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RECENSIONI

SPADARO

ANTONIO SPADARO, CREATURE DI CALDO SANGUE E NERVI – ARES, MILANO 2020

Torna in libreria per le edizioni Ares il profilo di Raymond Carver che Antonio Spadaro aveva pubblicato nel 2001 (Carver: un’acuta sensazione di attesa), arricchito ora da un capitolo sull’attualità dello scrittore statunitense e da un diario del viaggio-omaggio alla sua tomba di Port Angeles. Il titolo del volume, Creature di caldo sangue e nervi, è una citazione tratta da Čechov, autore cult di Carver, esplicito riferimento alla sua inquieta ansia esplorativa di ambienti ed esperienze trasgressive.

Monsignor Antonio Spadaro (Messina, 1966) è un gesuita, direttore della rivista «La Civiltà Cattolica», teologo e saggista molto stimato e ascoltato da Papa Francesco, esperto di letteratura americana e fondatore dell’associazione culturale «Bombacarta».

Già nell’introduzione l’autore confessa: “Dopo vent’anni di ‘corpo a corpo’ con uno scrittore è possibile capire se e come la sua opera ci abbia ‘lavorato dentro’. E io non me ne sono mai liberato”. Citando la poesia scritta da Raymond prima di morire, Ultimo frammento (“E hai ottenuto quello che / volevi da questa vita, nonostante tutto? / Sì. / E cos’è che volevi? / Potermi dire amato, sentirmi / amato sulla terra”), afferma di aver ricavato dalla questa lettura una reale illuminazione emotiva. È stata proprio l’autenticità con cui Carver ha messo a nudo ogni aspetto della propria esistenza a conquistare Spadaro: senza allontanarsi mai dal proprio vissuto ha narrato storie minime e universali, in cui ciascuno si può ancora riconoscere, spaziando nelle tematiche dall’amore alla malattia, dalla passione per la pesca a quella per l’alcol, dal sesso al denaro, raccontate con “understatement of emotion”. Estraneo a ideologie, intellettualismi e astrazioni, arrivava al cuore delle cose parlandone con assoluta e disarmante sincerità, attraverso l’utilizzo di diversi registri formali (ironia ed empatia, rabbia e commozione), in uno stile “scabro, diretto, privo di lirismo”, con “incredibile rapidità ed essenzialità espressiva”.

Il volume si divide in tre capitoli, nel primo dei quali Spadaro ricostruisce la biografia di Carver mettendola in relazione al graduale comporsi della sua attività letteraria, soffermandosi anche sull’annosa questione degli invasivi interventi correttivi dell’editor Gordon Lish.

Successivamente, propone sia un puntuale commento dei racconti più noti, sia una lettura attenta alle intenzioni etiche e comunicative della scrittura carveriana. Dalla tragica incomunicabilità delle prime prove narrative, testimonianza di uno spaesamento esistenziale, Raymond Carver si aprì progressivamente a una positiva speranza di rinascita, soprattutto in seguito all’unione con la nuova compagna Tess Gallagher. Nella sua scrittura divenne più evidente il bisogno di incarnarsi nella realtà materiale dei corpi, attraverso uno sguardo di intenerita immedesimazione, privo di giudizio o condanna. Monsignor Spadaro, in linea sia con parte della critica americana, sia soprattutto con la propria visione ideologica, interpreta l’evoluzione della scrittura di Carver nel senso di una persistente esigenza di confessione e di redenzione, alla ricerca di “una dimensione trascendente dell’esperienza quotidiana”. Nel raccontare le sue giornate, e quelle della gente comune, Raymond metteva in luce “la santità dell’ordinario”; scoprendo la propria vulnerabilità rivelava la vulnerabilità di chiunque, non solo di amici e familiari, ma anche di chi agisce nell’illegalità e nella violenza.

La terza sezione del libro analizza specificamente la produzione in versi, in genere sottovalutata rispetto alla narrativa. In essa, Spadaro individua “una funzione di discernimento e di penetrazione radicale nel reale”, capace di privilegiare la densità espressiva, la sintesi folgorante più di qualsiasi descrizione in prosa. Con fierezza, Carver affermava infatti di sentirsi più poeta che narratore: “Io ho cominciato come poeta e così suppongo che sulla mia tomba dovrei essere molto contento se ci fosse scritto: ‘Poeta, scrittore di racconti e, occasionalmente, saggista’. In quest’ordine”. I suoi versi, privi di artifici e sterili sperimentalismi, utilizzavano gli stessi temi dei racconti, resi più penetranti dalla loro contratta essenzialità, e ammorbiditi da un’affettuosa colloquialità nella descrizione dei rapporti familiari, dell’ambiente domestico, della natura.

In conclusione del volume, tra il ricco apparato di note e l’altrettanto ricca bibliografia, Antonio Spadaro inserisce il reportage diaristico e fotografico del viaggio-pellegrinaggio compiuto nell’agosto del 2010 per visitare la tomba di Carver al cimitero di Port Angeles, nello stato di Washington. In questa cittadina lo scrittore aveva vissuto serenamente gli ultimi anni in compagnia di Tess, in una casa tranquilla e luminosa posta alla confluenza di due fiumi, in riva al mare: qui aveva composto e ambientato oltre 200 poesie. Nella stessa casa era morto per un cancro ai polmoni, il 2 agosto 1988, appena cinquantenne.

 

© Riproduzione riservata    15 novembre 2020

https://www.sololibri.net/Creature-di-caldo-sangue-e-nervi-Spadaro.html

 

 

 

 

RECENSIONI

MANTELLINI

MASSIMO MANTELLINI, DIECI SPLENDIDI OGGETTI MORTI – EINAUDI, TORINO 2020

Massimo Mantellini (Forlí, 1961) è uno dei nostri maggiori esperti di internet. Collabora a diverse testate giornalistiche, occupandosi di temi legati alla cultura digitale, alla politica delle reti, alla privacy e al diritto all’accesso. Ha da poco pubblicato con Einaudi Dieci splendidi oggetti morti, un saggio dedicato a dieci cose-arnesi-utensili-articoli-prodotti (oggetti, insomma) che hanno fatto parte della nostra quotidianità per molti anni, e ora non vengono più usati. Sono morti. Desueti, ridicoli, addirittura imbarazzanti. Eppure sono stati compagni fedeli delle nostre esistenze, quasi parenti stretti e insostituibili.

