Mostra: 31 - 40 of 1.654 RISULTATI
RECENSIONI

BIDUSSA

DAVID BIDUSSA, PENSARE STANCA – FELTRINELLI, MILANO 2024

Lavorare stanca, scriveva Cesare Pavese. Ma oggi forse, in un’epoca di attivismo sfrenato, è il pensare che stanca di più. Analizzare, riflettere, valutare: compito che ormai viene delegato a un’unica categoria di persone: agli intellettuali. Di loro si occupa David Bidussa nel suo ultimo lavoro, intitolato appunto Pensare stanca.

David Bidussa (Livorno1955), scrittore e  giornalista,  si è auto-definito in un’intervista “storico sociale delle idee”, riferendosi a “una disciplina che comprende un mix di competenze culturali tra le quali: storia contemporanea, storia sociale, semiotica, teoria della letteratura, storia delle dottrine politiche, storia dei partiti e movimenti politici”. E in questo volume troviamo infatti accurate ricostruzioni storiche, accompagnate da acute analisi sociologiche e politiche, spesso non in linea con un’opinione comune addomesticata o addirittura dogmatica.

Il volume è diviso in tre sezioni. La prima, più concettuale, si occupa di definire il profilo identitario dell’intellettuale, nella sua vocazione all’azione pubblica, che lo vede dentro e fuori dalla storia, come suo prodotto e insieme suo interprete. La seconda e terza parte propongono una divisione temporale caratterizzata da un lato dall’egemonia dei partiti politici di massa, dall’altro dall’inizio della loro dissoluzione fino alle soglie dell’attualità. Nel primo periodo si imposero fondamentali figure di “dissidenti impegnati”, di engagé non più militanti ma critici rispetto alle direttive dei partiti, considerati talvolta eretici e per questo allontanati dalla partecipazione politica diretta. Tra di loro, si alzarono coraggiose le voci di Walter Benjamin, Simone Weil e Victor Serge, riascoltate in seguito empaticamente da Hannah Arendt, Albert Camus, Ignazio Silone, Nicola Chiaromonte e Furio Jesi.

La terza parte è dedicata agli ultimi cinquant’anni che hanno registrato la crisi delle democrazie rappresentative e la nascita dei movimenti. In relazione a questi cambiamenti si è imposta una nuova figura di “intellettuale radicale”, che rivendica per sé l’incombenza di indagare trionfi e fallimenti di chi si colloca sulla scena politica, con il proposito di allertare gli strati sociali più disorientati, impreparati o indifferenti. David Bidussa fa alcuni nomi rilevanti di “sentinelle” capaci di mettere in guardia, con particolare sensibilità, dalla diffusione di un pensiero a-problematico, e pacificato nelle convenzioni livellatrici: Edward Said, Susan Sontag, Tony Judt, Zygmunt Bauman, Tzvetan Todorov.

Come è andata trasformandosi la funzione dell’intellettuale nell’ultimo secolo? Desueta appare ormai la figura di guida e profeta, di predicatore o consolatore; altrettanto superata quella di dissacratore e contestatore. Bidussa concorda con Todorov nel sottolineare il necessario atteggiamento critico di chi ha il dovere di prendersi carico dei problemi e delle ansie del proprio tempo, provando a dare risposte che provochino a loro volta ulteriori domande: incarnando passione, consapevolezza, inquietudine, e incoraggiando a pensare in maniera eterodossa, senza “sdraiarsi sul senso comune”.

L’intellettuale infatti non deve creare consenso, ma porre problemi. Capita invece che aspiri a conquistare un ruolo pubblico dominante, oppure a realizzare una posizione di privilegio per sé, proponendosi come specialista in determinati campi del sapere. Non è questo l’obiettivo da raggiungere: piuttosto dovrebbe assumersi il compito di portare alla luce le ambiguità del presente, per consegnare alle giovani generazioni la possibilità di costruire un futuro migliore in difesa dei propri diritti, ma superando la dimensione privata, estranea all’interesse sociale e all’identità collettiva.

© Riproduzione riservata       «Gli Stati Generali», 21 dicembre 2024

 

 

 

 

RECENSIONI

LEVANTE

LEVANTE, OPERA QUOTIDIANA – RIZZOLI, MILANO 2024

Levante (Caltagirone 1987), cantautrice siciliana di intensa bellezza mediterranea e provocante presenza scenica, autrice di testi mai banali, dopo aver pubblicato cinque album musicali e tre romanzi di grande successo, si cimenta nel più recente volume Opera quotidiana nella realizzazione di un’opera sincretistica, utilizzando olio su tela, carta, penna, forbici, colla, per offrire ai lettori dipinti e collages vivacissimi, brani di diario, aforismi, riflessioni politico-sociali e confessioni sentimentali. Chiama questa sua nuova esperienza creativa “poesia”, termine che come si sa deriva dal greco “poiein”, che significa “fare”. Infatti, la manualità di questo suo agire concreto è ben visibile nell’attuazione del ritaglio di singole parole o frasi scelte a caso da più di tremila giornali e riviste italiane, incollate poi su fogli bianchi al fine di ottenere un effetto di straniamento nella giustapposizione di concetti diversi. Una tecnica che agli inizi del ’900 era stata portata in auge dai futuristi e dal movimento Dadà, con intento scandalistico nei riguardi della compassata e rigida civiltà letteraria dell’epoca, ma anche di sberleffo provocatorio e di puro divertimento. Questa finalità ludica manca nell’operazione effettuata da Levante, che invece appare più legata a motivazioni intimistiche e di riscontro interpersonale.

Così infatti esplicita il suo progetto compositivo, nella volontà di mantenere “uno sguardo vigile” su ciò che le accade intorno, per resistere “all’orrore, allo sconforto, alla paura”. Soprattutto dopo la nascita della sua bambina Alma Futura, avvenuta due anni fa, l’artista ha cercato “una via di fuga dalla paura” attraverso le parole, “maniglia per aprire uno spazio” in grado di offrirle conforto, sicurezza, speranza.

Eccole dunque le parole, recuperate “tra la grazia e l’inquietudine”, con la volontà di essere altro da sé, di essere altrove, per sottrarsi al peso del giorno e indicare una via d’uscita. Parole di uso comune, derivanti da codici linguistici e visivi, ritagliate da fogli di stampa e assemblate secondo una modalità sinestetica, che utilizza caratteri e dimensioni tipografiche diverse (grassetto, corsivo, tondo, stampatello, chiaro, nero, colore, ideogrammi, numeri…), accostate casualmente, per catturare l’attenzione sul significato da veicolare. Ad esempio, in questo messaggio-proclama di orgoglio femminista leggiamo: “carissima / stella nera / principessa inquieta / nel regno dei maschi / hai / LA COLPA DI ESSERE / un cervello a Cuore aperto / con Passo leggero / avanza ancora / questa è la tua voce / alzala”. Oppure questa fiera dichiarazione autobiografica: “NON / PARAGONATEMI / metto la vita nella musica / L’anima trova / un’altra liturgia / Che Cambia / tempie e parole / questa è La mia DIREZIONE OPPOSTA”.

