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INTERVISTE

CRISOSTOMIDIS GATTI

PAOLA CRISOSTOMIDIS GATTI, POETESSA E BLOGGER

Paola Crisostomidis Gatti è nata a Messina e ha vissuto in diverse città italiane. Attualmente si divide tra Roma e Firenze. Dopo la Maturità Classica si è laureata in Giurisprudenza, per lavorare poi presso la Presidenza del Consiglio dei Ministri. È stata premiata in vari concorsi letterari e le sue poesie sono state pubblicate su antologie e riviste. Attualmente cura le rubriche “Si alza il vento” e “Una poesia al giorno” sul blog RMagazine. Nel 2017 ha pubblicato da Giuliano Ladolfi editore Istanti lunghi come coltelli.

 

  • Quando e seguendo quale metodo di studio ti sei avvicinata alla poesia?

Ricordo di aver scritto le prime poesie a dieci anni, frequentavo la quinta elementare a Pisa e avevo già cambiato città sette volte. Mio padre è un generale dell’esercito, ogni anno o al massimo due dovevamo trasferirci e ricominciare. Probabilmente sentivo un malessere da tirare fuori, anche se per molto tempo non ne ho avuto la consapevolezza, pensavo che spostarsi fosse la normalità. Grazie al liceo classico che ho frequentato a Firenze ho potuto approfondire i poeti delle antologie scolastiche e la letteratura greca e latina. Nonostante abbia poi studiato giurisprudenza e lavorato in una struttura del governo, ho cercato di ampliare le mie conoscenze poetiche leggendo soprattutto molta poesia straniera e i poeti “alternativi”, cioè quelli che a partire dagli anni ’70 hanno cominciato a rompere gli schemi classici della poesia.

  • Quali sono i poeti che più hanno influenzato la tua scrittura? E a quale corrente letteraria ti senti più vicina?

Il liceo classico ha sicuramente avuto un’influenza importante sulla mia scrittura, mi ha sempre affascinato l’uso del mito come spiegazione di valori etici e la lettura dei lirici greci per la sintesi perfetta dei versi.
Pavese è stato il regalo più amato durante l’adolescenza, gli anni del liceo sono passati leggendo le sue Poesie del disamore. L’incontro con le poetesse Sylvia Plath, Antonia Pozzi, Marina Cvetaeva e Alejandra Pizarnik è stato determinante. Donne che hanno sofferto, che la poesia ha aiutato finché il dolore non ha reso la loro vita insopportabile.
Non so a quale corrente letteraria mi sento vicina, probabilmente alla corrente più intimista, come espressione di sentimenti e stati d’animo. Credo molto nella poesia come forma di autocura perché riesce a circoscrivere il proprio stato d’animo, ad accettarlo e a trasformarlo in linguaggio poetico in modo che i sentimenti negativi non facciano più sentire il male di vivere:

“La poesia ha questo compito sublime di prendere tutto il dolore che abbiamo nell’anima e di placarlo, la poesia è una catarsi del dolore”. (Antonia Pozzi)

  • Le tue vicende biografiche e l’ambiente culturale in cui sei inserita, che ruolo hanno avuto nella tua produzione letteraria, rispetto ad altri interessi culturali (filosofici, religiosi, politici)?

Sono cresciuta in un ambiente familiare stimolante. Mia madre ha studiato all’Accademia delle Belle Arti di Firenze, è una pittrice e proviene da una famiglia dell’alta borghesia calabrese composta prevalentemente da giuristi e letterati che già nel 1700 possedeva una delle più grandi biblioteche del meridione. Mio padre è nato e cresciuto nell’isola di Rodi, in un contesto multietnico e multireligioso, da un padre piemontese e una madre greca. Per questi motivi ho sempre vissuto la cultura come arricchimento morale e la diversità come complemento di crescita. L’avvicinamento alla letteratura e di conseguenza alla poesia è nato grazie alla passione per la lettura sviluppata durante le vacanze estive trascorse dai nonni materni dov avevo accesso a un’ampia scelta di libri.

  • In che modo il lavoro che svolgi come blogger arricchisce anche il tuo scrivere versi?

Sono pochi anni che mi occupo di poesia per il blog RMagazine.it, ma devo dire che questo impegno mi sta dando molte soddisfazioni soprattutto come riscontro all’esterno e come approfondimento di studio personale. La ricerca dei poeti che devo inserire settimanalmente nella mia rubrica “Una poesia al giorno”, mi permette di spaziare all’interno del mondo poetico senza limiti geografici e temporali. Sicuramente ci sono poeti che sento più vicini come impatto emozionale e come stile, ma riesco comunque a mantenere una mia unicità. La cosa più importante che ho capito abbinando il mio lavoro di blogger allo scrivere versi è che per avvicinarsi veramente alla poesia bisogna studiarla in modo approfondito e impegnato.

  • Ci vuoi parlare brevemente del libro che hai pubblicato nel 2017, e di quello che uscirà prossimamente?

Nel 2017 ho pubblicato Istanti lunghi come coltelli presso Giuliano Ladolfi Editore. L’idea del libro è nata in un periodo di grande sofferenza, avevo perso un amore e mio padre a breve distanza, dovevo elaborare due lutti contemporaneamente. La poesia è stata di grande aiuto, è sempre stata una compagna silenziosa, ma non la vivevo in modo costante a causa del mio lavoro. In quel periodo l’ho abbracciata e poi ho continuato a tenermela stretta. Mi ha aiutato a gestire il dolore, ho sempre avuto problemi nel farlo.
La raccolta è divisa in cinque sezioni che, come una storia, attraversano le varie fasi della mia vita passando dal dolore alla rinascita. Credo che il libro sia un incitamento a reagire di fronte alla disperazione. Il titolo, Istanti lunghi come coltelli, rappresenta l’attesa nelle sue forme più intime: l’attesa di un amore, di una carezza che non arriva, l’attesa che i cambiamenti portino il nuovo e allontanino i ricordi maceranti del vecchio. L’attesa soprattutto di una guarigione dal male di vivere. I coltelli invece feriscono, fanno male, come l’attesa.
Prossimamente uscirà la nuova raccolta L’imperfezione della solitudine presso Edizioni Ensemble. Cinque sezioni rappresentate da altrettante figure femminili che all’interno di un cerchio immaginario affrontano il passaggio dall’Unico all’Universale come naturale processo di evoluzione. “La grande solitudine interiore” di Rilke diventa imperfetta nel momento in cui nasce il bisogno dell’altro per sentirsi meno soli. Un bisogno che stravolge l’esistenza e porta a percorrere strade imprevedibilmente diverse. Partenza e ritorno a percorsi solitari come cura e amalgama all’universalità dell’amore.

  • Che futuro prevedi per la diffusione della poesia nel nostro paese? Festival, fiere, performance, letture pubbliche sono utili a incrementare l’interesse dei lettori?

Negli ultimi anni ho notato un interesse maggiore nei confronti della poesia da parte soprattutto dei giovani. Ci sono molti poeti nati tra gli anni ’80 e ’90 che sono dei veri talenti. Penso che ci sia un ritorno alla poesia, al piacere di leggerla e ascoltarla. Anche nelle librerie mi sembra che gli spazi dedicati si stiano allargando e si trovano finalmente molte raccolte di poeti contemporanei. Stanno aumentando i reading e le persone che vanno ad ascoltare i poeti. Grazie ai social, Facebook e Instagram, la poesia viene condivisa e letta. Sono convinta che per avvicinare la gente alla poesia bisogna portarla in giro, farla uscire nelle piazze, far capire che la poesia è come la musica e le altre forme d’arte.

