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RECENSIONI

NACCI

BRUNO NACCI, DESTINI. LA FATALITÀ DEL MALE – ARES, MILANO 2020

Bruno Nacci è un noto e stimato romanziere, saggista, traduttore, consulente editoriale: nel suo ultimo libro pubblicato da Ares (Destini. La fatalità del male) utilizza la forma del racconto per confrontarsi con temi di elevato spessore morale e di spinosa complessità. Indaga infatti l’origine, le motivazioni, le finalità dell’agire criminale attraverso la vita di cinque personaggi appartenuti a diverse epoche storiche, che si sono macchiati di gravi colpe nei confronti dell’umanità, cedendo a impulsi malvagi o al fascino della trasgressione. I destini di Hitler e Pol Pot, del generale vietnamita Nguyen Ngoc Loan, dell’architetto del Führer Albert Speer e di Seneca assurgono nella narrazione di Nacci a emblema del male, di cui non si sottolinea più la banalità ravvisata da Hannah Arendt, quanto invece la fatalità. Fatali infatti risultano le scelte dei protagonisti, che li hanno condotti in un vortice incontrollabile di eventi efferati, con conseguenze devastanti.

I cinque racconti, frutto di immaginazione per quanto riguarda la descrizione accurata ed elegante di ambienti e personaggi, prendono spunto da dati storici concreti. L’episodio iniziale è ambientato a Burke, cittadina della Virginia, dove l’affabile e mite sessantenne asiatico Loan ha aperto da una decina d’anni un ristorante ben frequentato. La fortuita pubblicazione da parte di un quotidiano locale della storica foto che lo ritraeva nella feroce esecuzione di un prigioniero in una strada di Saigon, riporta a galla il suo passato di generale aguzzino al servizio dell’esercito vietnamita. Il reporter americano E.A., divenuto celebre e ricco come autore dell’istantanea premiata con il Pulitzer, pentito della risonanza mondiale avuta dallo scatto, raggiunge Nguyen Ngoc Loan nel suo locale per comunicargli di aver scritto un articolo sul Time nel vano tentativo di riabilitare la sua figura di militare, travolto dal tumulto di una guerra orribile e crudele. Il male, in questo caso, è ascrivibile sia all’assassino, sia all’ucciso che si era macchiato di truci violenze, sia allo spregiudicato giornalista, come pure al disumano teatro del conflitto e alla stessa fotografia, “perché non c’è niente di più ambiguo e più ingiusto che voler fermare il tempo illudendo chi non c’era di poter essere testimone di quanto non esiste più o non è mai esistito”.

Se il primo racconto del libro di Nacci ci riporta a un periodo tragico ancora abbastanza vicino a noi, l’ultimo tratteggia in maniera singolare e inaspettata la figura del filosofo Seneca, rivelandone aspetti caratteriali poco noti e insospettabili. Prima di suicidarsi, nelle ultime lettere in cui prende congedo da amici e nemici, ma soprattutto da se stesso, Seneca confessa i suoi molti peccati di ambizione, orgoglio, astuzia, lussuria, calcolo e codardia, assolvendosi tuttavia per il fatto di aver dovuto occupare una “posizione a un passo dal male assoluto, condividendone ogni responsabilità pur di alleviarne le conseguenze più gravi che ricadono su chi non ha armi o scudi con cui difendersi”. Riconosce di aver preferito “diventare ciò che detestava nel nome del bene comune, invece di detestare ciò che non era diventato”. Si era asservito a Nerone, “un buffone” di cui forse era stato, oltre che maestro e consigliere, addirittura il padre carnale.

Negli altri racconti che esplorano l’abisso dell’animo umano, Bruno Nacci indaga la propensione al male di tre personaggi “dannati”, in un periodo della loro esistenza lontana dall’esercizio effettivo del potere. Così il sanguinario despota cambogiano Pol Pot, durante gli anni universitari alla Sorbona era un promettente calciatore, “ingenuo, cordiale, gentile e simpatico… mite, giocoso e servizievole”, sensibile al fascino della poesia e della musica classica, prima di aderire agli ideali rivoluzionari che l’avrebbero trasformato in un mostro spietato. L’architetto nazista Albert Speer aveva percorso 31.940 chilometri in dodici anni di prigionia, camminando ossessivamente nel cortile del carcere di Spandau e immaginando di viaggiare da un continente all’altro, per distrarsi dal ricordo delle colpe commesse come ministro della guerra. Il più malefico dittatore del XX secolo, Adolf Hitler, da giovane dormiva in un rifugio per senzatetto, dipingendo e vendendo cartoline illustrate per poter assistere agli spettacoli dell’Opera: alla raffinatezza della passione per la lirica affiancava la rozza volgarità dei discorsi antisemiti con cui intratteneva gli ospiti del ricovero.

Vite di chi non ha saputo o voluto sottrarsi al male, che ci ricordano quanto ogni destino umano sia esposto alla tentazione di una scelta scellerata, gravida di effetti penosi e angoscianti per tutti.

 

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9 dicembre 2020

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

INTERVISTE

NACCI

INTERVISTA AL PROFESSOR BRUNO NACCI

Bruno Nacci ha curato classici della letteratura francese, si è occupato in particolare di Blaise Pascal, di cui ha scritto il saggio biografico La quarta vigilia. Gli ultimi anni di Blaise Pascal (La Scuola di Pitagora, 2014). Ha scritto il noir storico L’assassinio della Signora di Praslin (Archinto, 2000), cronaca di un fatto di sangue che sconvolse l’aristocrazia parigina nella prima metà dell’Ottocento. Con Laura Bosio ha scritto i romanzi storici Per seguire la mia stella (Guanda, 2017), sulla vita della poetessa lucchese del Cinquecento Chiara Matraini, e La casa degli uccelli (Guanda, 2020), che racconta un fosco episodio avvenuto durante la Rivoluzione francese nel periodo del Grande Terrore. Ha pubblicato le raccolte di racconti La vita a pezzi (Solfanelli, 2018) e Dopo l’innocenza (Solfanelli, 2019), tranches de vie di inquiete solitudini urbane. Da fine settembre è in libreria con Destini. La fatalità del male (Ares, 2020).

  • Attraverso quale percorso di studi è arrivato a occuparsi di letteratura e in che modo l’ambiente familiare e sociale in cui è cresciuto ha assecondato i suoi interessi culturali?

Come molti, sono sempre stato attratto dalla letteratura fin da bambino, quando passavo interi pomeriggi ad ascoltare racconti recitati alla radio e poi li ripetevo a mia mamma. E ho trascorso ogni momento libero a leggere. Ecc. Niente di particolarmente originale. In casa mia non c’erano libri, o pochissimi. Ma mio padre ha sempre assecondato la mia inclinazione prendendo in prestito presso la società in cui lavorava le serie di Salgari. Anche in questo, credo di avere avuto una precoce attrazione per la letteratura, ma non poi così rara.

  • Quali autori hanno avuto un ruolo preponderante nel plasmare la sua disposizione intellettuale ed etica?

La letteratura greca ha avuto un peso predominante, e in seguito i grandi pensatori da Montaigne a Leopardi. Ho amato gli scrittori russi e francesi, che mi aprivano la mente sui temi dell’esistenza ma lasciavano anche trasparire l’esistenza di altri mondi, oltre a quello piccolo borghese in cui ero nato.