Il richiamo evidente mi sembra essere, più che allo sperimentalismo protonovecentesco, alla poesia visiva di Lamberto Pignotti, a partire dagli anni ’60 iniziatore e maestro di una particolare forma di “poesia visiva” che contestava la capacità comunicativa del linguaggio massificato della società industriale e borghese.

Accanto a queste pseudo-poesie artificialmente ricavate dalle pagine dei giornali, Levante si serve di metodi comunicativi più tradizionali, come i commenti e le riflessioni diaristiche scritte in stampatello a piè di pagina. Qui, temi prevalenti sono quelli sentimentali, con dichiarazioni o violente ricusazioni d’amore: “Non ho mai cambiato il numero di telefono, non vorrei mai non riuscissi a trovarmi. Chiamami, così saprai che se non rispondo, l’ho scelto”, “Impossibile confondersi anche in mezzo a milioni di occhi. Impossibile confonderti”. Vengono affrontate anche meditazioni più generali, di carattere filosofico o politico. Troviamo la consapevolezza della nostra irrilevanza di creature sperse nell’universo (“Siamo formiche sotto le suole del creato. E non smette di girare il mondo se smettiamo di girare noi”), o il bisogno di contare nell’anonimato livellante (“Resta nonostante l’assenza di spazio. Trova il modo di prendere posto”, “Dove fuggi umano? Ti alleni a correre più veloce del tempo e speri di barare al traguardo”).

Le riproduzioni dei dipinti a olio che Levante inserisce nel volume, con soggetti diversi vivamente colorati (ambienti, persone, animali), testimoniano un’abilità pittorica da non sottovalutare; ma sono soprattutto i collages che meritano una particolare attenzione e un elogio, con l’uso intelligente di fotomontaggi e curiosi assemblage, intesi a produrre effetti parodistici e polemici, con la sovrapposizione di elementi classicisti ai più triti slogan pubblicitari.

Frutto di un lavoro artigianale, Opera quotidiana racconta esaltazioni e timori, rabbie e desideri di un’artista immaginosa e poliedrica.

 

© Riproduzione riservata      «Gli Stati Generali», 8 dicembre 2024

 

RECENSIONI

BORGNA

RICORDANDO EUGENIO BORGNA

Il Direttore di Odissea, Angelo Gaccione, mi ha invitato a ricordare Eugenio Borgna riattraversando le fasi della nostra amicizia: altri, più titolati e competenti di me, hanno già saputo e sapranno evidenziarne l’alto magistero intellettuale e scientifico.

Il mio rapporto di familiare e reciproca vicinanza con il Professore è iniziato intorno al 2010, in seguito ad alcune mie recensioni. Da allora si è sviluppato e approfondito, con fasi alterne, fino allo scorso 7 ottobre, quando con l’ultima mail mi comunicava il suo confortante giudizio sui versi di una raccolta inedita che gli avevo fatto leggere, informandosi affettuosamente del mio recupero fisioterapico dopo un’operazione di protesi al ginocchio. Gli ho poi inviato una recensione all’ultimo libro L’ora che non ha più sorelle, pubblicata sul blog SoloLibri il 24 novembre, ottenendo dall’ affezionata e attenta segretaria Nadia l’assicurazione del suo gradimento, insieme al rammarico di non essere in grado di rispondermi personalmente. Voglio credere sia stato così, anche se temo fosse già molto malato. Eppure, solo a metà luglio mi scriveva con relativo ottimismo: “Non so come dirle ancora la mia gratitudine per questa sua presenza amica. A presto. Il suo Eugenio Borgna”.

Decine le lettere e i biglietti che ci siamo scambiati in questi anni, parlando di tutto: di fede e politica, di poesia e di musica, delle nostre famiglie e dei nostri lutti, con una confidenza che si accresceva attraverso le sue frequenti e lunghissime telefonate. Ci scambiavamo le pubblicazioni, le sue accompagnate sempre da un biglietto scritto con una grafia tonda, larga, generosa, e con termini di squisita gentilezza, a volte addirittura di estrema umiltà, quasi dovesse scusarsi di aver osato sconfinare da psichiatra nel campo della letteratura. Nel volume La dignità ferita del 2012 ho ritrovato questo messaggio: “Non so cosa sia questo libro, Alida, se di psichiatria o di antipsichiatria, di psichiatria morale e di psichiatria salvata dalla poesia; ma lei vorrà aiutarmi a ricercarne il senso: se questo c’è? Grazie, e in amicizia”.

Ci siamo incontrati di persona solo due volte, a Milano nel 2012 in occasione di una conferenza a cui mi aveva invitato, e alcuni anni dopo nel corso di una sua inaspettata e graditissima visita a casa mia, a Garda. Ricordo la trepidante agitazione all’idea di conoscerlo, il timore di deluderlo con la mia scorbutica timidezza. In realtà, nelle due ore trascorse in un bar della Stazione Centrale, aveva parlato quasi sempre lui, grande affabulatore com’era, ma spiandomi nel volto qualsiasi espressione, in particolare quella di colpevole imbarazzo quando ci aveva avvicinati un’anziana deforme per chiederci l’elemosina. Avendogli comunicato l’assoluta incapacità che provo di affrontare il dolore, mio e degli altri, lui che del dolore altrui si era occupato per tutta la vita, mi aveva consolato: “È la cosa più difficile, guardare in faccia la sofferenza”.

Più disteso era stato il secondo incontro a casa mia, che aveva lodato per la luminosità e l’ordine e la cura delle piante, con mio grande compiacimento. Era stato inflessibile sulle indicazioni del pranzo: un toast e un succo di pera, a cui avevo aggiunto di mia iniziativa un uovo alla coque di cui lo sapevo goloso. Così alto e magrissimo com’era, non gli risparmiavo le raccomandazioni a nutrirsi di più, e a volte mi comunicava con soddisfazione quasi adolescenziale di avere optato al ristorante per un menù più consistente del solito. Poi ricambiava le mie attenzioni commentando “da medico” le diagnosi sull’artrosi che gli sottoponevo, o il percorso terapeutico per la depressione che seguivo da dieci anni, esortandomi a lasciar perdere gli psicofarmaci e ad affrontare con maggiore coraggio l’esterno e i rapporti con gli altri.

A un certo punto la nostra amicizia ha corso il rischio di infrangersi, per colpa dell’irrigidimento che mi impongo quando temo che un legame diventi troppo coinvolgente in termini affettivi ed emotivi. Mi è successo spesso, soprattutto avanzando con l’età, di interrompere rapporti a cui tenevo, per il timore di soffrire troppo se si fossero guastati per qualsiasi ragione, dopo le tante gravi perdite patite. Avevo rifiutato il suo invito a passare dal “lei” al “tu”, e addirittura gli avevo chiesto di non telefonarmi più. Cosa che immagino l’abbia ferito, perché mi ribadiva spesso la sua gioia per la nostra amicizia. Addirittura in una dura e permalosa mail lo avevo accusato di maschilismo (lui, così attento e sensibile alla fragilità femminile!), perché aveva osato scherzare sulle mie troppe paure, con allusioni da me ritenute inopportune e mortificanti. Il Professore, che si firmava, “il suo Eugenio”, capiva e scusava, conoscendo le difficoltà ambientali che avevo vissuto con le mie figlie per tanti anni, e le nostre sofferenze. Capiva e scusava da amico e da psicanalista.