© Riproduzione riservata    6 ottobre 2020

https://www.sololibri.net/Intervista-Crisostomidis-Gatti-Istanti-lunghi-coltelli. html

RECENSIONI

VASALIS

M.VASALIS, VISIONI E VOLTI – ENSEMBLE, ROMA 2020

La casa editrice romana Ensemble ha pubblicato nel maggio di quest’anno l’opera completa della poetessa olandese M. Vasalis, con testo a fronte. Vasalis (1909-1998) è lo pseudonimo di Margaretha Leenmans, neuropsichiatra attiva professionalmente ad Amsterdam, e autrice di quattro raccolte di versi (Parchi e deserti, La fenice, Visioni e volti, La vecchia linea costiera), composte a partire dagli anni ’30, molto popolari e pluripremiate nei Paesi Bassi. Apparentemente semplici, dal linguaggio sobrio e diretto, le poesie antologizzate si connotano sia per un deciso, ma certamente non autocelebrativo, biografismo, sia per una forte tensione speculativa e spirituale.

Il primo esile volume, pubblicato nel 1940, è improntato a una visione leggera e garbata dell’ambiente naturale e umano che circonda la giovane autrice, con descrizioni di animali (asini, anatre, tacchini, ragni) e della vegetazione, nei colori mutanti del volgere delle stagioni. Ma si accenna anche ai turbamenti adolescenziali di chi deve affrontare i primi impegni della vita adulta: “Ho avuto paura di quasi tutto: / del buio, di figure sulla coperta, / del silenzio, del grido rauco / dell’ambulante della sera, di una festa, / del guardare sul tram e di me stessa”.

Sette anni dopo, la tragedia della guerra, il matrimonio e la perdita di un figlio di appena un anno, avevano già indirizzato la scrittura della Vasalis verso tematiche più complesse e coinvolgenti: il dolore di un distacco, l’amore che sconvolge o delude, la consolazione della preghiera: “Ben sapevo che l’apparenza tradisce / e le candele ardevano bianche e rette / come la differenza tra il bene e il male”, “Odo solo, che tutto soffre, / ammalata della moltitudine delle cose, / della loro assoluta solitudine”.

I versi compresi nelle ultime due raccolte, del 1954 e del 2002 (postuma), appaiono al lettore decisamente più articolati e formalmente sorvegliati. Il titolo Visioni e volti della prima indica appunto la predilezione per lo sguardo capace di intuire aldilà delle apparenze la tormentata realtà che si cela nelle espressioni e negli atteggiamenti delle persone, nelle emozioni ferite da un abbandono. “Così tanti tipi di dolore, non li nomino. / Ma uno, distanziare e scindere. / E non il recidere fa così male, / ma l’essere recisi”, “Tristezza fondi le mie forze, / cosicché io diventi immota come pietra”.

Figure rattrappite e stanche di vecchi, bambini che hanno perso spontaneità e sorrisi, l’uomo amato lontano, il cielo coperto, gli alberi grondanti pioggia: chi guarda e scrive tenta di anestetizzare la propria empatia, ricorrendo a una forzata estraneità dalla vita: “Sedevo vicino alle mie magre ed escoriate ginocchia / e guardavo oltre il lento scorrere dell’acqua, / senza pensare o sognare. / Il mio capo non spuntava per niente fuori dal tempo”.

Lo stile si fa più franto e conciso, le metafore più asciutte, la rispondenza tra turbamento interiore e contesto esterno più puntuale, in atmosfere che rievocano quelle tratteggiate da altre due grandi poetesse, Dickinson o Achmatova: “Uscì di casa nel primo imbrunire, / il marciapiede era bianco e dal cielo affiorava / brillante e fine e come ritagli di ciglia scure / ancora neve, che rimase sospesa a turbinare”, “L’inverno e il mio caro sono via. / C’è un merlo sul tetto, / la sua gola si muove, il suo becco trema / come parlando con se stesso”.

Giusto rendere merito alla piccola casa editrice Ensemble che ci ha fatto apprezzare una notevole poetessa pressoché sconosciuta da noi, proponendo un prodotto librario elegante e curato.

© Riproduzione riservata    https://www.sololibri.net/Visioni-volti-Vasalis.html  5 ottobre 2020

 

 

 

 

 

 

RECENSIONI

MATAR

HISHAM MATAR, UN PUNTO DI APPRODO   ̶   EINAUDI, TORINO 2020

Due anni dopo il romanzo autobiografico Il ritorno, premio Pulitzer nel 2017, Hisham Matar pubblica sempre da Einaudi Un punto di approdo, riprendendo in parte i precedenti spunti narrativi, ma facendoli lievitare in un contesto assolutamente diverso, italiano e artistico. Hisham, nato a New York nel 1970 e cresciuto a Tripoli, è figlio di Jaballa Matar, un diplomatico libico oppositore del regime, di cui tuttora non si conosce la sorte successiva al suo rapimento e alla prigionia nel carcere di Abu Salim.

Nel 1990, anno della sparizione del padre, Hisham aveva diciannove anni e viveva a Londra (città dove tuttora risiede), e passava molte giornate alla National Gallery a osservare i capolavori della pittura medievale senese, impressionato dal loro misterioso e sconvolgente fascino: “Ho scoperto che un dipinto richiede tempo. Ora impiego parecchi mesi o più spesso un anno prima di riuscire a passare oltre. E nel frattempo quel quadro diventa un luogo mentale e fisico della mia vita”.

Qualche anno fa, Hisham Matar, stremato dal lungo lavoro introspettivo richiestogli dalla composizione del suo romanzo di maggiore successo, decise di recarsi a Siena per meglio approfondire il suo interesse per l’arte italiana: una vera e propria dipendenza emotiva. Accompagnato nei primi giorni del viaggio dalla moglie Diana, subito si immerse in un girovagare affrancato da ogni vincolo di finalità pratica, in una flanerie disponibile a lasciarsi impressionare da qualsiasi oggetto, architettura, fisionomia umana, paesaggio naturale suscitasse in lui eventuali suggestioni.

Un vero inno d’amore per la città affiora dalle descrizioni delle prime pagine: “Le curve improvvise dei vicoli e la prossimità degli edifici accrescevano la mia sensazione di entrare in un organismo vivente. A ogni passo mi ci insinuavo un po’ di più ed esso, quasi in risposta, mi faceva spazio. Ero entrato in un posto familiare e del tutto sconosciuto… Ricordo di aver pensato che una delle principali funzioni delle città è proprio questa: essere lì in parte per renderci più intelligenti e più intelligibili l’uno all’altro”.

La scelta editoriale einaudiana di titolare il romanzo in modo diverso rispetto alla versione inglese (A month in Siena) non risulta affatto peregrina, poiché intende sottolineare l’avventura intellettuale vissuta dall’autore nel senso di uno sbarco e ancoraggio in una nuova dimensione spirituale. Infatti l’esperienza compiuta da Matar nel mese trascorso a Siena, è stata per lui, scrittore ormai maturo e affermato, rigenerativa e insieme trasformatrice: l’emozione suscitata dall’immersione visiva negli affreschi di Duccio di Boninsegna, Simone Martini, Ambrogio Lorenzetti, è diventata stimolo a una riflessione sugli avvenimenti basilari della propria vita, sulle presenze e assenze che ne hanno segnato indelebilmente il percorso.

