eden metastorico, né una struttura politica: si avvera solo attraverso la sua unica realtà, che è la parola. “La parola del Regno non produce nuove istituzioni né costituisce diritto: essa è la potenza destituente che, in ogni ambito, depone i poteri e le istituzioni, compreso quelli, chiese o partiti, che pretendono di rappresentarla e incarnarla”. Per deprivare del potere i vari poteri che dominano la terra, bisogna prima deporre la lingua che li fonda e sostiene: oggi questa lingua “esibisce ovunque la sua vacuità e la sua afonia, si fa chiacchiera o formalismo scientifico”. Solo la poesia, solo il dialetto, nel loro opporsi al consueto ratificato, sanno superare l’asservimento del significante, chiamando le cose all’aperto, rendendole non più fatti ma eventi, epifanie del Regno.

Ancora intorno alla funzione del dire e del tacere si articolano le altre due sezioni del libro di Agamben, (come le precedenti esposte con intensità aforistica e accenti di ispirato lirismo), in cui viene vagliato il ruolo giocato dalla parola nella contiguità dei termini soglia e porta, e nella fragilità della testimonianza quando è chiamata a misurarsi con la verità.

La porta si apre e si chiude, indica un passaggio o un blocco, un limite o il superamento del limite, il dentro o il fuori dell’azione e del pensiero.

La testimonianza sancisce “l’incapacità del linguaggio di enunciare in modo assertorio la verità” – che di per sé non è mai verificabile –, e pertanto è contrassegnata da incomunicabilità e solipsismo: “testimone è colui che parla unicamente in nome di un non poter dire”, colui che esperisce l’impossibilità di enunciare la verità in una proposizione.  Il testimone parla del/al passato, e in favore di chi non può farlo: i morti, gli animali, i dementi, le cose; testimonia, quindi, innanzi tutto per la sua lingua, lontana da ogni possibilità di comunicazione, di riflessione.

È stata l’esperienza di Hölderlin quando, chiuso nella sua torre sul Neckar, ha disattivato ogni funzione discorsiva dalla propria poesia, sperimentando il grado zero della parola, il nulla di una lingua senza più mondo, l’ammutolimento, la consapevolezza di non poter conoscere. “La testimonianza è un idioma fatto solo di vocativi, cioè di parole che non significano, ma chiamano per nome gli altri, le cose”. Nessun contesto semantico, negli inni tardi di Hölderlin; solo lemmi staccati, congiunzioni, cesure, che sperimentano del suo incontro solitario con la lingua. Il silenzio finale del poeta tedesco (a cui Giorgio Agamben ha dedicato il libro più recente, pubblicato da Einaudi) è quello del testimone lasciato solo, consapevole di non sapere e volere enunciare alcuna verità.

“Una poesia scritta nella casa che brucia è più giusta e più vera, perché nessuno potrà ascoltarla, perché nulla assicura che possa scampare alle fiamme. Ma se, per un caso, essa trova un lettore, allora questi non potrà in nessun modo sottrarsi all’apostrofe che lo chiama da quell’inerme, inspiegabile, sommesso vocìo. Può dire la verità solo chi non ha nessuna probabilità di essere ascoltato”.

© Riproduzione riservata      «Gli Stati Generali», 23 gennaio 2021

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

RECENSIONI

CASELLI

ROBERTO CASELLI, STORIA DEL BLUES – HOEPLI, MILANO 2020, pp. 338

La nuova edizione del volume Storia del Blues di Roberto Caselli, pubblicato con successo di vendite nel 2016, risulta arricchita di un’originale sezione dedicata alla produzione e diffusione italiana di questo genere musicale. Caselli è nome noto e stimato nel mondo della radiofonia e della letteratura specialistica: giornalista e critico, autore di numerose pubblicazioni (sul rock, sul jazz, sulla canzone italiana e su singoli interpreti, da Leonard Cohen a Jim Morrison, da Joan Baez a Paolo Conte), ha diretto diverse riviste ed è voce storica di Radio Popolare.

Il corposo volume illustrato edito da Hoepli consta di nove sezioni, suddivise in capitoli riassuntivi corredati non solo di vari box riportanti aneddoti, curiosità, citazioni, ritratti, commenti ai testi, suggerimenti discografici, bibliografici e cinematografici, ma anche di un’accurata datazione degli eventi fondamentali di ogni periodo storico preso in considerazione.

La scansione cronologica suggerita da Caselli offre la possibilità di seguire al meglio il percorso esistenziale di una musica che, nata dalla sofferenza e da secoli di repressione e schiavitù, è diventata veicolo di emozioni universali, in un viaggio entusiasmante che ha toccato luoghi, stili, interpreti diversi: “Il blues non è solo tristezza, è anche contrapposizione, piacere della trasgressione e dell’ironia con cui il nero si fa beffa dell’uomo bianco giocando sul suo stesso terreno”.

L’etimologia del nome sembra derivare, nella sua accezione più semplice, dal verbo “to be blue” (essere triste), ma potrebbe essersi in seguito arricchito di una sfumatura superstiziosa per la diffusa credenza negli spiriti maligni, quei blue devils che provocavano malattie, persecuzioni, morte. La musica del diavolo, come veniva comunemente definita, era considerata empia e dissacratoria perché non devotamente sottomessa ai dettami della Bibbia.

Il volume parte quindi da Mama Africa, capitolo che indaga le radici etniche da cui il blues ha tratto linfa originaria, per arrivare alla deportazione degli schiavi in America nel 1600 e al loro impiego come raccoglitori di cotone nelle piantagioni del Sud. Nato come canto di lavoro per accompagnare i movimenti cadenzati nei campi, questo genere musicale fu la prima forma culturale condivisa degli afroamericani; era caratterizzato da una struttura antifonale di dodici battute, e utilizzava inizialmente soprattutto la voce umana, in seguito strumenti a corda (chitarre, banjo) e armoniche a bocca, quindi ottoni e pianoforte.