  • Cosa le ha lasciato in eredità la sua lunga esperienza di insegnante? Come giudica lo stato attuale delle istituzioni scolastiche italiane?

Sarebbe meglio chiedere se ho lasciato in eredità qualcosa io ai miei studenti… Ma sì, al di là delle banalità che si possono dire al proposito, credo di essermi fatto degli amici devoti nel corso degli anni. Ho sempre considerato la scuola come un luogo di amicizia, senza inutili confusioni di ruoli. Non voglio giudicare la scuola di oggi. Invecchiando si contrae una brutta malattia, che consiste nel cogliere del presente solo gli aspetti negativi paragonandoli a quelli positivi del passato. Finché ci saranno giovani e adulti che si occupano di loro, la scuola sarà sempre la scuola, cambieranno i modi, le leggi, i regolamenti, ma… Per il resto, gli incapaci c’erano una volta e ci sono anche adesso. Auguro a ogni ragazzo di trovare sulla sua strada un autentico maestro, come è capitato a me, che è il bene più prezioso che si possa desiderare.

  • In un volume del 2014 ha compiuto un’indagine sul carattere degli italiani, aldilà degli stereotipi e delle retoriche. Nel periodo difficile che stiamo vivendo, il suo giudizio sul nostro paese rimane ancora sostanzialmente positivo? E vale anche per ciò che riguarda la politica, la cultura, l’universo dei media?

Allora, con Laura Bosio, avevamo cercato di dare voce, dall’unità a oggi, all’Italia nascosta, quella che non ruba, che non vive di esibizioni pacchiane, il contraltare insomma dell’italiano furbo e cialtrone reso magistralmente da Alberto Sordi e tanti altri registi e attori della commedia all’italiana. Quell’Italia c’è, l’altra Italia appunto. Fatta di serietà, buon senso, capacità di guardare in modo costruttivo al bene comune. Se così non fosse, il nostro paese sarebbe scomparso da tempo. Purtroppo l’avvento dei cosiddetti social, la presenza ossessiva della televisione anche come veicolo di prodotti che vengono da lontano, e un certo degrado dei costumi, non in senso moralistico, ma morale, appanna lo sforzo di chi sa mantenere la schiena diritta e cercare soluzioni positive. Faccio mia la riflessione di Musil, secondo cui la differenza tra il mondo di ieri e quello di oggi non consiste nel fatto che in quello di ieri ci fossero meno stupidi che in quello di oggi, ma che un tempo a nessuno sarebbe venuto in mente di dire che uno stupido è una persona intelligente o di valore.

  • Nel passare dalla traduzione e curatela di classici alla scrittura personale, quali difficoltà o supporti ha trovato?

La domanda avrebbe senso se io avessi effettivamente seguito un percorso cronologico. Ma così non è. Ho sempre affiancato al lavoro letterario e editoriale la ricerca della scrittura, le due passioni sono andate parallelamente. Però è vero che la traduzione, in particolare, mi ha insegnato molte cose. Seguire passo passo i grandi scrittori, significa affinare la capacità di esprimere con precisione l’esperienza e i sentimenti, con la massima sobrietà. Ciò che mi colpiva e mi colpisce ancora, è l’economia di mezzi espressivi dei maestri. Non so bene cosa sia lo stile, ma ciascuno di loro trova la sua strada nel rigore e nel controllo assoluto della lingua, che vuol dire poi anche del pensiero.

  • Il suo ultimo libro affronta il problema del male nelle sue origini, scopi, conseguenze. Si tratta di un tema che ricorre anche in altre sue opere di narrativa? Unde malum, si chiedeva Agostino. E potremmo aggiungere, cur malum? A questa domanda che l’umanità si pone da sempre è riuscito a dare una risposta che esuli dal campo strettamente religioso?

 

Non ho alcuna pretesa di dare una risposta chiara ed esaustiva. Sia in La vita a pezzi che in Dopo l’innocenza, le precedenti raccolte di racconti, mi sono sforzato di comporre una specie di fenomenologia quotidiana del male, descrivendolo nelle minime pieghe di vite comuni, del tutto anonime. In quest’ultima raccolta ho scelto invece di prendere esempi grandi, noti, perché, come osservava Platone, nelle cose grandi puoi vedere meglio riflesse quelle piccole. E soprattutto volevo accostare il male senza attribuirlo a forze misteriose o che per lo più non ci riguardano, come la follia o la perversione. Parlando di grandi malvagi, prima o dopo il tempo in cui si distinsero per i loro crimini, volevo alludere al fatto che non esistono mostri, e che ciascuno corre costantemente il rischio di diventare come loro.

© Riproduzione riservata      9 dicembre 2020

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RECENSIONI

LAFORGUE

JULES LAFORGUE, ULTIMI VERSI – MARCO SAYA EDITORE, MILANO 2020

Jules Laforgue, nato a Montevideo nel 1860 da una famiglia di origine bretone, morì ventisettenne di tubercolosi a Parigi. In vita fu poco compreso, o comunque sminuito nel suo valore letterario, dai poeti francesi che avevano fatto della trasgressione antiborghese la loro cifra stilistica innovativa. Furono gli americani Ezra Pound e T.S. Eliot, arrivati in Europa ai primi del Novecento, a rivalutare il timido e malinconico cantore dei paesaggi notturni, intuendo la novità insita nel ritmo eterogeneo dei suoi versi e nei timbri inconsueti, ironici o inteneriti, popolareggianti o colti.

L’editore milanese Marco Saya (che azzardo, oggi, pubblicare esclusivamente libri di poesia, curati nella grafica ed eleganti nelle copertine, scommettendo sulla fedeltà di pochi e scelti lettori!) propone ora i suoi Ultimi versi, usciti postumi nel 1890, a cura di Francesca Del Moro con postfazione di Fabio Regattin.

Nelle dieci canzoni che compongono il volume, specialmente ne L’ inverno che viene e in Assolo di Luna, Laforgue si cimentava in uno stile pionieristico, di ampio respiro, musicalmente liberante, ricco di sonorità nitide, richiamandosi in parte al verso lungo di Walt Whitman, che era stato il primo a tradurre in Francia. Attilio Bertolucci, in un articolo del 1986, ne consigliava la lettura agli aspiranti poeti nostrani, indicandola come “un’esperienza tonificante”. Il giovane Jules era consapevolmente orgoglioso di essere un precursore, difficilmente associabile alla produzione coeva dei letterati parigini, secondo quanto scrisse in Simple Agonie alludendo a se stesso: “Venuto troppo presto, ripartì senza scalpore”.

Nella sua appassionata introduzione, Francesca Del Moro – dopo l’accurata ricostruzione biografica – offre al lettore una chiave interpretativa della poesia laforgueiana non solo situandola cronologicamente nel cupo periodo della repressione della Comune, ma anche analizzando la linfa intellettuale di cui si era nutrita, in una cultura allora dominata dal determinismo storico, dall’evoluzionismo darwiniano, dal naturalismo in letteratura e dall’impressionismo in pittura. Un crogiolo di nuove idee e di sperimentazioni formali, in cui Jules Laforgue cercò tenacemente un proprio originale percorso, alimentato da un’angoscia esistenziale acutamente trasformata in elegante e arguto umorismo. Gli interessi scientifici e filosofici lo orientavano verso un pessimismo cosmico che investiva qualsiasi aspetto delle relazioni umane, comprese quelle sessuali. Del proprio ateismo conflittuale, venato da tentazioni misticheggianti e buddistiche, scrisse, appena ventenne: “Credevo. Poi, brusca lacerazione. Due anni di solitudine nelle biblioteche, senza amore, senza amici, la paura della morte. Notti a meditare in un’atmosfera da Sinai”.

