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RECENSIONI

POLI

ALFREDO POLI, DI TERRA E DI CIELO – ALETTI, VILLANOVA DI GUIDONIA 2018

La vocazione tardiva alla poesia ha avuto per Alfredo Poli, insegnante veronese in pensione, senz’altro un significato terapeutico non solo nello scavo interiore di sé, e non solo nella ricerca intellettuale di un’espressione consona alla propria sensibilità, ma soprattutto nell’esigenza di rapportarsi agli altri per scoprire una comune partecipazione allo stare al mondo, “nel” mondo. Bene lo sottolinea Mario Allegri nella prefazione all’ultimo volume di Poli, Di terra e di cielo, citando questi versi che “accorciano le distanze e affratellano nella voce che vuol farsi voce di tutti”: “La mia voce / sia il silenzio / di chi ascolta / e di chi si ascolta. / E non sia sola / ma sorella a tutte quelle / con diritto di sogno, diritto di parola”.

Un’intenzione etica, quindi, quella che ha spinto l’autore a scrivere alcune delle composizioni più riuscite: intenzione che tuttavia non ha nessuna pretesa di conversione o di proselitismo nei riguardi di chi legge, ma si limita a decifrare il reale nella sua oggettiva durezza, auspicandone una trasformazione in senso positivo, di sospensione del dolore, di recuperata mansuetudine.

In una sorta di francescanesimo laico, Alfredo Poli esclude qualsiasi ricorso alla violenza e alla vendetta, da non usare nemmeno per riparare un torto o una prevaricazione: “pertanto abbiamo appreso: / anche l’odio contro la vigliaccheria / deforma i lineamenti; / anche la rabbia per l’ingiustizia / altera la voce”. La pietas è misura del rapportarsi al prossimo, e alla sofferenza di ciò che ci circonda: l’anziano malato (2° piano, Geriatria), la natura offesa (Rosa d’inverno, Fiocco di neve), il dissidio tra amanti (Incomprensione), la morte di un amico (Un altro addio).

In “questi tempi fatti di maschere / e di crepe nel cuore” ci sono momenti, episodi, incontri che tuttavia aiutano a superare la desolazione di un presente mortificante, e incoraggiano a uno sguardo positivo sul futuro. L’osservazione della bellezza di un paesaggio naturale (“Oggi gran festa nel giardino. / All’albicocco s’è aggiunto / il ciliegio in fiore”, “Nella luce calante della sera / le bianche lanugini dei pioppi / come un posarsi lieve ai ricordi”, “Trasparente mattino di sole / sopra queste colline d’erica / digradanti morbide al mare”), la corrispondenza di un affetto o di un amore (“Già del tuo sguardo sono grato / e dei silenzi che mi regali”), la lettura di una poesia (“Quella poesia / che hai scritto per me, / l’ho ricopiata fedelmente / su un pezzetto di carta / e l’ho nascosta / in una tasca segreta / del mio portafoglio”).

Alfredo Poli traccia un ritratto di sé che può sembrare rassegnato, o comunque malinconico, ma in realtà è animato dall’umile consapevolezza dei limiti di ogni creatura umana, riscattabile sempre attraverso l’anelito costante all’infinito, al superamento della contingenza: “Amo la mia finitezza: / fa da filtro ai sogni / e li alimenta”, “noi / che siamo / passeggere storie / senza traccia”, “Amo spesso sostare fuori / dai margini del sentiero”.

E in questa sua dichiarata marginalità rispetto al convulso e superficiale intrecciarsi dei rapporti umani, così spesso asserviti all’interesse e al potere, privi di gratuità e di sentimento, orgogliosamente afferma il suo originale rifiuto del conformismo, la sua discrepanza dal vuoto comunicativo oggi imperante: “Amo le parole semplici, / essenziali, appese / in precario equilibrio / alla profondità di senso”. Anche se questo differenziarsi può comportare il rischio dell’isolamento (“Respiro piano / ai margini della battaglia. / Solitudine è darsi alle paure / nel ritrovare un tempo perduto”), ciò che importa è rimanere consapevoli della propria unicità, nelle gioie e nei dolori che la vita ci dispensa.

 

© Riproduzione riservata      https://www.sololibri.net/Di-terra-di-cielo-Poli.html   3 settembre 2020

 

 

 

 

RECENSIONI

ZAOUI

PIERRE ZAOUI, L’ARTE DI SCOMPARIRE – IL SAGGIATORE, MILANO 2015

“Felicità per sottrazione” è l’obiettivo che secondo il filosofo francese Pierre Zaoui dovremmo cercare di conquistare e mantenere, individualmente e come collettività. Lo afferma nel saggio L’arte di scomparire, sottotitolato “Vivere con discrezione”: ed è proprio di questa particolare attitudine, oggi raramente riconosciuta come qualità, che l’autore tesse un convinto elogio.

Discrezione come scelta di vita, che in genere si accompagna a una disposizione caratteriale antitetica all’eccesso di esuberanza, di autopromozione, di visibilità, di autoreferenzialità: inclinazioni particolari che nel mondo contemporaneo vengono incoraggiate dai media e dai social come valori e meriti da esibire con orgoglio e sfrontatezza.

La discrezione viene definita dall’autore dote “rara, ambigua e infinitamente preziosa”, che trova nella moderazione e nel riserbo la propria misura espressiva, sottratta a riflettori e casse di risonanza, renitente di fronte a ogni forma di spettacolarità. Aderendovi, “usciamo da quel gioco di proiezioni e introiezioni continue che ci legano di solito agli altri”, rinunciamo a qualsiasi volontà di potenza e all’illusione di essere indispensabili, alla “dialettica mediocre del riconoscimento o della seduzione”. Sottraendosi all’obbligo dell’apparire e accettando una sorta di clandestinità, la discrezione assume i tratti della dissidenza, di una resistenza politica al dovere di divulgazione e protagonismo, secondo cui “essere è unicamente essere percepiti”. Si oppone, infatti, alla sorveglianza del panottico totalitario, praticata dalle nostre occhiute e orecchiute società contemporanee attraverso videocamere, intercettazioni, spionaggi informatici, droni e satelliti.

