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RACCONTI

IL COMPLEANNO

Com’era successo che fosse arrivata a sessantacinque anni, in pratica senza accorgersene? Era una nota e stimata docente universitaria, titolare della cattedra di Storia Medievale in una università romana. Aveva avuto un’unica figlia, Matilde, da un matrimonio contratto in età giovanile, e conclusosi presto. Da quando sua figlia, ormai ultraquarantenne, si era trasferita in Germania per la sua attività di concertista, sposandosi con un polacco, lei era vissuta in solitudine, nel suo bell’appartamento a Monte Mario. Un quadrilocale con doppi servizi, all’ultimo piano di una palazzina liberty: luminoso, curato, dal soffitto a travi e parquet color mogano. La terrazza, lunga e stretta, era chiusa ai lati da siepi verticali di gelsomino, e dalla balconata pendevano vasi di minuscole edere. Libri, dispense, enciclopedie erano stipate con ordine maniacale, catalogate per edizione, su scaffali che ricoprivano interamente le pareti del salotto, arredato con due sole poltrone di cuoio marrone chiaro, un televisore vecchiotto e uno stereo invece modernissimo. Ascoltava molta musica, infatti.

Lì era il suo regno, e lei si chiamava Costanza.

Il 27 marzo, quel giorno, era appunto il suo compleanno. Un sabato, senza lezioni, colloqui o esami, a sua completa disposizione. Forse avrebbe preferito non ricordarsene, che stava per compiere gli anni (sessantacinque). Ma la telefonata mattutina di Matilde, trillante e gorgogliosa, l’aveva costretta a prenderne atto. Doveva festeggiare, si chiese mentalmente? I molti anni vissuti, i pochi che le restavano da vivere? Ci pensava, ogni tanto. Quindici, ancora, e sarebbero stati ottanta. O magari solo due, quattro.Meglio fare festa, quindi, brindando al traguardo raggiunto e a quello auspicabilmente da raggiungere. Senza torta, brindisi, auguri.

Al di fuori degli impegni accademici, non frequentava nessun collega, nessun allievo. Nel quartiere conosceva solo il giornalaio e il fruttivendolo, con cui si limitava a scambiare brevi frasi di circostanza. Dei coinquilini sapeva appena il cognome, confondendo spesso anche le facce. Da sola, quindi, avrebbe celebrato, happy birthday a me… E già accarezzava l’idea di regalarsi una giornata speciale, là dove pensiero e cuore le suggerivano. Al mare.

D’estate passava al mare i due mesi di vacanza consentiti dalla sua professione. In parte a Creta, con figlia e genero, nella stessa casa che affittavano insieme ogni anno. Per il resto, su uno dei tanti litorali del nostro meridione che amava esplorare in lunghe passeggiate sulla spiaggia, escursioni esplorative nei paesini circostanti, tranquille nuotate solitarie.

Da Monte Mario, l’unica meta raggiungibile in giornata era Ostia. In quel sabato di fine marzo, con un cielo sospeso tra nuvole leggere e sole pallido, probabilmente non avrebbe trovato resse, schiamazzi, intrusioni nel suo tranquillo meditare. Esclusa la possibilità di utilizzare gli scomodi trasporti pubblici, Costanza iniziò a radunare poche cose da caricare in macchina. Una coperta e un cuscino per sedersi o sdraiarsi sulla sabbia, due lattine di aranciata, l’insalata di riso del giorno prima, un libro. E il cellulare, per immortalare con qualche foto l’anniversario scontroso e taciturno che l’attendeva.

Le ci vollero quaranta minuti di traffico regolare per raggiungere il lido. Come aveva previsto, sulla spiaggia non c’era nessuno. Le onde avevano portato a riva rami secchi, gusci di ricci e conchiglie appuntite, qualche bottiglietta di plastica; qua e là sulla spiaggia si ammucchiavano montagnette di rifiuti, alghe, e l’assenza di sagome umane e rumori dava al paesaggio un aspetto desolato e astioso.