Sia nei canti di lavoro, sia in quelli di protesta e nei gospel religiosi, si rincorrevano gli stessi temi indicanti paura, stanchezza fisica, preghiera, affetti familiari, nostalgia, ribellione.   Con l’elezione di Lincoln, la fine della guerra di secessione (1865) e l’abolizione della schiavitù non ebbero tuttavia termine le persecuzioni razziali né lo sfruttamento dei neri nei lavori più pesanti, e il blues continuò a costituire una valvola di sfogo, imponendosi con orgogliose rivendicazioni di autonomia creativa. Negli anni ’20 fu caratterizzato dalla prepotente presenza di grandi interpreti femminili (Mamie Smith, Ma Rainey, Ida Cox e Bessie Smith), affermandosi lentamente come fenomeno di spettacolo e business redditizio. Film, musical, stazioni radio diffusero nuovi stili (classic, country, ballata), capaci di proporre temi sociali, spunti di cronaca, fantasie erotiche o puro divertissement, ricco di doppi sensi e battute scurrili. Le grandi migrazioni verso il nord lungo la Highway 61 che collegava New Orleans al Canada favorirono il diffondersi del blues verso Memphis, Chicago, Detroit, e improvvisamente queste metropoli divennero casse di risonanza di eccezionali artisti, come Robert Johnson, John Hurt, Fred McDowell. Texas, Lousiana, Kansas, California diedero impulso a suoni più vigorosi, attraverso contaminazioni con il jazz e lo swing, e con l’elettrificazione della chitarra: presto al blues si aprirono le porte dell’ufficialità, con esibizioni nei night club più esclusivi e in teatri prestigiosi.

Musica nera per eccellenza (B.B. King scriveva “Ho sempre sostenuto che suonare il blues è come essere neri due volte”), nella seconda metà del ’900 trovò epigoni bianchi tra gli interpreti del free jazz, del rock e del bebop. Eric Clapton, i Rolling Stones, Janis Joplin e lo stesso Bob Dylan hanno sempre dichiarato il loro debito nei confronti del blues, inglobando in esso elementi tradizionali e rinnovandoli con nuovi ritmi e strumentazioni.

Gli ultimi capitoli del libro di Roberto Caselli sono dedicati agli impulsi arrivati di rimbalzo negli States dall’Europa, al declino dell’interesse del pubblico occidentale negli anni ’90 e quindi a una recente rivitalizzazione capace di riproporre lo spirito originale della “musica del diavolo”, con tecniche strumentali spesso esasperate. Sdoganato anche da noi, molte sono le band e i solisti che si affermano oggi con un loro seguito di pubblico, appoggiati dal fiorire di festival e pubblicazioni specialistiche che ne sottolineano il meritevole valore. Tra gli interpreti italiani più rimarchevoli vengono citati Fabio Treves, Roberto Ciotti, Maurizio Angeletti, Guido Toffoletti, Rudy Rotta, Maurizio Pugno, Laura Fedele. Max De Bernardi & Veronica Sbergia. Amy Winehouse, con acuta sensibilità, ebbe a dire di questa musica dell’anima: “Ogni situazione di difficoltà è una canzone blues che attende di essere scritta”.

 

© Riproduzione riservata               «Gli Stati Generali», 14 gennaio 2021

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

ROBERTO CASELLI, STORIA DEL BLUES – HOEPLI, MILANO 2020

 

RECENSIONI

LEOPARDI

GIACOMO LEOPARDI, L’INFINITA SOLITUDINE – MARCO SAYA, MILANO 2020

Con la cura di Sonia Caporossi, l’editore Marco Saya ha pubblicato un’antologia ragionata delle poesie di Giacomo Leopardi, intitolata L’infinita solitudine. La raccolta dei Canti leopardiani, composti tra il 1818 (All’Italia) e il 1836 (La Ginestra), comprende – secondo le indicazioni dello stesso poeta – quarantuno composizioni: questa nuova edizione ne presenta ventiquattro, in base a una precisa volontà della curatrice.

Sonia Caporossi, musicista e critica letteraria, ha preferito infatti proporre ai lettori una scelta tematica delle poesie secondo il criterio unificante del “mistero del dolore”. Escludendo quindi i testi più contraddistinti storicamente e politicamente, ha organizzato il volume intorno al nucleo “della riflessione esistenziale circa la finitezza della condizione umana considerata nella propria irriducibile individualità e solitudine”, aggiungendo all’edizione tradizionale dei Canti i versi del Coro dei Morti e dell’Appressamento della morte, inseriti proprio per sottolineare l’adesione emozionale e filosofica del recanatese al tema della caducità dell’esistenza. Insistendo sul pensiero poetante come massima espressione dell’attitudine leopardiana allo scandaglio psicologico interiore sotteso a un’approfondita riflessione teorica, la curatrice nella dotta introduzione afferma: “Il ripiegamento soggettivistico è sempre criticamente oscillante sul filo del riconoscimento di un pessimismo cosmico esteso, a partire dalla propria vilipesa singolarità sofferente, al destino dell’intera congerie dei viventi”.

Particolare e universale, bellezza della natura e silenzio del cosmo, nulla e assoluto, inganno e verità, sono riferimenti costanti in tutta la produzione di Leopardi, come hanno sottolineato molti critici, da Sebastiano Timpanaro a Pier Vincenzo Mengaldo, da Ugo Dotti a Emanuele Severino. In lui, “la poesia non è altro che la forma esteticamente formata del domandare filosofico”, strumento conoscitivo per esplorare il mistero dell’esistenza, cura con cui dare voce e senso all’effimera condizione dell’essere.

Sonia Caporossi commenta tutte le poesie antologizzate (di cui riporta in calce sia la forma metrica, sia le date di composizione e pubblicazione), dalle prime prove ancora ricalcanti stilemi petrarcheschi, agli idilli in cui la descrizione del proprio paesaggio interiore si eleva alla contemplazione del sublime. Il senso dell’infinito, se prende spunto da un’osservazione puntuale dell’elemento fenomenico (la siepe, la luna, il vento, la ginestra, il gregge…) è comunque volto a mettere in risalto la fragile e inconsolabile solitudine del poeta, intesa come “estraneità alla condizione sociale e recupero di quell’intimismo fondamentale al mantenimento delle illusioni”.

Il saggio del professor Antonino Contiliano con cui si conclude il volume edito da Marco Saya, merita una lettura non superficiale, a causa della complessità degli argomenti trattati. In particolare, l’esame approfondito dell’idillio più giustamente celebre, L’infinito, mette in luce le aporie del pensiero filosofico di Leopardi, soprattutto per ciò che concerne l’idea di tempo e di infinito. Pur interessandosi agli sviluppi contemporanei di scienze quali la matematica, la fisica e la biologia, il poeta manteneva una visione della realtà circoscritta nei parametri classici, meccanicistici e deterministici, attribuendo ai dati non osservabili e quantificabili qualità di astrazione illusoria, di finzione immaginativa. Il mondo era da lui concepito come diviso in due sfere dicotomiche: essere e non essere, vero e falso, razionalità finita e immaginazione senza limiti. Tempo e infinità, pertanto, non risultando misurabili sperimentalmente, ricadevano nella sfera di semplici enunciati nominali, privi di qualsiasi denotazione e misura, pure suggestioni finzionali, fantasie linguistiche, illusioni.