Se nelle prime poesie temi prediletti erano la luna, i tramonti, le lacrime, le danze macabre, i simboli religiosi, le maschere imbiancate di vari Pierrot, negli Ultimi versi l’attenzione descrittiva si rivolse alla natura, al mutare delle stagioni, alle feste popolari, ai riti sociali celebrati con polemico sarcasmo, in un eccitato stravolgimento per le illuminazioni offerte dai cinque sensi: suoni e profumi, visioni e parole rincorrentesi in cantilene, sussurri, strepiti: “O gerani diafani, guerreschi sortilegi, / monomani sacrilegi! / Imballaggi, libertinaggi, docce! / O torchi delle vendemmie nelle sere eccezionali! / Corredini spacciati, / Tirsi in fondo alle boscaglie, l’eterna pozione, / trasfusioni, rappresaglie, / pastiglie e purificazioni post-natali, / Angelus! Ci siamo ormai stancati / di disfatte nuziali! di disfatte nuziali!…”, “A braccetto, a braccetto, / invece di rincasare, / che ne dite di andare / a bere un goccetto?”, “No, no! È succhiare la carne di un cuore eletto, / adorare ogni organo infetto, / intravedersi prima che i tessuti vadano in avaria, / come reclusi, affetti da monomania!”, “Sul letto ammucchio biancheria sporca, giornali, / schizzi di moda, foto dozzinali, / tutta la capitale, matrice sociale. / Nessuna intercessione: / non darà alcun frutto, / l’unica soluzione è distruggere tutto”.

Fu soprattutto però nelle scelte formali che si compì la sua volontà anarchica di liberare la poesia dai vincoli che la ancoravano al passato, attraverso la disarticolazione delle strutture metriche tradizionali, l’utilizzo di ipermetri e ipometri, e versi liberi, dilatati fino all’eccessivo alessandrino. Particolarmente meditato fu l’impiego di un ricco ordito sonoro, modulato con rime stravaganti, numerose assonanze e allitterazioni e onomatopee, per evidenziare la sua nuova fede nella musicalità del testo poetico, come esplicitamente dichiarava in Simple Agonie: “Oh! che / della natura divinando l’attimo più solo, / la mia melodia, unica e intera, / salga nella sera / e raddoppi e faccia ciò che può, / e sia sincera, assolo / di singhiozzi, e ricada e riprenda / e muova a compassione, / e riprenda e ricada, / secondo la sua mansione. / Oh! che la mia musica sia / crocifissa come in fotografia, / china sui gomiti, piena di malinconia!” Stilisticamente, le composizioni postume sono caratterizzate da una sintassi paratattica, esclamativa, interrogativa e vocativa, con l’esibizione di un lessico straniante, ricco di neologismi e termini settoriali, in un ritmo franto capace di rompere con le poetiche classiche e le più recenti mode simboliste e parnassiane. “I corni, i corni, i corni – pieni di malinconia!… / pieni di malinconia!… / Se ne vanno mutando tono, / mutando musica e suono, / ton ton, ton ten, ton ton!…”

Laforgue ancora oggi viene considerato come “il maggiore tra i minori” poeti francesi di fine ’800, a motivo della sua scarsa accessibilità, secondo quanto affermava il critico americano Robert Ralph Bolgar: “Le poesie o i racconti di Laforgue […] contengono più novità di quante la mente possa accettare senza uno sforzo consapevole”. Ancora più lodevole, quindi, la decisione di Marco Saya di pubblicare in edizione completa i suoi Ultimi versi nella nuova e originale versione di Francesca Del Moro, la quale in una nota esplicativa (le cui motivazioni vengono ribadite dalla postfazione di Fabio Regattin), si sofferma a illustrare obiettivi e difficoltà del suo lavoro di traduttrice, che ambendo a preservare a ogni costo la struttura del testo originale, ha optato per renderlo attraverso una forma fedelmente mimetica.

 

© Riproduzione riservata        «Gli Stati Generali», 7 dicembre 2020

 

 

 

 

RECENSIONI

NACCI

BRUNO NACCI, IL SILENZIO DELL’INFINITO. UN FRAMMENTO DI PASCAL

LA SCUOLA DI PITAGORA, NAPOLI 2015

“Le silence éternel de ces espaces infinis m’effraie”: del frammento n. 187 dei “Pensieri” di Blaise Pascal (compreso nel corpus canonico pascaliano solo nel 1844) si occupano queste documentatissime 37 pagine del francesista Bruno Nacci. Il frammento, che si esprime in una forma letteraria caratterizzata dal ritmo anapestico, quindi con una sua forte e struggente valenza poetica, ha sempre affascinato lettori e studiosi di tutte le epoche e latitudini, proprio per la sua drammatica e angosciosa visione di un universo muto, eterno e infinito, in cui l’uomo può solo riconoscersi nella sua fragile inessenzialità, e nella sua totale solitudine.

Il Professor Nacci inserisce questa fascinazione pascaliana per l’immenso all’interno della riflessione logico-matematica del filosofo francese per l’infinitamente grande e l’infinitamente piccolo, con la dichiarata intenzione di abbassare l’orgoglio umano (“domare la sua presunzione”), usando tali temi con fini apologetici, nel tentativo di convertire il non credente. Davanti alla grandiosità del cosmo e alla piccolezza umana, Pascal si perde, esattamente come il “naufrago” Leopardi, e prima di lui i cosmologi greci, Giordano Bruno, Cartesio, Montaigne. “Dio parla nell’universo una lingua raccapricciante, quella inarticolata che getta l’uomo nel terrore mostrandogli la sua insensata marginalità”; ciò che spaventa “non è l’infinitezza dell’universo in quanto tale e la sua insondabilità, ma il fatto che questa inesauribile profondità manchi di parola (e di senso), in un capovolgimento straordinario dell’assunto ottimista di Galileo”. L’uomo inadeguato a giustificare la sua presenza nel mondo, si sente inghiottito “come un punto”: Nacci naviga con assoluta competenza all’interno di tutto il corpus dei Pensieri, sempre cercando analogie tra il frammento esaminato e gli altri. Quello che lo precede, il 186, notissimo, infatti recita: “L’uomo non è che un fuscello, il più debole della natura, ma è un fuscello che pensa”.

© Riproduzione riservata             IBS, 7 agosto 2015

 

RECENSIONI

BASHO

MATSUO BASHŌ, SOTTO LA LUNA UN BRUCO – PONTE ALLE GRAZIE, FIRENZE 2020

Alessandro Clementi degli Albizzi, fra i nostri migliori nipponisti, ha curato una nuova edizione di 69 haiku di Matsuo Bashō, massimo maestro nella composizione di questo genere lirico.

Nato nel 1644, Bashō ebbe molti allievi che conservarono la sua feconda produzione in sette raccolte, di cui questo volume offre una meditata antologia. Meditata perché il curatore non solo commenta ogni testo presentato, ma offre ai lettori una approfondita introduzione all’origine, alla trasformazione e diffusione dei ku, oltreché alla biografia del poeta.