Costanza si scelse un lembo di arenile a pochi metri dall’acqua, stendendovi l’asciugamano. Così accovacciata si guardava intorno come a chiedersi “cosa ci faccio qui, adesso?”, e poi consolandosi “comunque è bello: respiro, respira con me anche il mare”. Si tolse la giacca, le scarpe, si sfilò le calze, arrotolando il fondo dei pantaloni a scoprire i polpacci. Accanto alla borsa, scorse mezzo insabbiato un sandaletto celeste, forse dimenticato, perso o buttato apposta. Lo afferrò tra due dita, gettandolo il più lontano possibile.

E poi rimase lì immobile, a guardare l’orizzonte.

“Sempre vieni dal mare, e ne hai la voce roca”, ricordava due versi di Pavese che l’avevano colpita da giovane. Roco, infatti, le pareva lo sciabordio delle onde, monotono come una ninnananna, e avrebbe avuto voglia di distendersi. Lo fece, occhi al cielo e al lieve smuoversi delle nubi.

Quello era l’unico panorama che riusciva a renderle concreta l’immagine dell’infinito, più che le altezze delle montagne, lo sconfinamento delle pianure tutte uguali. Cielo e mare fusi uno nell’altro, senza barriere, in eterno. Costanza si sentiva partecipe dell’aria, leggera e felice. Bevve un sorso di aranciata, sfogliò qualche pagina del suo libro.

Lontana, ma limpida e veloce, si avvicinava da destra la figura minuta di una ragazza, capelli lunghi e scomposti, una giacca a vento rossa. Osservandola più attentamente si accorse che, poco più che adolescente, alzava un braccio accennando un saluto. Quando le fu accanto, la sentì pronunciare con forte accento romano: “Salve. Che fa, se riposa?”. “Sì, guardo il mare”. Educata, nemmeno troppo infastidita, semmai sorpresa dalla spavalda ingerenza della giovane. “Bello. Non s’annoia?”. Senza aspettare risposta, si lasciò cadere seduta accanto a lei, gambe incrociate. “Samantha”, si presentò. “Con l’acca”. “Piacere”. A Costanza, voce pacata e seria, non sembrò necessario ricambiare la confidenza.

Ma la ragazza cominciò a parlare, torrentizia e confusa, del perché era lì, approfittando della pausa dal lavoro nel negozio in cui serviva, e del motivo per cui non le andava di tornarsene a casa a pranzare in famiglia. Raccontava, non richiesta, punteggiando il discorso di esclamazioni ahò ahè, cche te pare, cche credi? Bel faccino espressivo, occhi e riccioli scuri, sorriso infantile, mani sfarfallanti: la professoressa sessantacinquenne ascoltava materna, pensando a quanto la sua Matilde liceale efebica era cresciuta diversa da questa Samantha con l’acca. “Chi più felice delle due?”, si chiedeva.

“Ce bagnammo i piedi, cche dici?” la tentava ridendo, “se c’hai il cell, magari ce facemmo un selfi e te ricordi de st’aventura nostra de oggi…”. Sguazzarono un po’ insieme, scattarono la foto in acqua, poi improvvisamente la ragazzina si ricordò che era tardi e doveva tornare in paese. Costanza rimase qualche minuto a mollo, sentendosi le gambe frizzanti e vitali, mentre la guardava indossare la giacca a vento ridacchiando, e allontanarsi col braccio alzato in un arrivederci se vedemo, che somigliava più a un addio.

Tornata a sedersi sull’asciugamano, si frizionò a lungo i piedi arrossati, riflettendo sulla sorpresa di quell’incontro, quasi un regalo inaspettato per il suo compleanno. “Non gliel’ho nemmeno detto, a Samantha, che è la mia festa”. Pentita, forse, della propria ritrosia, rispetto al fiducioso abbandono della giovane amica. “Perché così rigida, sempre?”, si rimproverava. Poi, per assolversi, le venne in mente di mandare il selfie appena scattato a sua figlia, a Colonia, perché sapesse che sua madre si era concessa qualche ora di gioia al mare.