I termini fortemente evocativi utilizzati ne L’infinito (sempre, ultimo orizzonte, interminati spazi, di là, sovrumani silenzi, profondissima quiete, l’eterno, morte stagioni, immensità), oltre ad affascinare il lettore per la loro “circolarità fono-semantica” intesa a riprodurre il fluire del tempo e lo spaziare illimitato dello sguardo e del pensiero, indicano la propensione leopardiana a considerare l’infinito come un sogno, una grandezza evanescente, non definibile concretamente, in cui è dolce naufragare.

© Riproduzione riservata              https://www.sololibri.net/Infinita-solitudine-Leopardi.html

11 gennaio 2021

 

RECENSIONI

RAPINO

REMO RAPINO, SULLE SIGNIFICANZE DELLE PERIFERIE – BORDEAUX, ROMA 2020

Remo Rapino (1951), vincitore dell’ultimo Premio Campiello con Vita, morte e miracoli di Bonfiglio Liborio, in un breve pamphlet recentemente pubblicato da Bordeaux, Sulle significanze delle periferie, recupera il protagonista del suo romanzo per offrire ai lettori una stimolante riflessione sull’importanza della letteratura e del linguaggio come pratica di intervento sociale.

Nel romanzo di Rapino, Liborio Bonfiglio esprime la lotta per la sopravvivenza combattuta da un emarginato, che per tutta la sua “svalvolata” esistenza paga, tra lutti familiari, carcere, manicomio, la condanna alla marginalità e all’ininfluenza in un contesto culturale discriminante. Liborio assume su di sé il ruolo di figura simbolica dei senza storia, “barboni, contestatori, vagabondi, menti incomprese… idioti esemplari…filosofi del quotidiano”: a questi personaggi Remo Rapino demanda l’unica possibilità di ribellione “a un mondo soffocato sempre più dal crisma della normalità”, resistendo ai processi livellanti di assimilazione culturale.

I rifiutati, gli esclusi indicano “nicchie di salvezza, atti di libertà” che trovano il loro regno nella periferia, nella strada, nella piazza. Chi abita la piazza? “Vagabondi, prostitute, ladri, quanti vivono di espedienti, abitatori di margini al contempo fisici, sociali e mentali, non inquadrabili in alcuna classe…Figure che, se ben fotografate, danno alla letteratura la capacità di affrescare un’immagine complessa e stratificata del Paese reale”.

In che modo comunica il suo rifiuto Liborio, e con lui tutti “gli ultimi” nella scala sociale? Attraverso un linguaggio spontaneo (gergale, meticciato, sdrucito, stralunato, deformante), che lo scrittore utilizza osservando di sguincio nelle crepe di una realtà rimossa, imbavagliata, e documentandolo sulla pagina.  Ecco che allora “la parola letteraria – …che non assolve mai, e solo, la funzione di un meccanico rispecchiamento della realtà – …può porsi come strumento di conoscenza e di trasformazione del mondo”. Con la volontà di recuperare i valori di fratellanza, solidarietà, accettazione dell’altro, contestando il mito imperante del successo, del narcisismo, dell’obbedienza servile. Gli eroi letterari indicati da Rapino sono dunque i non allineati, gli idioti inutilizzabili: il Principe Myškin di Dostoevskij, Don Chisciotte, Bouvard e Pecuchet, Mattio Lovat di Sebastiano Vassalli, Lennie Small di Uomini e topi, Frank Drummer di Edgar Lee Masters, Macario di Juan Rulfo, Gimpel l’idiota di Isaac I. Singer. Tutta una galleria di eroi bizzarri, sognatori, solitari, incompresi, voci sommesse di un’antologia dell’invisibile che, frantumando rigidi schemi mentali, instillano dubbi nelle nostre presunte verità e rassicuranti certezze.

Questo testo di Remo Rapino deriva dalla registrazione di una lezione tenuta lo scorso ottobre per il #RIF Museo delle Periferie, progetto di Roma Capitale inteso ad approfondire la conoscenza delle metropoli del terzo millennio, contribuendo a realizzare, tramite pratiche artistiche e relazionali, una città più equa, partecipata, inclusiva.

© Riproduzione riservata            8 gennaio 2021

https://www.sololibri.net/Sulle-significanze-delle-periferie-Rapino.html

 

RECENSIONI

FRUGONI

CHIARA FRUGONI, PAURE MEDIEVALI. EPIDEMIE, PRODIGI, FINE DEL TEMPO

IL MULINO, BOLOGNA 2020.

Tangibili, ossessive, onnipresenti sono le paure che attanagliano oggi il genere umano, fino a un anno fa illuso di una sua inscalfibile e ingegnosa abilità (intellettuale, culturale, fisica) nel controllare gli eventi naturali e storici, e adesso improvvisamente preda del panico di fronte al dilagare di un microscopico virus, minaccia di estinzione universale. Sono le incontrollabili paure dell’ignoto, rimaste uguali nel corso di millenni, con la capacità di rendere le popolazioni non solo più fragili, ma addirittura barricate in trincee difensive, di scarsa apertura e solidarietà comunitaria.

La più importante medievista italiana, Chiara Frugoni (per anni titolare di cattedra nelle Università di Pisa, Roma, Parigi) nei suoi lavori ha sempre sottolineato come il contributo scientifico delle testimonianze scritte equivalga a quello delle arti figurative. Lo ha esemplificato nei recenti splendidi volumi editi da Il Mulino (Paradiso vista inferno e Uomini e animali nel Medioevo), in cui il repertorio iconografico a colori assume una preminente evidenza. Lo ribadisce anche nell’ultimo libro Paure medievali. Epidemie, prodigi, fine del tempo, dove la narrazione degli incubi di mille anni fa ¬ carestie, fame, morbi misteriosi, fantasmi, invasioni –, prodromo delle angosce contemporanee, è supportata da un ricco e coloratissimo catalogo di immagini, oltreché da un eccezionale repertorio di fonti letterarie e note bibliografiche.

Il primo capitolo del volume è doverosamente dedicato alla più temibile delle paure, quella dell’apocalissi annunciata dal Nuovo Testamento, che tuttavia non arrivò nell’anno Mille dopo Cristo, trascorso senza che nessuno dei cronisti coevi ne facesse cenno. Sembra infatti che gli storici di allora, in genere monaci amanuensi, fossero più interessati alla descrizione delle catastrofi naturali e dei fenomeni astronomici, piuttosto che alla scomparsa imminente del genere umano. Eclissi, stelle cadenti, sabbie rosse del Sahara, fulmini e lampi (assimilati visionariamente a draghi e serpenti, piogge di sangue, mostri marini), venivano letti come presagi di eventi negativi circoscritti: una guerra o la morte di un sovrano. Solo cinque secoli dopo alcuni tragici avvenimenti dell’inizio del millennio furono interpretati retrospettivamente come segnali allusivi alla fine del mondo. Addirittura, la suggestiva espressione “Mille e non più mille”, mai citata nei testi sacri, fu coniata da Carducci in un discorso patriottico degli inizi del 1900.