Lo haiku come lo conosciamo noi, ai tempi di Bashō non aveva una forma autonoma. Si trattava di un esercizio collettivo, un dialogo poetico tra amici e appassionati, o tra maestro e allievi, “in cui il ku di avvio, forniva ispirazione e ambientazione per il secondo che poi a sua volta aggiungeva elementi per il terzo e così via”. Quattro secoli fa il poeta non si rivolgeva a un pubblico, ma alle persone della sua cerchia, che lo soccorrevano nella creazione, essendo al corrente di tutte le sue ragioni e intenzioni. Haikai significa “motto di spirito”, e per essere efficace imponeva di stupire i lettori, spiazzandoli con un finale imprevisto, o deformando i contenuti (paesaggi, situazioni, personaggi) con lo scopo di divertirli. Carattere fondamentale dell’haiku era la musicalità, il tono aggraziato e rasserenante che in genere veniva d’improvviso turbato da una parola o da un’immagine dura e respingente.

Ecco alcuni dei ku più suggestivi, con il commento suggerito dal curatore Alessandro Clemente degli Albizzi. Si tratta di delicate immagini paesaggistiche, di scene di vita paesana, di momenti comunitari o di testimonianze affettive di particolare intensità:

“Notte silenziosa / sotto la luna un bruco / si fa strada dentro una castagna”: nel silenzio della notte illuminata dalla luna, il lieve rosicchiare del bruco insinua nell’atmosfera qualcosa di inquietante.

“Sul ramo spoglio / si è ora poggiato un corvo / crepuscolo d’autunno”: le immagini del ramo e del corvo sono basate sul canone pittorico classico.

“Mani di donna staccano carne di baccalà /all’ombra di un mazzo di azalee / appena raccolte”: considerato uno dei primi ku che catturano l’istante, sembra ispirato da una scena vista in una locanda di campagna, in cui l’elemento prosaico è accostato a una visione floreale.

“Sfilarsi un indumento / e metterselo in spalla / il mio cambio di stagione”: il cambio del guardaroba esprime con libera noncuranza la leggerezza d’animo del viaggiatore, che si lascia alle spalle il passato.

“Sentore putrido / sorrette da giacinti d’acqua / viscere di pesce”: gli intensi calori estivi accelerano la putrefazione delle interiora del pesce, e la sgradevolezza dell’odore è contrapposta al profumo dei fiori.

“Stringo forte spighe di grano / a reggermi / nel momento dell’addio”: in questo malinconico saluto agli amici prima della partenza, Bashō chiede aiuto alle spighe di grano, incerto sostegno a cui affidare la sua debolezza fisica.

“Il viaggio interrotto dalla malattia / il sogno che corre libero / per le brulle distese”: alle due del pomeriggio Bashō, improvvisamente destatosi nel suo letto di morte, detta a un allievo il suo ultimo ku.

 

 

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 2 novembre 2020

 

 

RECENSIONI

GOZZANO

GUIDO GOZZANO, I COLLOQUI – INTERNO POESIA, LATIANO (BR) 2020

L’abbiamo amato un po’ tutti, imbattendoci nelle sue poesie sull’antologia dell’ultimo anno di liceo. Così lontano dal roboante Carducci, dall’intenerito Pascoli, dal superbo D’Annunzio, e invece così inaspettatamente vicino alla nostra sensibilità di ansiosi e mordaci adolescenti. Arrivava lui, avvocatino piemontese consumato dalla tisi, beffardo e commosso, malinconico e ilare, sentimentale e prosastico. Con i suoi amori ancillari, l’estenuata sensualità, le signorine quasi brutte, gli eleganti caffè cittadini, le passeggiate in collina.

Ecco quindi che la riedizione de I Colloqui gozzaniani da parte dell’editore pugliese Interno Poesia offre ai lettori in primo luogo la possibilità di un recupero dalle memorie giovanili di un poeta ancora suscettibile di nuove interpretazioni, e secondariamente il piacere di venire avviati in questa riscoperta dall’introduzione acutamente empatica di un altro poeta, Alessandro Fo. Nella nota iniziale, Fo definisce le sue “affettuose linee di accompagnamento” ai versi di Guido Gozzano come “un’innamorata flânerie”, libera da eccessive preoccupazioni critiche testuali. E in effetti la sua presentazione non risulta solo puntualmente concentrata, ma soprattutto vicina a una premura immedesimante, nella volontà di comprensione mimetica delle intenzioni affettive e letterarie dell’autore commentato.

Ma c’è un rifugio? Un tentato colloquio con «Guido Gozzano», si intitola con corretta perspicacia la prefazione di Fo, che subito mette in luce quali siano stati i due binari su cui ha viaggiato la lirica gozzaniana: amore e morte, entrambe illusorie tentatrici, entrambe infedeli adescatrici: “…reduce dall’Amore e dalla Morte / gli hanno mentito le due cose belle…”

L’amore, quindi, anzi l’Amore con la maiuscola, proposito-aspirazione-meta da raggiungere, che sempre si è rivelato ingannevole e deludente per la “cosa vivente detta guidogozzano”: amore rincorso, tradito, infine schernito con irridente autoironia (“Amore no! Amore no! Non seppi / il vero Amor per cui si ride e piange: / Amore non mi tanse e non mi tange; / invan m’offersi alle catene e ai ceppi”, “Non amo che le rose / che non colsi. Non amo che le cose / che potevano essere e non sono / state…”, “Ah! Se potessi amare! Ah! Se potessi / amare, canterei sì novamente! Ma l’anima corrosa / sogghigna nelle sue gelide sere… / Amanti! Miserere, / miserere di questa mia giocosa / aridità larvata di chimere!”, “Egli sognò per anni l’Amore che non venne”). Al sentimento amoroso Gozzano sembrava avvicinarsi con timore e desiderio, con sospetto e sarcasmo, confessando sia la sua tormentosa sensualità, sia i suoi infidi corteggiamenti, con i conseguenti rimorsi di seduttore impenitente: “Avevo un cattivo sorriso: / eppure non sono cattivo, / non sono cattivo, se qui / mi piange nel cuore disfatto / la voce: «Che male t’ho fatto / o Guido per farmi così?»”, “Un mio gioco di sillabe t’illuse. Tu verrai nella mia casa deserta: lo stuolo accrescerai delle deluse. // … Sotto il verso che sai, tenero e gaio, arido è il cuore, stridulo di scherno”.

Inventandosi uno sminuito e fallimentare alter-ego nella figura di Totò Merumeni (“tempra sdegnosa, / molta cultura e gusto in opere d’inchiostro, / scarso cervello, scarsa morale, spaventosa / chiaroveggenza… // … Egli sognò per anni l’Amore che non venne, / sognò pel suo martirio attrici e principesse, / ed oggi ha per amante la cuoca diciottenne”), Gozzano accarezzava languidamente l’idea della morte: “Totò opra in disparte, sorride, e meglio aspetta. / E vive. Un giorno è nato. Un giorno morirà”.

Appunto “la Signora vestita di nulla”, “l’Eguagliatrice”, assediava il pensiero presago del giovane poeta malato (Torino, 1883-1919): “Respinto dalla Vita, Guido ha corteggiato la Morte, o piuttosto ne è stato corteggiato”, commenta Alessandro Fo. Scisso tra tenerezza e corporeità, cielo e terra, vita e fine della vita, Gozzano trovò nella poesia la via del rifugio (come recita il titolo della sua prima raccolta del 1907): l’unica dama con cui poter instaurare un colloquio sincero, rigenerando nei versi ogni malinconico pessimismo.