Cercò il cellulare nella borsa. Non c’era. Lo ricercò nelle tasche interne ed esterne, svuotò tutto il contenuto sull’asciugamano, spaventata. Distrattamente, forse, Samantha l’aveva preso con sé? Si alzò in fretta radunando le sue cose nella sacca sportiva, si incamminò veloce verso il parcheggio, sperando di raggiungere la ragazza.

Nell’ansia tremante che la invase, si accorse di non riuscire a recuperare nemmeno le chiavi dell’auto, armeggiando tra tasche, borsa e borsone. Trafelata raggiunse lo spiazzo dove aveva posteggiato. Nessuna traccia della macchina. “Possibile?” si chiese, immobile come una statua.

Dietro a lei, mare e cielo di Ostia, infiniti.

 

«Gli Stati Generali», 12 luglio 2020

 

 

 

 

 

 

RECENSIONI

FREZZA

LUCIANA FREZZA, COMUNIONE COL FUOCO – EIR, ROMA 2013, p. 806

 

“Una presenza discreta nella poesia italiana del secondo Novecento”. Così Roberto Deidier ha definito in un suo articolo la persona e l’opera di Luciana Frezza.

Ottima e stimata traduttrice, Luciana Frezza si è occupata soprattutto della poesia simbolista e decadente francese dell’800-900: Mallarmé, Laforgue, Nouveau, Verlaine, Baudelaire, Fargue, Baron, Apollinaire, Proust, resi in versioni sapienti e intelligentemente personalizzate per i più importanti editori italiani. Da questa empatica, vitale e costante applicazione «ha ricavato miracolosamente con un suo setaccio d’argento un tesoro di abilità», secondo l’acuta lettura di Luigi De Nardis. Intrecciata alla straordinaria competenza di traduttrice, Frezza ha seguito una propria attitudine all’espressione poetica, messa in evidenza da numerose e apprezzate pubblicazioni. Sul suo duplice e correlato impegno di poetessa e traduttrice, così si esprimeva: «È una sfida che mobilita la creatività … e altre virtù come la pazienza e la vigilanza… Il pericolo per cui bisogna prestare una costante attenzione è costituito dalle possibili intrusioni dell’Io…; occorre tenerlo fuori ma non eliminarlo del tutto, perché il suo contributo di esperienza vissuta può talvolta giovare, come giovano la fortuna e il caso, elementi da mettere in conto».

Giovanna e Natalia Lombardo, figlie di Luciana e del noto anglista Agostino Lombardo, hanno voluto giustamente riunire in un unico corposo volume (uscito nel 2013 dagli Editori Internazionali Riuniti) tutta la produzione in versi e prosa della madre, scandita in diverse raccolte (Cefalù -1958, La farfalla e la rosa -1962, Cara Milano -1967, Un tempo di speranza -1971, La tartaruga magica -1984, 24 pezzi facili -1988, Parabola sub -1990, Agenda -1994, i racconti de Il disegno -1996), sparsa in riviste o del tutto inedita.

È stata appunto la figlia Natalia, giornalista e pittrice, a firmare sia l’illustrazione di copertina sia le puntuali e commosse note biografiche in apertura dell’antologia. Da cui desumiamo che Luciana Frezza, nata a Roma nel 1926, da padre romano agente di cambio e madre siciliana, si laurea alla Sapienza nel 1946 discutendo con Giuseppe Ungaretti una tesi su Eugenio Montale, e iniziando già dagli anni universitari a comporre versi e a collaborare con prestigiose riviste letterarie. In seguito si dedica con generosità e impegno sia alla famiglia sia allo studio e alla traduzione degli amati poeti francesi, coltivando nello stesso tempo amicizie importanti nel mondo intellettuale (Luigi De Nardis, Giovanni Macchia, Vittorio Sereni, Vittorio Bodini…). Alterna momenti di crisi e insoddisfazione personale ad altri di entusiastica apertura a esperienze partecipative nei movimenti politici e femministi degli anni ’70 e ’80. Sofferente di gravi e invalidanti disturbi alla vista, continua tuttavia a pubblicare libri di poesia, ottenendo ottimi riscontri critici; partecipa a letture pubbliche di versi, insieme a un folto gruppo di amici scrittori romani, e collabora con il Terzo programma di Radio Rai. All’alba del 30 giugno del 1992, afflitta dal timore di un’incombente cecità e da una profonda depressione, «tragicamente per chi rimane, pensa forse di riprendersi la libertà», conclude con malinconico pudore Natalia.