La delicatezza del porsi nel mondo dovrebbe insegnare a non stare troppo vicino alle persone e alle cose per non venirne divorati, né ad allontanarsene troppo rischiando l’isolamento. Tuttavia, la rinuncia volontaria all’esposizione potrebbe nascondere una debolezza originaria del carattere, una tattica dissimulatrice, una forma raffinata di narcisismo, un eccesso di timidezza-pigrizia-egocentrismo-vigliaccheria, o (in termini psicanalitici), l’angoscia di castrazione e la pulsione di morte.

Pierre Zaoui indaga sulle origini di questo orientamento comportamentale a partire da quanto ne pensavano gli antichi. I greci decantavano l’aidós (pudore, modestia, riservatezza) e la phrónesis (prudenza, saggezza, giusta misura): Epicuro consigliava di vivere nascosti, Marco Aurelio raccomandava di rifugiarsi nella propria “cittadella interiore”, rifiutando successi estemporanei, lusso e piaceri effimeri; Platone e Aristotele suggerivano di affidarsi sempre alla ragione e alla consapevolezza per migliorare politicamente la comunità.  In tal modo però non si privilegiava una disinteressata scomparsa dell’io, quanto invece una più elevata presenza a se stessi, e un’opportunità personale in termini politici.

Durante il rinascimento sembrò che la figura del cortigiano riassumesse esemplarmente i caratteri di equilibrio e tatto propri della discrezione, nel processo di civilizzazione dei costumi che andava imponendosi in tutta Europa. Cortesia, raffinatezza, educazione diventavano in realtà astuti strumenti di autoaffermazione all’interno dei palazzi, asserviti all’adulazione sottomessa ai propri signori.

Quindi, più che dalla filosofia o dalla politica, la discrezione è stata riconosciuta come valore primariamente in ambito religioso, in particolare dall’ebraismo e dal cristianesimo.

Tre sono le autorità morali che nei secoli hanno meglio illustrato le proprietà tipiche della discrezione: San Tommaso che la esaltava come umiltà del cuore e della mente, il rabbino Isaac Luria che la paragonava alla contrazione (tzimtzum) messa in atto dal Creatore per lasciare spazio di libertà alle creature, il mistico Meister Eckhart che invitava al distacco dai beni materiali e all’abbandono di ogni egoità.

C’è poi la discrezione proposta dagli atei e dagli agnostici, racchiusa in un orizzonte puramente umano. È quella che Levi Strauss trovava negli indigeni amerindi, animati “da un sentimento deferente verso il mondo”, e non concentrati sulla propria soggettività. O agli antipodi temporali, quella indicata da molti pensatori moderni (Kafka, Virginia Woolf, Hannah Arendt, Blanchot, Benjamin, Deleuze, Bataille, Debord), che narrano esperienze di distacco, nascondimento e sparizione spogliate da ogni fideismo, e abbandonate fiduciosamente all’idea dell’annullamento di sé e del lasciar-crescere ciò che è fuori di sé.

La discrezione è quindi un’arte recentemente riscoperta nella sua valenza micropolitica: di resistenza impercettibile all’ostentazione di sé, di rinuncia ad apparire e ad accumulare ogni tipo di esperienza, di rifiuto del soggettivismo esasperato di chi pretende di “essere percepito” senza riuscire a “percepire”.

Pierre Zaoui (1968) insegna attualmente Filosofia presso l’Università di Parigi VII, e si occupa di liberalismo, soprattutto nel pensiero di Spinoza, Hume e Deleuze,

 

© Riproduzione riservata        «Gli Stati Generali», 27 luglio 2020

 

 

 

RECENSIONI

LAHIRI

JHUMPA LAHIRI, RACCONTI ITALIANI – GUANDA, MILANO 2019, p. 539

Non è molto frequente che uno scrittore si innamori di una lingua e di una letteratura che non sono le sue, al punto da immergersene con passione totale, da specializzarsi nella traduzione dei suoi testi poetici e narrativi, da adottarne temi e stili, e infine da decidere di scrivere direttamente in quella lingua straniera, resa elettiva e propria. Ci sono alcuni esempi illustri di letterati che, provenendo da paesi diversi, per differenti ragioni hanno scelto di esprimersi in un linguaggio che non è quello nativo: Joseph Conrad, Samuel Beckett, Vladimir Nabokov, Arthur Koestler, Agota Kristof, Derek Walcott, Salman Rushdie, Tahar Ben Jelloun, Hanif Kureishi, Arundhati Roy.

Ma nella nostra contemporaneità e per quanto concerne l’Italia, a me vengono in mente pochi nomi, che esulino dalla produzione dei migranti (sempre più diffusa, ambiziosa, convincente): Giorgio Pressburger, Helena Janeczek, Alice Oxman, Gezim Hajdari, Jhumpa Lahiri…

Jhumpa Lahiri (Londra1967) è una scrittrice statunitense di origine indiana, professore di scrittura creativa all’Università di Princeton. Affascinata dalla cultura del nostro paese (ha un dottorato in studi rinascimentali), dal 2011 soggiorna a lungo a Roma con i due figli e il marito. Dal 2015 scrive direttamente in italiano e pubblica i suoi libri con le edizioni Guanda: nello stesso anno ha vinto il Premio Internazionale Viareggio-Versilia con il volume autobiografico In altre parole.

Autrice di saggi e romanzi, ha ottenuto importanti riconoscimenti: tra gli altri, il Pulitzer, il PEN/Hemingway Award e il Guggenheim Fellowship.

L’anno scorso ha curato e introdotto un’antologia di Racconti italiani, tra le più varie e interessanti uscite negli ultimi decenni sul territorio nazionale. Raccoglie quaranta autori, di cui undici donne, che appartengono tutti al gotha della nostra letteratura, anche se di alcuni di loro oggi rimane purtroppo scarsa memoria. Si va dal più antico, il classicissimo Giovanni Verga (1840-1922), rappresentato da una novella ambientata ad Aci-Trezza, premessa introduttiva a I Malavoglia, al più recente Antonio Tabucchi (1943-2012), riproposto con una storia che travalica i confini spazio-temporali, situandosi tra la nostalgia del déjà-vu e la speranza di un futuro solo ipotizzabile.