Mappe stradali, telefoni fissi, penne stilografiche, lettere e francobolli; che fine hanno fatto, nelle abitazioni, nelle auto, nelle borse delle persone? Il libro parla di loro, dell’autore, di ognuno di noi, collegando passato e futuro, privato e pubblico.

La piantina di Parigi su cui un personaggio flaubertiano cercava di orientarsi era forse la progenitrice delle enormi mappe stradali Michelin, complicatissime da ripiegare dopo averle consultate con estrema difficoltà (come riuscivamo a districarci tra i vari colori delle strade, i nomi quasi illeggibili dei paesini, le distanze segnalate in chilometri da addizionare?). Erano esposte con il loro bel colore rosso o blu nelle stazioni di servizio, negli autogrill, e poi conservate nelle tasche laterali dell’auto. Oggi abbiamo il GPS, Google Map, Street View, che ci impediscono di perderci, o ci fanno perdere con strategica crudeltà: il processo intrapreso dall’umanità è comunque quello di eleminare ogni imprecisione, fino al raggiungimento utopico dei mezzi di trasporto a guida autonoma.

E il telefono, quello grigio o nero SIP, con la rotella di composizione, e poi con la più moderna tastiera, appeso all’entrata o appoggiato su una credenza, con quale supponente stupore verrà giudicato da un adolescente di oggi, abituato allo smartphone, agli sms, a WhatsApp: cosa resterà a testimoniare l’esistenza delle cabine a gettone, se non qualche film d’antan?

Se poi pensiamo ai mezzi con cui le persone hanno lasciato tracce scritte di sé, ecco che dobbiamo recuperare vecchie Olivetti, carta carbone, penne a stilo, esercizi di calligrafia, consapevoli che anche solo scrivere a mano una cartolina è diventato per molti di noi un esercizio muscolare piuttosto faticoso. Sembra che persino le tastiere dei nostri pc verranno presto sostituite da gelide tecnologie vocali, quindi chissà se si stamperanno ancora francobolli e si imbucheranno lettere; certo non ci capiterà più di aprire con trepidazione telegrammi gialli consegnati con urgenza…

La macchina fotografica analogica, con la cara vecchia pellicola nel rullino di plastica, è stata soppiantata da quella digitale, facile e democratica, utilizzata universalmente con la diffusione maniacale dei propri selfie su Instagram. Al libro si preferisce il più agile ma impersonale e-book, che non conserva traccia del nostro possesso individuale (mentre la scomparsa di enciclopedie, dizionari, elenchi telefonici non ha lasciato grandi rimpianti negli utenti). Lettori e acquirenti di quotidiani sono una razza in via di estinzione, le edicole smobilitano, le riviste cartacee falliscono: pertanto i giornali, come i dischi in vinile, le cassette e i cd, sono diventati merce rara, rimpiazzata da altri sistemi di formazione/informazione: Facebook, YouTube, Spotify, Pandora o Apple Music.

Anche i fili e i cavi elettrici sono stati sostituiti dal più asettico e ordinato wi-fi. La contemporaneità si è ripulita di tanti orpelli, quasi magicamente sterilizzata, avvolta da un “rumoroso silenzio”. Così come l’inquinamento luminoso delle nostre città ha cancellato le stelle nei cieli notturni.

Massimo Mantellini ci racconta gli “oggetti orfani” – quelli che abbiamo seppellito -, con affettuosa nostalgia, recuperando ricordi della propria infanzia, e abitudini collettive dimenticate: lo fa citando viaggi, incontri, romanzi, testi filosofici, spettacoli teatrali e cinematografici. Senza esimersi da considerazioni teoriche importanti, velate da un rimpianto non classificabile come conservatore o passatista, ma certo caratterizzato emotivamente: “La tecnologia brutalizza gli oggetti morti, li sostituisce senza ripensamenti, scioglie ogni poesia che li avvolge. Sposta le cose della nostra vita dall’ingresso di casa alla cantina, e poi dalla cantina alle aste di modernariato su eBay o alle teche di qualche museo del design. E in questo processo di rapida sostituzione anche una parte della nostra umanità rischia di essere cancellata. Fino a un mondo nel quale gli oggetti smetteranno di essere connessi a noi e perderanno ogni importanza”.

 

© Riproduzione riservata                 «Gli Stati Generali», 8 novembre 2020

 

 

RECENSIONI

LAMARQUE

VIVIAN LAMARQUE, IL SIGNORE D’ORO – CROCETTI, MILANO 2020

Il terzo libro pubblicato da Vivian Lamarque nel 1988, Il signore d’oro, viene oggi riproposto dallo stesso editore di allora, Nicola Crocetti.

Si tratta di composizioni risalenti al biennio 1984-1986, che non è del tutto congruo classificare come poesie (nonostante spesso ci si imbatta in frasi che sono endecasillabi, o endecasillabi più settenari, abilmente camuffati), Né sarebbe appropriato parlare di aforismi, poiché non spacciano ricette di vita o di saggezza usa e getta: piuttosto esibiscono incertezze, implorano conferme.

Potremmo concordare di chiamarle brevi prose poetiche, sottintendendo tuttavia che si tratta di messaggi, di probabili S.O.S. inviati più che al lettore, al protagonista stesso del volume, un signore d’oro definito con attributi ben poco caratterizzanti (bello e meraviglioso, accarezzabile, alato, intoccabile, lontano, profumato, studioso, gentile, notturno), con l’esplicita intenzione di lasciarlo sospeso in un’immateriale levità fantastica.

Di lui sappiamo che veste un loden grigio lupo, che probabilmente si identifica con il dottore della dedica, il quale incontra regolarmente nel chiuso di un seminterrato una signora, nel reiterarsi di un rapporto riducibile in realtà a una terapia analitica.