Nei primi secoli del nuovo millennio, più del terrore della fine del mondo prevaleva l’ansia individuale riguardo alla propria morte improvvisa, temuta perché non avrebbe concesso la possibilità di confessare i peccati ottenendone il perdono, con l’inevitabile successiva condanna all’inferno. A quell’epoca l’aldilà era suddiviso dualisticamente in paradiso e inferno (il primo destinato perlopiù a personaggi abbienti, nobili, illustri, e ai contadini che si salvavano in grazia della loro semplicità e laboriosità; il secondo a cavalieri, artigiani, mercanti, giullari, menzogneri e corrotti nei costumi).  Alla rappresentazione artistica di questi due regni, l’arte medievale dedicò capolavori di convincente finalità educativa. A esemplificazione di ciò, Chiara Frugoni descrive dettagliatamente per una ventina di pagine, con riscontro iconografico, i 124 personaggi che animano l’affresco del Giudizio Universale dell’abbazia francese di Conques, con la rigida e persuasiva separazione tra beati e dannati.

L’invenzione del purgatorio risale al XIII secolo, quando si andava diffondendo uno stile di vita più vivace, un’economia non di pura sussistenza, branche di studio indipendenti dalla teologia: l’esperienza terrena venne allora rivalutata, e non ritenuta passibile solo di premi o condanne definitive. Il purgatorio prolungava il tempo terreno anche nella memoria dei familiari, le cui preghiere potevano intercedere presso Dio per la salvezza del parente defunto. A questo affievolirsi del timore dell’inferno, subentrò la paura della morte come accadimento materiale, che implicava il disfacimento del corpo, la putrefazione della carne, la polverizzazione delle ossa: il gusto del macabro si diffuse negli affreschi e nelle miniature, con evidente scopo intimidatorio da parte della committenza ecclesiastica.

Non era solo la morte a produrre un tormento assillante: “La fame fu un’ossessione che accompagnò in maniera costante la società medievale, per una fragilità strutturale della sua organizzazione, delle tecniche agricole e per l’assenza di intervento dei poteri pubblici”. I raccolti erano scarsi, i terreni improduttivi, gli strumenti di legno inefficaci per dissodare la terra, le abitazioni inadeguate, la mortalità infantile altissima. Le cronache coeve riportano episodi frequenti e raccapriccianti di cannibalismo, di saccheggi, di violenze terribili contro donne e bambini. Il miraggio del cibo portò al diffondersi di leggende su elargizioni miracolose di pani, pesci e frutti, sull’esempio di episodi evangelici.

Anche la paura dello straniero, del diverso, di chi parlava lingue incomprensibili o manifestava costumi e usi insoliti, si propagò con deleterie conseguenze, prendendo di mira musulmani e soprattutto ebrei, ritenuti responsabili della crocefissione di Gesù. Su di loro si coagulò l’odio feroce dei cristiani a partire dalla prima crociata del 1096, quando all’avversione per gli infedeli lontani si affiancò l’intolleranza verso i giudei deicidi viventi in occidente. L’abate Pietro il Venerabile scriveva: “Non so proprio se l’ebreo sia da considerarsi un uomo perché non si piega alla ragione umana né all’autorità divina, ma riconosce solo leggi sue proprie”. Giudicati eretici, superbi, avidi, su di loro fiorirono leggende crudeli e accuse tremende, avallate anche da Padri della Chiesa e Pontefici. Altrettanto ostile era l’atteggiamento medievale nei confronti dei musulmani, supposti alleati di Satana, e derisi per il colore scuro della pelle, mentre il terrore per le invasioni dei mongoli e dei turchi paralizzava popoli e regnanti nell’intera Europa.

Razzismo, fanatismo religioso, intolleranza sopravvivono e imperversano anche nella nostra secolarizzata società contemporanea, a dimostrazione di quanto pregiudizi culturali e rancori sociali siano difficilmente sradicabili dalla psiche e dai comportamenti umani.

Ne sono un evidente esempio le ansie e i timori che coinvolgono da mesi il mondo intero, riguardo all’attuale pandemia del Covid-19. L’autrice dedica alla paura delle malattie gli ultimi due capitoli della sua approfondita ed appassionante ricerca, riservando un’attenzione particolare alla lebbra e alla peste. L’allarme provocato dalle epidemie produceva nell’economia delle nazioni e nel comportamento delle persone effetti simili a quelli cui assistiamo oggi: orrore del contagio, allentamento dei legami di solidarietà familiare, abbandono delle città e delle attività produttive, sepolture anonime e collettive, aumento dei disordini e delle rivolte popolari, diffidenza riguardo alle cure mediche, proliferare di superstizioni e credenze fallaci sull’origine del morbo.

“Gli uomini medievali, così lontani, così vicini”, conclude amaramente Chiara Frugoni, rimarcando: “Nel Medioevo si temeva il ritorno di Cristo che avrebbe distrutto il tempo e il mondo, ora siamo noi che minacciamo la vita del pianeta con la possibilità di un’esplosione nucleare, il devastante cambiamento climatico, la sovrappopolazione e le carestie”.

© Riproduzione riservata         «Gli Stati Generali», 4 gennaio 2021

 

 

 

 

 

 

RECENSIONI

CALAMARO

LUCIA CALAMARO, NOSTALGIA DI DIO – EINAUDI, TORINO 2020

L’editore Einaudi, che già in passato ha pubblicato testi teatrali di Lucia Calamaro, propone ora la sceneggiatura della pièce Nostalgia di Dio, presentata a Venezia nel corso della Biennale Teatro nell’estate del 2019, con regia dell’autrice.

Sul palcoscenico agiscono quattro personaggi, uniti tra loro da una rete di rapporti simbiotici e malati, tentando di districarli in una serie di dialoghi e monologhi esplorativi che in realtà finiscono per scavare più a fondo trincee difensive. Francesco e Cecilia sono divorziati, hanno due figli e mantengono una corretta familiarità, pur nella morsa di un’incombente nevrosi e nella diversità delle aspettative: lui (“dubbioso su tutto”) vorrebbe tornare a vivere con la moglie, lei (“antropologa, vitale”) anela a recuperare la propria indipendenza. Francesco ha due cari amici: Alfredo (“prete, esistenzialmente provato”), consacratosi al sacerdozio dopo aver interrotto una giovanile relazione con Cecilia, e Simona, insegnante single assillata dal desiderio di maternità.