Sono felice di essere riuscita, l’anno scorso, a esprimergli il mio rammarico per alcune estemporanee irritazioni nei suoi confronti, e la gratitudine invece per i tesori che il nostro rapporto mi aveva regalato: “Gentile Prof. Borgna, spero stia bene, e che il caldo non la faccia soffrire troppo. Qualche giorno fa è morto un caro amico, lasciandomi il rimpianto di un immotivato allontanamento, come succede spesso al mio calvinismo severo. E allora mi è venuto da pensare che per un certo periodo siamo stati molto amici anche noi, e poi io mi sono chiusa a chiave nel mio dolore, per quello che mi succedeva intorno. E ho interrotto i rapporti con tutti. Si sbaglia sempre, non bisognerebbe mai perdere di vista nessuno, nemmeno chi ci ha fatto del male. Così avevo scritto in una poesia, pensando che avrei potuto essere più affettuosa e più attenta anche con mio marito, mia mamma, mio papà, gli amici che ho trascurato. E quindi mi scuso anche con lei, se non sono riuscita a dirle che la sua vicinanza mi è stata cara. Alida”, “Mia gentile Alida Airaghi le sono infinitamente grato della sua mail che mi è giunta segnata da questo grande dolore che è conseguito alla morte di un suo caro amico. Le parole con cui mi dice questo sono come sempre molto gentili, umane, nostalgiche, luminose e poetiche. Infinite grazie di ogni sua mail che mi giunge come una azzurra colomba trakliana, anche se giornate come queste accrescono la nostalgia e il dolore per le persone care che non ci sono più. Non posso dimenticare le sue splendide poesie che rileggo e che sono di una bellezza e di una malinconia dolorosa, ma irrorate del fiume della speranza che è la sola cosa che possa dare un senso al nostro dolore. Grazie di tutto con grande nostalgia. Eugenio Borgna”.

Non so se il rimpianto, insieme alla mia riconoscenza, possano raggiungere il caro Eugenio Borgna, lì dove era certo di arrivare, con la sua limpida fede nell’eternità dell’anima. Ma in qualche modo, pur da non credente, lo spero.

 

© Riproduzione riservata      «Odissea», 7 dicembre 2024

 

 

 

 

 

 

 

 

 

RECENSIONI

CASATI

ANGELO CASATI, “IN RICORDO DI LEI” – QIQAJON, BOSE 2024

Le edizioni Qiqajon della Comunità di Bose pubblicano nella collana Sentieri di senso un libriccino di venti pagine, In ricordo di lei, trascrizione di una relazione che Don Angelo Casati (Milano 1931) aveva tenuto nel maggio 2013 presso l’hospice Madonna dell’Uliveto ad Albinea (RE).

Don Angelo nella sua lunga vita di presbitero ha sempre lasciato in chi ha avuto occasione di conoscerlo (anche in me, non credente, nel limitato scambio epistolare intrattenuto anni fa) tracce indelebili del suo carattere dolce e benevolo, profondo e umile, insieme alla testimonianza limpida di una fede vissuta con assoluta coerenza e appassionato rigore, ma senza servilismi verso il potere ecclesiastico, e in polemica con un cattolicesimo di rappresentanza.

Innamorato della poesia, e poeta lui stesso, mantiene anche in questo testo uno stile elegante e sobrio, celebrando con ammirata considerazione il gesto della donna che a Betania cosparge di profumo la testa e i piedi di Gesù, asciugandoli con i suoi capelli. Ne parlano tutti e quattro i Vangeli (in particolare quello di Marco: 14, 1-11), incastonando l’episodio nei giorni bui precedenti la Passione, tra il complotto dei sacerdoti e il tradimento di Giuda. L’atto di affettuosa dedizione di Maria viene criticato dagli astanti e dai discepoli, sia perché ritenuto uno spreco di preziose essenze, sia perché la figura stessa della donna appariva moralmente discutibile. Gesù la difende: “Lasciatela stare. Perché la infastidite? Ha compiuto un’azione buona verso di me”.

Da qui parte il commento intenso e commosso di Don Casati, che subito prende le difese della donna, e più in generale di altre figure femminili del Vangelo, contro la durezza e l’ipocrisia del pensiero maschile. Sarebbe fuori luogo parlare di femminismo per la posizione assunta dall’autore, sebbene ormai si sia imposta una teologia critica – ampiamente condivisa in vari livelli del cattolicesimo – nei riguardi di una Chiesa tradizionalmente sessista. L’atto di Maria verrà sempre ricordato per la sua tenerezza e gratuità, in opposizione alla mentalità mercantile degli uomini che si scandalizzano per il prezzo del vaso di alabastro frantumato e del prezioso contenuto sprecato: ma il profumo riempie di dolcezza la stanza, e addolcisce la malinconia di Gesù. È un atto “bello”, e di bellezza il mondo, così appiattito sul grigiore dei sentimenti e sul possesso economico, ha sempre avuto e ha tuttora bisogno. Anche nella Chiesa.

“Alle spalle abbiamo stagioni della chiesa, e ancora non sono finite, in cui la bellezza è stata inseguita, per appannamento di memoria o per vile interesse, nei colori delle vesti, nei volti truccati, nella pomposità dei riti, nella corposità degli apparati, nello scambio dei favori, nell’amicizia dei potenti: teatralità vuote, coreografie senz’anima, istituzioni in estinzione di Spirito, casa colma di cose ma senza bellezza, senza bellezza di vangelo”.

Un altro gesto “bello” è quello compiuto dalla vedova povera che offre al tesoro del tempio tutto quello che possiede, una sola moneta, e la sua generosità ha per Gesù più valore delle donazioni dei ricchi (Mc 12,41-44). Due donne, la vedova e Maria, “pure di cuore” perché donne “della totalità”, che nel dare tutto sono diventate vangelo vero.

Per Don Angelo Casati il compito dei cristiani di oggi è quello di detronizzare il vuoto che si è insediato in alto, portando in luce i gesti nascosti, che nella loro semplice generosità vincono sull’arroganza volgare di chi vuole imporre pubblicamente il proprio dominio basato su compromessi e prevaricazioni.

 

© Riproduzione riservata          «SoloLibri», 7 dicembre 2024

 

 

 

 

RECENSIONI

MARINO

FRANCESCO MARIA MARINO, LA LINGUA NON HA OSSA MA LE ROMPE – TAU, TODI 2024

Due noti docenti universitari, i Monsignori Stefano Guarinelli e Dario Viganò, si sono occupati nel 2014 e nel 2016 della maldicenza come piaga devastante del vivere civile, in due volumi dal titolo molto espressivo: La gente mormora e Il brusio del pettegolo, rispettivamente per le edizioni San Paolo e Dehoniane. Qualche mese fa anche Tau, altra casa editrice cattolica con sede a Todi, ha pubblicato un agile libro di Padre Francesco Maria Marino, dal titolo ancora più esplicito dei due citati: La lingua non ha ossa ma le rompe, e con un sottotitolo più ponderato (I peccati di lingua tra spiritualità e psicologia).