Comunione con il fuoco, questa fondamentale e completa rassegna della scrittura di Luciana Frezza, si apre con l’empatico saggio introduttivo di Elio Pecora, e presenta altri approfonditi interventi critici di Patrizia Lanzalaco, Filippo Bettini, Luigi De Nardis, Walter Pedullà, Jacqueline Risset, Angela Giannitrapani, accompagnati dagli affettuosi ricordi privati della figlia primogenita Giovanna Lombardo.

I vari libri di versi, pubblicati secondo una scansione cronologica, mettono in luce il percorso umano e letterario dell’autrice, che in tutta la sua produzione rimane legata sentimentalmente a temi ricorrenti di matrice privata: l’infanzia, le figure parentali, i luoghi abitati (Sicilia, Milano, Roma), l’amore nelle sue duttili sfumature. Ma la sua scrittura non è mai circoscritta a un interesse puramente ambientale, di confidenza confessionale, di nostalgico lirismo: ha invece il rigore necessitante di una ricerca severa della propria interiorità, anche nelle inquietudini e negli umori contrastanti, nella ribellione e nelle paure. Elio Pecora presentandone gli sviluppi formali e contenutistici, sottolinea l’esigenza testimoniale di «valicare il proprio io per intelligenza del mondo», insieme a «un senso estetico vigilato fino alla spietatezza»: «Sento mutarsi il battito del tempo / come fa il treno se lascia / la rassegnata pianura / dove inavvertito / lungamente strisciò / ormai nebbiosa e strana / memoria mentre divora / oggi domani fatti rocce e ombre», «Un’altra infanzia mi perdo / un’altra vena s’asciuga. / Ho perduto / il filo dei sentieri / e gemo, animale fermato / dalla tagliola, nel caldo / dei crepuscoli abbandonato…».

Se nelle prime prove di Luciana Frezza è evidente l’eredità del nostro ’800 e ’900 (da Leopardi a Pascoli, da Saba a Montale), in seguito sarà il rapporto con il surrealismo francese a incidere maggiormente nei suoi versi, con l’irrompere del fantastico e dell’onirico all’interno del fino ad allora privilegiato realismo: “Chissà in quale / canneto di carta o verde / fantasma errante coorte / falciata alla radice / al di là di quali porte / nell’andito scuro di botteghe / in disuso dietro quale / muro di eluso rione / giace il piccolo corpo / di Amore dopo l’ordita / esecuzione”, “Non crederli gigli appassiti / mi conforta anzi scintillanti / ancora i tuoi bicchieri alzati / voglia di gioia negata / impuntatura librata / per forza propria ape e fiore nell’aria / dove ancora salgono e il brutto / muso di lutto pret a porter che detestavi cade / come buccia dal frutto”.

Anche l’ironia si concede alcuni spazi, soprattutto nel lucido esame del ruolo che il destino biologico di donna ha giocato nel determinare le scelte esistenziali della poetessa. Il rapporto non facile e non sempre idilliaco con il marito, la fatica dell’impegno domestico (la conserva andata a male, gli inutili ninnoli costruiti con la creta, la lista della spesa…) vengono avvertiti come limitanti o deludenti, provocando frustrazione e sensi di colpa: “E io che così sola ho spostato / i massi più pesanti. Tutto succedeva perché ero donna / ma questo l’ho sempre saputo”, “Vivere bene è spostarsi / per far posto a qualcosa e a qualcuno”, “una caviglia fasciata / una cantina allagata / e uno strofinaccio torto / ecco vi presento i miei / avvocati / roba da far venir la / pelle d’oca / a un morto”, “– Ah, una piccola cosa –  / a bassa voce / – miei cari, attenti a non chiudermi / in una scatola di sardine”,  “Quanto fa male amore / tardiva carezza / sulla nuca infestata / di pidocchi neri. / Marito / non capito / vendicativo senza / farmi capire / inevitabile divergenza / io l’incrociato sorriso / volevo – ricordo due dita / un giorno sulla gota per caso / sotto l’arco del salotto quasi / una cresima / tu partecipazione / al tuo lavoro io / che non ne davo troppa / neanche al mio / Parlare volevo magari / non troppo non troppo spesso / di noi”, “La madre poeta / non va”.