Le considerazioni dello scrittore sui quadri ammirati e studiati nella città toscana costituiscono dei veri e propri piccoli trattati di critica d’arte. Il capitolo dedicato alla contemplazione dell’Allegoria del Buon Governo (il volume è corredato da illustrazioni a colori) è un puntuale commento della visione filosofica e storica alla base delle soluzioni pittoriche praticate da Lorenzetti. E da ciascuna delle opere d’arte osservate, Matar trae spunto per annodare collegamenti ad altri quadri antichi e moderni, a ricordi di incontri avvenuti in diverse epoche e luoghi della sua esistenza, all’ intenso legame con la moglie, alla memoria lancinante per la nobile figura del padre scomparso, o semplicemente ai sogni e agli incubi notturni. E soprattutto alla storia contemporanea, alle sue ingiustizie a atrocità, per cui anche la crudeltà dello sgozzamento di Golia da parte del Davide caravaggesco ha la funzione di far meditare sulle sanguinarie esecuzioni del terrorismo internazionale.

L’osservazione dei capolavori pittorici assume un valore di svelamento della condizione umana, del suo patire come del suo essere felice, nella relazione intessuta tra l’artista e la sua epoca, tra un quadro e chi lo guarda, tra un particolare colore e un trasalimento dell’anima, nella convinzione che “quanto ci accomuna sia più di quanto ci separa”.  L’arte ha il potere di cambiare il nostro modo di guardare a noi stessi e al mondo, di aprirci a meglio esplorare ciò che ci circonda, in una condivisione del sentire che è immersione nei secoli di storia che ci hanno preceduto e nella proiezione di un futuro sempre più perfettibile.

Un romanzo particolare e nuovo, questo di Matar, reso di piacevole lettura grazie anche alla limpida traduzione di Anna Nadotti.

 

© Riproduzione riservata            «Gli Stati Generali», 24 settembre 2020

 

 

 

 

 

 

RACCONTI

QUANDO SI FA SERA

Mi sono innamorato. Mi sono innamorato per la prima volta, adesso. A cinquantadue anni. Ero lontanissimo dal pensare che potesse accadermi una cosa del genere, così violenta, così improvvisa. Mi ha squassato dentro, stravolto le giornate, ottenebrato la mente, cancellato ogni desiderio. Perché, ovvio, il mio amore non è stato ricambiato. Mai, nemmeno per un attimo.

Allora (mi chiedo), perché esistono situazioni tanto assurde, perché si deve soffrire come ho sofferto e soffro io: per niente? Lo so, c’è gente che si uccide, per amore. Che non sopporta più di vivere sapendo di non poter sperare in un sorriso, in una carezza, nemmeno nel pensiero dell’altro (dell’altra). Non arriverei mai a questo. Non ci arriverò. E non perché mi illuda di una possibile sospensione dell’angoscia, addirittura di una guarigione; solo perché sono vigliacco, ho paura del male, del momento in cui potrei sentire molto male. Precipitando dall’alto, annegando, tagliandomi le vene, impiccandomi. Credo sia doloroso. Oddio, forse con i barbiturici mi addormenterei e basta, senza penare troppo. Ma chi me lo assicura, che il mio corpo non reagirebbe con spasimi atroci, col cuore scoppiato, il cervello incenerito?

No. Aspetterò. Aspetterò di morire come fanno tutti, insieme al mio bene non corrisposto. Che mi logorerà piano piano, mi invecchierà precocemente, facendomi cadere denti e capelli, appesantire il fiato, raggrinzire la pelle. In fondo, potrò continuare a sognarla, lei; mi basterà rivederla ogni tanto, lieve e bellissima, chiara come il suo nome.

Così era, il 21 marzo dell’anno scorso, inizio di primavera, quando mi è apparsa. Accompagnata dal direttore, era entrata nel mio ufficio con la stessa freschezza di un refolo di vento leggero e pulito in una giornata stagnante. Sorrideva.

“Questa è Chiara, la nostra nuova traduttrice dal tedesco”: con tali parole ci venne presentata. La mia segretaria, a cui stavo dettando un appunto, nel guardarla aprì leggermente le labbra in un’appena percettibile esclamazione di sorpresa. Io balzai in piedi, abbassai la testa in un ridicolo e compassato inchino di presentazione, pronunciando timorosamente il mio nome grottesco, “Romolo Del Balso”. Il direttore chiosò lusinghiero, “Il nostro valido e insostituibile responsabile dell’Ufficio stampa”. Lei mi porse la mano. Era giovane, e con voce giovane, con voce allegra disse: “Molto piacere. Avremo modo di conoscerci meglio”.

Questo fu l’inizio del mio amore, e del mio tormento. La metà dei miei anni, pensai subito. Meno della metà dei miei anni. Ma l’immagine accesa del suo viso cancellò all’istante tutto il tempo lunghissimo passato prima di incontrarla.

Infatti, cosa avevo vissuto prima di quel momento? Di cosa si era riempita la mia vita, prima di quel giorno? Di niente. Di noia, di tedio ordinato, di rassegnata accettazione degli eventi.   Tutti cancellati, dopo la sua tenera stretta di mano. Tornato alla mia scrivania, mi rimaneva tra le dita l’impressione tangibile di aver toccato la gracile delicatezza di altre dita, testimonianza concreta di una verità diversa da quella che quotidianamente verificava la mia ingombrante struttura corporea.

Adesso, passato più di un anno da quel giorno, mi chiedo: “Perché non mi hai voluto, Chiara? Perché non ti sei accorta del miracolo che hai operato entrando nella stanza? O te ne sei accorta, e ti ha spaventato scoprirmi improvvisamente graziato dalla tua grazia, guarito dal nulla?”

“Che bella ragazza”, commentò imperturbabile la mia segretaria, constatando seraficamente l’incontestabile. Rimasi annuvolato per tutta la mattina, sospeso in una bolla trasparente di stupore e insolita felicità. Rimasi annuvolato anche l’intera settimana, e quella seguente, e tutto il mese, e il mese successivo.

Mi comportavo come un ginnasiale. Gironzolavo nei corridoi dell’azienda fingendo irrimandabili faccende da sbrigare, per avere il pretesto di affacciarmi in vari uffici, nella speranza di imbattermi in lei. Prendevo l’ascensore su e giù in continuazione, immaginando un guasto improvviso che ci costringesse a una prolungata intimità, chiusi insieme nella cabina. Oppure fantasticavo che scivolasse sulle scale, e io potessi soccorrerla per primo, amorevole. Qualche occasione, insomma, con cui mettermi in luce ai suoi occhi, costringendola a provare gratitudine e ammirazione per la mia coraggiosa virilità, o per il mio lodevole acume. Sapevo di partire svantaggiato, con la pinguedine, gli occhiali spessi, l’impaccio che mi frenava in ogni contatto umano. Speravo tuttavia che la fama di cui godeva la mia vasta cultura potesse in qualche modo impressionarla, o perlomeno renderla curiosa del mio esistere.

Invece, aldilà di qualche rara frase di circostanza, non mi riuscì di parlarle fino all’estate. Fino al 14 luglio, per la precisione, presa della Bastiglia. Pausa pranzo, seduto a un tavolino esterno di un caffè poco lontano dall’azienda, avevo di fronte a me un piatto di carpaccio e un’insalata. Quando vidi proiettata sulla tovaglia un’ombra improvvisa, la voce di lei mi raggiunse prima che potessi ideare una reazione decente al suo cortese chiedere “Posso?”.