La cultura religiosa si rivela dunque particolarmente sensibile ai vizi della diffamazione e della calunnia, che in più di un’occasione pubblica sono stati stigmatizzati da Papa Francesco, con una severa deplorazione del “terrorismo delle chiacchiere”: «Su questo punto, non c’è posto per le sfumature: se parli male del fratello uccidi il fratello. E, ogni volta che facciamo questo, imitiamo il gesto di Caino, il primo omicida».

Il testo di Padre Marino, dalle finalità esplicitamente ammonitrici, esortative e didattiche, si apre con un interessante excursus storico concernente il trattato del XIII secolo Summa virtutum e vitiorum, composto dal frate domenicano Guglielmo Peraldo, in cui venivano dettagliatamente illustrati, utilizzando numerose citazioni bibliche e patristiche, 24 peccati commessi con la lingua, 18 valide ragioni per evitarli e 8 rimedi per tacitarli per sempre.

Mormorazione e maldicenza sono le prime gravi colpe di cui ci si macchia usando parole ostili nei confronti del prossimo: la prima sussurrata di nascosto, esprimendo giudizi negativi, inventando situazioni false, manipolando o ingigantendo fatti riportati da altri, creando complicità e consenso in chi ascolta e diffonde il sentito dire. La maldicenza è invece un’abitudine più aperta e sfrontata, spesso motivata dalla volontà di contestare l’autorità e le istituzioni, o per provocare l’esclusione e l’eliminazione di un antagonista scomodo.

Entrambi questi vizi sono ricorrenti in tutti i consessi umani: famiglie, scuole, luoghi di lavoro, comunità religiose e non. Riescono ad avvelenare l’ambiente sociale minando le relazioni, creando un clima di sfiducia e di sospetto, distruggendo rapporti coniugali e di amicizia. Esempi di questo uso malevolo della parola si trovano anche nei testi sacri, con la riprovazione espressa sia nell’Antico che nel Nuovo Testamento. Il monaco del deserto Arsenio (IV secolo) suggeriva un antidoto a tale pratica di alterazione della verità: fuge, tace, quiesce, raccomandando riservatezza, silenzio e serenità d’animo.

L’attuale perdita di una cultura della conversazione appropriata, amichevole, rispettosa degli altri (nei colloqui personali, sulla stampa e nei programmi televisivi) lascia prevalere la volgarità e l’inutilità dei discorsi, determinati dalla mancanza di ascolto e di attenzione, dalla disaffezione al silenzio, dall’assenza di pensiero critico che conduce l’intervento verbale a uno scollamento dalla realtà, con la predilezione per il messaggio vuoto, di circostanza, o addirittura sfrontato e offensivo. Nei rapporti con gli altri prevalgono il sospetto e il giudizio negativo, la condanna a priori e il rifiuto, spesso indotti da un complesso che può essere sia di saccente superiorità, sia di frustrante inferiorità.

Ma quando il malanimo e la maldicenza arrivano a trasformarsi in calunnia, ecco che odio, invidia e gelosia distruggono la reputazione di singoli individui, di famiglie, di intere collettività. Le parole possono guarire e uccidere. Siamo responsabili di quello che diciamo e di come lo diciamo: «Osservate: un piccolo fuoco può incendiare una grande foresta!» (Gc 3, 3-5), pertanto dobbiamo sorvegliare il nostro parlare, e i sentimenti che lo influenzano: «ciò che esce dalla bocca proviene dal cuore. Questo rende impuro l’uomo. Dal cuore, infatti, provengono propositi malvagi, omicidi, adultèri, impurità, furti, false testimonianze, calunnie» (Mt 15, 18-19).

Ancora Papa Francesco, nell’esortazione apostolica Amoris Laetitia del 2016 ricordava: «La Parola di Dio ci chiede: “Non sparlate gli uni degli altri, fratelli” (Gc 4,11). Soffermarsi a danneggiare l’immagine dell’altro è un modo per rafforzare la propria, per scaricare i rancori e le invidie senza fare caso al danno che causiamo. Molte volte si dimentica che la diffamazione può essere un grande peccato, una seria offesa a Dio, quando colpisce gravemente la buona fama degli altri procurando loro dei danni molto difficili da riparare».

Inoltre, la calunnia può diventare, in un’epoca come la nostra dominata dalla fake news, un’arma diabolica, elaborata dagli interessi di vari centri di potere, attraverso abili tecniche pubblicitarie o sottili operazioni propagandistiche, con il fine di creare non solo un consenso di massa ideologico e culturale, ma addirittura di orientare i valori morali, i gusti e le opinioni delle persone, deprivate del diritto di critica, di verifica e persuase all’obbedienza più facile e conformista.

Le indicazioni cristiane suggerite da Padre Marino per contrastare le falsità della comunicazione hanno alle spalle una tradizione millenaria di raccoglimento interiore: silenzio, canto, digiuno, preghiera. Ed è appunto con una preghiera che l’autore chiude ogni capitolo del libro, fino alle Litanie dell’umiltà riportate in Appendice. Proprio all’umiltà si invita il calunniato, suggerendogli di dominare il desiderio di rivalsa e di vendetta con un uso intelligente dell’umorismo che insegna a demitizzare se stessi e gli altri, e con la generosità del perdono così difficile da mettere in pratica. Senza tuttavia dimenticare che calunnia e diffamazione sono reati iscritti nel nostro Codice Penale (Art. 368 e 595), e che lo stesso Gesù così ammoniva: «Ma io vi dico che di ogni parola infondata gli uomini renderanno conto nel giorno del giudizio; poiché in base alle tue parole sarai giustificato e in base alle tue parole sarai condannato» (Matteo 12,36).

 

© Riproduzione riservata       «La Poesia e lo Spirito», 5 novembre 2024

 

 

 

RECENSIONI

LO PORTO

TIZIANA LO PORTO, LA RAGAZZA CHE VA IN SPOSA – SARTORIA UTOPIA, MILANO 2024

Per le edizioni Sartoria Utopia, è recentemente uscito il volume di versi, già alla terza ristampa, La ragazza che va in sposa di Tiziana Lo Porto (Bolzano 1972). Originale come la casa editrice che lo ospita e come il titolo che gli è stato assegnato, il libro consta di un’ottantina di composizioni: un antiretorico canzoniere sentimentale raccontato a volte con una leggerezza che ha ancora qualcosa di adolescenziale, a volte con amara disillusione.

L’understatement autoironico con cui l’autrice innamorata finge di non esserlo (spiazzante nel tergiversare, nel negare coinvolgimenti eccessivi, nell’inventare distrazioni improbabili), viene poi confutato da sommesse richieste di rispondenza affettiva, mai petulante o ricattatoria, comunque femminilmente giustificata: “scrivimi / ogni / tanto”, “sto scrivendo / vuoi vedermi? / vuoi vedermi?”