Ma “La realtà non c’era, era abdicata. // Splendidissima regnava la vita immaginata”: ciò che conta è il sogno, inteso più che come materiale onirico, come favola. Il tono narrativo è appunto quello – tipico di Vivian Lamarque, nota anche come scrittrice per l’infanzia e traduttrice dal francese – fiabesco, scandito da insistenti anafore e da numerose anastrofi (“per eventualmente salire”, “la pensata fotografia”), dalla formula enunciativa dell’incipit (“Era un signore…”), dall’uso iperbolico di aggettivi, esclamativi e soprattutto avverbi, spesso reiterati (sempre sempre, lontano lontano, basso basso, fitto fitto, piano piano…), dalla costante pratica di interrogazioni retoriche, parodianti le cantilene infantili.

Co-protagonista del racconto è una signora quarantenne (“Però gli anni non erano durati veramente un mese”), i cui contorni rimangono ancora più nel vago di quelli del “signore d’oro”, definita com’è non tanto da attributi, quanto da una serie di azioni a senso unico: “Una signora voleva dargli dei baci…; stava diventando gelosa…; voleva tenerlo fino a persempre con sé…; aspettava… non lo sapeva che il signore non arrivava…; in fretta lo adorava…; gli scriveva lunghi foglietti…; lo guardava fisso e gli faceva dei piccoli inchini di pensiero sulle scale d’oro del trono…”.

I fili che reggono queste brevi illuminations avvolgono il lettore in un bozzolo di incantata leggerezza, invitando chi legge ad abbandonarsi a una berceuse di parole recitate con voce innamorata; se non che i frequenti bruschi risvegli richiamano a una realtà disperata, proprio nel senso di senza speranza: “Era un signore andato via. // A lei qui rimasta tantissimo mancava. // La traccia di lui lasciata segnava / ovunque intorno a lei l’aria. // Come un quadro spostato per sempre segna la paret

© Riproduzione riservata 

«Gli Stati Generali», 3 novembre 2020, «La collina», n. 9-10, giiugno 87

 

RECENSIONI

CARTABIA-CERETTI

MARTA CARTABIA-ADOLFO CERETTI, UN’ALTRA STORIA INIZIA QUI – BOMPIANI, MILANO 2020

Marta Cartabia, costituzionalista e giurista, e Adolfo Ceretti, criminologo, entrambi docenti universitari, hanno scritto un saggio dal titolo augurale, aperto a un futuro generosamente propositivo: Un’altra storia inizia qui. Quale storia, dunque? E “qui” dove?

La storia è quella che riguarda sessantamila persone rinchiuse nelle carceri italiane: storia che può diventare “altra” a partire da un “qui” di ripartenza, educativa e socializzante. Il sottotitolo del volume, La giustizia come ricomposizione, pare infatti auspicare una giustizia capace di promuovere i valori della convivenza civile, ricucendo i rapporti interpersonali invece di reciderli.

Le riflessioni degli autori si articolano in due interventi – tenuti nel marzo di quest’anno al Centro Carlo Maria Martini – che prendono le mosse proprio dalla testimonianza profondamente umana ed empatica del Cardinale, il quale, facendo ingresso nella Diocesi milanese il 10 febbraio 1980, e passando davanti a San Vittore, promise a se stesso di dedicare a coloro che vi erano segregati la prima visita pastorale. Prima delle molte succedutesi nei 22 anni del suo mandato arcivescovile.

Adolfo Ceretti arricchisce il proprio dotto contributo non solo con le considerazioni filosofiche di Hume, Simmel, Rorty, Shklar, Ricoeur, ma appunto con le riflessioni che Martini maturò sulla pena detentiva e sulle condizioni di vita nelle prigioni. Le sue meditazioni tendevano in primo luogo a incoraggiare una giustizia non puramente punitiva ed emarginante, ma semmai riparativa, in grado di riequilibrare anche la relazione tra vittime e rei.

In una visione profetica, nutrita di profonda sensibilità e cultura teologica, Martini indicava come legittima e necessaria l’opposizione ai delitti e all’illegalità, rifiutando tuttavia con forza ogni ritorsione vendicativa, e ogni espressione di crudeltà nella detenzione. Affermando che nessuna persona va identificata totalmente nel reato commesso, sottolineava il dovere di concedere a chiunque la possibilità di un riscatto, il diritto a un confronto e al dialogo. Invitava inoltre a valutare il peso delle corresponsabilità sociali nella genesi della criminalità, spesso generata da condizioni culturali, economiche ed educative depauperate. Particolare fu ad esempio la disponibilità dimostrata dal Cardinale verso i protagonisti della lotta armata negli anni ’70 e ’80, attraverso l’ascolto delle loro confessioni, da cui emergevano sia ammissioni di responsabilità, sia pentimento e volontà di riparare alle colpe commesse e al dolore provocato.

Marta Cartabia approfondisce le tematiche suggerite dal collega Ceretti con rafforzata, partecipe finezza, testimoniando la sua affinità con le tesi di carità evangelica di Carlo Maria Martini. Citando il versetto di Matteo 25,43 “Ero in carcere e mi avete visitato”, sottolinea la pregnanza umana e religiosa del verbo visitare, cui l’alto prelato attribuiva il significato biblico di incontro, cura e soccorso, al quale mai si era sottratto: “Il carcere è lo specchio rovesciato di una società, lo spazio dove emergono tutte le contraddizioni e le sofferenze di una società malata”.

Da qualche anno, alcuni giudici della Corte Costituzionale visitano i luoghi di reclusione, facendo proprio l’invito di Martini a valutare le esperienze personali dei detenuti, nella necessità di superare la visione retributiva della giustizia (a lungo condivisa anche dal cristianesimo, nella condanna del peccatore al castigo dell’inferno) attraverso quella di redenzione, in un cammino evolutivo e riformatore della correzione. Due i capisaldi della riflessione martiniana: la dignità della persona, e la costruzione di un sistema penitenziario efficace, in grado di tutelare la sicurezza dei cittadini e di ripristinare l’armonia dei rapporti sociali.