Ma troviamo anche un’allusiva Lalla Romano che lambisce le tentazioni erotiche di una villeggiante borghese, un asciutto Elio Vittorini che fa dialogare due personaggi sulla presenza aleatoria di un’enigmatica figura femminile, un originale Massimo Bontempelli che addirittura riesce a trasportare il mar Tirreno nel suo appartamento romano, un surreale Alberto Savinio umanizzante oggetti e arredamenti domestici. Possiamo rileggere commossi lo splendido racconto di Anna Maria Ortese Un paio di occhiali, la raffinata Cristina Campo, la severa Elsa Morante, il cerebrale Italo Calvino, l’arrabbiato Beppe Fenoglio, il caustico Giovanni Arpino, il tenero Carlo Cassola, il beffardo Flaiano. Audacemente oscillanti tra l’avanguardia, il tragico e il grottesco sono gli scritti di Landolfi, Gadda, Manganelli, e magistralmente raffinato quello di Tomasi di Lampedusa.

Una molteplicità di forme e contenuti, di ideologie e caratteri individuali, che si prestano a soddisfare i gusti di ogni tipo di lettore. I racconti antologizzati parlano di guerra e dopoguerra, di paesi contadini e città anonime, di coppie infedeli e famiglie in miseria, di solitudine e di impegno politico. Di donne e animali, di bambini e di vecchi. Utilizzano stili diversi: dal realismo al barocco, dallo sperimentale al postmoderno. Jhumpa Lahiri li introduce attraverso un sintetico ritratto di ogni autore, e un breve commento personale. Afferma con sincerità che la scelta dei quaranta scrittori è stata determinata dal suo particolare interesse e da una sensibilità spiccata nei riguardi della produzione letteraria di autori ibridi e complessi: poeti, giornalisti, artisti, musicisti, insegnanti, scienziati, traduttori che rappresentano tante sfaccettature della complessa società italiana, come si è evoluta nel corso dell’ultimo secolo, nei costumi, nella storia, nel paesaggio, nelle idee.

Il volume si conclude con un’utile tavola sinottica che scandisce la cronologia dei principali avvenimenti storici e letterari succedutisi in Italia dal 1840 al primo decennio del 2000.

 

© Riproduzione riservata    «Gli Stati Generali», 9 agosto 2020

 

RECENSIONI

BENVENUTO

SERGIO BENVENUTO, LO JETTATORE  MIMESIS, MILANO 2011

Sergio Benvenuto (Napoli, 1948), docente universitario, filosofo e psicanalista, con Lo jettatore ha dedicato un pamphlet a una figura protagonista, nei secoli e in varie latitudini, non solo di leggende popolari e luoghi comuni, ma anche di una fiorente letteratura, di consumo e accademica.

Sospeso tra ironia e scetticismo, tra sconforto e sarcasmo, l’autore ripercorre storia e diffusione della più drammatica tra le costruzioni della superstizione, forse quella più pericolosa e distruttiva per chi ne è vittima, la più screditante per chi ne è l’autore e diffusore. “Non è vero ma ci credo”, si dice, evidenziando quanto sia diffusa la propensione a cedere all’irrazionalità, a timori infondati, a suggestioni manipolatrici che si trasmettono capillarmente, come la convinzione che esistano persone (…e oggetti, numeri, colori, opere letterarie o musicali) che con il loro solo esistere portano male.

Ci hanno fermamente creduto artisti, politici e intellettuali (da Mussolini a Togliatti, da Bellini a Rossini), che spesso hanno preso a bersaglio della loro superstizione colleghi di cui temevano la concorrenza o una superiore competenza professionale. Allo jettatore si attribuiscono tratti diabolici o mortiferi per il suo atteggiamento serioso e compito, o per il titolo di qualche sua produzione artistica: non va confuso con chi getta il malocchio, o manda maledizioni, o pratica la magia nera. Non patisce, infatti, il rancore astioso di chi desidera ciò che appartiene ad altri, né compie malvagità. Secondo l’antropologo Ernesto De Martino “la jettatura è dominata da personaggi prevalentemente maschili, e molto spesso da rappresentanti del ceto colto e da pubblici ufficiali, da professori, letterati, medici, avvocati e magistrati”. Costoro, essendo in genere grigi nel vestire, noiosi e troppo critici nei discorsi, segnati da una “rottura” nell’animo o nel corpo, dalla “marca” di una malinconica riflessività, infastidiscono o preoccupano le persone più gioiose e superficiali semplicemente con la loro apparizione.

Nella sua indagine storica sulla jettatura, l’autore ci ragguaglia su questa credenza nata e propagatasi a macchia d’olio nel ’700 soprattutto a Napoli (’o schiattamuorto, – il becchino – viene definito chi gode di questa funerea nomea) ad opera del giurista Nicola Valletta, illuminista colto e razionale, che nel 1787 pubblicò il saggio Cicalata sul fascino volgarmente detto jettatura, dando avvio a una serie di studi pro e contro tale fenomeno. Valletta dava addirittura una descrizione fisica dello jettatore: “magro e pallido, il naso ricurvo, occhi grandi che hanno qualcosa di quelli del rospo, e ch’egli di solito copre, per dissimularli, con un paio di occhiali”, singolarmente molto somigliante al proprio ritratto, per cui il suo lavoro e la sua persona divennero immediatamente sinonimo di menagramo (cosa che speriamo non succeda anche a Sergio Benvenuto, che dalle foto rinvenibili su internet non risulta particolarmente solare…).

Benvenuto sottolinea che la sua città natale, culla della tradizione noir, possiede tuttora due caratteri divergenti: “Queste due antitetiche vocazioni dei napoletani, una al rigore logico e l’altra a una sontuosa irrazionalità, invece di entrare in tensione come incompatibili, spesso si amalgamano: il napoletano è a un tempo campione di disincanto talvolta anche cinico, e preda facile di tutto ciò che brilla con la fatua seduzione dell’esoterico e del magico”.

Realtà e immaginazione, bene e male si confondono nelle azioni e nella persona stessa dello jettatore, caricato della funzione di capro espiatorio su cui si concentra la pressione invidiosa della collettività, che lo configura come il reo da evitare per salvare se stessa da sentimenti negativi.