Eppure, il gioco intestardito di negazione persiste, nonostante l’evidenza del bluff: “ti guardo e penso / io non ti avrei mai lasciato / ti guardo e penso / non voglio tornare con te / nel frattempo parliamo d’altro”, “se non scrivi / io smetto di desiderare le tue lettere”, “per coprire la distanza / tra me che dico ti amo / e tu che dici no!”

Si prende in giro, Tiziana, raccontando di sé che interroga l’i ching per trovare risposte sul futuro (e cosa significherà mai la profezia sulla ragazza cha va in sposa?), che cammina senza meta scattando fotografie ai gabbiani, inanellando pensieri vaghi e fluttuanti, per non pensare e soprattutto non confessare la propria sofferenza. Un pudore mascherato di levità anche quando parla del privato più privato: i cari defunti, le cicatrici, la malattia. Fiduciosa nell’esistenza cui si affida, perché esistono comunque piccole gioie e grandi consolazioni, Cose da venerare: “me / il mio amato / i musei / gli orti botanici / emily dickinson / george harrison / bob dylan / ludovico ariosto / la costruzione di una poesia / gli dèi – tutti / i morti”.

Altri nomi di riferimento spuntano qua e là nei versi: werner herzog, sylvia plath, william s. burroughs. Amici di carta o di celluloide, con cui confrontarsi e magari passeggiare tra presenze concrete o inverosimili: “cammino per le strade di new york / william s. burroughs è al mio fianco / gli altri non lo vedono / nemmeno io lo vedo ma so che c’è / quando vediamo un gatto ci fermiamo / guardalo negli occhi dice lui / guardo il gatto negli occhi / è tuo padre? Domanda / no rispondo / è qualcuno che conosci? / no mai visto dico / lasciamo andare il gatto e riprendiamo a camminare / vorrei fargli delle domande / vorrei chiedergli cose della scrittura e della vita / vorrei chiedergli questa storia dei gatti / tua moglie si è davvero reincarnata in un gatto? / anch’io diventerò gatto? / ma è sempre così serio e allora sto zitta”.

Tiziana Lo Porto vive e lavora come traduttrice tra Roma e New York, e dell’atmosfera americana ha respirato con naturalezza suoni e immagini, intuibili nello sfondo ambientale e nello stile, in particolare nelle pagine conclusive del libro.

Sebbene l’autrice abbia saputo reinventare un linguaggio personale, possiamo trovare nei suoi versi eredità e modelli derivati da poeti contemporanei o appartenenti a un passato novecentesco. Per la forma narrativo-dialogica si potrebbe pensare al magistrale insegnamento del Pagliarani milanese (La ragazza Carla, nel suo ambiente urbano, nei sentimenti sfiorati, nelle improvvise malinconie). Più vicino a noi senz’altro l’esempio canzonatorio, musicalmente orecchiabile e ironico di Vivian Lamarque, o la delicatezza appena velata di inquietudine di Chandra Candiani.

Invece nell’impianto immaginoso e arguto della seconda parte, l’influenza più evidente mi pare quella della poesia statunitense, non solo di Charles Simic o di un certo minimalismo femminista, ma soprattutto del realismo discorsivo di Raymond Carver, nella complice indulgenza con cui viene osservata e descritta l’umanità quotidiana dei gesti e dei sogni, individuali o universali che siano.

 

© Riproduzione riservata       «SoloLibri», 30 novembre 2024

 

 

 

 

RECENSIONI

CHAVEZ CASTILLO


SUSANA CHÀVEZ CASTILLO – PRIMA TEMPESTA. NON UNA DONNA DI MENO, NON UNA MORTA DI PIÙ – SUR, ROMA 2024

Tre sono le sezioni in cui si suddivide Prima tempesta, il libro della poeta e attivista messicana Susana Chávez Castillo, da poco pubblicato dalle edizioni romane SUR: “Io sono l’imprevisto di Juárez”, “La storia d’amore è la trappola”, “Gli alberi hanno nascosto i loro uccelli”, i cui titoli – tratti dai versi delle composizioni –, bene esemplificano l’intreccio tra privato e politico, passione amorosa e violenza subita, concretezza del reale e favolosa visionarietà che l’hanno nutrito. Davvero Susana è stata un insopportabile imprevisto, uno scandaloso inciampo per Ciudad Juárez, “la città più pericolosa del mondo” in cui è nata nel 1974 ed è stata barbaramente uccisa nel 2011, a soli trentasei anni. Luogo amato e odiato, sul confine tra Messico e Stati Uniti, epicentro del narcotraffico, teatro di femminicidi sistematici e crudeli tra le operaie assunte dalle fabbriche statunitensi delocalizzate, trucidate e sepolte in fosse comuni perché interferivano con le attività criminali e minacciavano l’occupazione della popolazione maschile locale. Ma l’omicidio di Susana, in questo posto desertico e di rude bellezza, fu certamente determinato da altre motivazioni, che riguardavano la sua attività di propaganda politica, il suo vissuto di femminista lesbica, la sua scrittura rabbiosa e indomabile. Un’uccisione programmata, messa in atto secondo un rituale che potremmo tranquillamente definire mafioso, con il corpo denudato, una mano amputata e la testa infilata in un sacco della spazzatura. “Un giorno vorranno portarmi via i sogni / come hanno fatto in passato / ma finché i miei ideali continueranno a vivere / non rinuncerò alla lotta / nel mezzo di un regime fallito”, “Non so perché Dio ci abbia annegati di povertà. / Il mio popolo ha uno stomaco povero, / ha povero il pensiero, / povera la fiducia, / povera l’anima”.

Susana aveva avuto un’infanzia difficile, per l’abbandono e il suicidio della madre alcolizzata: la lettura di poeti sudamericani, l’amore per la musica tradizionale e le leggende popolari, gli studi di psicologia avevano reso più sopportabile l’ambiente claustrofobico in cui viveva, e da cui riusciva ad evadere appigliandosi alla nativa cultura sciamanica, con gli animali totemici e gli spiriti guida, e soprattutto al richiamo potente della scrittura.

Susana scriveva ovunque, sui biglietti degli autobus, sui tovaglioli dei bar, sulla carta igienica, regalando le sue poesie e le sue riflessioni a chiunque le volesse leggere, senza riuscire mai a pubblicare nulla nel corso della sua esistenza. Ma aveva aperto un blog, Primera tormenta, il 12 maggio 2001, firmandosi SuChaCa, ancora attivo e amministrato dalla sua famiglia (www.primeratormenta.blogspot.com), affidando alla parola scritta la sua rabbia, il suo dolore febbrile, ma anche l’incontenibile gioia che le procurava il rapporto con compagne e compagni di lotta, la fede in un futuro di liberazione per il suo paese: “Tesse virtù con il filo della parola / verso il luogo dove il dolore non è tema / perpetuo / avanzando verso l’incontenibile”, “Ogni silenzio ci condurrà alla parola che ci riflette”,  “Che si uniscano alla mia lotta / se davvero vogliono vivere / in una mano la luna / nell’altra l’avvenire”, “Certe parole cercano la tua bocca / e divorano il tuo respiro / sentendole nella carne che prende vita”, “perché non ho regole per scrivere / ma scrivo per riuscire a sentire”.