La “fede letteraria” di cui spesso minimizzava il valore (“Musa maldestra”, “arte fatta di parole”, “pochi giochi di sillaba e di rima”, “vender parolette”), lo induceva a osare accostamenti sonori provocatori (Nietzsche/camicie, edifici/dentifrici, yacht/cocottes), e a burlarsi delle proprie ambizioni artistiche: “Buon Dio, e puro conserva / questo mio stile che pare / lo stile d’uno scolare / corretto un po’ da una serva”. In realtà, questo programmato e proclamato porsi dei limiti culturali, restringersi in una quotidianità piccolo-borghese – celebrando “la semplice vita” fatta di affetti modesti, ambienti dall’ “arredo squallido e severo”, frequentazioni rassicuranti –, non era studiata dissimulazione, né compiaciuto scetticismo. Piuttosto, con la schietta familiarità e l’indulgente sottigliezza del suo sguardo sul mondo, Guido Gozzano seppe introdurre nel panorama letterario italiano temi e tonalità lontani dalla retorica del sublime, dell’esotico, del patetico.

Il volume edito da Interno Poesia propone a un prezzo conveniente, oltre a I colloqui, una scelta delle poesie più famose, un ricco apparato di note e un’accurata ricostruzione biobibliografica.

 

© Riproduzione riservata            «Gli Stati Generali», 27 novembre 2020

 

 

 

RACCONTI

MICROBI, BATTERI, SPORE VIRALI

Il mio ragazzo, il mio Davide, è sempre stato un po’ particolare. Già da piccolo alternava momenti di immotivata euforia ad altri di ostile mutismo. Improvvisamente, diventava preda di una collera furiosa, e allora si scagliava con violenza contro tutto ciò che gli stava intorno: persone e oggetti. Altre volte si addolciva in una mansuetudine addirittura eccessiva, e per noi preoccupante, quasi a voler meritare la grazia di un perdono o di una ricompensa celeste. Capace di cambiare atteggiamento e natura nel giro di una sola ora, angelico e spietato. Ci eravamo rassegnati, io e suo padre, a questa mutevolezza ombrosa del suo carattere, che non esprimeva solo tra le mura domestiche, bensì anche a scuola, provocando sospetto e disappunto tra i compagni e negli insegnanti. I suoi bizzarri comportamenti infantili venivano giustificati da parenti e amici come effetto di un’educazione troppo arrendevole e indulgente da parte di noi genitori, che probabilmente avevamo esagerato nel viziarlo.

Comunque, lo stato di salute di Davide è rimasto gestibile fino alla preadolescenza. Intorno agli undici anni successe però qualcosa che gli stravolse i pensieri; un cortocircuito mentale, un’affezione emotiva paragonabile a uno sconquasso tellurico. Ero in cucina, preparavo gli agnolotti al ragù per la gioia di mio marito, in attesa del suo rientro dall’ufficio. Sentii un urlo arrivare dal bagno, e il mio bambino singhiozzare chiamandomi “mamma, mamma!” Mi precipitai da lui, e lo trovai seduto sul water, con i pantaloni della tuta calati sui piedi, il rotolo della carta igienica tra le mani tremanti, a riparargli gli occhi da una visione terrificante. Lo abbracciai tenendogli la testa appoggiata al mio ventre, come sempre facevo durante le sue crisi di rabbia. “Dido, tato, tesoro mio, cosa succede?” Scosso da acuti singulti, balbettava “schifo, schifo”, e poi “c’è il sangue, sangue bagnato”. Mi guardai intorno, pensando a un’allucinazione. Scorsi, semiarrotolato nel bidet, un mio assorbente macchiato di rosso, che avevo dimenticato di sigillare come sempre nella bustina di plastica opaca, gettandolo nell’immondizia. “Dio mio, cos’ho fatto!” pensai, conoscendo la fobia di mio figlio per qualsiasi traccia di secrezione fisica: muco nasale, saliva, orina, feci. Sangue, appunto.  “Non è niente, caro. Non è proprio niente. Sono cose della tua mamma”, cercai di tranquillizzarlo. La sua disperazione aumentò. “Ti sei fatta male? Dove ti sei fatta male?” Piangeva inconsolabile. “Stai per morire? Devi andare all’ospedale?” Non ricordo come mi riuscì di calmarlo, raccontandogli quale bugia. Forse, che mi ero tagliata distrattamente un dito pulendo la verdura.

Non avevo mai parlato con Davide di sessualità, pensavo fosse un compito della scuola, oppure se ne dovesse incaricare mio marito. Gli avevo spiegato a grandi linee come nascono i bambini, senza addentrarmi nei particolari, e suscitando in lui un vago disgusto. Non gli avevo neppure mai accennato alle mestruazioni, e quando mi capitava di soffrire durante il ciclo, alludevo genericamente a un malessere passeggero. Ma da quel giorno, alla vista del sangue, anche solo in un film o riprodotto in un quadro, il mio ragazzo esibiva reazioni spropositate: nausea, tremori, attacchi di panico. Cominciò a prestare più attenzione alla pulizia personale, cosa insolita in un adolescente: si faceva la doccia appena sveglio e prima di coricarsi la sera, si lavava le mani in continuazione, e se la schiuma mista all’acqua gli sembrava appena un po’ grigiastra, mi chiamava a testimone: “Vedi quanti microbi, mamma? Bisogna distruggerli, i microbi…” Osservava minuziosamente la superficie dei mobili, se per caso si fosse depositata un po’ di polvere, e mi rimproverava: “Devi pulire di più, devi disinfettare i pavimenti, devi aggiungere la candeggina in lavatrice!”

La vita in casa nostra era diventata un incubo, e mio marito non riusciva a nascondere esasperati moti di stizza. Lo supplicavo di portare pazienza, di essere più comprensivo e affettuoso, ripetendogli che nostro figlio stava attraversando una fase complicata della crescita, ma senz’altro transitoria, come mi aveva assicurato il nostro medico di base.

Il fatto è che Davide, per suffragare scientificamente le sue teorie, aveva iniziato molto presto a consultare in internet testi di microbiologia, di virologia e di epidemiologia, sentendosi poi autorizzato a erudirci sulle cognizioni acquisite. I microbi, da cui era ossessionato, vennero ufficialmente riclassificati: “batteri, microrganismi unicellulari onnipresenti ovunque: nel cibo, nell’aria, nell’acqua, nei nostri corpi; batteri da cui tre miliardi di anni fa è nata la vita sulla terra, batteri che distruggeranno il genere umano, più potenti e letali di qualsiasi bomba atomica…”

Terminata con voti discreti la scuola media, ci sembrò scontata la sua richiesta di iscriversi all’Itis di biotecnologie sanitarie, un istituto privato innovativo, tenuto in grande considerazione nella nostra città. Mio marito fece presente al preside la particolare patologia di cui soffriva il ragazzo, una sorta di ipocondria che uno specialista aveva definito oscillante tra misofobia e rupofobia. Termini per noi astrusi, ma di cui diventammo subito molto competenti: paura delle malattie, delle infezioni, dello sporco, che costringe chi ne è affetto a mettere in atto riti di protezione morbosi e maniacali.