Poche e usuali le azioni che movimentano la rappresentazione: una partita a tennis, una cena tra amici, un pellegrinaggio notturno attraverso le chiese di Roma. Intensa e conflittuale invece la dinamica delle relazioni che lega i protagonisti, spingendoli verso un oltre del pensiero, un aldilà della contingenza logistica e temporale, a un passato mitizzato dalla nostalgia e dal rimpianto, a un futuro utopistico e temuto, perché riconosciuto come irrealizzabile. I palleggi sul campo da tennis con cui si apre la prima scena sono un’evidente metafora delle battute (sincopate, ironiche, taglienti) scambiate tra i personaggi. I dialoghi riguardano il nulla, oppure argomenti di notevole spessore culturale: teologia, arte, società diventano terreno di confronto e critica tra i duellanti, o di autoanalisi nel tentativo vano di capire se stessi e gli altri.

Simona, complessata sia dalle sue titubanze affettive, sia dalla propria inadeguatezza intellettuale, si esibisce in discorsi para-filosofici (“lo penso sempre bambino questo nostro Dio…E se avesse avuto il tempo di crescere, Dio, se fosse diventato adulto, c’avrebbe creato? No, non credo proprio che c’avrebbe creato. Dio è rimasto bambino… noi siamo lo sfogo, il capriccio di un Dio bambino. Questo siamo”). Francesco non lesina frecciate rancorose e ricattatorie alla moglie: “Da quando ti sei separata, tu da me, tu, non io da te, sai cosa faccio io? Bevo e faccio sport, ma preferisco bere … Mi piace, mi stordisce. Qualcosa mi perdona quando bevo”). Cecilia è insoddisfatta e nevrotica, ossessionata da ogni rumore che avverte (“io ora sono diversa, ho un’altra dimensione, i pensieri miei, i mondi miei, sto studiando, sto cercando di arrivarci… Ci tengo enormemente al rumore delle cose, al rumore dell’altro, anche al vostro… questo brusio, questo scricchiolare delle sedie… ci tengo e lo cerco, mi interesso”). Il sacerdote Alfredo si interroga sull’inutilità della sua missione (“tutto il giorno fermo ad aspettare che il mondo venga a cercarmi, ma ultimamente il mondo non mi cerca più… Quella creatura lassù è scricchiolante, piena di tarli…. fatta di niente, solo di parole, che se ti c’appoggi traballa”).

Dopo le partitelle a tennis, anche la cena a quattro in casa di Cecilia si rivela occasione di reciproche accuse e ripicche, nella sottile analisi di Francesco: “Guardate che il fatto che tutto il nostro parlare, pensare, interagire sia, nel sottotesto, abitato da parole e quindi giudizi e senso di colpa cattolici non è anodino, qualcosa vorrà dire”. Infine, il pellegrinaggio “cattolico” serale proposto con disinvoltura da Don Alfredo (“Da quant’è che non si fa un po’ di sport tutti e quattro? È una cosa bella, fate finta che facciamo un’escursione tutti insieme, fa team building”), compiuto attraversando una Roma dissestata da buche e calcinacci, invasa da gatti randagi e sorci enormi, assume tratti più sarcastici che mistici persino all’interno delle sette chiese. La ricerca di Dio, di un dio padre-protettore-rifugio, sembra puro pretesto al bisogno di un tepore amicale, al desiderio di sentirsi amati anche nelle proprie fragilità, alla speranza di un nuovo inizio. I quattro protagonisti, consapevoli di non riuscire a evadere dal proprio ruolo, dal proprio ambiente “alto borghese rétro”, si provocano vicendevolmente nel tentativo di leggersi nell’anima, di stanarsi dai propri ripari emotivi, o semplicemente di stringersi affettuosamente in una solidarietà sognata e temuta. Urla, litigi, abbracci, fantasie, imprecazioni e carezze, come in una normale famiglia allargata, rimangono l’unica maniera si sentirsi partecipi ed essenziali nella vita altrui.

 

https://www.sololibri.net/Nostalgia-di-Dio-Calamaro.html

© Riproduzione riservata         16 dicembre 2020

 

 

 

 

 

RECENSIONI

REVELLI

MARCO REVELLI, UMANO INUMANO POSTUMANO – EINAUDI, TORINO 2020

Tra un Prologo inquietante (Il virus del disumano) e un Epilogo sgomentato (Finis terrae), Marco Revelli racchiude i nove densi capitoli del suo saggio Umano Inumano Postumano, costernata riflessione sulla nostra contemporaneità, così come si è andata trasformando dalle ceneri di un tragico passato novecentesco, e un futuro che si prospetta complesso e allarmante.

Revelli (Cuneo 1947), storico, accademico, attivista politico, ha al suo attivo molti importanti volumi di analisi e denuncia dello stato attuale della società italiana. In questo ultimo lavoro prende le mosse da alcune considerazioni relative al concetto di umanità, termine introdotto a Roma nel I secolo a.C. sul modello della philantropia greca, atteggiamento di benevola e rispettosa attenzione verso i propri simili, e strumento essenziale nella costruzione della convivenza civile. Ideali sostenuti e diffusi negli scritti di Terenzio, Plauto, Cicerone, che penetrarono nelle coscienze delle popolazioni europee insieme a una nuova idea di umanesimo, inteso come valore specifico, indipendente sia dal divino sia dal naturale, condiviso già dal primo Cristianesimo, e poi dal Rinascimento e dall’ Illuminismo. Secondo Revelli, questa fede nell’umanesimo si è infranta meno di un secolo fa, con il nazismo e lo scandalo di Auschwitz: “Il luogo in cui la lunga vicenda del pensiero occidentale ha subito la propria catastrofica lacerazione con l’irruzione massificata del disumano nell’umano”, quando l’uomo ha potuto essere considerato nulla per l’altro uomo. Tale dis-umanità è la stessa espressa dal feroce spettacolo, protratto quotidianamente da anni, della morte in massa dei migranti nei nostri mari, “osservato dapprima con pena poi sempre più con disattenzione, assuefazione, fastidio infine, e persino odio”.

In alcune figure emblematiche della cultura europea tra la fine del 1400 e il 1600 (Hieronymus Bosch, Amleto, Don Chisciotte, Giordano Bruno), Marco Revelli ravvisa i sintomi della prima grave rottura dell’armonia classica, con l’avvento di una crisi spirituale determinata dalle nuove istanze religiose della Riforma, dalle rivoluzionarie scoperte scientifiche, dal dilatarsi dei confini terrestri.