Sentiva profondamente e appassionatamente, Susana: amicizia e solidarietà per le vittime del potere politico, della violenza maschilista, della corruzione. Sorellanza e cura per le donne maltrattate, abusate, disconosciute. Amore vissuto con vivace sensualità per uomini e donne, e in particolare per la sua compagna Blanca Inés Cruz Champala, a cui dobbiamo la conservazione e il riordino di tutti gli inediti. “La tequila amara / non ha ancora cancellato il tuo volto dalla mia mente, / tra la gente mi rifugio / per credere di essere felice, “Tu riempi il mio spazio, / mi invadi di gioia, / mastichi le mie ansie / e ti perdi nella notte”. Mi stupisco quando mi trasformi in un uccello, / prendendomi all’improvviso / fra i tuoi rami / e mi fai scorrere gocce di sorrisi anche se / porto un cuore di pietra. / Una pietra che al tuo respiro si sfarina”, “Vieni tu nella mia vita / mia amata ragazza, mio povero angelo, / mia migliore puttana. / Vieni, ti lascio la porta aperta”.

Capace anche di leggerezza, sfrontata ironia, grossolanità popolana: “c’è libertà nella mia anima / perché oggi pomeriggio impazzirò / e non me ne importa nulla”, “Io che alcolizzata scrivo / cose che neanche io comprendo / chiedo alla mia stupida penna / perché cazzo non capisco / che la luna è lì fuori / e io me la sto perdendo”, “Uno di questi giorni berrò il tuo sangue / e ti strapperò la pelle / per mangiarla a pezzi / con tortilla e cipolla / e i tuoi capelli, quelli, li metterò in una scatola / il resto lo darò ai cani / che hanno sempre fame”, “Chi ha detto che le donne non possono? / Quante stronze come me esistono e / ce la fanno?… Non me ne frega niente, a me nessuno mi spoglia / con la forza… Fottuta alba che ci fa alzare per i soldi”.

Conchita De Gregorio, che ha curato e tradotto le cinquantasette composizioni raccolte nel volume, nella prefazione afferma che “la poesia di Susana Chávez Castillo è un materiale incandescente: dolorosa, erotica, ironica, domestica, intrecciata al fiume di anime del mondo”, e ricordando che il suo motto “Ni una más” è diventato slogan globale, sottolinea di lei “la militanza indefessa e vitale, così sfrontatamente incurante del pericolo: niente l’avrebbe fermata, niente l’ha fermata”. Hilda Sotelo, amica ed estimatrice della poeta, tracciandone una partecipe biografia, narra della discriminazione patita da parte degli ambienti intellettuali messicani, che preferirono ignorare il suo discorso profetico, la forza della sua voce di protesta: “voce con cui espello tutto ciò che ho dentro”.

Sylvia Aguilar Zéleny, Cristina Rivera Garza Valentina Jager e Mauricio Patrón (team di Canal Press dell’Università di Houston che ha curato la prima pubblicazione di questo volume), nella postfazione scrivono: “Questo libro non è un resoconto della violenza a Ciudad Juárez ma un approccio alla vita di una città di confine – e sul confine si cresce, si impara, si combatte. I versi di Susana sono un vagare per le strade, uno sbirciare nelle case, un circondarsi di chi si ama anche quando non si è amate. In questa edizione chi legge troverà poesie sulla crescita e sull’amore, sulla corsa e sulla morte, sul vivere e sul precipitare a Ciudad Juárez. Susana scrive di essere figlia, amante, cittadina infuriata”.

Prima vittima di femminicidio che aveva avuto il coraggio di urlare: “Ni Una Más, Ni Una Asesinada Más”.

 

© Riproduzione riservata       «Gli Stati Generali», 27 novembre 2024

 

 

 

 

 

 

 

 

 

RECENSIONI

BORGNA

EUGENIO BORGNA, L’ORA CHE NON HA PIÙ SORELLE – EINAUDI, TORINO 2024

Il titolo dell’ultimo libro di Eugenio Borgna, L’ora che non ha più sorelle, è ripreso da un toccante verso di Paul Celan dedicato al tragico momento del distacco dalla vita. Il Professor Borgna, illustre neuropsichiatra, psicoanalista di indirizzo junghiano e saggista di fama, è stato dal 1963 direttore del servizio psichiatrico dell’Ospedale Maggiore di Novara, di cui ora è primario emerito: scrive qui non solo con evidente cognizione di causa, ma anche con l’acuta sensibilità che caratterizza ogni sua pubblicazione, del “mistero insondabile” del suicidio, soffermandosi in particolare sulla morte volontaria messa in atto dalle donne.

Borgna individua nella fragilità una delle premesse che possono portare all’atto autodistruttivo (sia pure condizionato da diverse motivazioni esteriori, o da stati depressivi e psicotici), a causa dell’esposizione al pericolo di ferite inferte “da contesti ambientali freddi e indifferenti, che destano con maggiore facilità dolorose risonanze interiori” nell’anima femminile.

Il suicidio maschile, numericamente più esteso a livello mondiale, rivela aspetti differenti, con tratti aggressivi, lucidamente pianificati, talvolta espressamente determinati da una ribellione ideologica o sociale. L’autore cita gli esempi della fine di alcuni scrittori novecenteschi (Pavese, Trakl, Benjamin, Zweig, lo stesso Celan), segnata da una disperazione e da un impeto lacerante lontano dalla rassegnata malinconia che contraddistingue la rinuncia alla vita delle donne.

Se di Virginia Woolf e di Amelia Rosselli è riconosciuta scientificamente la disposizione psicotica che le aveva portate a lunghe degenze ospedaliere e a pesanti cure mediche per tutto il corso dell’esistenza, in altre figure di scrittrici e poetesse care all’autore si delineava già dall’adolescenza una propensione al suicidio, non determinata da infermità mentali, ma dalla vulnerabilità della loro condizione ferita dalla solitudine, e dal desiderio disatteso di realtà diverse da quelle sperate, come in Marina Cvetaeva, Sylvia Plath, Simone Weil, Antonia Pozzi.