Fu garantita a Davide una particolare attenzione da parte del corpo insegnante, il permesso di occupare un banco da solo, di uscire spesso per recarsi al bagno, di sterilizzare con salviettine igienizzanti gli oggetti con cui entrava in contatto, e soprattutto di assentarsi dalle lezioni. Infatti i suoi disturbi lo costringevano a rimanere frequentemente a casa, in preda a tremiti, vomito, febbriciattole. Si chiudeva nella sua stanza, tappezzata da manifesti riproducenti vari tipi di virus, bacilli, cocchi, vibrioni, spore, procarioti (a bastoncino, a spirale, a grappolo, a catena, sferici, cubici), che io tentavo vanamente di imprimermi nella memoria, sperando in qualche modo di trovare la chiave per penetrare nel cervello di mio figlio. Stava lì, sdraiato sul letto, a contemplarli con lo sguardo fisso alla parete; oppure li riproduceva a matita su un quadernone, e poi li colorava con notevole estro artistico. Poi, per ore, rimaneva incollato al computer, a consultare Wikipedia o chissà quali altri manuali di medicina. Mi consolava il pensiero che, una volta uscito dal tunnel delle sue fissazioni, sarebbe potuto diventare un ricercatore universitario, un luminare di qualche branca scientifica, un biologo di fama.

La giovane psicoterapeuta che lo aveva in cura ci aveva esortato ad applicare nella nostra quotidianità alcune tecniche adattive, per indurlo gradualmente ad accettare minime tracce di contaminazione (negli oggetti di cui si serviva, nei vestiti, nell’arredamento), sottraendole a ogni temuta nocività. Seguendo le indicazioni della dottoressa, lasciavo apposta una forchetta incrostata tra le posate, dimenticavo di azionare lo sciacquone del water, non cambiavo i calzini e non lucidavo le scarpe. Ero arrivata addirittura a nascondere qualche capello nei cibi che cucinavo. Lui rispondeva ai nostri impacciati esperimenti in maniera sempre più violenta; sembrava quasi godesse sadicamente nel provocarci, per vedere quanto a lungo avremmo ancora sopportato la sua nevrosi.

Il primo a cedere fu mio marito. Stavamo pranzando, e Davide allontanava con la mano alcune briciole di pane sparse sulla tovaglia, pretendendo come sempre che lo spazio intorno al suo piatto rimanesse sgombro e immacolato. Rivolto a suo padre sentenziò: “Non è bello lasciare la mollica sulla tovaglia”. Poi alzò il bicchiere per osservare controluce se fosse pulito. “I germi si annidano dappertutto. Dobbiamo usare tutte le precauzioni per non ammalarci”. Parlava a slogan, come dovesse convincere un pubblico di analfabeti.

“Ti sei lavato le mani, papà? Ci si deve insaponare bene le mani, prima di mettersi a tavola”. Mio marito lo guardò severo, poi si alzò, si diresse verso il lavandino, aprì lo sportello della pattumiera e sollevò il secchio.

In silenzio, solennemente, rovesciò l’immondizia addosso a nostro figlio. Davide balzò in piedi. Aveva le spalle coperte di fondi di caffè e di bucce d’arancia, e un liquido giallognolo gli colava sulla fronte. Spalancò la bocca per gridare, ma non gli uscì mezza parola.

Suo padre gli piantò una manata tra le costole. “Eccoli, sono tutti tuoi: microbi, batteri e schifezze di casa nostra”. Poi prese la caraffa dell’acqua e gliela versò con imperturbabile lentezza in testa. “Adesso lavati, idiota”, proferì spietato e soddisfatto.

 

«Gli Stati Generali», 25 novembre 2020 e in «Gente normale», Eretica 2024.

RECENSIONI

AAVV, GIORGIO BERTANI EDITORE RIBELLE

AAVV, GIORGIO BERTANI EDITORE RIBELLE – MILIEU EDITORE, MILANO 2020

Marc Tibaldi, giornalista freelance da sempre impegnato nell’analisi dei fenomeni sociali di opposizione e dei meccanismi ambientali di emarginazione (collabora con Agenzia X, Carmilla e Il manifesto, ed è autore di “Metix babel felix. Meticciamento, passing, divenire e conflitto”), ha curato per l’editore milanese Milieu il volume Giorgio Bertani editore ribelle, proponendo numerose testimonianze sul lavoro politico di Bertani, e un’ampia rassegna a colori delle copertine più significative del suo catalogo.

Il libro è arricchito da un docufilm in dvd, “Verona city lights” – con regia dello stesso Tibaldi e musiche inedite di Claudio Fasoli -, che raccoglie interviste inedite all’editore e ai protagonisti più importanti di un periodo denso di tensioni culturali e di utopie rivoluzionarie, quali quelle emerse tra il 1968 e la fine degli anni ’80.

Nato da un’iniziativa condivisa di crowdfunding, e dall’intelligenza collettiva di molti protagonisti di quella stagione di militanza, ancora attivi nel panorama intellettuale italiano di oggi – come Antonio Moresco e Carlo Rovelli- , il volume racconta la passione con cui Bertani ha dato spazio, nei suoi libri e nelle riviste, alle voci più significative del pensiero critico internazionale di allora: Bataille, Nizan, Derrida, Guattari, Deleuze, Baudrillard, Goldmann, Dario Fo e Franca Rame, Bifo, Franco Rella, Alberto Tomiolo, Dacia Maraini, Vittorino Andreoli, Giangiacomo Feltrinelli. Un’attenzione specifica veniva prestata alle insurrezioni dell’IRA, della RAF e dei Tupamaros, alle lotte operaie, alle esperienze alternative della didattica, alla ricerca non accademica, alle nascenti inquietudini religiose, alle novità in campo artistico e teatrale.

Giorgio Bertani, “polemico e candido, buffo e gentile”, si distingueva anche per un istrionismo dai tratti gigioneschi, che in una città cattolicamente inamidata come Verona risultava spesso provocatorio ed esasperante, e purtroppo facile da neutralizzare attraverso il ridimensionamento nel pittoresco e nel folclorico.

Marc Tibaldi ricostruisce con stima e affetto la vicenda esistenziale dell’editore, dalla sua nascita avvenuta in una famiglia operaia nel 1937, fino alla morte nel luglio del 2019. Rimasto presto orfano, Bertani si impiegò ancora ragazzo come commesso nella libreria Dante, di cui divenne in seguito direttore, formandosi da autodidatta sui testi classici della letteratura e della filosofia. Nel 1962 fece parte del gruppo che rapì il viceconsole spagnolo in Italia per protestare contro la condanna di tre giovani antifranchisti; nel 1968 fondò le edizioni EDB, e quattro anni dopo la casa editrice cui diede il suo nome. Sempre vicino all’area socialista e anarchica, partecipò a numerose azioni di solidarietà durante il conflitto jugoslavo. Dal 2002 al 2007 fu consigliere dei Verdi al Comune di Verona, rivestendo la carica di Presidente della Commissione Cultura, schierandosi poi negli ultimi anni di vita a fianco dei movimenti antirazzisti, femministi, pacifisti, e occupandosi attivamente dei problemi dei senzatetto.  Tra il ’77 e la chiusura della sua attività per difficoltà economiche, Bertani conobbe perquisizioni e arresti, due tentativi di suicidio e una progressiva emarginazione politico-culturale.  “Eretico e polemico, basco rosso in testa, in bicicletta, immancabile a ogni manifestazione cittadina … in una Verona diventata negli ultimi decenni laboratorio della collaborazione di tutti i gruppi fondamentalisti e reazionari, Bertani ha continuato a rivendicare le sue origini proletarie e antifasciste”, deciso a rispondere con intelligenza e gioiosa creatività all’intolleranza e alla violenza reazionaria, scrive Tibaldi.