“L’uomo non è bestia da domare… mostro da abbattere, parassita da uccidere”, scriveva il Cardinale nel 2003. In accordo con le sue indicazioni, il sistema giuridico italiano sta sviluppando il concetto di pena come cammino graduale, flessibile e individuale di ciascun detenuto, in un processo di riabilitazione e risocializzazione, e nella prospettiva futura di un superamento del carcere come unico rimedio del male. Già Michel Foucault, nel saggio Sorvegliare e punire del 1976, affermava che la restrizione carceraria, “non è in grado di diminuire il tasso di criminalità e anzi tende a incentivare la recidiva”. Nessuna ritorsione vendicativa della collettività nei riguardi del reo, quindi, ma come indicava Carlo Maria Martini “riconoscimento e riconciliazione”: riconoscimento del male compiuto e ammissione delle responsabilità da parte del colpevole, riconciliazione per ricostruire i legami spezzati dall’agire iniquo.

Marta Cartabia, nel suo excursus culturale sui concetti di colpa, condanna, perdono, si rifà sia alla Bibbia sia ai tragici greci e alla Commedia dantesca, per arrivare ai maggiori pensatori del ’900: Buber, Guardini, Calamandrei, Ricoeur. E conclude con le parole di Papa Francesco: “Si tratta di fare giustizia alla vittima, non di giustiziare l’aggressore”.

Parole che sento di poter condividere personalmente, avendo una figlia che da anni insegna nel carcere di massima sicurezza di Opera: dai suoi resoconti sulla sofferenza di cui è quotidianamente testimone intuisco quanto siano necessari radicali interventi di riforma del nostro sistema giudiziario e penitenziario.

 

© Riproduzione riservata         «Gli Stati Generali», 26 ottobre 2020

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

RACCONTI

NON SAPEVA COME DIRMELO

Se lo sono sempre chiesti tutti, come mai uno come lui si interessasse a una come me. Sì, perché lui era un bel ragazzo, davvero bello. Alto, con un fisico asciutto, capelli castani e folti, e un viso espressivo, un po’ irregolare forse, ma proprio per questo più attraente. Occhi marroni, anzi nocciola, con pagliuzze dorate nell’iride, e soprattutto un sorriso dolcissimo. Non femmineo o affettato, ma indulgente, affettuoso: così ce l’hanno solo le persone che capiscono gli altri, e non giudicano. Anche il suo nome era gentile: si chiamava Giuliano.

Io invece, esattamente il contrario. Bassa e robusta, con braccia e gambe muscolose, frangetta nera, occhiali di corno, bocca larga. Severa e rabbuiata, maschia come forse mi desiderava mio padre, che sperava in un Ernesto. Ernesta, appunto.

Però tanto intelligente, caparbia nello studio, e ambiziosa. Stessa classe al liceo, stessa facoltà di medicina. Amici, colleghi, anche un po’ rivali, noi due: Ernesta e Giuliano. Per quale motivo avessimo finito per fidanzarci, e poi per sposarci, questo restava un mistero per chiunque ci conoscesse. Amore? Mah. Ne dubito. Certo, la nostra relazione mi inorgogliva, però sentendomi tanto inferiore a lui fisicamente, continuavo a dubitare dei suoi sentimenti, e a interrogare i miei. Simpatia? Troppo diversi nel carattere e nelle opinioni sul mondo, per piacerci a vicenda. Allora cosa? Be’, credo che ci fossimo scelti reciprocamente per esclusione, cioè depennando una alla volta ogni eventuale proposta alternativa.

“Esco”, dopo cena, mentre sfogliavo una rivista in salotto. “Ancora? Sei già uscito l’altra sera, e hai fatto tardi”. Si comportava in maniera strana, da qualche mese. Silenzi improvvisi, sguardo perso nel vuoto, sbalzi di umore. Dall’allegria immotivata alla malinconia più grigia. Irritandosi per qualsiasi sciocchezza, anche con gli oggetti che gli sfuggivano di mano, con le previsioni del tempo sballate, con le notizie dei giornali. E non mi regalava più i suoi sorrisi teneri, disarmanti. Poi queste uscite serali, almeno due volte la settimana. Incontri professionali, mi aveva detto. Voleva cambiare lavoro.

Aveva già lasciato tre ospedali, nei nostri venticinque anni di matrimonio. Ora, sembrava avesse trovato l’ambiente giusto in una clinica privata della provincia, a una trentina di chilometri da casa. L’equipe con cui collaborava, le mansioni che gli erano state affidate, lo stipendio più che dignitoso sembrava lo ripagassero della lontananza e del traffico stradale contro cui lottava quotidianamente. Si era specializzato in radiologia, io invece in oculistica. Nonostante il mio proclamato ateismo ero rimasta sempre fedele al Sacro Cuore di Gesù, diventando vice primario, e un punto di riferimento anche politico per la sanità cittadina.

Non abbiamo avuto figli, per scelta e per destino. Da subito avevamo ritenuto opportuno dedicarci totalmente alla nostra professione, e inoltre nessuno di noi risultava particolarmente sensibile al richiamo dei sensi, appagati per quel tanto che si ritiene necessario. Tornavamo stanchi e stressati dal lavoro in corsia e in ambulatorio, e spesso dovevamo seguire corsi di aggiornamento, partecipare a congressi, approfondire ricerche: ciascuno per conto suo, senza rendere conto all’altro. Anche così, tuttavia, in questa semi-estraneità reciproca, continuavamo a ritenerci una coppia affiatata, senza eccessivi problemi.

Ma adesso, dopo tanto tempo, questa strana e improvvisa reticenza di lui, l’imbarazzato fastidio se appena osavo domandargli qualcosa della sua giornata in clinica, mi mettevano in allarme. Mi addolorava, insomma, vederlo turbato. Sapevo di un forte contrasto nato mesi prima con un collega chirurgo, Brioschi mi sembra si chiamasse, riguardo all’interpretazione di alcune radiografie, dopo un intervento ai polmoni in un giovane paziente. Mi aveva raccontato di uno stillicidio di battute e allusioni offensive che questo dottore gli riservava a ogni incontro, in privato e in pubblico. E di un violento alterco nel bar della clinica. Cosa che mi riusciva difficile da immaginare, conoscendo la mitezza di mio marito, il suo disappunto di fronte a qualsiasi smodata esternazione verbale.