I riti messi in campo per allontanare scalogna e disgrazie sono per lo più gestuali: dalle corna a vari intrecci di dita, dalla palpazione dei genitali allo strofinamento di oggetti portafortuna. Nella nostra modernissima e iper-tecnica epoca, sopravvivono ampie zone di oscurantismo, ignoranza, rifiuto della scienza, che tendono a moltiplicare ideologie oscurantiste, fideistiche e misticheggianti: dalla New Age all’astrologia e alla parapsicologia, nel cui terreno possono facilmente attecchire fake news, psicosi generalizzate, condotte scaramantiche.

“Superstizione e occultismo sono trasgressioni cognitive” che attraggono gli insofferenti nei confronti di chi ha potere, cultura, autorevolezza: esse contestano la razionalità dominante, sia religiosa che scientifica, rafforzando credenze arcaiche e biasimevoli, e sbeffeggiando ragione, scienza, tecnologia come presuntuosi prodotti e arroganti creazioni di infelicità e malasorte.

 

© Riproduzione riservata              «Il Pickwick», 3 agosto 2020

 

POESIE

CLASSICHE

Penelope

 

Non per lui,

lontano e indifferente

a quanto altro non fosse la sua casa

(i muri, intendo, suppellettili

come il letto – a lui obbedienti)

che sapevo

impaziente di un caldo viziato;

il mio corpo è ormai vecchio, gli occhi

ormai duri.

Ma io,

io per la tela stessa lavoravo.

Lei sola, in tutta Itaca,

aspettava la mia mano.

 

***

 

Antigone

 

Vedi che ho – per pietà – le mani sporche

‒ di pietà – insabbiate, le unghie nere, Creonte sire

severo, duro vate, suocero altero. Vedo

le tue bianche pasciute che sanno

proibire, sanno ammazzare (regali mani):

ma io non tremo. E voi vedete

(voi che tradite) (voi che sapete più di tutto tradire)

che io non tremo e che non temo.

Vili di tanto incapaci, di poco. Di un gesto

timorosi – di un cenno.

Giustizia

invocata da troppi, da lontano implorata da troppi;

e nessuno si muove. Ah, giustizia.

Io qui sola.

Sanno tutti cos’era da fare,

fanno finta di niente.

 

**

 

Ifigenia

 

Quello è mio padre. Quello alto

laggiù che parla al vento.

È lui il mio re: il più forte

del campo, il più giusto. Mi vanto

del suo nome, del suo cenno

imperioso mi compiaccio se

di fronte a invitati mi chiama

‒ che ci vedano

uguali

nel sorriso severo nell’agile caviglia.

Sono la figlia bella

colei in cui egli si specchia.

Proprio oggi in mio onore (giù

al porto) è la festa a cui prima

di tutte mi ha ordinato

di giungere: a me darà

il braccio nell’aprire le danze.

Per me farà accendere fuochi

farà alzare le vele alle navi.

**

Alcesti

 

Hanno detto dedizione.

Vivere

di uno che non può

più vivere: perciò morire. Con lui

o per lui è lo stesso, se si deve.

 

Ma non è stato questo.

Sapevo il patto: non era la mia aria,

non lo respiravo. Godevo una quiete maritale

con fastidi, non bramavo l’assoluto.

 

È che l’ho visto spaventato tanto

da sorriderne. Sempre un poco tremava

alle mie doglie, scappava al dolore

altrui: ma in quei giorni era terreo, bambino

piangeva aggrappato ai lenzuoli.

Mi misi a letto come a fare un altro

figlio;

lo feci nascere, cieco e avido.

 

**

 

Medea

 

Di loro mi pesa lo sguardo.

Lo taglio (lo sguardo) lo tolgo dal cuore,

pensiero di niente che ho voglia

di amare, di niente, di acqua.

Ho voglia di brucio, di fare pulito lo sporco.

 

Di loro mi pesano i gesti e il modo

che hanno di non parlare

di capire

di tradire.

Bambini

che poco somigliano ai giochi.

che poco somigliano a loro stessi.

 

(Se fossero miei.

Se fossero miei).

 

Decido che grande è l’amore

che uccide se stesso e grande è la carne

che uccide la sua carne. Non ho

pentimenti e troppo poco soffro.

 

Di me sono stati piccola parte

e per poco, cattivi: mi hanno presto lasciata.

Ma miei più di sempre

se sempre bambini saranno.

Se solo con l’aria li dovrò dividere.

 

Non voglio vedere l’amore

e intorno non lo sopporto.

Viva chi vuole. Chi sa.

 

La mia mano i miei piedi

sanno solo una strada

né la testa conosce dove tornare indietro.

 

Miei: più di tutto vi penso

e nessuno capisce.

Ma più miei dei miei stessi capelli

dei miei occhi. E più miei

del dolore.

 

**

 

Le vergini di Mileto

 

Furia di morte le prese a Mileto, furia

d’amore: di amare pure,

di non versare sangue (di non aprire

ai colpi il loro ventre).

Oh, loro che da sole

sapevano toccarsi, sole si amavano,

davano baci al vento – a quindici anni –

oh loro sole amavano se stesse

e le sorelle, amavano le mani delicate

e i turbamenti dolci: per questo che era amore

e non pazzia, piccole streghe della verginità,

per questo si impedirono il respiro

a quindici anni (una ogni notte

alto un laccio di morte appendeva) finché

turpi arrivarono i padri

i fratelli maggiori i creditori amanti

a pretendere ancora il pedaggio di sangue,

a trascinarle nude per le strade

di Mileto, e esigere rispetto

per le abitudini quotidiane.

 

(1976-1980)

 

 

In Rosa rosse rosa, Bertani, Verona 1986

 

 

 

 

RECENSIONI

BENVENUTO

SERGIO BENVENUTO, SONO UNO SPETTRO MA NON LO SO – MIMESIS, MILANO 2013

“L’uomo dimentica che è un morto che conversa con i morti”: questa frase di Borges è stata scelta da Sergio Benvenuto come epigrafe a un suo interessante libriccino pubblicato da Mimesis, Sono uno spettro ma non lo so, in cui il filosofo e psicanalista napoletano indaga il rapporto che l’umanità ha sempre intrattenuto con il mondo dei trapassati, e con l’idea (attrattiva e repulsiva insieme) di un loro ritorno sulla terra.