Mi alzai di scatto, e il suo nome mi rimase incastrato tra lingua e gola. “Sempre solo, sempre serio…”, continuò sorridente lei, sedendosi alla mia sinistra. “Non sono sposato”, mi ascoltai rispondere, nella maniera più insensata possibile. “Non ti ho chiesto questo”, puntualizzò senza nessuna ironia. “Già, sì, vero, giusto”, mi ingarbugliai confuso. “Nemmeno io volevo dire questo. Cioè, non so perché l’ho detto”.

Da questo imbarazzato incipit prese avvio la nostra strana, e per me esaltante, abitudine di trascorre insieme l’ora del lunch quotidiano. Parlava lei, giovane bella spiritosa. Chiara. Io mi innamoravo sempre di più.

Una volta osai chiederle in che modo si parlasse di me tra i colleghi. Rispose “Dicono che sei puntuale”. “Puntuale?”, chiesi. “Puntuale. Un modo educato per dire pignolo, pesante, noioso”. Volli approfondire. “E tu, come mi vedi?”. “Beh, come loro. Puntuale, pignolo, pesante, noioso”.

Rideva, la mia radiosa ragazza del sogno: vivace, simpatica, disinvolta, decisa. Poi, con un gesto improvviso e adolescenziale, mi arruffò i capelli sempre composti. “Falli crescere un po’. E via la cravatta, ogni tanto. Ti sei accorto che è estate?”. Illudendomi fosse il mio aspetto fisico, la mia compita eleganza a tenerla lontana dall’evidente interesse che nutrivo per lei (improbabile non se ne fosse accorta…), in pochi giorni cambiai decisamente look: abbigliamento casual, occhiali con montatura azzurra, frangetta sulla fronte. Mettendomi persino a dieta. Mi interrogava su varie questioni. Politiche, culturali, anche personali. Voleva sapere perché abitassi da solo, quante relazioni avessi avuto, come vivessi la mia sessualità. Non era indiscreta, solo molto estroversa, curiosa, sincera. Io arrancavo, sotto il peso dei miei complessi e delle mie paure, senza riuscire a porle nessuna delle domande che mi premevano in testa.

Un pomeriggio, sentendomi legittimato dalla sua affettuosa complicità, provai a stringerla con un braccio attorno alla vita, mentre attraversavamo la strada. “Che fai? Se lui ci vede dalla finestra, diventa geloso”. Lui? Lui chi? Da che finestra di quale ufficio della nostra casa editrice ci poteva spiare? Prima di entrare in portineria, mi guardò ammiccante. “Ci sposiamo in settembre, non te l’ho detto?”.

No, non me l’aveva detto, che era fidanzata con il direttore, più anziano di me, più puntuale pignolo pesante noioso di me. Sembrava che la cosa fosse di dominio pubblico da mesi. “Non lo sapevo”, confessai, mentre una montagna di disperazione mi crollava addosso.

Dopo il matrimonio, dopo il viaggio di nozze, in ottobre tornò al lavoro. Luminosa e felice. La incontrai in ascensore, sola, come nella più tormentante delle mie fantasie. “Posso continuare a pensarti?”, le chiesi a voce bassa, restituito ai miei occhiali di corno, alle cravatte eleganti, alla pettinatura inamidata.

“Perché no, Rodolfo? Sei una cara persona”, sfiorandomi la guancia con un bacio filiale, e sbagliando il mio nome.

 

«Elapsus», 22 settembre 2020

RECENSIONI

ROSSANDA

ROSSANA ROSSANDA, UN VIAGGIO INUTILE – EINAUDI, TORINO 2008

Einaudi ha ripubblicato nel 2008 un volume che Rossana Rossanda aveva dato alle stampe con Bompiani nel 1981, rievocando un viaggio compiuto in Spagna diciannove anni prima, nel 1962: Un viaggio inutile. O della politica come educazione sentimentale.

A Rossanda interessava documentare allora come la Spagna stesse vivendo il suo “desencanto”, adagiata in un’illusione che non si era mai travestita da azione, e tanto meno da rivoluzione – come invece molti comunisti dell’epoca avevano sperato. Soprattutto si trattava di testimoniare l’inizio di una crisi, quando, in quel 1962, a Rossanda membro del Comitato Centrale del PCI, per la prima volta “i conti non tornarono”. Quella missione, progettata per raccogliere adesioni a una manifestazione per la libertà spagnola, diventò “la misura della propria incapacità ed errore”, in un momento in cui “l’impossibilità di capire in forme vecchie e l’inafferrabilità d’una qualsiasi forma nuova” si manifestava non solo in Spagna, ma anche nel PCI.

Il paese che la giornalista si trovava ad attraversare per sondare gli umori del franchismo e dell’antifranchismo, non corrispondeva alle logore categorie di una comunista militante formatasi sui dogmi della III Internazionale. Non si trattava già più, nel ’62, di constatare la fine del fascismo, bensì di immaginare le infinite possibilità di resistenza del capitalismo. La Spagna di quel viaggio “finiva di essere qualcosa e non era ancora qualcos’altro, una crisalide”, “non era una società politicamente azzittita, ma apparentemente una società non politica; non imbavagliata, ma vuota”. Viaggio, quindi, della disillusione o della delusione crescente, che la scrittrice comunicava al lettore, immobilizzandolo in una sospensione del giudizio prolungata fino alla fine del libro.

Chi legge ora quel resoconto si aspetta qualcosa che non succede: “un amore o una storia gialla”, ironizzava Rossanda. Invece si trova a contare spostamenti e appostamenti, incontri ambigui, tracce di un’opposizione impalpabile anche se concretissima, che “lavora tenace su margini stretti… come il rumore…  di talpe pazienti”. Intorno e sopra a questo muoversi a passettini dell’antifranchismo pesava come una cappa di piombo l’immobilità del regime, “perfettamente assente in tesi, idee, atti politici e perfettamente presente come controllo”. Non smargiasso e rozzo come il fascismo mussoliniano, più furbo nel mimetizzarsi, più sottile nel concedere spiragli apparentemente inutilizzabili, più feroce nella repressione: “Mi muovevo e i miei interlocutori si muovevano con maggiore o minore audacia come fra le zampe di una tigre sonnacchiosa: la tigre era presente, ma dormiva. E se fosse invece morta? O in mutazione, già diventata un grosso gatto rabbioso ma senza artigli?”.

L’incombere di tale “Cosa, il mostro”, la presenza silenziosa della tigre, non concedeva nessuno spazio agli avvenimenti, che dunque non avvenivano: il libro si nutre di luoghi e di persone, pretesti narrativi che costituiscono il vero viaggio di maturazione politica all’interno della coscienza. Primo ed essenziale spunto narrativo sono i luoghi, la Spagna che nemmeno fisicamente corrisponde a quella immaginata dall’autrice, “aspra all’interno, sanguigna come la terracotta”: Barcellona è grigia e impenetrabile, Madrid burocratica e stracca, Siviglia stucchevole. Sono città-specchio per le allodole, non servono a inquadrare né a capire di più chi le vive. “È che Barcellona mi doleva, Madrid mi doleva. Le ricordo attraverso il mio disagio; la mia testimonianza va tarata, respinta, cancellata con la matita blu”.

Anche i personaggi dolgono, sono fatti della stessa pasta delle città, esasperanti nella loro pazienza, imprevedibili nella loro straziante abilità di far rivivere le atrocità della guerra civile. Tutti, o quasi, intenti a contarsi le ferite di un fallimento passato e di un futuro fallimentare, dal misterioso Federico in impermeabile che dall’esilio controlla la situazione e sembra prevederne con onniscienza ogni sbocco (ma finirà espulso dal PCE), all’avvocato socialista Amàt che spera nell’Internazionale, ai tre operai anarchici che non sperano più in niente.