“Cosa cerchi?”, gli avevo chiesto una settimana fa, trovandolo inginocchiato per terra a frugare nell’ultimo cassetto della scrivania. “Ah, niente. Metto in ordine le mie carte”. “Sei proprio deciso a cambiare? Forse dovresti consultarti con la direzione, prima”. “Ma no, sarebbe inutile. È una questione che devo decidere da solo”. Respirava a fatica, non si era nemmeno voltato a guardarmi in faccia. Poi era uscito, con un faldone di documenti sotto il braccio.

Per alcuni giorni lo osservai con particolare attenzione. Non dico lo spiassi, ma capitava che quasi istintivamente mi avvicinassi alla finestra per seguirlo con gli occhi, quando la mattina usciva di casa prima di me, si affrettava al parcheggio per prendere la macchina, metteva in moto e accelerava nervosamente in direzione della via provinciale. Chissà perché mi attraversavano la mente timori infondati, immagini di incidenti stradali, di alterchi con automobilisti aggressivi. Quasi fossi la mamma spaventata di un adolescente inaffidabile.

Dormivamo da alcuni anni in camere separate. Giuliano si lamentava del mio russare, io del suo agitarsi smanioso tra le coperte. Parlava spesso nel sonno, svegliandomi. Anche così, comunque, confinato nella cameretta degli ospiti, capitava lo sentissi mugugnare, o ridere, o lamentarsi spaventato da chissà che incubi.

“Smettila, Paolo, smettila!”, aveva urlato recentemente, continuando poi a mormorare parole incomprensibili, concitate. Sempre Brioschi, immaginai, il suo ossessivo fantasma persecutorio. Sì, mi sembrava si chiamasse proprio Paolo.

“Perché non ti prendi un congedo?”, gli avevo proposto. “Qualche settimana, un mese. Giusto per riposarti. Magari fai un viaggio, o vai al mare. Se ti allontani per un po’, ti tranquillizzi tu, e si rasserena l’ambiente al lavoro”. Aveva risposto con un gesto di insofferenza, alzando gli occhi al cielo. “Lo sai che hai ripreso a parlare, mentre dormi? E ti sento quando ti alzi e giri per casa…”. “Cosa fai, mi controlli? Ti do fastidio anche se respiro?” Era evidentemente esasperato, non sapevo se per colpa mia o di chi altro. Non voleva ne discutessimo.

Domenica mattina, a colazione, finalmente me l’ha detto: “Vado via”. Io ancora scema, ottusa, sconcertata, “Dove?”, gli ho chiesto. “Ho trovato un’altra sistemazione”. “Un altro ospedale? Una clinica privata?” Teneva gli occhi fissi sulla tazza del tè. “Mi hai nascosto qualcosa di grave, Giuliano? Quel tuo collega ti ha forse denunciato, Brioschi, o come si chiama, Paolo Brioschi?”. “Brioschi si chiama Pierpaolo”. “Va bene, chi se ne frega”. Mi tremavano le mani.

“Non vado via dalla clinica. Non ho dato le dimissioni”. Credo che mio marito non mi abbia mai rivolto uno sguardo così pieno di dolore. “Vado via da casa. Via da qui, da te”. Non capivo, non sapevo cosa rispondere. A me non sono mai mancate le parole, ma in quel momento non trovavo né voce né pensieri.

“Paolo, quel Paolo, è un altro”. Si era alzato da tavola. “Non sapevo come dirtelo”.

 

«Gli Stati Generali», 19 ottobre 2020 e in «Gente normale», Eretica 2024

 

RECENSIONI

BONTEMPELLI

MASSIMO BONTEMPELLI, GENTE NEL TEMPO – UTOPIA, MILANO 2020 – p.192

La giovanissima casa editrice milanese Utopia ha inaugurato il suo catalogo riproponendo uno dei più famosi libri di Massimo Bontempelli, Gente nel tempo. Scelta perspicace e raffinata, perché il romanzo, pubblicato nel 1937, è stato più volte riedito con ottime tirature (fino all’inclusione nell’opera omnia dell’autore, uscita da Mondadori nel 1961, nel 1978 e nel 1997), provocando curiosità e polemiche per l’atmosfera di funerea iattura di cui era impregnato.

Aleggia infatti sull’intera vicenda una minacciosa profezia, pronunciata dalla Gran Vecchia, autorevole e intransigente matriarca della famiglia Medici, che prima di spegnersi in un’afosa notte estiva del 1900 aveva predetto all’inetto figlio Silvano, alla nuora Vittoria, al medico di casa, al notaio e al parroco del paese di Colonna, la morte in giovane età di tutti i componenti del casato.

Il macabro presagio negli anni si era rivelato sempre più attendibile. I due sposi avevano reagito ad esso in maniera differente: Silvano con maggiore turbamento, Vittoria con il desiderio di infrangere ingessati tabù, e di aprirsi alla vita. Le loro figlie, Dirce e Nora, rispecchiavano il diverso carattere dei genitori: la prima più introversa, la seconda più esuberante. A distanza di cinque anni dalla morte della nonna, videro morire il padre, e dopo un altro lustro assistettero anche alla scomparsa della madre.

Trasferitesi a Milano, le sorelle trascorsero gli anni della guerra impegnandosi come ausiliarie negli ospedali militari, mentre lo spettro della maledizione che incombeva sulla famiglia continuava a tormentarle. Infatti, la fatidica scadenza dei cinque anni tornò a pretendere il suo obolo sacrificale, portandosi via uno zio nel 1915, e nel 1920 il bambino di Nora. “Qualche cosa c’era, qualche cosa di oltreumano, di astrale”, in quelle fatali ricorrenze.

Il ritorno nel paese natale, dove la lugubre fama che le circondava si era ormai diffusa radicandosi nelle coscienze e nei comportamenti degli abitanti, non le aiutò a superare paure e superstizioni, rendendo sempre più precaria la loro salute fisica e mentale, nell’attesa ansiosa del compiersi del funesto presagio. “Non importa morire, importa non sapere quando… La vita è essere incerti, la vita è non sapere, non sapere né quando né dove uno va… La vita è andarsene”, riflette uno dei protagonisti nell’ultima pagina del volume.