Benvenuto nella sua carriera di studioso, saggista e pubblicista si è occupato di psicologia sociale, filosofia del linguaggio, teoria della politica, privilegiando l’analisi dei comportamenti  collettivi  relativamente alla diffusione di credenze popolari, leggende metropolitane, superstizioni e suggestioni mediatiche.

Partendo dall’analisi di film di successo (La notte dei morti viventi, La chambre verte, Il sesto senso, The Others, Sussurri e grida, Hereafter), di opere teatrali e letterarie (Il giro di vite, Amleto, Macbeth, Don Giovanni, Antigone, Fedone, il teatro Noh giapponese) l’autore del  testo indaga sull’effetto perturbante che tali produzioni creano nello spettatore-lettore, intimorito all’idea che i morti possano tornare a vivere per invidia dell’esistenza fisica, pretendendo dai vivi qualche riscatto da una sofferenza, la riparazione di un torto o semplicemente l’attivazione di un ricordo affettuoso.

In genere i defunti riappaiono nei posti in cui è avvenuto il loro decesso, a volte violento, comunque ingiusto: sul luogo dell’incidente, o nelle case in cui hanno sofferto, per vendicarsi o per tormentare i sopravvissuti. In alcune feste paganeggianti, ma sdoganate dalla cultura contemporanea come Halloween, i trapassati ritrovano una loro innocenza e innocuità nel rapporto con il mondo infantile, e si relazionano a noi nello scambio di doni che li disarma da ogni intenzione malvagia.

La tradizione occidentale cristiana ha ostracizzato queste credenze come superstizioni, denunciando qualsiasi pratica spiritica come illecita e peccaminosa, e santificando il culto dei morti con celebrazioni purificatorie, che di fatto li allontanano dai viventi in un oltre-mondo in attesa della loro resurrezione. Il pensiero moderno si confronta con la morte per lo più escludendola dal proprio orizzonte, rifiutandosi di pensare il non pensabile poiché non sperimentabile dall’io nel suo presente attuale e concreto. “Esiste solo la morte dell’altro in quanto questi ci viene a mancare, mai la mia”, che rimane sempre immaginata, proiettata nel futuro, non reale. Di questo paradosso si sono occupati filosofi, scrittori, psicanalisti: Freud, Nietzsche, Heidegger, Sartre, tra i tanti. Eppure la nostra inevitabile fine ci è sempre presente, nonostante tentiamo di rimuoverla. È presente nel nostro modo di elaborare il lutto e di rendere onore agli scomparsi, nell’accanimento terapeutico con cui speriamo di prolungare l’esistenza ai malati terminali, nel desiderio di assicurarci una sopravvivenza o addirittura l’immortalità attraverso i figli o le opere, nella fede illusoria nel sovrannaturale.

Se il pensiero filosofico novecentesco è in generale ateo, nichilista, razionale, bio-centrico, indirizzato all’esaltazione vitalistica della soggettività desiderante individuale, nei comportamenti sociali ci si abbandona invece a credenze, false dottrine, fantasie terrorizzanti. Aspiriamo a recuperare il rapporto con i defunti perché essi rappresentano il prima e il dopo di noi, ciò che non siamo, siamo stati o saremo, ciò che non possediamo più e che ci trascende. I morti simboleggiano “il diverso” per eccellenza, l’alterità a cui demandiamo le nostre paure e le nostre illusioni, proiettando in loro l’angoscia di non riuscire a soddisfare i nostri desideri, quasi fossimo anche noi spettri inconsapevoli e redivivi.

Secondo Sergio Benvenuto, siamo spinti a volere/temere che i sepolti risorgano (magari nelle sembianze di spirito, fantasma, zombie) per esaudire il loro e il nostro desiderio di continuare a esistere nella realtà, partecipando alla vita per poterne godere, senza essere costretti a rinunciare a gioie e gratificazioni che non si è mai rassegnati a perdere.

 

© Riproduzione riservata                  «Gli Stati Generali», 2 agosto 2020

 

RECENSIONI

BUX

ANTONIO BUX, LA DIGA OMBRA – NOTTETEMPO, MILANO 2020

Antonio Bux (Foggia, 1982) ha al suo attivo numerosi e premiati volumi di versi (in italiano, spagnolo e dialetto pugliese), è presente in varie antologie, collabora a riviste e blog letterari, cura due collane di poesia. Il suo ultimo libro, pubblicato da Nottetempo, esprime una diversa consistenza tematica rispetto alla precedente produzione, una naturale coerenza stilistica determinata dall’intenso trasporto emotivo che ne attraversa le pagine.

Forse il termine che meglio suggerisce il carattere dell’intera raccolta è “sospensione”, nel senso che sospesa è l’atmosfera che l’avvolge tutta: l’ombra del titolo, ma anche le presenze aeree che la animano, e i sentimenti espressi nella loro lieve fugacità. Bux sembra prediligere l’inconsistenza materiale, nel repertorio di sostantivi che esibisce, spesso reiterandoli con una richiesta di rispecchiamento o addirittura di soccorso, pronunciata con la devozione di una giaculatoria laica ma miracolante (“Anni perché fate fiume, / dove e quanto il sogno dura, // se per durare si deve sparire d’acqua / evaporando un solo tempo / perché nel tempo si muore?”).

Angeli, dèi, rondini, nuvole si muovono leggeri e diafani in altezze più metafisiche che fisiche; vento, soffio, velo, nebbia, gocce di pioggia, piume, polvere sono gli elementi di una meteorologia incorporea e dilatata. Gli attributi relativi all’umano sono altrettanto immateriali, nell’esplicita volontà di evitare qualsiasi pesantezza: sonno, sogno, fiato, soffio, eco…

Le immagini si rincorrono e compenetrano in una imprevedibile sovversione della logica sintattica, con improvvisi capovolgimenti di soggetto, stravolgimenti di senso, quasi seguendo allucinazioni visive e uditive: “Sono stato di un albero / il sorriso che lui mi ha dato / per vedere dove un viso / è un anello, quel veto antico / che ora è già scorza / tiepida fino al vento / ma del vento sospira il luogo / freddo e così vede il cielo / sorridere se cade come foglia la foglia / che non cade mai”.