La modernità si affaccia in un mondo non più interpretabile secondo i parametri culturali del passato, e sempre più sconvolto dallo sgretolarsi di certezze rassicuranti sul ruolo dell’individuo nella società, nella storia e nell’universo. Tra ’600 e ’700 si impone un nuovo principio d’ordine, dettato dal concetto di Sovranità inteso come potere assoluto, a cui il suddito si assoggetta volontariamente, e con timore, per pura necessità di sopravvivenza. Il potere si giustifica da solo nella sua dimensione statuale, secondo il fondamento teologico-politico che assume il male e la violenza come instrumentum regni per mantenere l’unità, utilizzando la paura dei cittadini per assicurarsene la fedeltà.

In questa sua particolare e talvolta discutibile ricostruzione storica, Revelli pone molta attenzione alle espressioni artistiche che hanno accompagnato evoluzioni e involuzioni sociali, adeguandosi non solo agli umori popolari, ma soprattutto alle esigenze delle classi dominanti.

Se per due secoli e mezzo la vita quotidiana si è svolta ubbidientemente “sotto l’ombrello della Spada e della Legge” (ma come non considerare il principio libertario dell’Illuminismo, della rivoluzione Francese, delle lotte risorgimentali?), con il passaggio dalla Monarchia assoluta a quella costituzionale e poi allo Stato liberale rappresentativo, secondo l’autore torna a prevalere la difesa del vantaggio individuale rispetto a quello della collettività. Dopo il crollo delle fedi religiose, dopo la morte di Dio, anche la morte del prossimo sottolinea la fondamentale solitudine, verticale e orizzontale, dell’uomo.

Nel Novecento, con la strage industrializzata della Grande Guerra, e poi con i lager nazisti, l’inumano riprende a dominare lo spirito del tempo, dilagando senza freni spirituali. Le guerre mondiali e il nazismo certificano “la progressiva desertificazione del paesaggio interiore, l’abbattimento inarrestabile degli strati di civilizzazione sedimentati nei secoli fino a raggiungere l’osso di un’elementarità crudele, da branco predatore”. L’umano si fa disumano nell’esibita indifferenza per l’altro da sé, negli ultimi decenni divenuta ancora più manifesta soprattutto verso gli strati poveri e fragili della popolazione. Un’insensibilità nemmeno più giustificata da ragioni ideologiche, ma solo dalla corsa competitiva verso l’utile, per cui la persona viene considerata puro soggetto economico. Verità divenuta tanto più evidente con lo scoppio della pandemia, quando molti governi hanno cercato di salvaguardare più che la salute dei cittadini, gli interessi finanziari e industriali delle nazioni.

Nelle pagine dedicate alla tragedia del Covid, al Revelli storico si sovrappone l’attivista politico, il giornalista impegnato nella denuncia. Sono i capitoli più convincenti del volume, quelli in cui l’autore si interroga sull’attualità, confrontando dati, citando testimonianze, elencando statistiche e riferimenti bibliografici, offrendo un ricco apparato di note. La sua indignazione si fa palpabile nel constatare che esiste una parte dell’umanità esclusa dal trattamento sanitario sulla base dell’età, dello stato sociale, delle condizioni fisiche: la terapia intensiva garantita dai macchinari dimostra quanto la civiltà contemporanea sia più dipendente dal denaro e dalla tecnologia che dall’etica.

Ecco allora che il passaggio dall’Umano all’Inumano si estremizza ulteriormente nell’approdare al Postumano, lungo un percorso che ha declassato l’uomo dalla posizione di centralità, unicità e autosufficienza occupata nell’Umanesimo, rendendolo quasi l’appendice di sofisticate strumentazioni meccaniche. Assediata da biotecnologie, neuroscienze, machine learning, nanobionica, ingegneria genetica, cyborg, nel futuro prossimo l’umanità sarà destinata a compiere un doppio salto di specie: verso l’alto (in una posizione simil-divina, creatrice di vita in laboratorio) e verso il basso, diventando un manufatto artificiale: costruito, riparato, sostituito anche nelle mansioni intellettuali.

Come genere umano, stiamo forse pagando un peccato di superbia, avendo preteso di ergerci a dominatori trionfanti dell’universo intero, e l’attuale crisi del soggetto ci riduce all’insignificanza che meritiamo, laddove “le cose si personalizzano mentre le persone si reificano”, oggetti tra gli oggetti. In conclusione di un quadro tanto pessimistico, Marco Revelli indica l’unica possibile via di salvezza nell’esortazione suggerita da papa Francesco nella sua rivoluzionaria enciclica Laudato si’, ad abitare responsabilmente la terra di cui ci siamo ritenuti padroni assoluti, sfruttandola e violentandola, e a ritrovare una pacifica collaborazione non solo tra individui, ma con tutte le altre specie viventi e con l’ambiente che per millenni ha sopportato i nostri soprusi.

 

© Riproduzione riservata         «Gli Stati Generali», 14 dicembre 2020

 

 

RACCONTI

TU SÌ CHE VALI

Adesso voglio raccontare esattamente come tutto è successo. Non a voi, eventuali morbosi lettori, di cui non mi importa niente. Nemmeno a lei, o a lui, o a me stesso (io, conosco già anche troppo bene quello che è accaduto, in me e fuori di me). Diciamo ai posteri, o a un qualsiasi inquisitore che volesse indagare su colpe e responsabilità, mantenendosi fedele a una glaciale e imperturbabile valutazione dei fatti.

Dunque mi chiamo: Guido. Dunque ho: 29 anni. Lei, la mia lei, si chiama Valeria. Ha 31 anni. Lui (il mio lui, il suo lui) si chiama Giorgio. Ha 36 anni. Questi gli imprescindibili presupposti.

Conosco Valeria da quindici anni. Sì, ero piccolo: di statura e di età. Poi, ovviamente sono cresciuto: in statura e in età. Non so se in sapienza e grazia, come pare sia capitato a Gesù; forse no. Adesso, comunque, sono alto 1,83. E ho, appunto, 29 anni. Lei, Valeria, è alta circa 1,70. E ha sempre due anni più di me. Continua anche a essere bella come quando l’ho incontrata. Dolce e caparbia, futile e geniale. Vale, come il suo nome: una per cui vale la pena. Soffrire, tacere.

Ho sofferto, ho taciuto. Per tutto questo tempo. Quando l’ho vista per la prima volta, stava appoggiata di schiena a un termosifone del corridoio della nostra scuola: ero salito al piano superiore delle classi liceali, io che frequentavo la sezione C della quarta ginnasio, per portare un registro al nostro professore di latino impegnato in una supplenza. Lei era lì, asciutta e seria e sola, i capelli sciolti sulle spalle, una gonnellina corta a mostrare le gambe magre. Mordicchiava una penna, sembrava immersa in lontane riflessioni. Bellissima. Mi rivolse sguardo e parola: “Dove stai andando, così di corsa?” Mi bloccai, due metri di fronte al suo corpo, come fossero tre centimetri o un chilometro, il fiato sospeso. Feci cenno al registro, “Prima B”, risposi a voce bassa. “È la mia classe odiosa”, fece lei. Ripresi a camminare come un automa. Bussai alla porta indicata, consegnai il registro, mentre tanti occhi di ragazzi e ragazze più grandi mi osservavano annoiati.