Ai suoi funerali ha partecipato commossa la parte più democratica della città, e recentemente la Biblioteca Civica si è offerta di creare un archivio comprendente i testi editi e inediti, la corrispondenza e tutta la documentazione relativa alla sua casa editrice.

 

© Riproduzione riservata        «Gli Stati Generali», 21 novembre 2020

 

INTERVISTE

AIRAGHI

Poesia e musica: intervista ad Alida Airaghi

Poesia e musica: intervista ad Alida Airaghi, in libreria con “Rime e varianti per i miei musicanti”

Alida Airaghi è nata a Verona nel 1953. Laureata a Milano in Lettere classiche, ha insegnato a Zurigo per il Ministero Affari Esteri tra il 1978 e il 1992. Collabora oggi con riviste, quotidiani e blog.
Le sue pubblicazioni, in prosa e in versi, sono numerose. Ricordiamo, tra le seconde, Litania periferica (Manni, 2000), Un diverso lontano (Manni 2003), Frontiere del tempo (Manni 2006), Elegie del risveglio (Sigismundus, 2016), Omaggi (Einaudi, 2017) e L’attesa (Marco Saya edizioni). È stata inoltre inserita nelle antologie Einaudi dedicate ai Nuovi poeti italiani (1984 e 2012).

Lo scorso 13 ottobre, per Marco Saya edizioni, è uscito Rime e varianti per i miei musicanti, una raccolta dedicata ai testi di diciotto dei più amati interpreti italiani, da Battisti a Martini, da Gaber a Tenco, da Endrigo a Vanoni.
In questa intervista raccolta dalla nostra redattrice Eleonora Daniel, Alida Airaghi ci racconta del suo ultimo libro e del rapporto tra poesia e musica.

  • La sua nuova raccolta poetica è stata definita un omaggio alle canzoni della sua giovinezza. Può raccontare com’è nato Rime e varianti per i miei musicanti?

Nel 2017 avevo pubblicato da Einaudi un volume di poesie intitolato Omaggi, in cui accompagnavo versi miei a quelli di tredici poeti italiani del ’900. Ho pensato poi di ripetere l’esperimento con le canzoni d’amore che ascoltavo da ragazza, una sorta di divertissement più leggero, lontano da particolari ambizioni letterarie. Un “amarcord” un po’ nostalgico un po’ ironico, in uno stile diverso da quello che utilizzo di solito, molto giocato sulle rime, in modo da avvicinarmi all’intenzione musicale sottesa alla raccolta.

  • I diciotto interpreti ricordati sono tra i più amati del panorama musicale italiano di fine Novecento. Quando ha iniziato a scrivere aveva già chiara la rosa finale degli artisti a cui avrebbe dedicato un componimento?

Inizialmente ho composto alcune poesie dedicate a Sergio Endrigo, che nell’adolescenza ha avuto un ruolo fondamentale nell’avvicinarmi emotivamente al mondo delle canzoni d’autore. In seguito ho scritto dieci testi per ricordare Luigi Tenco, altro interprete che negli anni ho continuato a seguire con grande commozione. Poi mi sono trovata a recuperare nella memoria molte canzoni, di cui ancora dopo tanto tempo ricordavo esattamente le parole. Estrapolavo frasi intere, ricostruendo e inventando situazioni sentimentali nuove, perlopiù del tutto estranee al mio vissuto, ma suggerite dall’atmosfera creata da voci, armonie, associazioni spontanee. E quindi ho iniziato a scrivere relazionandomi ad altri cantanti, magari meno “miei”, ma comunque in vetta alle Hit Parade che ascoltavo al liceo: MorandiCelentanoMina. E ne ho tralasciati altri, che mi ritrovo tuttora ad ascoltare e imitare con un’adesione incurante della mia età: Bobby Solo, Little Tony, Anna Identici, Nada, Dino, i New Trolls, i Rokes, l’Equipe 84, i Pooh… La colonna sonora di una ragazzina di provincia, poco esperta di avanguardie musicali internazionali.

  • Per sentirsi legati a una canzone non serve conoscere l’intera produzione discografica del suo interprete. È vero anche per i cantanti che compaiono in queste pagine?

Certamente. Di alcuni di loro conosco pressoché tutta la discografia, di altri solo i motivi più famosi. La mia era una famiglia canterina, cantavamo sempre, in casa, nelle gite in macchina. I nostri genitori ci avevano insegnato i pezzi più in voga negli anni ’30 e ’40, poi anche i canti di guerra, degli alpini, o regionali. Io suonavo la chitarra, avvicinandomi lentamente anche alla musica classica, dal barocco di De Visée, a Carulli e Giuliani, fino a Villa Lobos e Tàrrega. Anzi, mi piace qui ricordare la mia cara maestra Gianna Creston, che è mancata recentemente e da cui ho preso lezioni fino a qualche anno fa. Credo che la musica abbia avuto un ruolo fondamentale nell’avvicinarmi alla poesia e oggi ascolto un po’ di tutto, Schubert, Mahler, Sibelius, Bartok, Pärt, Jarrett, Glass, Eno…

  • Le poesie partono direttamente dalle suggestioni dei testi, penso ai versi dedicati a Mia Martini e alla canzone Minuetto. Mi incuriosisce il rapporto tra musica e scrittura: era simultaneo? Scriveva durante l’ascolto o l’intuizione arrivava in un successivo momento di riflessione?

Mi capitava di pensare a canzoni che mi avevano colpito in passato, alcune quasi sconosciute, o completamente dimenticate oggi: lo Jannacci di Vincenzina, il Gaber di Così felice, il Tenco di Ti ricorderai. Le riascoltavo e mi scattava dentro il desiderio di ricamare su quei testi altre parole, di penetrarvi più profondamente, o magari di alterarne il senso, addirittura trasformandolo nell’occasione da cui aveva tratto spunto. È successo con Rimmel di De Gregori, con Che cosa c’è di Paoli. L’ha intuito molto bene Ranieri Polese nell’introduzione del libro.

  • Il legame tra canzone e poesia è inscindibile e spesso dibattuto (basti pensare al Nobel assegnato a Dylan nel 2016). Parlare di musica nei versi è un modo di portare questo legame su un piano altro, ancora più stretto?

Per quello che mi riguarda forse non intenzionalmente, ma in maniera istintiva sì. Credo che la musica pop-rock-rap abbia del tutto soppiantato l’importanza della poesia nella cultura popolare di tutto il mondo. Ha la funzione fondamentale di veicolare sensazioni, emozioni, messaggi e anche ideologie, ruolo che la poesia ha perso completamente, chiusa com’è in un suo piccolo spazio elitario, d’essai, quasi in bacheca. Quindi, ben vengano le commistioni, gli scambi, gli arricchimenti reciproci: sono positive sia per i poeti sia per i cantanti. Perciò ritengo sacrosanto il Nobel a Bob Dylan e altrettanto giusto quello di quest’anno a Louise Glück: ma chi dei due avrà più peso nella formazione e nella memoria individuale e collettiva?