Più pacatamente diretti e freschi, più autenticamente sinceri, appaiono a chi legge i versi dedicati a una presenza femminile, amata e disamata nello stesso tempo: “Scrivere per averti perduta / non ti farà ritornare”, “Tu mi sei cara, così azzurra / e soffice quando sfiori il ramo, / ti piace l’albero, il suo svanire, / così come vedi il vento”, “Dire ancora il ricordo, e la bellezza di una schiena / ora che te ne stai girata, e davanti hai la tua vita // … ricorda per intero, quando mi hai cacciato via, / e avevo solo un corpo, il sogno di svanirti dentro, / ricorda proprio questo: che io ti bacio ancora”.

Anche gli attacchi di molte composizioni, nella loro icastica evidenza, esprimono il meglio della vocazione poetica di Antonio Bux, come si evince da questi esempi: “Sono sempre insieme le ombre. / Simili alle persone, ma più eterne”, “Sarà vero che non si muore mai. / Ma soli in vita, come un’autopsia, / conta esaminare i giorni, disperderli”, “Addio dolore. La tua sacca / chiusa è rimasta nel tempo”.

 

© Riproduzione riservata      https://www.sololibri.net/La-diga-ombra-Bux.html      22 luglio 2020

RECENSIONI

BENNATO

EDOARDO BENNATO, GIROGIROTONDO CODEX LATITUDINIS – BALDINI&CASTOLDI, MILANO 2020

Non c’è bisogno di presentare Edoardo Bennato, uno dei più grandi rocker italiani, autore di brani famosissimi, caratterizzati sempre da una forte dose di ironia e da dissacranti parodie del potere che seduce e ammorba.

Quest’anno ha pubblicato il singolo La realtà non può essere questa, ispirato alla pandemia del Covid 19 (con “chitarre che suonano da sole, nel silenzio di nessuna festa”…), e si è confrontato per la prima volta con la pagina scritta, esordendo con il volume Girogirotondo Codex Latitudinis, in cui si fa interprete di una lettura critica e insieme propositiva della contemporaneità.

Definendosi modestamente “cantautorucolo”, Bennato si propone “di raccogliere una serie di appunti, spunti, elementi, riflessioni e analisi «geopolitiche e non»” in un libro composto di tre parti e diciotto capitoli, illustrato con fotografie, mappe e disegni. Destinataria privilegiata del suo messaggio è la figlia adolescente Gaia, e insieme a lei i lettori più giovani, a cui è fatto compito di salvare il futuro del mondo. Tuttavia la prima sezione si rivolge anche a un pubblico più maturo, cioè a chi ha potuto condividere gli stessi anni di formazione culturale dell’autore.

La rivisitazione autobiografica prende lo spunto dalle origini partenopee di Bennato, dalla Bagnoli sede dell’acciaieria Italsider in cui lavorava il padre, barattando la propria salute con uno striminzito stipendio. Comunque (che bell’avverbio! Trascurato oggi, ma rivalutato da chi ha scritto queste pagine…), le ristrettezze economiche non hanno scalfito la serenità della famiglia, che ha assecondato con ogni mezzo il talento artistico e gli interessi intellettuali dei tre figli. Il doveroso omaggio alla madre – che non solo ha cresciuto con amore e intelligenza i ragazzi, ma si è industriata nel contribuire alle finanze domestiche -, è in realtà soprattutto un sincero riconoscimento al ruolo che le donne rivestono nella cura dell’ambiente privato e collettivo. Bennato rievoca gli studi universitari di architettura a Milano, i primi passi nel mondo della musica, la lunga gavetta fatta di estenuanti attese e di fallimentari audizioni, e poi gli incontri fondamentali con Mogol e Battisti, Mara Maionchi, Herbert Pagani, Roberto De Simone, Renzo Arbore, fino all’incisione del primo LP, Non farti cadere le braccia, che riuscì ad avere come acquirenti solo la mamma e una zia. Poi i viaggi in Venezuela, Cile, Cuba, Londra e finalmente la popolarità, i sospirati guadagni, i tour in giro per l’Italia, gli album di successo negli anni’70.

“Mi invitavano dappertutto. Giravo da solo. Viaggiavo in treno, prendendo le coincidenze al volo, con la chitarra e sulle spalle uno zaino tipo globetrotter con dentro il tamburello. Ero perfettamente autosufficiente: non avevo musicisti al seguito né manager né impresari”. Edoardo si creò da subito la fama di cantautore ribelle e alternativo: “La rabbia e l’insofferenza che avevo dentro si scagliavano contro il potere, il malaffare, i luoghi comuni, le frasi fatte, la retorica a buon mercato, i discografici. E forse, per paradosso, persino contro coloro che mi acclamavano, eleggendomi a loro idolo, ma che, se non mi fossi allineato ai loro diktat, ai loro schemi «socio-politico-mentali», insomma al «vestito» che cercavano di cucirmi addosso, erano pronti a darmi addosso e a farmela pagare! Suonavo per me, solamente per me”.

L’evoluzione professionale si accompagnò pari passo a una crescita della consapevolezza civile, a un affinamento della sensibilità nei riguardi di rilevanti temi etici: la disuguaglianza sociale, lo sfruttamento economico, il razzismo, l’inquinamento, la corruzione politica. Tale impegno ideologico viene apertamente dichiarato nella seconda e terza parte del libro, in cui sono riportati i testi delle canzoni più decisamente schierate in favore degli emarginati e degli immigrati, con un pressante invito al mondo occidentale a superare egoismi e interessi particolaristici in una visione più attivamente solidale e altruista, capace di contrastare gli squilibri economici planetari. Lo slancio utopistico di Edoardo Bennato, che si dichiara particolarmente interessato all’analisi geopolitica della situazione mondiale, si è misurato nel corso del tempo anche con altre modalità espressive (disegno, pittura, fotografia), nel generoso proposito di contribuire a rimuovere tutti i condizionamenti e i pregiudizi ideologici che zavorrano i comportamenti umani.