Forse che in Simone Weil la decisione di non nutrirsi più nell’estate del 1943, poco più che trentenne, devastata dall’angoscia per l’avanzare del nazismo, e da un senso opprimente di estraneità alla storia, non può a ragione venire considerata una precisa volontà di morte, già accarezzata nelle fantasie adolescenziali descritte nei suoi diari? E in Antonia Pozzi, poetessa amatissima da Eugenio Borgna, la malinconia leopardiana che ha accompagnato la sua breve esistenza, non ha accentuato il continuo desiderio di morire, che le sue relazioni, ogni volta franate e incomprese, hanno concorso a realizzare? I versi di Antonia tratti da composizioni adolescenziali (Largo, Novembre, La porta che si chiude, Prati, Grido) facevano già presagire la volontà di concludere la vita a ventisei anni, nel dicembre del 1938, annunciando ai genitori con una lettera agghiacciante e disperata la sua decisione (“voi dovete pensare che questo è il meglio. Ho tanto sofferto…”)

“O lasciate lasciate che io sia / una cosa di nessuno / per queste vecchie strade / in cui la sera affonda // – O lasciate lasciate ch’io mi perda / ombra nell’ombra”, “E poi – se accadrà ch’io me ne vada – / resterà qualche cosa / di me / nel mio mondo – / resterà un’esile scia di silenzio / in mezzo alle voci / – un tenue fiato di bianco”, “io sono stanca, / stanca, logora, scossa, / come il pilastro d’un cancello angusto / al limitare d’un immenso cortile”, “Non avere un Dio / non avere una tomba / non avere nulla di fermo / ma solo cose vive che sfuggono / – essere senza ieri essere senza domani / ed acciecarsi nel nulla – / – aiuto”.

Borgna nella sua lunga attività ospedaliera si è imbattuto in pazienti che esprimevano questa stanchezza di vivere, o che avevano tentato di uccidersi: racconta commosso di alcune di loro – Margherita, Emilia, Stefania – e dell’angoscia provata nel timore di non saperle aiutare, convinto che la propria missione di “psichiatra dell’interiorità” dovesse trovare la più alta e umana realizzazione soprattutto nella disponibilità all’ascolto, a una comprensione partecipe, in grado di allontanare ogni intenzione o progetto suicidario delle degenti a lui affidate.

 

© Riproduzione riservata      «SoloLibri», 24 novembre 2024

 

 

RECENSIONI

NASSIB

SÉLIM NASSIB, L’AMANTE PALESTINESE– E/O, ROMA 2005

Riguardo al romanzo L’amante palestinese di Sélim Nassib, pubblicato in Italia nel 2005 da E/O, Giancarlo De Cataldo si era allora espresso in questi termini entusiastici: “Un canto disperato all’amore folle che travolge le barriere e le differenze, l’amore che, se si potesse vivere sino in fondo, cancellerebbe tutte le guerre”.

L’amore travolgente di cui narra Nassib sarebbe quello, clandestino e osteggiato da tutti, nato tra Golda Mair e Albert Pharaon, lei ebrea lui palestinese, lei militante del movimento sionista e futuro primo ministro di Israele tra il 1969 e il 1974, lui rampollo di una famiglia di banchieri libanesi e proprietario di una scuderia di cavalli da corsa. Entrambi sposati, entrambi genitori di due figli, si incontrano a Gerusalemme nel 1929 e vivono per quattro anni un’intensa relazione affettiva e sessuale, ovviamente stigmatizzata dalle reciproche comunità di appartenenza.

Storia vera, romanzata o del tutto inventata? L’autore afferma di averla conosciuta da sempre, riportata a bassa voce da alcuni suoi amici, parenti stretti di Albert Pharaon. Sélim Nassib, nato e cresciuto a Beirut, è stato inviato nei Territori occupati per conto del quotidiano francese Libération e attualmente vive a Parigi. Ha pubblicato altri quattro romanzi con E/O, di cui gli ultimi due quest’anno: La ribelle di Gaza e Il tumulto.

Il volume di cui parliamo si apre con la descrizione della vita di Golda nel Kibbutz di Merhavia, dopo il trasferimento dagli Stati Uniti con il marito Morris Myerson. Il duro lavoro per bonificare la palude circostante, la mal tollerata promiscuità dell’esistenza collettiva e la severità delle regole imposte, insieme alla claustrofobia dell’esistenza familiare, l’avevano spinta ad assumere impegni politici di rilievo all’interno del nascente partito sionista, e alla frequentazione dei suoi principali esponenti politici: Ben Gurion, Ben Zvi, Katznelson, Levi Eshkol, il fraterno amico David Remez, da cui venne aiutata a evadere verso Tel Aviv, città laica e moderna dove le fu facile trovare un lavoro gratificante, affidando i bambini Menachem e Sarah alla sorella. Parallelamente alle vicende di Golda, Nassib racconta le circostanze biografiche che avevano convinto Albert Pharaon ad allontanarsi dall’ambiente familiare di Beirut (la moglie e i figli poco amati, la futilità dei rapporti sociali nell’alta borghesia libanese, la passione per i cavalli) per trasferirsi ad Haifa, sua città natale, concedendo alla propria inquietudine frequenti valvole di sfogo in ripetuti viaggi in Europa.

Fino a questo punto, la storia narrata risponde a fatti storicamente verificabili, così come la narrazione dei violenti scontri avvenuti in quegli anni tra arabi ed ebrei, e il rancore di entrambi i popoli verso il dominio britannico. Meno assodabile è lo svolgimento e la maturazione del rapporto amoroso tra Golda e Albert, a partire dal loro primo incontro, avvenuto a Gerusalemme durante la festa in onore del compleanno del re Giorgio V, tenutasi alla Government’s House nel giugno del 1929, alla presenza delle personalità più in vista del mondo politico ed economico musulmano ed ebreo.

Golda, accompagnata dal suo amante Zalman Shazar (poeta, storico e futuro presidente di Israele dal 1963 al 1973) partecipa come traduttrice ufficiale per la folta rappresentanza britannica. Viene descritta come decisa e scontrosa, agile pur nella sua robustezza, dai capelli fitti e neri, dallo sguardo indagatorio. Albert, elegante nell’abito di fattura inglese, dai gesti fluidi e dagli occhi tenebrosi, appare come un ibrido tra oriente e occidente, “un miscuglio improbabile di belva e di uccello ferito”. Tra i due scocca, inevitabile, il colpo di fulmine. Si danno appuntamento a casa di lei per la notte successiva, in cui consumano il loro primo focoso amplesso. Faccio fatica a coniugare quest’aspetto disinibito e sensuale della giovane Golda Meir con l’immagine della rigorosa donna di potere – anziana, arcigna, corpulenta, calzante dimessi scarponcini ortopedici -, recuperata dalla memoria dei miei ultimi anni di liceo. Ma Nassib si lascia trascinare in una descrizione che assume i toni eccitati e francamente un po’ ridicoli del feuilleton popolare: “Golda cede, subito, come una diga che si rompe sotto la pressione… I corpi si urtano e si lacerano senza freni… Non hanno abbastanza denti per mordersi, abbastanza braccia per stringersi… Si affrontano con assalti ripetuti, perfino le carezze briciano”. Eccetera.

L’autore in più di un’intervista ha affermato che alla radice dell’esperienza intima del Medio Oriente, c’è “un formidabile desiderio sensuale […] quasi sempre frustrato”.  E proprio su questa sensualità del mondo arabo, non solo nella fisicità dei corpi, ma anche negli odori e colori del paesaggio naturale, torna spesso nel corso della narrazione. Che si snoda lungo i quattro anni successivi del tormentato rapporto tra i due innamorati, sempre più coinvolti nei destini incrociati dei loro popoli. Gli scontri intorno al Muro del Pianto avvenuti subito dopo il loro primo incontro li avevano visti fronteggiarsi astiosamente, e l’incomprensione era cresciuta dopo la strage di Hebron con l’uccisione di 67 ebrei, mentre il protettorato britannico continuava a comportarsi in maniera ambigua, appoggiando prima una poi l’altra delle fazioni contrarie.