Attraverso la riflessione sulle relazioni interpersonali e familiari, Luciana Frezza riusciva a recuperare l’eco fascinoso di miti archetipici, ritrovando nelle vicende di Iside e Osiride, Demetra e Persefone, Orfeo ed Euridice le radici di ogni attuale sentire e soffrire. Proprio alla sofferenza degli ultimi anni si riferiscono i versi dolentemente allusivi che precedono la sua scomparsa: “Mi restringo alla pista / pericolante dei miei passi. / Solo vorrei afferrare / una cosa, / nascondervi il volto. // E poi pianamente un sussulto / e le lampade e tutto fluisce”, “Scrivere questi poveri // frammenti / significava ancora amare un // poco il mondo”, “Spreco questi ultimi secondi / dei tempi supplementari / a gustare le poche sensazioni / piacevoli”, “Agostino viene alla messa / delle 9 poi il cappuccino / Tutti mi amano / più di quanto io ami / Io non amo nessuno eppure / evito di sfiorarli col pensiero / i piccoli e le figlie e questo / noli los tangere forse / è una specie d’amore”, “Scatta il lucchetto, presto signori si chiude”.

Un’esplorazione ininterrotta, talvolta tormentante, intorno al significato della vita e della poesia ha contrassegnato ogni aspetto dell’esistenza fisica e letteraria di Luciana Frezza. Come ha scritto il critico Filippo Bettini, in lei “la ricerca del ‘senso della vita’ si identifica con quella del ‘senso della poesia’; ed ogni scampolo, epitome o ritaglio, anche il più piccolo o marginale, diventa il pretesto necessario di una più ampia trasfigurazione poetica di essenze interiori, psicologiche e ideali”.

 

© Riproduzione riservata                  «Nazione Indiana», 10 luglio 2020

 

RECENSIONI

VOLPONI

PAOLO VOLPONI, POESIE GIOVANILI – EINAUDI, TORINO 2020

Paolo Volponi (Urbino, 1924-Ancona 1994) è stato uno dei più importanti romanzieri italiani del dopoguerra (Memoriale, La macchina mondiale, Corporale, Le mosche del capitale, La strada per Roma…), ma ha iniziato la sua carriera letteraria come poeta, e ha continuato a frequentare la poesia per tutta la vita. Aveva esordito infatti pubblicando tre libri di versi: Il ramarro (1948), L’antica moneta (1955) e Le porte dell’Appennino (1960, premio Viareggio), che da una prima inclinazione pascoliana e simbolista, si erano evoluti verso temi più biografici e una maggiore pregnanza realistica.

Alla composizione poetica Volponi era tornato nella maturità con altre raccolte, uscite nel 1980-1986-1990 e riunite da Einaudi in un unico volume del 2001. Ora lo stesso editore propone queste Poesie giovanili, risalenti agli anni ’40-’50, rinvenute in tre fascicoli manoscritti e autografi nella casa di Urbino. Si tratta in massima parte di testi inediti, di cui nella nota finale vengono trascritte e commentate dalla curatrice Sara Serenelli le numerose varianti, le versioni depennate, le ricomposizioni e le correzioni apportate dall’autore nei decenni successivi.