Il libro si conclude con un excursus storico-geografico, illustrato da un pupazzetto extraterrestre di nome Koso, che nell’indicare attraverso quali percorsi l’umanità ha raggiunto in migliaia di anni l’attuale livello di progresso, invita tutti a stringersi in un girotondo che abbracci ogni latitudine,  fisica e mentale.

 

© Riproduzione riservata                    21 luglio 2020

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RECENSIONI

DI GREGORIO

GIANNI DI GREGORIO, LONTANO LONTANO – SELLERIO, PALERMO 2020

Non mi sono mai persa un film di Gianni Di Gregorio. Li ho sempre trovati ironici ed eleganti, lievi nella narrazione e insieme civilmente, eticamente impegnati: ma senza boria, senza didascalismi. Di Gregorio (Roma, 1949) è sceneggiatore, regista e attore: dal 2008 a oggi ha diretto Pranzo di ferragosto (2008), Gianni e le donne (2011), Buoni a nulla (2014), Lontano lontano (2020), pellicole in cui ha recitato nel ruolo di protagonista o co-protagonista. Con quella faccia un po’ così, come direbbe Paolo Conte, con un’espressione oscillante tra l’ingenuo e il sornione, come di uno che non ha capito niente del mondo intorno, o forse invece ha capito anche troppo. I suoi personaggi sono per lo più dei vinti, strapazzati dalle circostanze, dall’ambiente, dai parenti e dagli amici: senza essere fantozziani, sembrano umilmente consapevoli della loro mediocrità, e di una totale incapacità di farsi strada, di imporsi professionalmente, in famiglia, in amore. Ma alla fine si prendono sempre sonore rivincite su tutto: assennatamente previdenti, sopportano e aspettano che la sorte si riveli benigna, premiando l’indulgenza e la pazienza con cui tollerano difetti e soprusi dei loro simili. Il sesso? Forse non è così importante come si dice. La carriera e il successo? Beh, non vale la pena guastarsi la vita per ottenerli. I viaggi? Divertenti, ma quanto faticosi… Il buonsenso dei vari Gianni che interpretano i suoi film pare il prodotto del carattere romano più paciosamente consolidato dalla sapienza di una cultura millenaria, tra stoicismo e pasquinate.

Così adesso leggere la prima prova letteraria di un autore cinematografico prestato alla pagina scritta, incuriosisce, e non delude. Lontano lontano è il titolo del libro pubblicato da Sellerio (oltre a essere il titolo di una indimenticata canzone di Luigi Tenco e dell’ultimo film di Di Gregorio). Comprende tre racconti, Aiòn, Incantesimo, Lontano lontano.

Il primo, che ricalca il tema del rapporto ossessivo madre-figlio descritto in Pranzo di ferragosto, si riferisce grecamente all’eternità indissolubile di tale legame, e all’atemporalità della città che fa ad esso da sfondo. Roma raccontata nella contemporaneità del traffico, delle invasioni turistiche, dei sobborghi popolari, dei personaggi macchietta, e nel suo magniloquente passato, che partendo dagli Etruschi, attraversando la cristianità fino all’Arcadia e all’occupazione tedesca, rimane nel profondo del suo carattere un pigro suburbio, tenuto insieme da osti e portinai, fruttivendole e mense dei poveri, in cui “la vitarella scorre, senza nome ma anche senza scosse, si sfilaccia piuttosto come zucchero filato”.   Chi narra in prima persona è un cinquantenne, figlio unico di madre vedova, che trascina i suoi giorni accudendo la mamma, “tartarugona in vestaglia”, sciabattante tra poltrona e letto in perpetua pre-agonia catarrosa. Il figlio, assillato dall’idea della pensione di cui non usufruirà mai, e dal vagheggiamento sentimentale di inavvicinabili signore del vicinato, si occupa servizievole delle faccende domestiche, della spesa quotidiana, delle medicine da acquistare in farmacia per la genitrice: umiliato nella sua esistenza, si riconosce fallito, con ironica e rassegnata disperazione, seguendo il flusso delle sue aggrovigliate e inconcludenti ipotesi di riscatto. Tanto, “tutto è iscritto nel cerchio, pappa e gioia e Aiòn, eternità, castagnole e tricche tracche, scoppietti, le scuregge del Negus che non le fanno più”.

Anche in Incantesimo incombe accentratrice una figura materna. “Testa d’aquila su corpo di chioccia pacchiotta, sora Maria portava vesti lunghe fino al pavimento e sembrava scivolare su silenziose e solide rotelle”. I suoi due figli Emilio e Virgilio, adulti scapoloni, professionisti di prestigio, scissi tra desideri concupiscenti e inibita rassegnazione, dormono nella stessa stanzetta, in un incomprensibile prolungamento della dipendenza infantile dalla madre. Intorno, la campagna romana, “Un mondo felice per riflesso, di terra rossa e profumata, scaldato dal sole e carezzato dal ponente la sera quando nelle vigne si accendevano i fuochi fumiganti, fiamme che non significavano distruzione e ruine di guerra ma ardevano per arrostire generazioni di salcicce e carciofi alla matticella e di notte diventavano braci azzurre intorno alle quali scorrevano l’Olevano e il Cannellino”. Il racconto, scritto in uno stile più tradizionalmente coltivato rispetto al precedente, è la rivisitazione della realtà agraria e periferica di un Lazio post-bellico, con relazioni interpersonali e familiari cementate in una cultura atavicamente matriarcale.

Tra lo scavo sarcasticamente introspettivo del primo testo e l’indagine antropologica del secondo, il terzo racconto si situa in una simil-cronaca d’attualità, che vede per protagonisti un terzetto di pensionati romani ciondolanti nei bar di Trastevere, a chiacchierare, a perdere tempo, a farsi una birra o un bicchiere di bianco.

Il professore, nel film omonimo Lontano lontano interpretato dallo stesso Gianni Di Gregorio, è un insegnante di lettere in pensione, divorziato e senza figli, che vive una quotidianità priva di assilli e di speranze grazie al suo striminzito sussidio mensile: “Già al tramonto la coscienza si rilassava, aveva fatto quello che poteva, cioè niente, ed era abbastanza”. Gli altri sono suoi amici scalcagnati, un proletario lavativo chiamato il Vichingo, e un rigattiere di nome Attilio che vive in periferia con il suo cane. I tre progettano per una settimana intera di trasferirsi all’estero, per poter vivere i loro ultimi anni con più serenità economica, accarezzando una prospettiva di rinascita esistenziale. Forse in Bulgaria, o nell’Europa del Nord, o in Africa. Magari nelle Azzorre, clima mite, situazione politica tranquilla, discreti servizi sociali.