© Riproduzione riservata SoloLibri.net    18 novembre 2020

https://www.sololibri.net/Poesia-musica-intervista-Airaghi-Rimevarianti– musicanti.htm

RECENSIONI

CELAN

PAUL CELAN, L’ANTOLOGIA ITALIANA – NOTTETEMPO, MILANO 2020

Con introduzione e cura di Dario Borso, Nottetempo ha pubblicato L’antologia italiana, proponendo ai lettori quarantotto composizioni di Paul Celan, secondo un ordine indicato dallo stesso autore più di sessant’anni fa. Celan, nato da famiglia ebrea nel 1920 a Czernowitz in Bucovina (allora territorio annesso alla Romania, oggi parte dell’Ucraina), ebbe un’esistenza tormentata da persecuzioni, esili e malattie psichiche: rinchiuso nei due campi di lavoro di Tăbărăşti e Fälticeni, dopo aver perso i genitori catturati dai nazisti, si trasferì prima a Bucarest, poi a Vienna e infine a Parigi, dove morì nel 1970 gettandosi nella Senna.

Poeta celebrato per la profondità concettuale e la densità lessicale dei versi, contestato per l’oscuro e respingente ermetismo stilistico, poco frequentato per l’ombrosità del carattere, progettò in totale autonomia un’unica scelta antologica della sua produzione, ed è appunto la silloge da lui suggerita che oggi viene pubblicata nella traduzione di Borso.

Fu nell’aprile del 1964 che Celan, giunto a Milano per una conferenza al Goethe Institut (rivelatasi quanto mai ostica per il pubblico presente), incontrò poi Vittorio Sereni, direttore letterario della Mondadori, per concordare la pubblicazione di un volume nella collana de Lo Specchio. La casa editrice aveva contattato Celan nel 1961, dopo il conferimento del prestigioso premio Büchner, ma da subito la trattativa si era arenata sulla scelta del traduttore. Scartati Marianello Marianelli e Giuseppe Bevilacqua, nella primavera del 1963 Sereni aveva indicato il nome di Ferruccio Masini. Anche l’opzione di quest’ultimo si rivelò inadeguata per vistose divergenze interpretative, e quindi l’iniziativa mondadoriana venne abbandonata, per essere recuperata solo sei anni dopo la morte di Celan, senza tenere più conto delle sue indicazioni.

Dario Borso ricostruisce fatti e antefatti che accompagnarono l’impegno editoriale del poeta in Italia, attraverso le testimonianze di chi lo aveva incontrato in quell’occasione: il direttore del Goethe Institut, Vittorio Sereni e Ida Porena, che l’aveva accompagnato in una visita alla necropoli di Cerveteri, per lui rivelatasi motivo di grande turbamento. Una coinvolgente relazione amorosa con un’attrice svedese, gli incontri con intellettuali del calibro di Jean Starobinski e Heinrich Böll, l’accusa di plagio rivoltagli dalla vedova di un amico scrittore, le devastanti cure psichiatriche e i ricoveri in clinica, avevano contribuito a minare il già precario equilibrio mentale del poeta, inducendolo alla tragica scelta finale.

Nel volume edito da Nottetempo possiamo ritrovare i titoli più noti (Der Sand aus den Urnen, Corona, Todesfuge, Nachts, Psalm, Mandorla, Anabasis, In der Luft), tratti da quattro raccolte uscite tra il 1952 e il 1963 (Papavero e memoria, Di soglia in soglia, Grata di parole, La rosa di nessuno).

Sono versi connotati da un’angosciosa visionarietà, espressa in ritmi franti e concitati, con tonalità cupe e risentite, rese più accese dalla memoria inorridita dello sterminio nazista: “Latte nero dell’alba lo beviamo di sera / lo beviamo a mezzodì e al mattino lo beviamo di notte / beviamo e beviamo / scaviamo una fossa nell’aria lì non si sta stretti… // … Grida suonate più dolce la morte la morte è un maestro tedesco / grida archeggiate più scuri i violini così salirete come fumo nell’aria / così avrete una tomba tra le nuvole lì non si sta stretti”, “Scavavano e scavavano, così trascorreva / il loro giorno, la loro notte. E non lodavano Dio / che, così udirono, voleva tutto ciò, / che, così udirono, sapeva tutto ciò”.

Il presagio della morte aleggia in ogni poesia, e pervade qualsiasi aspetto dell’esistenza, scandita dall’implacabilità del tempo che passa: “È tempo che la pietra si decida a fiorire, / che all’inquietudine batta un cuore. / È tempo che sia tempo. // È tempo”, “Venne, venne. / Venne una parola, venne, / venne attraverso la notte, / voleva far luce, voleva far luce. // Cenere. / Cenere, cenere. / Notte. / Notte-e-notte”.

Nemmeno tra creature simili, sottoposte alla stessa violenza, si instaurano sentimenti di fiducia, solidarietà, amicizia: “Stanno divisi nel mondo, / ciascuno con la sua notte, / ciascuno con la sua morte, / scontrosi, a testa nuda, / brinati / di prossimità e distanza”, “Ci sarà un ciglio, / volto in dentro nella roccia, / temprato di non-pianto, / il più fine degli aghi. // Davanti a voi compie l’opera / come se, essendoci pietra, ancora esistessero fratelli”.

Anche le donne amate, la moglie Gisèle, assumono sembianze minacciose, mentre intorno a loro si muovono allucinate visioni di coltelli, tombe, nubi, lampi, polvere e sabbia: “Ti batte il tamburo di muschio e di amaro vello pubico; / con alluce purulento dipinge nella sabbia il tuo sopracciglio. / Più lungo lo traccia di quant’era, e il rosso del tuo labbro”, “Io come un vento notturno sostavo nel grembo venale di tua sorella; / i tuoi capelli pendevano sopra noi dall’albero, però non eri lì”.

La natura incombe ostile, rispecchiando indifferente la crudeltà del mondo; cielo terra mare non offrono riparo, e anzi si oppongono a qualsiasi richiesta di consolazione: “Secco, insabbiato il letto alle tue spalle, ricoperta di giunchi / la sua ora, sopra, / accanto all’astro, i lattei / meandri parlottano nel limo, dattero di mare, / sotto, algoso, si apre all’azzurro, un arbusto / di caducità, bello, / saluta la tua memoria”, “Il tavolo ondeggia su e giù per le ore, / il vento riempie i calici, / il mare rotola il cibo fin qui: / l’occhio errante, l’orecchio in tempesta, / il pesce e il serpe”, “Una ruota, lenta, / gira da sé, i raggi / rampicano / rampicano su campo nerastro, la notte / non abbisogna di stelle, in nessun luogo / si chiede di te”.

E infine Dio stesso è risucchiato nel vuoto della negazione e del rifiuto: “Ci gettò la tua immagine negli occhi, Signore. / Occhi e bocca stan così aperti e vuoti, Signore. / Abbiamo bevuto, Signore. / Il sangue e l’immagine ch’era nel sangue, Signore. // Prega, Signore. / Siamo vicini”, “Nessuno ci plasma più da terra e argilla, / nessuno scongiura la nostra polvere. / Nessuno. // Lodato tu sia, Nessuno. Per te noi vogliamo / fiorire. / Verso / te. // Un niente / eravamo, siamo, / resteremo, fiorendo: / la rosa di niente, / di Nessuno”.

Poeta del grido strozzato, della mano che annaspa, della fuga nel buio, Paul Celan ha saputo esprimere lo smarrimento di chi pone testardamente la stessa domanda sul perché del male, pur sapendo di non poter ricevere risposta.

 

© Riproduzione riservata     «Gli Stati Generali», 17 novembre 2020