Forse è il caso di ricordare brevemente quale sia stata la parabola esistenziale e culturale dell’autore di questo singolare romanzo, sospeso tra il noir goticheggiante e un acuto psicologismo.

Massimo Bontempelli (Como,1878-Roma,1960) fu una controversa figura di romanziere, poeta,  drammaturgo, compositoregiornalista e traduttore. Laureato in filosofia e in lettere, visse in varie città, collaborando a numerose e importanti testate giornalistiche e case editrici. Convinto interventista, inviato di guerra, combatté come artigliere al fronte, ottenendo la Medaglia di bronzo al valor militare. Trasferitosi a Parigi, entrò in contatto con le avanguardie artistiche francesi, affidandosi nelle prime opere a un irrazionalismo onirico sulle tracce del movimento surrealista di Breton, e inaugurando con gli amici Alberto Savinio e Giorgio De Chirico la corrente sperimentale del “realismo magico”.

Tornato a Roma, aderì al Partito Fascista insieme a Pirandello, per la cui compagnia teatrale iniziò a scrivere opere drammatiche, sempre oscillanti tra atmosfere fiabesche e spettrali. Estremamente critico nei confronti del provincialismo letterario italiano, fondò prestigiose riviste dal respiro cosmopolita (“900”, “Quadrante”, “Città”), rivalutando l’imprevedibilità del caso e il fascinoso dominio della magia contro il determinismo massificante della società borghese, e sottolineando il ruolo fondamentale dell’inconscio nelle azioni umane, insieme alla necessità di rifarsi al mito come sorgente immaginativa di ogni forma artistica.

Su questo terreno ideologico, Bontempelli edificò nel 1937 le basi di Gente nel tempo, opera in cui l’assurdo e l’imponderabile si insinuano nei disegni del destino, creando attese e smarrimenti, incubi e leggendarie fantasticherie.

Il romanzo, “strutturato, come un thriller misterioso, in un percorso a tappe agghiacciante e diabolico, non privo di colpi di scena” (come scrive la prefatrice del volume Marinella Mascia Galateria), anticipava con assoluta originalità i nuovi percorsi narrativi e drammaturgici del secondo ’900, e rimane ancora oggi l’inquietante testimonianza di un immaginoso tentativo esoterico di sottrarsi a una realtà vissuta come opprimente e drammatica.

 

© Riproduzione riservata                        «Gli Stati Generali», 14 ottobre 2020

 

 

 

RECENSIONI

MARCOALDI

FRANCO MARCOALDI, QUINTA STAGIONE – EINAUDI, TORINO 2020

Franco Marcoaldi (eclettico autore di versi e narrativa, di libri di viaggio, di testi teatrali, musicali e televisivi, e inoltre consulente editoriale e collaboratore de La Repubblica), ha da poco firmato per la Collezione di Poesia einaudiana il suo nono volume, un monologo drammatico in versi, intitolato Quinta stagione.

La stagione che si apre al poeta, alle soglie dei sessantacinque anni, è inedita, nuova, sconosciuta, si offre come generosa e vivace sorpresa: “tempo / indefinito, penoso e scriteriato / – sole nell’uragano, arcobaleno al buio, / sete dell’affogato”. Eccolo dunque sopraggiunto, il momento ineludibile e severamente censorio in cui si tirano le somme dell’esistenza intera, in cui eccesso di parole e afasia si rincorrono e sovrastano, resi entrambi urgenti dall’esigenza di giustificare o di sorvolare, come consiglia l’autore. Il teatro degli inganni che vede ogni essere umano protagonista della recita imposta dai copioni del vivere sociale, si trasforma in un teatro interiore, magari ugualmente confuso e cacofonico, ma perlomeno più assorto, e nelle aspirazioni, più sincero. “Ora però ti è offerta l’occasione / di raccoglierti e fermarti, / di osservare e di osservarti”.

Il poemetto, scandito in dodici sezioni, si distende in forme gradevolmente colloquiali, con una voce narrante e interrogante che interloquisce con altri invisibili personaggi, o con se stesso, in un vivace scambio delle parti, dove toni meditativi si alternano ad accenti più disinvolti e maliziosi, cadenze musicali a impostazioni più rigidamente prosastiche. Come succede in una conversazione telefonica, o in un informale incontro tra conoscenti, oppure – al contrario – in un ovattato confessionale, in un’equilibrata seduta psicanalitica. Quando a bassa voce si ammette che all’euforia spesso subentrano stanchezza e pesantezza, accorgendosi che “È tutto fuori asse, è tutto / fuori tempo”, perché dopo la primavera e l’estate vissute con entusiastica partecipazione, adesso ci si deve accontentare di un autunno piovoso, di un infreddolito inverno: “Ah, com’è difficile imparare / a tramontare”. Che se poi nel giorno dei morti o a Natale spuntano improvvise fioriture di rose, riprendono vigore pomodori rinsecchiti, ecco che lo scherzo fuori stagione assume le sembianze di una crudele provocazione.

Le metafore utilizzate da Marcoaldi nella sua riflessione sul tempo che scorre inesorabile, sull’età che avanza, appaiono al lettore curiose e leggere, svagate nella loro imprevista allusività (l’angelo spiumato, i bulloni allentati, il mantice affannoso della fisarmonica, la corona di perle sgranata…).

Negli excursus recriminatori sulla politica, la finanza, la burocrazia, l’inquinamento, l’onnipresenza onnivora dei media, e più in generale sugli uomini di potere e sugli ignavi che non si ribellano, l’autore rivela una sua natura di esasperato corrector morum, nauseato dall’oggi, risentito verso ieri, scettico sul domani. Il vortice di attività di successo in cui ha investito le proprie energie giovanili, e le aspirazioni della maturità, si manifesta nella sua fatua inconsistenza: “una sceneggiata / che ora scopro falsa e vuota”. Dei tanti amici persi per strada, dei postulanti soccorsi e ingrati, degli amori banali e molesti, rimane poco o niente: “E allora: davvero vuoi sapere / quante sono le creature / per le quali piangerò / lacrime sincere il giorno / della loro morte? Cinque, sei, sette. / Non di più”.