Il racconto, vivace e ironico, intessuto di dialoghi svelti e avvenimenti spassosi anche nella loro tragicità, si presta ovviamente a una lettura di impianto cinematografico, quasi canovaccio di una prima sceneggiatura. E mantiene, nella rinuncia ai sogni dei tre anziani (“ma dove andiamo? Questo è il nostro mondo, ce semo nati, ce conoscono tutti!”) tutta la sorridente malinconia, l’umanità dello sguardo attento e partecipe del Di Gregorio regista.

 

© Riproduzione riservata               «Gli Stati Generali», 16 luglio 2020

 

 

 

 

 

RECENSIONI

PATUI

PAOLO PATUI, SCUSATE LA POLVERE – BOTTEGA ERRANTE EDIZIONI, UDINE 2019

I dieci racconti che Paolo Patui ha raccolto in Scusate la polvere sono ambientati tutti all’interno di cimiteri, e lambiscono il tema della morte con una profondità empatica e insieme leggera, senza mai apparire tetri, o funerei. Scritti con eleganza e vivacità, accomunano vivi e defunti in un confronto e arricchimento reciproco, nella consapevolezza che “La vita non muore mai. Viene affidata a chi resta”. Così nel delicato testo di apertura il narratore, un insegnante friulano, viene convinto da un collega-runner ad attraversare di corsa il cimitero di Udine in un tardo pomeriggio piovoso, ma finisce per attardarsi a curiosare tra le tombe, collezionando aneddoti e riflessioni su nomi, ritratti e iscrizioni sepolcrali.

“Brillano i fiori, brillano i marmi, brillano sguardi, visi e fotografie di persone stanche della vita o sorprese dalla morte”.

Avvicinato da un custode che avverte come una missione il proprio incarico di salvaguardare memorie, citando ai visitatori Foscolo, Proust, Ovidio e le canzoni di De André, viene a conoscenza del tragico destino di un giovane dal nome particolare, Elci, vittima di un terribile incidente stradale. In seguito, la visita ai cimiteri da casuale diviene per lui quasi abitudinaria, una sorta di cerimonia del ricordo, talvolta limitata alla sua città o ai paesi della provincia, altre volte spinta addirittura in diverse regioni o all’estero. Così gli capita di scoprire una sezione del camposanto udinese simile a un falansterio, con i loculi cementati verticalmente come in un condominio, e di ritrovarvi persone che avevano avuto un ruolo formativo o affettivo nella sua esistenza, e altre tombe indicanti casi particolarmente sofferti.

Si reca nei piccoli cimiteri friulani di Santa Marizza di Varmo, della Pieve di Gorto, di Paluzza, e in quello più esteso di San Daniele, per rendere omaggio allo scrittore Elio Bartolini, al calciatore Enzo Scaini, a uno psichiatra benefattore sulla cui lapide è incisa la frase “Vide e capì le sofferenze altrui”. Ancora scopre giovani partigiani fucilati, ragazze vittime di violenza, alpinisti precipitati in scalate impervie, Eluana Englaro bloccata nella bella foto dei suoi 22 anni.

“I cimiteri hanno odori diversi. Su in montagna c’è un odore secco di neve, di aghi di pino, di funghi umidi; qua sotto nelle pianure i cimiteri odorano di crisantemi e narcisi; di gigli marciti; sanno di nebbia e pioggia”.

A Torino il professore accompagna la sua classe di studenti in gita scolastica, e con due di loro visita il Monumentale, dove riposano alcuni soldati della I Guerra Mondiale, i calciatori precipitati nell’incidente aereo di Superga, Silvio Pellico, Edmondo De Amicis, Rita Levi Montalcini, la soubrette degli anni ’20 Isa Bluette: tante vite diverse, anonime o di successo, rese uguali dallo stesso grande sonno. Un altro Monumentale si trova a Milano, e vi giacciono molti artisti: Gaber, Jannacci, Fo, Walter Chiari, Wanda Osiris, tra capolavori scultorei di fama, nel silenzio di giardini curati.

E poi c’è Praga, con la sua immensa necropoli boscosa che accoglie Jan Palach, anch’essa visitata insieme agli allievi. Tra di loro una ragazza punk, dai capelli tinti, trucco vistoso, chewing gum perpetuamente tra i denti: il suicidio del padre l’ha convinta a raccogliere testimonianze e notizie sui vari cimiteri sparsi nel mondo, e ne fornisce ogni dettaglio all’insegnante.

A Parigi, nel celeberrimo Père-Lachaise, sono sepolti Oscar Wilde e Jim Morrison, mentre un altro campo è destinato ai ghigliottinati della Rivoluzione. Highgate a Londra ospita Marx, in quello Acattolico di Roma si possono vedere le tombe di Gramsci, Shelley, Gregory Corso. Vicino a Miami esiste un cimitero sottomarino, un altro ad Halifax è riservato ai morti del Titanic, a Hollywood ovviamente c’è spazio per gli attori. In Romania esiste un camposanto allegro e colorato, a Berlino i morti senza nome sono accolti nella foresta di Grunewald. All’interno del penitenziario di Santo Stefano ci sono le sepolture degli ergastolani, in quello del manicomio di Volterra solo i malati di mente. In Indonesia seppelliscono i morti nelle cavità degli alberi, in uno stato africano le tombe riproducono il mestiere del defunto, nelle zone coperte da ghiacci lasciano che i cadaveri si decompongano all’aperto.

Una galleria sepolcrale, quella raccontata con garbo da Paolo Patui, che racchiude in un abbraccio universale vita e morte, sopravvivenza nel ricordo o speranza nella resurrezione. Perché ogni cimitero “è un posto senza vita che ha senso solo quando è attraversato da chi la vita ce l’ha ancora”.

 

© Riproduzione riservata         13 luglio 2020

https://www.sololibri.net/Scusate-la-polvere-Patui.html