Nell’epigrafe all’introduzione di Salvatore Ritrovato, viene riportato quanto lo stesso Volponi ebbe a chiarire nel 1988 a proposito della sua produzione giovanile (“Perché scrivevo poesie allora, non ancora ventenne? Perché ero incerto, perché avevo paura, perché avevo ansia di conoscere, perché non capivo esattamente dove mi trovassi, in che posizione, quale potesse essere il mio rapporto con il mondo”), definendosi folgorato da visioni e letture che lo ancoravano a “fatti lontani e magici perenni quali gli astri, il paesaggio, le stagioni, le giornate o le ragazze”. Fatti non ancora direttamente collegati alla passione morale e alla vocazione politica che sempre lo ha animato da adulto (ricordiamo che Volponi fu a lungo dirigente all’Olivetti, attivamente interessato alle questioni economiche e alla realtà sociale del lavoro in fabbrica, e ricoprì importanti incarichi istituzionali nel PCI), ma già espressione di un’interiorità combattiva e lucida, capace di sdegni e ribellioni, seppure circoscritte nell’ambito dell’esistenza privata.

Questi versi giovanili, per alcuni tratti ancora acerbi ma già segnati da una notevole intensità espressiva, vanno letti come introduzione e apprendistato al lavoro poetico e narrativo posteriore, forse proprio nella scostante rigidità di alcuni contenuti, propedeutica alla severità etica dello scrittore maturo. Scontroso e insofferente, il ragazzo Paolo si mostrava nel relazionarsi alle figure familiari: “Mia madre / mi vede solo / come mi ha fatto. / Non cerca di più. / Ho messo ieri / una cappa incappucciata, / fra gli altri / non mi trovava. / Prese una smorfia / fissa / come un pupazzo di terracotta”.

La paura e l’ansia di conoscere da lui stesso attribuite alla propria inquieta giovinezza, hanno caratterizzato principalmente i primi rapporti amorosi e le donne incontrate (come recentemente ha suggerito Adriano Sofri su “Il Foglio”), che vengono spesso tratteggiate non solo con scarsa empatia, ma addirittura con una repulsione sbilanciata fino all’offesa volgare, sintomo di un’angoscia incontrollata e temuta: “Quel peso di piombo / nel ventre / ti salda alla terra. / Il corpo ti cola tutto / e le gambe gonfie / sono incredibilmente aperte. / Ti slarghi come un frutto maturo, / ed io sento lo schifo / di vederti dentro”, “Muoiano / l’un dietro l’altro / i figli tuoi. / Io rido / dietro pascendo / la mia maledizione. / Tu rimarrai / con il ventre / acido. / Tu che t’offristi / piena / a quell’uomo”, “Quella tua carne / con un rigo di sangue. / Nel taglio della ferita / garza gengivosa. / L’acutissimo vetro / t’ha aperta / con una naturalezza spaventosa. / Come se il sangue / annoiato / godesse d’uscire”, “Volevi ingannarmi. / Stringevi / le cosce, / e smaniavi / per la tua verginità. / T’ho tirata giù / dal letto / per i capelli, / nuda sul pavimento. / Mi sono rivestito / senza più guardarti”, “È colpa tua. / Mi ricordo dell’odore / perché eri poco pulita”, “Sei la croce dei campanili, / il tetto delle case, / la cupola dell’ombrello. / Vuoi stare / sempre sopra”, “C’è sempre qualcosa / in te, fisso, che non partecipa”, “Hai riso, / ed io avrei sputato / dentro la tua gola / aperta. //… Il cielo / non ti dia / ombra, né luce. / Ti salti una vipera / dentro la bocca aperta”.

Poesie del disamore, in cui non si legge nessuna dolcezza, nessuna descrizione di sorrisi dolci, guance delicate, capelli morbidi: e invece cicatrici rossastre, venine verdi sul collo, occhi affogati, gambe gonfie, ventri ansanti, pesantissimo fiato, bocca devastata… Versi prossimi all’invettiva, alla maledizione, al disprezzo, che mettono in luce la ripugnanza per i corpi fatti di carne, sangue e umori: una fisicità violenta poco conciliabile con l’ideale di liricità e astrazione esibita nelle raccolte poetiche successive. Anche il gusto della ricerca lessicale qui mantiene qualcosa di volutamente aspro, dissonante, provocatorio, nella proposta di termini scelti sulla base di un suono coriaceo, rappreso: gengivosa, ingaientato, smanati, appiccicosa.