Allora ero timido; anche adesso, un po’. Ma da piccolo timido, complessato, emotivo, ansioso. Richiusi la porta della I B, tornai sui miei passi, sbirciandola sempre ferma appoggiata al termosifone. “Come ti chiami?”, mi domandò: chissà da che mancanza di curiosità spinta. “Guido”, risposi. Confuso, abbassando la testa. “Ah. Mai conosciuto un Guido prima. Io Valeria, in pratica Vale”. “Ciao”, e mi misi a correre verso la mia salvezza di ginnasio.

“In pratica Vale” mi rimase in testa per mesi, e non solo in testa. La cercavo nel cortile grande durante la ricreazione, la spiavo tra i compagni all’entrata e all’uscita delle lezioni, arrivavo a seguirla nel vialone trafficato che portava in centro città: cauto e sospettoso come un detective di provincia, muto e felpato. Non se ne accorgeva, credo. La pensavo tanto prima di dormire, troppo appena sveglio, felice come un pettirosso che saluta il mattino in primavera. Perché l’avrei rivista, in lontananza dapprima, spingendomi poi il più possibile accanto a lei nella calca degli studenti davanti al cancello della scuola. Speravo di annusare il suo profumo. Ma non mi sembra ne avesse uno di particolare.

Il mio innamoramento silenzioso durava, tenace. Il mio pedinamento che ritenevo inosservato pure. Un giorno d’improvviso successe qualcosa: un prodigio. Ero passato legittimamente al piano di sopra, frequentando con eccezionale bravura il primo anno di liceo. Avevo anche già baciato, una giovinetta insipida mia vicina di casa, di nome Gloria. Lei, in pratica Vale, era all’ultimo anno (III B), prossima all’esame di maturità. Prossima anche ad essere da me persa, dopo l’estate. Magari si sarebbe iscritta in un’università lontana, o addirittura all’estero. La contemplavo con discreta devozione, sempre vagheggiando si accorgesse del mio sguardo, accompagnato da un sorriso mite, meritevole di un suo avvicinamento. Che ci fu.

Quell’aprile di un giovedì santo (santissimo, davvero, e benedetto!) si voltò brusca appena sfiorata dal mio gomito, riconoscendomi mentre mi profondevo in mille scuse: “Guido, vero? Ricordo bene? Sei cresciuto, sei diventato molto più alto di me!”. Mi sembrò un complimento, forse voleva lo fosse. Poi si era eclissata, nella massa vociante beota dei compagni che si precipitavano giù dalle scale.

Tempo dopo, quasi estate, rivedendola sola che fumava una sigaretta in cortile, mi avvicinai temerariamente spavaldo: “Emozionata per l’esame?”, le chiesi. “No. Preparata”, rispose convinta. “Felicissima di lasciare questo liceo di barbari. Di gente inutile”. Inutili e barbari, dunque. Così ci vedeva. Anche me? (tremai). “Mi iscrivo ad Architettura, al Politecnico”, continuò, non richiesta.   Era un amo, un’esca, una pista da seguire, quella che mi indicava? Pollicino, le briciole. “Interessante”, commentai, io che vagheggiavo di diventare astrofisico.

Fu quella l’ultima volta che le parlai, all’interno dei muri della nostra scuola che avevano visto nascere il mio amore, e l’avevano protetto, tenuto al sicuro. Ovviamente, finite le superiori, mi iscrissi ad Architettura, al Politecnico. Non avevo più visto la faccia bella di lei, se non in sogno, ma non avevo smesso di pensarla. La scelta della facoltà aveva stupito tutti, in famiglia, visto che dall’adolescenza avevo sbandierato ovunque la mia passione per il firmamento. Ma è lecito cambiare idea, no? Soprattutto se vale la pena. “In pratica Vale” valeva la pena: la mia stella luminosa, la mia Betelgeuse privatissima.

La incontrai appena iniziate le lezioni, perché mi iscrissi subito al corso di Scienza delle costruzioni del terzo anno. Fu stupita, riconoscendomi nel banco dietro al suo, in classe. “Tu qui?”, chiese a voce bassa, voltandosi e appoggiando il mento sulla spalla. Dio, il suo profilo! Il naso, la bocca, i capelli castani raccolti in una morbida onda sulla schiena. Glieli sfiorai con le dita. “Sì, e mi chiamo Guido”. “Me lo ricordo, lo so. Bel nome, diverso dai soliti. Sei strano anche tu, pare. Un genio, passato per chiara fama dal terzo anno di liceo classico al terzo anno di università…”. Sorrise, ironica o lusingata. Non risposi. Dovevo invece sussurrare, tenero e deciso, che avrei superato con lode ogni astrusità di esame solo per starle vicino, per ascoltarla dire poche parole tutte per me: ma si era già voltata verso la cattedra per seguire la lezione, e il cuore mi batteva, la voce mi mancava. “Per te, ho scelto architettura”, volevo confessarle, “mia strada, chiesa, ponte e grattacielo, Valeria”. Non osai. Rimasi in silenzio.

Procedeva spedita negli esami, lei, senza infamia e senza lode, ma superandoli con disinvoltura. Io invece mi incagliai subito, a ogni appello mi ripresentavo con accresciuta titubanza. Quando ci incontravamo (molto spesso; a lezione, al bar, in biblioteca: prevedevo e precedevo ogni suo spostamento), ci scambiavamo vicendevoli notizie sui reciproci successi e fallimenti scolastici. Un pomeriggio, dopo aver saputo della mia ennesima bocciatura in Matematica, mi chiese come mai, dagli eccezionali risultati liceali fossi piombato in catalessi architettonica. “Sono troppo innamorato”, osai confessarle. “Della tua ragazza?” domandò sorella confidente. “No, di quella no. Di un’altra”. “Anch’io”, scoppiò a ridere. Seppi poi che aveva lasciato il fidanzato storico per mettersi con uno già laureato in ingegneria, folgorata da un colpo di fulmine. Me ne parlava con trasporto alato, fervidamente gioioso. Cominciò a prendermi in giro, scherzando mi chiamava “l’incompiuto”, alludendo al mio indeciso procedere, nei sentimenti e negli studi. Balbettavo, sprofondando nella mia frustrata incompiutezza.