Riguardo al suo futuro individuale, e a quello che aspetta l’umanità tutta, Franco Marcoaldi mantiene scarse illusioni, in questa Quinta stagione: “Solo la danza e il canto ci possono aiutare”, “Ti prego, accontentati dei sensi, / accontentati dell’occhio”. Oltre la materia di cui siamo fatti, oltre la bellezza gratuita che ci viene quotidianamente offerta, e di cui spesso nemmeno ci accorgiamo, ci resta appena “la nostra comica e dolente // esistenziale passeggiata / nello spazio sublunare”.

Tra rassegnazione, malinconia e vaghissime attese, il poeta conclude il suo monologo in versi, in un teatro semi-deserto, davanti a un pubblico distratto, che non sa più applaudire.

 

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RECENSIONI

RITSOS

GHIANNIS RITSOS, PIETRE RIPETIZIONI SBARRE – CROCETTI, MILANO 2020

Di Ghiannis Ritsos è stato ristampato dall’editore Nicola Crocetti (suo traduttore, grande estimatore e amico), il volume di versi Pietre ripetizioni sbarre, che raccoglie un centinaio di composizioni scritte tra il 1968 e il ’69, anni in cui il poeta viveva confinato dal regime dei colonnelli nei campi di concentramento di Ghiaros e Leros, e poi agli arresti domiciliari a Karlòvasi, sull’isola di Samo. Edite per la prima volta a Parigi nel 1969 con una commossa prefazione di Louis Aragon, furono introdotte clandestinamente in Grecia solo due anni dopo, censurate dal potere militare perché ritenute pericolose e sovversive. Anche quando non esplicitamente, quei versi alludono tuttavia (nell’ossessività di visioni plumbee e angosciose), al peso della dittatura, invitando alla ribellione e al coraggioso recupero del mito classico nel suo richiamo alla resistenza e alla libertà.

Ghiannis Ritsos (1909-1990) è considerato uno dei più grandi poeti greci del ventesimo secolo, insieme a Konstantinos KavafisGiorgos SeferisOdysseas Elytīs. Scrittore particolarmente prolifico, fu autore di circa 150 raccolte poetiche, oggi ristampate in quattordici volumi dall’editore ateniese Kedros. Proposto per nove volte, senza successo, al Premio Nobel per la Letteratura, vinse invece il Premio Lenin per la pace nel 1976, onorificenza da lui ritenuta più gratificante perché riconosceva la sua dichiarata e convinta adesione all’ideale marxista e al partito comunista greco (KKE).

Nato nel Peloponneso da una famiglia di proprietari terrieri, Ritsos ebbe un’infanzia e una giovinezza segnata da lutti e malattie: il fratello e la madre morirono di tubercolosi, mentre la sorella e il padre (affetto da una grave forma di ludopatia, che costò alla famiglia la rovina economica) finirono ricoverati in un istituto psichiatrico. Costretto ad abbandonare gli studi universitari ad Atene, svolse diversi lavori per mantenersi (dattilografo, copista, comparsa teatrale, ballerino), continuando negli anni ad alimentare la sua passione per la poesia e l’impegno politico.

Pietre ripetizioni sbarre è un volume diviso in tre parti corrispondenti alle tre scansioni del titolo. Pietre, nel suo rimandare alla dura scabrosità delle rocce di Leros, metafora della realtà aspramente ostile di un ambiente degradato, restituisce un’atmosfera da incubo, piombata in un silenzio lacerato da urla di ribellione, e abitata da figure minacciose. Questa sezione è quella in cui più concretamente si avverte l’incombere del potere tirannico da un lato e l’impotenza dell’individuo esiliato dal mondo circostante (Con queste pietre: “Non restarono che le pietre. Dobbiamo arrangiarci con queste, adesso; / con queste, con queste, – ripete. Quando la notte scende / dall’alto sul monte livido e getta nel pozzo le nostre chiavi, / mie pietre, mie pietre, – dice – potessi scolpire uno per uno i miei volti sconosciuti e il mio corpo”).

Ripetizioni consiste in un sofferto ritorno al mito e alla tradizione dell’antica cultura greca, in una rilettura del passato fattosi strumento di interpretazione e comprensione della contemporaneità: Achille Ercole Penelope Apollo parlano attraverso Ritsos parole ribattezzate dalla sofferenza patita nel presente (Talo: “Ripetizioni – dice, – ripetizioni senza fine; – che stanchezza mio Dio; / tutto il mutamento è solo nelle sfumature – Giasone, Odisseo, Colchide, Troia, / Minotauro, Talo, – e proprio in queste sfumature / tutto l’inganno e la bellezza a un tempo – opera nostra”).

Infine la sezione conclusiva, Sbarre, raccoglie le poesie più pregne della realtà da cui nascono; poesie di prigione, che narrano perquisizioni, isolamento, celle, torture, morti, evasioni senza ricorrere a simbologie o a metafore, (L’ultimo obolo: “Ore difficili, difficili per il nostro Paese. E lui, fiero, / nudo, indifeso, debole, lasciò che lo aiutassero; / hanno fatto ipoteche su di lui; accampano diritti, esigono; / parlano in sua vece; gli impongono il respiro, il passo; / gli fanno l’elemosina; lo rivestono con altri abiti troppo larghi e cadenti, gli legano una cima ai fianchi”; Necessariamente: “Caduto lì, bocconi; il mento nella terra; il collo / serrato tra i ginocchi dell’altro; – quasi cianotico; le vene gonfie sulle tempie. Immobile. / Un movimento; – l’estremo spasmo? Chiudi gli occhi. No, no”).

Il destino del prigioniero, la sua nostalgia di un esterno negato, lo stupore per la persecuzione ingiusta e crudele animano i versi di una delle composizioni più intense del volume, Il crocevia: “Molte volte devia, ingannato di nuovo / da lunghe colonne al sole e dalle loro ombre lunghe il doppio, / da vele triangolari sul mare, ingrandite / nell’infinita trasparenza. E, d’improvviso, il botto / di una briciola che cade sul pavimento o lo spago / appeso alle sbarre d’una finestra, / che stride impercettibilmente,  ̶  un fraterno preavviso / perché rientri per tempo. Guarda intorno stupito, / si guarda le unghie, sbatte le ciglia, tenta di ricordare, / di capire se era stato ingannato allora o adesso”.