Questa sfrontata improntitudine giovanile è indice forse di una ribellione alla claustrofobica mansuetudine dell’ambiente marchigiano (curato, gentile, verdeazzurro), avvertito come fastidiosamente retorico e soporifero. Secondo quanto recita la quarta di copertina, “anche gli elementi naturali, molto frequenti (fiumi, colline, alberi, animali, campi lavorati), non sono mai pacificanti ma partecipano di un tumulto interiore, tanto più forte quando il poeta non sa trovarne una ragione e un bersaglio prestabiliti”. I corsi d’acqua sono assordanti (“O fiume, smetti d’andare. / Fra le tue canne / fra i tuoi limpidi sassi / mai porterei una donna. / Come gli occhi, / me la ruberebbe / questo tuo sicuro andare / rumoroso”), la luna “muore / e perde sangue chiaro”, il cielo è vuoto, la strada consunta, i cani accecati, l’erba pallidissima, il pastore onanista.

In queste prime prove, Salvatore Ritrovato intuisce “una parola ancora saldamente posizionate sull’io, egocentrica, ma senza alcun compiacimento, affatto priva di autocommiserazione narcisistica, percorsa da una punta di gelida e feroce desublimazione”. L’esplicita volontà di evitare ogni sentimentalismo, di smorzare qualsiasi elegiaca liricità, non risulta evidente solo dall’ostentata degradazione delle esperienze sessuali, e dal rifiuto dell’idillio paesaggistico e di atteggiamenti consolatori, ma anche dalla scelta formale di un verseggiare scarno, frantumato, paratattico: lontano sia dall’ermetismo sia dal classicismo, e semmai propenso a ereditare le formule prosastiche che dall’America iniziavano a influenzare la poesia italiana del dopoguerra.

Paolo Volponi, pur continuando a rivedere e correggere queste composizioni giovanili, non le ha volute pubblicare in vita, adeguandosi nella produzione successiva a esiti meno aggressivi e polemici, in linea con la tradizione letteraria vigente. L’iniziativa einaudiana di recuperare gli inediti del suo primo affacciarsi alla creazione poetica permette al lettore di scoprire un carattere diverso e ignorato della sua produzione, rivelatore di un’inasprita inquietudine, e di un puntuto, risentito spirito dissidente.

 

© Riproduzione riservata              «Il Pickwick», 7 luglio 2020

 

 

 

 

RECENSIONI

ATTANASIO

MARIA ATTANASIO, LO SPLENDORE DEL NIENTE – SELLERIO, PALERMO 2020

Pubblicati singolarmente nell’arco di un ventennio, tra il 1994 e il 2014, questi sette racconti di Maria Attanasio rivedono la luce nel volume edito da Sellerio con il titolo Lo splendore del niente, dove quel “niente” si riferisce al fatto che le protagoniste (tutte donne, vissute nella Sicilia dominata dai Borboni, dagli Asburgo, dai Savoia tra ’700 e ’800) sono figure nate e cresciute ai margini della storia ufficiale, escluse dal linguaggio del potere maschile. Ma “splendide”, vive di un’identità forte e mai rassegnata, protagoniste di una loro storia minima che ha saputo incidere e ribaltare un destino già prefissato, squarciando “l’oscurata genealogia” che le ha prodotte.

Nell’approfondita presentazione l’autrice indica motivazioni e linee-guida che l’hanno condotta alla scrittura dei racconti: “Si nasce per caso in un luogo, che può diventare scelta, destino. E destino di scrittura è stato per me Caltagirone, l’immaginaria Calacte della maggior parte di questi
racconti, le cui storie risalgono dall’anonima verticalità di tempi ed esistenze oscuramente pulsanti
tra le statiche quinte di piazze e conventi, di carruggi e palazzi. Storie soprattutto di donne – ribelli non rassegnate – di cui spesso resta solo un gesto, un dettaglio, impigliato in vecchi libri o nelle scritture di cronisti locali: frammenti dell’immemore genealogia delle madri, che arrivano a me, si insediano in me, fino a quando – con uno spostamento di prospettiva storica, e una forte compenetrazione empatica – non restituisco loro parola e identità”.