“Ma lo sai, vero? L’hai sempre saputo che sei tu il mio inciampo, il gradino che non riesco a superare, la rete in cui mi incaglio. E insieme torre, nuvola, aquilone: mi alzi in vetta, e intorno tutto si fa piccolo, inessenziale. Inferno e paradiso, condanna e premio, mio purgatorio perenne: perché non riesco a liberarmi da te, chiodo fisso, termine di confronto assoluto? Davanti a cui qualsiasi altra persona mi appare sbiadita, qualsiasi donna banale, qualsiasi conversazione noiosa. Eppure, non dici niente di speciale, non fai nulla di coinvolgente, non hai vinto nessun concorso di bellezza. Stai lì ferma, mordicchi la penna, parli a scatti: poi magari sorridi, inattesa dolcissima, e mi sciogli; alzi una spalla svogliata e mi scaraventi in un baratro; mi telefoni per raccontarmi idiozie e ti assorbo impregnandomi spugna assetata. Ti respiro nell’aria, maledizione che mi tormenti, e non riesco a concludere il minimo quotidiano impegno. Se ti incontro per caso svoltando un angolo mi paralizzo, e tu alzi gli occhi al cielo (ancora qui, continuamente qui, mi stai seguendo, mi sfibri, lasciami in pace…). Eccomi allora affranto, disutile, incompiuto come mi chiami: amorosa. Lo sarò sempre. Mi mancherai sempre. Ti vorrò bene sempre”.

Questo mi proponevo di dirle, ogni volta che la vedevo, ogni volta che la cercavo sul cellulare. Non ci sono mai riuscito. Ma lei capiva, comunque: aveva capito già dal nostro primo incontro. Ne era un po’ imbarazzata, un po’ addolorata, un po’ compiaciuta.

Nei primi giorni dell’autunno successivo, iscritto vanamente e illusoriamente al secondo anno di corso, mi imbattei in loro due allacciati stretti: un fiero colpo nel distinguere in lontananza lei da dietro, lui al suo fianco che le parlava affettuoso, braccia intrecciate intorno alla cintura, passo placidamente abbandonato. Oh, lui lo conoscevo bene! Era dunque “quel” Giorgio, proprio “quel” Giorgio… Sapevo anche troppo su di lui, io incompleto, lui perfetto. Quindi, l’aveva conquistata, Giorgio. Ci era riuscito, a differenza di me. Esercitando quali arti, mi chiedevo e gli chiedevo mentalmente, Giorgio? Non provavo invidia, né rabbia. Solo rassegnata consapevolezza della mia scarsa abilità seduttiva, della mia irrimediabile piattezza adescatrice. Però ero più alto di lui, più fine nei lineamenti del viso, più vigile nello sguardo, nelle mani nervose. Allora perché non hai scelto me, Valeria adorata: perché?

“In pratica Vale” riuscì a laurearsi nei tempi previsti. Ero presente alla discussione della tesi. C’era anche lui. Appena proclamata Dottore in Architettura con la votazione di 104 su 110, lei si precipitò ad abbracciarlo e lui la fece ruotare sollevandola come fosse una bambina: intorno applausi, risate, urrah. Io zitto, trafitto da una spina nella gola. Zitto, in disparte, abbattuto, per tutti gli anni del loro fidanzamento.

Mi distraevo uscendo con ragazze diverse, sconfortanti nella loro inadeguatezza: pensavo che si adattassero alla mia mediocrità, sapendole mediocri. Come sostituire lei, infatti, anche solo in sogno? Ma nel fondo più profondo di ogni fantasia, continuavo ad accarezzare l’ipotesi di una qualche imprevedibile circostanza capace di allontanare Giorgio da ogni orizzonte. Con franchezza infantile lo ripetevo a me stesso e a lei: “Valeria, io aspetto”. I miracoli accadono, a volte.

Avevo abbandonato l’università, mi ero impiegato in un’agenzia immobiliare. I genitori rimproveranti delusi insistevano perché riprendessi gli studi, non rassegnandosi a un figlio incompiuto. Così decisi di lasciare la casa paterna, trasferendomi in un bilocale arredato, anonimamente moderno e funzionale. Mia mamma veniva a rifornirmi di pietanze surgelate e a mettere un po’ d’ordine ogni settimana, io conducevo una vita da single annoiato poco gaudente, in tormentata attesa delle telefonate confidenziali di Vale, a cui prestavo un orecchio fraterno, comprensivo, solidale. Il miglior amico, almeno, l’amico del cuore, aspiravo a essere. Forse qualcosa cambierà, mi dicevo.

Infatti qualcosa cambiò. Una sera mi annunciò eccitata che con Giorgio stavano programmando le nozze. In municipio e in chiesa. Con tanti invitati. Mi avrebbe voluto come testimone. Non ero il suo amico più caro?

“Ci sarò, amata. Sarò lì, elegante e discreto accanto a voi, a firmare un registro e la mia condanna. Ti guarderò pronunciare tremante una promessa che vuol dire per sempre. Ti vedrò mentre un altro che non sono io ti infila un anello al dito. Ti accompagnerò sul sagrato della chiesa, quando lui ti bacerà e intorno amici e parenti festanti applaudiranno e getteranno manciate di riso sui vostri vestiti nuziali, sul tuo velo bianco. Verrò immortalato anch’io, nelle fotografie che scatteranno: alle vostre spalle, con lo sguardo fisso su di te che mai potrai essere mia. Cercherò di sorridere, da buon amico e partecipe testimone. Non se ci riuscirò”.

Dopo il matrimonio, le sue telefonate si fecero più rade, e sbrigative. Mi aggiornava sull’arredamento della casa, sui progetti di vacanza, su problemi e soddisfazioni professionali. Fui invitato anche a cena, qualche volta, ma mi sentivo rigido e intimidito, soppesato con indulgente superiorità dal marito, con affettuosa benevolenza da lei. Una domenica, molti mesi dopo, mi annunciò al telefono di essere incinta. “Ho aspettato a darti la notizia perché volevo essere sicura che tutto procedesse bene. Conosciamo anche il sesso, ora. È un maschio”.

Il muro si alza ancora di più, pensai. Finsi entusiasmo. Mi congratulai. “Avete già scelto il nome?” chiesi, per nulla incuriosito. “Ho proposto Guido. Mi piace, non si dà quasi più”. Ecco, pensai, un piccolo Guido da crescere in dipendenza. “Tuo marito cos’ha detto?” Valeria, in pratica e divertita, gorgogliò un’allegra risata di gola. “Ha detto, perché come mio fratello? Vuoi proprio un altro incompiuto in famiglia?”

 

«Gli Stati Generali», 13 dicembre 2020