Ma soprattutto c’è lei, Rossana Rossanda, impaziente e imprudente, mai rassegnata, così in disaccordo sempre con tutto da costituire l’unica nota sopra le righe nel monotono spartito di quell’ opposizione. Era lei, con la sua memoria risentita, che scopriva una Spagna deludente e ce la restituiva calda e tesa. Se si potesse parlare di immediatezza della memoria, questo libro ce ne offrirebbe l’occasione, perché nel recupero degli avvenimenti c’è la stessa agitazione, la stessa “faziosità” che li avevano permeati nel ’62.

Le cinque pagine finali potrebbero valere, da sole, tutto il libro. Sferzanti come i migliori articoli scritti per Il Manifesto, esplicite nella loro durezza, indignate nel rigore logico, partono dalla constatazione che non si può vivere senza idee, e che una società che ha cessato di pensarsi (sia in termini di conservazione, sia in termini di mutamento) è una società incapace di vivere, che tuttavia non sa permettersi di morire. “Una società siamo noi proiettati in eterno, prima e dopo, e la malattia che la dissolve non può cessare nell’inesistente morte”.

Se la Spagna del ’62 “non si sapeva più pensare perché non poteva più pensare di cambiare”, l’Italia dell’81 non si analizzava perché non sapeva più progettare alcun cambiamento: depressa, noiosa, malata di “una appena addomesticata peste”. I responsabili? Quelli di sempre. Ma anche “gli araldi della rivoluzione subito e oggi”, gli stessi “che domandano la fine delle certezze, anzi la loro destrutturazione”. Una vera collera viene espressa verso i teorici della politica che impudicamente “si compiacciono nella contemplazione dell’errore”, in un processo al ’68 e alla povertà del suo pensato, dimostrando tra l’altro scarsa originalità, perché è risaputo che “ogni sconfitta ridimensiona i valori; chi vince sembra più intelligente, chi perde non ha scampo”.

Rossanda trovava presuntuoso e futile il parlare da sola, da fuori; si immergeva, recuperava, interpretava. E faceva in modo che i viaggi inutili (in Spagna, nel PCI…) fossero utilissimi a qualcuno, almeno, per il presente e nel futuro di tutti.

 

© Riproduzione riservata            «Il Pickwick», 21 settembre 2020

 

 

 

 

 

 

 

POESIE

RICORDANDO LUCIO BATTISTI

I

 

Rumori lontani nel bosco,

fruscio di foglie a terra

e rami calpestati.

Intorno nebbia, mentre tenace

il sole non si arrende.

Noi spaesati a cercarci,

ruvide labbra, parole stente.

Il canto di un fagiano

ci sorprende, stride,

nel quasi giorno dell’addio.

Non ti conosco più,

in questa guerra che ci divide,

nostro presente

senza pace, senza domani.

 

 

II

 

Mi tremano le mani

se penso alle stentate primavere

passate; finiti i soldi,

anche l’amore faticava.

Ma non ti rassegnavi:

“domani sarà meglio, domani

andremo fuori

a comprare scarpe libri vestiti;

tutta nuova ti voglio vedere,

regalarti dei fiori”.

Attrice comprensiva

rispondevo facendoti coraggio:

maggio giugno l’estate

indolente che arriva.

Passa un giorno, poi un anno.

Non cambiava mai niente.

 

 

III

 

Allontanarci e ritrovarci,

questo mi proponevi,

prudente e saggio

con paura di sprecarti

in troppo dare. Non mi prendevi

nemmeno per mano, vergognoso

degli sguardi della gente:

mentre io avrei voluto sollevarti

aldilà di colline, di boschi

e confini: spaziare immensi

azzurri, col coraggio

dei folli e dei bambini.

 

 

IV

 

Consolante il ricordo di noi

mi si affaccia,

se nello specchio ritrovo

il profilo imparato a memoria,

sul letto la traccia

del corpo abbracciato,

dal soffitto oscillante un filo

di ragno

avvolge nel velo la storia

che è stata la nostra.

Nostra stanza,

mio tempio ora zitto:

mio cielo mio scoglio

e deserto.

Non voglio non volo,

ancora non provo.

 

 

V

 

Mi alzo mi vesto esco.

Vago come un automa,

impietrita in qualsiasi

parola, o gesto.

Poi improvvisa una voce,

poi tante, musica forte da un posto

che ignoro (balera

caffè ristorante): mi chiamano

dentro, scombinata compagnia,

“sei sola?”.

Rido tra loro, angeli sconosciuti,

canto, bevo. E via dal coma,

dannata tristezza;

salvezza decisa in una sera.

 

 

Il Pickwick, 13 settembre 2020; Gli Stati Generali, 5 marzo 2023

In Rime e varianti per i miei musicanti, Marco Saya Edizioni, Milano 2020

 

 

 

RECENSIONI

RECALCATI

MASSIMO RECALCATI, IL GESTO DI CAINO – EINAUDI, TORINO 2020

Caino, uccidendo suo fratello, compie un gesto crudele, privo di pietà, dettato da invidia e risentimento. La Bibbia lo racconta in Genesi 4,9: “Mentre erano in campagna, Caino alzò la mano contro il fratello Abele e lo uccise”. Massimo Recalcati riflette su Il gesto di Caino, lo ripercorre nel suo minuto accadere, e ancor prima, nel suo progettarsi, per poi interpretarlo psicanaliticamente, e offrirci una disamina dei suoi effetti nella storia della cultura ebraico-cristiana.

La tesi postulata in questa indagine è che “nella narrazione biblica l’amore per il prossimo viene dopo l’esperienza originaria dell’odio”, e che tale odio è motivato dal desiderio di distruggere l’Altro –vissuto come limitazione insopportabile –, per raggiungere “un ideale assoluto di autonomia e indipendenza”.

Il fratricidio di Caino è la seconda trasgressione agli ordini divini dopo quella attuata da Adamo ed Eva (il primo peccato è un furto, il secondo un assassinio). Ma appare forse ancora più grave ed eversiva della prima perché esercitata contro il parente più prossimo, contro il proprio sangue. In entrambe le storie narrate da Genesi, quella dei progenitori e quella dei due fratelli, il sentimento prevalente e condizionante è l’invidia: della coppia di sposi per la sapienza e il potere di Dio, di Caino per il fratello colpevole di avergli sottratto il prestigio presso la madre e presso il Signore.

L’invidia è un sentimento rivolto “a chi è come noi, ma ha o è più di noi; è sempre invidia per il simile e non per il diverso. In altre parole, l’invidiato incarna l’ideale inconfessato dell’invidioso… quello che vorremmo essere senza riuscirvi, il nostro ideale irraggiungibile, colui che incarna l’immagine narcisistica di noi stessi”. Ciò che Caino non tollera di Abele è l’intrusione minacciosa nel rapporto edipico e fusionale vissuto con la madre Eva, il fatto di essere stato spodestato dal ruolo di figlio unico e prediletto, non solo dei suoi genitori, ma dell’umanità intera. Il gesto che compie è assolutamente narcisistico, in quanto teso a “coltivare un’immagine grandiosamente ideale di se stesso… La matrice dell’odio invidioso è, infatti, al suo fondo, una passione narcisistica per se stessi, per la propria identità, per il proprio Io”. Ad accrescere il suo risentimento è il fatto che Dio ha riconosciuto nel fratello, e nelle sue offerte sacrificali (carne anziché prodotti della terra, caccia piuttosto che agricoltura), un valore superiore al suo. Deluso dal rifiuto divino, umiliato nella sua esigenza di riconoscimento, Caino trova nel ricorso alla violenza un possibile risarcimento alla propria mortificazione. “La scelta di Dio gli appare un sopruso, un capriccio, un atto prevaricatore. Ma Caino, in realtà, non tollera l’esistenza dell’Altro – la sua alterità – che la scelta di Dio intende invece evocare e portare alla presenza. Tuttavia, anziché cogliere l’atto di Dio come un’occasione di crescita, Caino resta fissato nella rivendicazione dei suoi diritti assoluti, resta prigioniero della sua passione narcisistica”.