«“Tu non conosci la società palestinese” mormora Albert. “È povera, per tre quarti analfabeta. Non capisce nulla di quanto le sta succedendo. Le terre vengono comprate e i contadini, trasformati in fantasmi, infestano le strade di Haifa e di altre regioni. Non sanno nemmeno più con chi lamentarsi né con chi prendersela. Per dieci anni i palestinesi si sono fidati dei propri dirigenti, senza rendersi conto che questi ultimi erano impotenti o complici. E quando l’hanno capito, alcuni sono impazziti e hanno risposto selvaggiamente alla violenza inafferrabile che subivano. È orribile. Ma voi siete in questa terra, tra questa gente. Non avete scelta. Siete obbligati a vivere con noi”.
Golda non ha sentito nulla, è cieca. Ma alle ultime parole di Albert trasalisce come per effetto di una scarica elettrica. Ha voglia di ucciderlo. Albert vede che ha voglia di ucciderlo. Lei grida: “Noi? Chi sono questi noi? Noi siamo venuti qui per non dipendere più da nessuno, capisci? Non ci sono altri all’infuori di noi!”»

Gli amori clandestini tra arabi ed ebrei non erano infrequenti in Palestina, ma quello tra Golda e Albert si rivela sempre più impossibile proprio per la crescente influenza di lei all’interno del movimento sionista, che sicuramente non poteva in alcun modo approvare il tradimento di una sua dirigente con il nemico. La rottura, prevedibile ma dolorosa per entrambi, arriva nel 1933: le loro esistenze si divaricano, tra nuove avventure sentimentali e differenti approdi ideologici. La vita di Albert sbiadisce con malinconica rassegnazione, quella di Golda si direziona verso un trionfo politico riconosciuto a livello internazionale, in una terra sempre più dilaniata dall’odio e dalla violenza.

 

© Riproduzione riservata       «Gli Stati Generali», 23 novembre 2024

 

 

RECENSIONI

TAMMUZ

BENJAMIN TAMMUZ, IL FRUTTETO – E/O, ROMA 2014

Benjamin Tammuz (1919-1989), nato in Russia da famiglia ebrea trasferitasi nel 1924 in Palestina, laureato in legge e scienze economiche all’università di Tel Aviv e, più tardi, in storia dell’arte alla Sorbona di Parigi, è stato a lungo redattore della pagina letteraria del quotidiano israeliano “Ha’aretz” e per quattro anni attaché culturale dell’ambasciata di Israele a Londra. Autore prolifico di narrativa anche per l’infanzia, ha ricevuto diversi riconoscimenti letterari internazionali. In Italia sono stati pubblicati dalle edizioni E/O Il minotauro (giustamente celebrato a livello mondiale), Il re dormiva quattro volte al giorno, Londra, Requiem per Naaman, e Il frutteto, edito in patria nel 1972 e tradotto da noi nel 1995, con successive ristampe.

Quest’ultimo romanzo, accolto dalle critiche positive di Domenico Starnone ed Erri De Luca per la sua capacità di narrare decenni di convivenza e di massacri nel Medio Oriente, esibendo rispetto per vinti e vincitori alla ricerca delle ragioni di entrambi, è una parabola sulla rivalità sentimentale ed economica che può scavare baratri sanguinosi tra consanguinei, trasformando l’odio familiare in feroci contrasti ideologici.

Ovadia e Daniel sono due fratellastri, nati dallo stesso padre, facoltoso possidente terriero ebreo, vissuto tra l’Oriente arabo e la Russia, e da due madri diverse: una plebea turca, brutalmente liquidata dopo la nascita del primo figlio illegittimo, e un’aristocratica ebrea russa, condotta orgogliosamente all’altare e poi ossequiata in una lussuosa residenza insieme al secondogenito. Ovadia, da subito ostile sia al padre sia alla matrigna e al fratello minore, si allontana dalla casa paterna trasferendosi in Palestina, ostentando la sua origine araba con il nome di Abdallah, e trovando lavoro come capo giardiniere in un frutteto di proprietà della famiglia di Mehmet Effendi.

“Era un agrumeto sterminato, di aranci e limoni; c’erano persino dei cedri. In mezzo, e ai lati, erano piantate alcune file di fichi e melograni”. Fitto, intricato, invaso alla base da vegetazione secca e pungente, Ovadia si intestardisce a coltivarlo, preservandolo dall’invasione di cavallette che danneggia i possedimenti circostanti, spinto soprattutto dalla passione sensuale che lo lega alla figlia sordomuta dei proprietari, Luna.

Gli anni sono quelli della prima guerra mondiale, critici per l’esportazione dei prodotti agricoli in Europa e per la temuta invasione delle truppe inglesi in Medio Oriente. Quando, a causa dell’improvvisa malattia invalidante di Mehmet Effendi, il frutteto deve essere venduto, arriva via mare al porto di Giaffa il fratellastro Daniel, giovane ventenne “dall’espressione chiara, onesta e determinata, l’espressione di uno che non ha niente da nascondere”, divenuto ricchissimo dopo la morte di entrambi i genitori. Educato nel culto di Israele e della lingua ebraica, il sogno che lo anima è non solo quello di insediarsi nella terra dei suoi avi, ma soprattutto di trovare l’anima gemella, di cui fantastica dall’adolescenza. Avvicinato dall’agronomo-sensale (voce narrante del romanzo) cui è affidata la vendita del frutteto, accoglie con entusiasmo l’idea di acquistarlo, pronto a firmare il contratto davanti al proprietario ormai moribondo. L’incontro con Luna, apparizione incantevole nella sua misteriosa seduzione, si rivela oltremodo sconvolgente per Daniel, che subito si candida ad acquirente della piantagione e della casa, chiedendo in moglie la giovane donna. L’incontro, inaspettato e disorientante, con il fratellastro Ovadia, con cui i rapporti si erano interrotti molti anni prima, segna una cesura nella narrazione fino a questo punto solenne e pacata, e l’andamento del romanzo assume un ritmo più concitato e ansiogeno. Nelle vene di Ovadia scorre sangue arabo, in quelle di Daniel sangue ebreo: in loro due religioni e due culture millenarie si confrontano, scontrandosi fino all’annullamento reciproco. E se il pretesto è sempre esterno (il matrimonio di Daniel con Luna, la nascita di un figlio, la relazione clandestina di Ovadia con la cognata, la resa produttiva del frutteto, i continui pogrom antiebraici, lo scoppio della seconda guerra mondiale), in realtà le motivazioni profonde della loro ineliminabile inimicizia rimangono più radicate e crudeli.

 

© Riproduzione riservata         «SoloLibri», 17 novembre 2024