Rimane comunque, inalterata e immutabile, la speranza di un futuro luminoso, in cui torni a trionfare “Immensa, estatica orfanezza – libertà”, nel recupero di una tranquillità quotidiana fatta di piccoli gesti familiari, e di una rifioritura augurale dell’habitat intorno. Rinascita: “Da anni più nessuno si è occupato del giardino. Eppure / quest’anno – maggio, giugno – è rifiorito da solo, / è divampato tutto fino all’inferriata, – mille rose, / mille garofani, mille gerani, mille piselli odorosi – / viola, arancione, verde, rosso e giallo, / colori – colori-ali; – tanto che la donna uscì di nuovo / a dare l’acqua col suo vecchio innaffiatoio – di nuovo bella, / serena, con una convinzione indefinibile”.

 

© Riproduzione riservata      «Gli Stati Generali», 9 OTTOBRE 2020

 

 

RECENSIONI

CELA

CAMILO JOSÉ CELA, LA FAMIGLIA DI PASCUAL DUARTE – UTOPIA, MILANO 2020

Camilo José Cela nacque in Galizia nel 1916, morì a Madrid nel 2002.  Aveva combattuto nella Guerra civile spagnola a fianco dei nazionalisti, e una volta tornato alla vita civile si era dedicato al giornalismo e a diversi lavori impiegatizi. Membro dell’Accademia Reale Spagnola, entrò nel Guinness dei primati per la quantità di onorificenze ricevute. Nella sua carriera letteraria, Cela sperimentò diversi stili di scrittura, aderendo a differenti correnti letterarie (dall’esistenzialismo all’espressionismo, dal realismo al surrealismo fantastico), sempre all’insegna di una coraggiosa ricerca sperimentale, in grado di affrontare le tematiche più complesse: superstizione, magia, erotismo, malattie mentali, rivendicazioni sociali, povertà, fanatismo religioso.

Nel 1942 il suo romanzo La famiglia di Pascal Duarte conobbe un notevole successo di pubblico, meritando anche una considerevole attenzione da parte della critica. Oggi viene riproposto dalla giovane casa editrice milanese Utopia, nella traduzione di Salvatore Battaglia, con una realizzazione grafica raffinata e accattivante.

La narrazione è preceduta da una “Nota”, in cui un anonimo trascrittore afferma di aver trovato un fascicolo di fogli scomposti abbandonato in una farmacia di Almendralejo, e di essersi limitato a ricomporne e poi a copiarne le pagine squadernate, censurando i particolari più crudi. L’autore del diario e protagonista del racconto (assunto a esempio da non seguire) si firmava col nome di Pascal Duarte, e aveva vergato le sue memorie mentre era recluso nel Carcere di Badajoz per aver aderito impulsivamente al “troppo male” insegnatogli dalla vita.

Pascual Duarte accusava il destino cieco e maligno di essere responsabile del baratro morale in cui era sprofondato, in parte assolvendosi dai delitti commessi: “Io, signore, non sono cattivo, sebbene non mi manchino le ragioni per esserlo. Tutti i mortali si nasce di una stessa pelle e tuttavia, mentre andiamo crescendo, il destino si compiace di modellarci variamente come se fossimo di cera e ci obbliga per diverse vie alla stessa meta: la morte. Ci sono uomini ai quali si ordina di camminare sulla via dei fiori e uomini a cui s’impone di trascinarsi per la via dei cardi e dei rovi”. Nato cinquantacinque anni prima in un “villaggio caldo e soleggiato, assai ricco di ulivi e di maiali”, Pascal viveva con i genitori e i fratelli, e in seguito con le due mogli, in una casupola sporca e maleodorante: lavorava saltuariamente, andava a caccia, pescava anguille. Abituato dall’infanzia a un’esistenza rozza, priva di affetti e ambizioni, il suo cuore si era indurito sull’esempio di quello dei genitori: la madre ubriacona e manesca, il padre delinquente e violento. Gli episodi dei suoi primi anni di vita (elencati saltando “dall’inizio alla fine e dalla fine all’inizio come una cavalletta inseguita”), vengono raccontati con pacata e fatalistica accettazione, anche quando si manifestano in tutta la loro odiosa brutalità. La nascita inattesa della sorella Rosario, cresciuta ribelle e ladruncola, quella di un fratello menomato, la fine grottesca e crudele del padre, il matrimonio tormentato con la prima moglie Lola, i figli abortiti o morti in culla: tutto concorre a creare il Pascal un senso di frustrazione misto a rancore e rabbia, che tende a sfogare con furia cieca su persone e animali innocenti: “Chissà che non fosse scritto nella divina memoria che la sventura doveva essere il mio unico cammino, la sola traccia lungo la quale dovevano trascorrere i miei tristi giorni!”, “Le più grandi tragedie degli uomini sembrano giungere come all’insaputa, con il loro passo di lupo guardingo, per coglierci con il loro morso subitaneo e preciso come quello dello scorpione”.

Travolto da un crescendo di umiliazioni e di tragedie familiari, Pascal Duarte si arrende al fato avverso, concorrendo volontariamente alla propria rovina: da uomo mite e sfortunato (“un mansueto agnello, atterrito e aizzato dalla vita”, lo aveva definito il cappellano del carcere), si trasforma in rabbioso assassino, cercando nella vendetta una rivalsa sulle ingiustizie e angherie subite. Il contrasto tra le azioni efferate del protagonista e il tono composto, rassegnato, addirittura garbato con cui vengono descritte, costituisce la cifra narrativa più originale nel romanzo.

Camilo José Cela tratteggia la dolente umanità dei suoi personaggi con indulgente e solidale comprensione, come ha giustamente sottolineato la motivazione del premio Nobel attribuitogli nel 1989, lodando la sua “prosa ricca ed intensa, che con la pietà trattenuta forma una visione mutevole della vulnerabilità dell’uomo”.

© Riproduzione riservata                9 ottobre 2020

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