Da dove deriva questa volontà di sopprimere ciò che è altro da sé? In fondo Dio, all’atto della creazione, aveva esaltato la molteplicità, la differenziazione peculiare di ogni vivente, affermandone la libertà: a ogni creatura era stato dato un nome, sottolineandone l’identità esclusiva, la distinzione rispetto alla totalità indifferenziata.

Ponendo trasgressione e brutalità all’inizio della narrazione, dopo la generosa bellezza offerta dai primi sette giorni del creato, la Bibbia afferma che è stato l’uomo a portare il male nella storia; la propensione all’odio, alla disubbidienza, all’oltraggio sembra essere una spinta pulsionale primaria e ineliminabile: “La tendenza trasgressiva non è solamente una possibilità della vita umana, ma una sua inclinazione fondamentale”. Essa indica il desiderio di violare il limite imposto dalla Legge per proclamare la propria incondizionata autosufficienza, distruggendo ogni alterità.

La scelta della violenza è determinata dalla volontà di raggiungere il proprio scopo direttamente, “per via breve”, senza passare attraverso una faticosa mediazione con l’Altro: “colpire il prossimo viene prima dell’amore per il prossimo… all’origine della vita, dunque, non è il sentimento di fratellanza, ma la sua distruzione, la sua negazione feroce”. Secondo Freud, “La storia primordiale dell’umanità è piena di assassinii. Ancor oggi quella che i nostri figli imparano a scuola come storia universale non è in realtà altro che una lunga serie di uccisioni fra i popoli… Anche noi, considerati in base ai nostri moti di desiderio, altro non siamo, come gli uomini primordiali, che una masnada di assassini”.

Colpendo il fratello, Caino ha finito per colpire se stesso, poiché non essendo in grado di esperire l’alterità e di accettarne l’esistenza, ammette la propria incompiutezza e inferiorità. Nell’odio verso Abele, rende l’immagine di lui ulteriormente ideale e irraggiungibile: solo uccidendolo può tentare di ridurre lo scarto tra ciò che sa di essere e ciò che aspirerebbe a essere.

Solamente dopo l’omicidio Caino potrà intraprendere un percorso di recupero e salvezza. Quando Dio gli chiede conto del suo delitto, dapprima lo nega (“Non lo so. Sono forse il custode di mio fratello?”), quindi lo riconosce come crimine inscusabile (“Troppo grande è la mia colpa per ottenere perdono!”). La maledizione divina lo costringerà a vagare “ramingo e fuggiasco”, a lavorare con fatica una terra arida e infruttuosa, marchiato con un segno che pur rendendolo eternamente riconoscibile in quanto assassino, ne impedirà l’uccisione vendicatrice, spezzando così la spirale della violenza e proteggendolo dall’automatismo di una Legge puramente sanzionatoria.

Nel confessarsi colpevole, Caino può espiare il suo peccato e iniziare una nuova vita, lontana dall’Eden, in un lento e difficile processo riabilitativo che lo condurrà alla costruzione della prima città umana e della propria paternità, atti generativi aperti al futuro. Il fratricida si assume così una responsabilità etica nei confronti del prossimo, persino dello sconosciuto o del nemico, e può recuperare in sé un sentimento di fraternità non esclusivamente biologica, ma compiutamente umana.

© Riproduzione riservata      «Gli Stati Generali», 13 settembre 2020

 

 

 

 

 

RECENSIONI

FRISCH

MAX FRISCH, HOMO FABER   ̶   FELTRINELLI, MILANO 2019, p.219

Capita talvolta di chiedersi se vale davvero la pena seguire ogni anno le classifiche della narrativa più venduta in Italia, o di acquistare gli autori presenti nell’ultima cinquina dell’ultimo premio letterario, per accorgersi, alla fine di una faticosa e svogliata lettura, che quelle pagine hanno lasciato scarse tracce di sé, nella mente e nel cuore, e invece una specie di frustrazione, di scoraggiato disappunto. Allora perché non rivolgere direttamente la propria attenzione ai libri belli (ce ne sono tantissimi!) pubblicati in Italia e nel mondo tra gli anni ’40 e gli ’80, quando ancora alla letteratura era demandato il compito non solo di intrattenere, ma anche di proporre vicende private e collettive coinvolgenti, di notevole spessore etico e culturale, e addirittura formalmente curate?

Magari riscoprendo Max Frisch (Zurigo, 1911-1991), autore di validissimi romanzi e testi teatrali, capaci di interrogare il lettore su questioni di rilievo sociale e politico, e acuti nell’indagine psicologica dell’ambiente e dei personaggi. Tra i tanti suoi volumi (Stiller, Il mio nome sia Gantenbein, L’uomo nell’Olocene, Barbablù…), Homo Faber, scritto nel 1957, è quello che ha conosciuto più ristampe, il più vivace dal punto di vista del plot narrativo, e ancora oggi assolutamente attuale.

Walter Faber, ingegnere svizzero cinquantenne al servizio dell’Unesco, narra in prima persona l’odissea che lo porta, attraverso una serie di vicissitudini impreviste e imprevedibili, a mettere in discussione la sua intera esistenza di persona razionale, metodica, impermeabile a fedi, suggestioni ed emozioni incontrollate. Imbarcatosi a New York su un aereo diretto a Città del Messico, il susseguirsi di strane circostanze sembrerebbe indicargli l’opportunità di rimandare il viaggio di lavoro programmato. Le prime dieci pagine del romanzo sono eccezionali nella descrizione accurata della nevrosi del protagonista, infastidito da tutto ciò che sperimenta a bordo (dalle cattive condizioni atmosferiche al vicino di posto, un invadente e ciarliero tedesco di nome Herbert Hencke; dall’idiozia delle riviste pubblicitarie e dei reiterati annunci delle hostess al ricordo ossessivo e annoiato della sua giovane amante americana Ivy, svampita di cui non riesce a liberarsi). Durante lo scalo a Houston, Faber si chiude in una toilette dell’aeroporto pur di sottrarsi alla presenza del prossimo (“volevo esser lasciato in pace, gli esseri umani affaticano”), ma viene costretto dal personale a imbarcarsi di nuovo. Nel prosieguo del volo, un grave guasto tecnico costringe l’aereo a un atterraggio di emergenza nel deserto di Tamaulipas. I passeggeri trascorrono giorni e notti all’addiaccio, affamati e sporchi, prima di venire soccorsi e trasportati a Caracas. Durante questa forzata convivenza, l’ingegnere scopre che il compagno di viaggio Herbert è il fratello di un suo caro amico degli anni universitari, Joachim, attualmente in Guatemala per seguire gli affari di famiglia nelle piantagioni di tabacco. Dopo gli studi, aveva sposato una ragazza ebrea di nome Hanna, che era stato la prima fidanzata di Faber e l’aveva abbandonato appena rimasta incinta. Si lascia convincere da Herbert a cambiare programma, e ad accompagnarlo nella ricerca del fratello disperso. Inoltrandosi nella selva guatemalteca (torrida, fangosa, lussureggiante di vegetazione tropicale e infestata da insetti, serpenti e avvoltoi) i due compagni scampati all’incidente aereo riescono infine a raggiungere la squallida residenza di Joachim, e ne recuperarano il corpo appeso a una trave del tetto.

Il suicidio dell’amico e la rivelazione del matrimonio di lui con Hanna mettono in crisi la ferrea logica consequenziale del protagonista, che da sempre considera l’improbabile come un “caso limite del possibile”, e tende a escludere dal proprio orizzonte sia l’intervento della provvidenza, sia l’immodificabilità del destino. Turbato e infastidito dalle troppe avversità, torna a New York intenzionato a cancellare memorie e rimpianti, e da lì decide di rientrare in Europa via mare. Ma proprio sulla nave sembra attenderlo l’appuntamento fatale che stravolgerà la sua cinica e pianificata esistenza, votata esclusivamente al lavoro e al progresso scientifico.

“I sentimenti sono fenomeni di stanchezza, nient’altro”, pensava Walter Faber prima di incontrare Sabeth, una ventenne dalla coda di cavallo rossiccia e dagli occhi grigi. La tenerezza nei riguardi della ragazza (“Non sapevo più che si poteva essere tanto giovani”) si trasforma presto in un amore impastato di gelosia e senso di protezione. Con lei inizia a viaggiare, accompagnandola in un tour culturale attraverso l’Italia e la Grecia, e lasciandosi trascinare dal suo entusiasmo per l’arte. Ma proprio nei pressi di Atene l’epilogo drammatico della storia tra i due assume i contorni di una tragedia classica, in cui le figure di Edipo e Ifigenia si intrecciano in una nemesi che la stringente, laica e raziocinante logica dell’ingegnere svizzero non poteva né prevedere né governare.

Come in altri romanzi, Max Frisch affida a una soluzione imprevista e angosciante la conclusione delle sue trame, in cui i personaggi sono sovrastati e travolti dal succedersi di eventi casuali e necessari insieme.

Da questo romanzo (che dopo più di sessant’anni continua a risultare assolutamente moderno, anche nelle riflessioni quasi profetiche del protagonista sull’intelligenza artificiale, la sovrappopolazione, i rapporti tra i sessi, la sfida tra umanesimo e scienza, i vincoli della religione) è stato tratto nel 1991 il film Voyager diretto da Volker Schlöndorff.

 

© Riproduzione riservata      «Gli Stati Generali», 5 settembre 2020

 

RECENSIONI

MONTORFANI

PIETRO MONTORFANI, L’OMBRA DEL MONDO – ARAGNO, TORINO 2020

Già dal titolo di questa raccolta di Pietro MontorfaniL’ombra del mondo, possiamo intuire quanto temi e toni inscritti nel registro dell’autore siano sospesi in un’atmosfera di non-luminosità, non-trasparenza e probabilmente anche di non-appartenenza a una realtà vissuta come costrittiva e non condivisibile. È un tratto comune a chi, nato intorno agli anni ’80, scrive versi con una sorta di estraneità alla corrente precipitosa degli avvenimenti, quasi incapace non solo di adeguarsi ad essi, ma addirittura di comprenderli e di giustificarli. Un distacco che si vela, appunto, di ombra e di rassegnata rinuncia. L’introversione, la riflessione sul sé, ma anche una sorta di altera consapevolezza della propria acuta sensibilità, rende questi poeti umili e insieme fieri del loro dissenso, che non arriva mai però a essere ribellione o aperto contrasto.

Le sezioni del libro di Montorfani dichiarano esplicitamente questa sospensione di contatto con il mondo e il velo attraverso cui lo osservano, già nel loro nominarsi: «Dove nulla succede, Gente che passa, Il punto della croce, Così in pace, tra le altre. E diverse composizioni riprendono nei titoli una terminologia di negatività, sofferenza, alienazione: agonia, silenzio, confine, ibernazioni, memoria, pace. I due ultimi capitoli del libro sono dedicati all’assenza di persone amate, eventi luttuosi di cui si sottolinea l’incomprensibile ingiustizia: in Giona l’idea di sepoltura corrisponde al piccolo spazio occupato sulla terra durante un’esistenza tribolata («Dove ti metteranno ora? Disegnalo per noi il posto / che ti è stato assegnato / anima tormentata che ti insabbi / infilata di sbieco / tra le cose del mondo»), per cui l’approdo sperato rimane solo quello tacitante e protettivo della morte: «Di nuovo silenzio / buio fitto / odori notturni / portati dal vento / e grande quiete / in ogni dove». Ancora, in Memoria II nei versi dedicati a un aquilone, è l’idea di costrizione e impedimento che blocca il volo leggero e variopinto nell’alto del cielo: «Ciò che non sanno più / è il nome di quel rombo colorato, / di tela sottile, con il filo, / che prima volava e ora / lotta per liberarsi di tra i / rami e non ci riesce».

Trovare uno spiraglio di luce si può e si deve, e il poeta sembra cercarlo nel viaggio, nella dislocazione mentale e fisica in un altrove che offra orizzonti liberatori. «Il varco è qui?», pare domandarsi seguendo indicazioni montaliane. Ed eccola, allora, «la maglia rotta nella rete» attraverso cui fuggire, salvandosi: sarà Berlino, Varsavia, Praga, Siena, Finisterre, o nella metafora più suggestiva del libro, il passaggio alpino della Flüela, «dentro il buio dei monti», che indica un transito migratorio, abbandono del passato ma anche traguardo verso il futuro, rito iniziatico da superare per sopravvivere.
Montorfani, ticinese, è nato e vissuto in zona di confine, crocevia di culture e lingue differenti, che dalla pianura di Lugano si alza verso le Alpi svizzere («superato il più stretto / corridoio d’Europa nel cui / buio si muore / dopo tanta piana per chi / suona la cornamusa nella stiva / del San Gottardo per chi / stride»), e attraverso di esse ci si apre al continente, accompagnati dal più tradizionale ed evocativo degli strumenti, che annuncia la venuta di un laico dies natalis. Le facce che si incontrano sono tuttavia quelle di persone anonime, sconosciute, «gente che passa… dove nulla succede… in un silenzio assordante», secondo una geografia che ‒ se pur varia tra Gibilterra e la Russia, fiordi e fiumi, boschi e deserti, ponti e viadotti, cartelloni pubblicitari e posti di blocco, caravan e santuari ‒, resta estranea, impenetrabile.

L’Europa percorsa da Pietro Montorfani diventa simbolo di un’unione fittizia che non è in grado di saldare né la sua storia (dalle grotte di Lascaux a re Artù alle tragiche migrazioni mediterranee), né i suoi territori («Europa a testa in giù: / oltre le Alpi, il Mare»), e che nemmeno la poesia riesce a redimere: «Che agonia questi ultimi / giorni d’Europa, accesi da albe / di destini infranti, / chiusi da sere di notizie / sempre uguali. // Muta e non muta l’orizzonte // e inspiegabilmente si avvicina, / stringe la mente dentro un cerchio / che solo il cielo contiene».

 

© Riproduzione riservata      https://www.sololibri.net/Ombra-del-mondo-Montorfani.html

5 settembre 2020

 

RECENSIONI

MISTRAL

GABRIELA MISTRAL, CANTO CHE AMAVI – MARCOS Y MARCOS, MILANO 2010-2018

Prima poetessa latinoamericana a ricevere il Nobel nel 1945, la cilena Gabriela Mistral (Vicuña, 1889-New York 1957) ebbe un’esistenza ricca di passioni civili e avvenimenti eccezionali. Nata in una famiglia di modeste condizioni in un paesino alle pendici delle Ande, iniziò giovanissima a insegnare come maestra rurale, progredendo caparbiamente negli studi e nella professione fino ad assumere incarichi dirigenziali al Ministero dell’Istruzione, e in seguito a rivestire la carica di Console in diverse città europee e americane, sempre mantenendo vivo il suo interesse per le riforme scolastiche e l’impegno in favore delle classi sociali più indigenti e dei diritti delle donne. Non ancora quarantenne, aveva affermato di sé: “Sono cristiana e integralmente democratica. Credo che il cristianesimo, con il suo profondo senso sociale, possa salvare i popoli. Ho scritto come chi parla nella solitudine. Infatti sono vissuta molto sola dovunque. I miei maestri d’arte e di vita: la Bibbia, Dante, Tagore e i russi… Il pessimismo in me è un atteggiamento di malcontento creativo, attivo e ardente, non passivo. Ammiro, senza professarlo, il buddismo, che per qualche tempo conquistò il mio spirito… Vengo da una famiglia di contadini e sono una di loro. I miei grandi amori sono la fede, la terra, la poesia…”.

Proprio come poetessa ottenne molti riconoscimenti, pubblicando diverse raccolte (Desolazione, Tenerezza, Taglio del bosco, Torchio, Poema del Cile), in cui parlava di amore e politica, religione e femminismo, bellezze naturali e ingiustizie sociali. Il suo vero nome era Lucila Gogoy Alcayaga, ma aveva scelto lo pseudonimo di Gabriela Mistral in onore di due poeti da lei molto amati: il nostro Gabriele D’Annunzio, e l’occitano Frédéric Mistral, Premio Nobel nel 1904.

L’editore milanese Marcos y Marcos ha di recente ripubblicato un’antologia, Canto che amavi, che raccoglie testi dell’autrice cilena dai contenuti e dalle forme più differenziate, ma tutti animati da un’insopprimibile energia vitale, da un’esplicita volontà comunicativa, da una radicale esigenza di chiarezza stilistica.

Dalla sua famiglia di donne forti e indipendenti (la nonna ebrea, la madre abbandonata dal marito con le figlie ancora piccole, la sorella che l’aveva sempre incoraggiata e sostenuta nella carriera) Gabriela ereditò l’intraprendenza e il coraggio di opporsi alle convenzioni sociali e al maschilismo patriarcale del Cile del primo ’900. A loro dedicò versi di gratitudine e rimpianto, consapevole che all’universo femminile è spesso demandato di sopportare la fatica quotidiana dell’esistere, con la relativa delusione di un mancato riconoscimento affettivo, culturale e sociale.

Gli intensi e sofferti amori della sua vita (il fidanzato Romeo Ureta Carvajal morto suicida, la scrittrice statunitense Doris Dana a cui fu legata dal dopoguerra fino alla morte), furono raccontati in poesie appassionate, in cui dolore e dedizione assumono tonalità di struggente coinvolgimento: “Io ti stenderò in terra soleggiata con una / tenerezza di madre per il figlio dormiente, / e si farà la terra morbidezza di culla / accogliendo il tuo corpo di bimbo addolorato”, “Ti attendo senza limite né tempo. / Tu non temere notte, nebbia o pioggia. / Vieni per strade conosciute o ignote. / Chiamami dove sei, anima mia, / e avanza dritto fino a me, compagno”, “Mi son seduta a metà della Terra, / amor mio, a metà della vita, / apro le vene e il cuore, / mi schiudo in melograno vivo, / e rompo il mogano rosso / delle mie ossa che ti amavano”.

Sempre la morte aleggia come spettro ed emblema di irreparabile ingiustizia nelle sue composizioni: sia quella della madre (“Questa morte è stata per me una lunga e oscura sosta, un paese dove ho vissuto cinque o sei anni, paese amato per la presenza di mia madre, paese odiato per la lunga stasi della mia anima in una profonda crisi religiosa”), sia quella dell’amatissimo nipote Juan Miguel, uccisosi a diciassette anni.

Viscerale è l’attaccamento che Gabriela esprime per tutto ciò che la circonda: persone e paesaggi. Racconta dei campesinos sfruttati nei latifondi (“chi semina, chi irriga, / chi fa potature e innesti, / chi taglia e si accolla / sotto un sole di fuoco / anguria, viscera rosa, / melone che sa di cielo, ancora una volta, ancora / non ha un suo pezzo di terra”); di madri che allattano neonati denutriti (“Dai! Non è vero che tremi / come un Gesù Bambino / e che il seno di tua madre / si seccò di sofferenza!).

Descrive le distese di campi di mais (“Il santo mais s’innalza / in due impeti verdi, / e assopito si riempie / di tortore ardenti”), il mare rugghiante (“E morì il mare una notte, / da una riva all’altra riva; / si raggrinzì, si restrinse, / come un manto ritirato. // Come un albatros ebbro / o un animale in fuga, / fino all’ultimo orizzonte / con dieci ondate correva”), le montagne (“Quando sogno la Cordigliera, / le sue lunghe gole attraverso, / e di esse odo, senza tregua, / un fischio quasi un giuramento”), i fiumi (“Nella valle del Rio Blanco, / là dove nasce l’Aconcagua, / giunsi a bere, balzai a bere / sotto la sferza di cascata, / che cadeva fluente e dura / e si rompeva aspra e bianca”), l’Oceano (“Vedo alla fine del Pacifico / il mio arcipelago livido, / e un’isola mi ha lasciato / di alcione morto odore acido”).

Lo stile usato da Gabriela Mistral ovviamente muta nel tempo, adeguandosi ai contenuti trattati e alle varie influenze letterarie assorbite durante le lunghe permanenze in paesi stranieri: alla base della sua scrittura rimane comunque l’eredità della formazione culturale contadina, con i frequenti apporti sia di termini regionali e formule proverbiali, sia di simbologie tradizionali religiose. Il traduttore del volume edito da Marcos y Marcos, Matteo Lefèvre, nella nota finale così commenta la sua tecnica formale: “La poesia di Gabriela Mistral delinea un universo ritmico e metrico vario e complesso. La poetessa cilena spazia infatti da liriche che adottano o rivisitano metri tradizionali della lirica romanza (sonetto) a composizioni che invece mostrano un’architettura ritmica e un sistema di versificazione molto più articolato e originale”.

Il rapporto tra Gabriela e il Cile è stato sempre problematico e ambiguo. Fu spesso discriminata perché le sue poesie non corrispondevano ai criteri politici e culturali di una società ancora fortemente maschilista e conservatrice. Alla sua morte, avvenuta a sessantasette anni per tumore al pancreas, le sue disposizioni testamentarie non vennero rispettate, né per quanto riguardava la sepoltura, che avrebbe voluto avvenisse nell’amata città cilena di Montegrande, né per la donazione di una cospicua parte dell’eredità ai bambini poveri del quartiere in cui aveva trascorso l’infanzia.

© Riproduzione riservata              «Il Pickwick», 4 settembre 2020