Attanasio si è messa in ascolto del “respiro polveroso dei secoli” (secondo la poetica epigrafe di Anna Banti), recuperandone le tracce documentali negli archivi e nell’immaginario di leggende diffuse sul territorio, e tramandate oralmente di generazione in generazione. Storie di donne che hanno saputo coraggiosamente resistere alle discriminazioni, alla violenza e all’ingiustizia.

Il primo racconto, Delle fiamme, dell’amore, narra la vicenda di eroismo e dedizione di Catarina, che durante il terremoto del 1693 (“quel generale sovvertimento della terra, del cielo e di ogni umana costumanza”), appena partorita la primogenita Salvatora, si lancia tra le fiamme di un incendio improvvisamente scoppiato per salvare il marito immobilizzato a letto dopo un incidente, e muore arsa viva mentre la fantasia popolare le attribuisce un ultimo grido d’amore in realtà mai pronunciato: “Senza vossia, non ce n’è mondo!”

Sulle macerie dello stesso tragico terremoto è ambientata la seconda novella, quasi un romanzo breve, Correva l’anno 1698 e nella città avvenne il fatto memorabile, che recupera la drammatica storia di Francisca,  “masculu fora e fimmina intra”, ambientata a Calacte, città di vasai, nobili, conventi, querceti e di aggrovigliate migrazioni (arabi, normanni, genovesi, ebrei, francesi, aragonesi, spagnoli), città già falcidiata da carestie, rivolte, epidemie, congiure. Francisca, “un’indefinibile creatura”, dai modi riservati e dall’andatura provocatoria, ondeggiante sui fianchi rotondi camuffati sotto abiti virili, fino alla morte del marito aveva lavorato duramente nei campi, robusta e resistente come un uomo. Rimasta sola, indifferente alle convenzioni e ai pregiudizi sociali, aveva scelto di lavorare come bracciante a giornata, provocando derisione e sconcerto nei compaesani, e scandalo nelle gerarchie ecclesiastiche. Accusata di atteggiamenti lussuriosi, traffici col demonio e stregoneria, processata dall’Inquisizione per aver infranto un millenario codice di rigida divisione di ruoli e sessi, era stata poi assolta e addirittura pubblicamente legittimata nella sua doppia identità, grazie all’inaspettata solidarietà del paese.

Tra gli altri racconti – animati da un descrittivismo elegante e concreto, attento al paesaggio nei suoi colori e nelle varietà della vegetazione, acutamente analitici nell’indagare sacro e profano, superstizione ed empietà di una Sicilia eternamente arcaica – risulta oltremodo intenso quello che dà il titolo al volume, Lo splendore del niente, in cui la giovane Ignazia, ultima nata dopo sei fratelli maschi nella nobile famiglia Perremuto, non risponde alle elevate aspettative della casata. Ai corteggiamenti, al lusso, alla futilità salottiera del suo rango sociale preferisce infatti la riflessione, la preghiera, l’applicazione intellettuale e uno stile di vita sobrio e raccolto, anticipando una sensibilità femminile ribelle ai modelli tradizionali.

Donne diverse dall’usuale, sia della nostra contemporaneità, e tanto più dei secoli in cui ebbero a vivere, costrette in tempi e spazi impreparati a comprenderle, talvolta stupidamente vessatori e persecutori. Figure femminili (una badessa che si ribella al re, un’avvelenatrice seriale, una pittora mistica ed epilettica…) scisse “tra microstoria e grande storia, coazione sociale e bisogno di libertà”, fisicità animalesca e castità oppressa, che grazie a una minima devianza di pensiero o atteggiamento hanno potuto trovare in Maria Attanasio chi ha saputo sottrarle all’oblio del tempo.

 

© Riproduzione riservata                  «SoloLibri», 1 luglio 2020

https://www.sololibri.net/Lo-splendore-del-niente-altre-storie-Attanasio.html

 

 

 

 

RECENSIONI

CORTAZAR

JULIO CORTÁZAR, IL SENTIMENTO DELLA LETTERATURA – SUR, ROMA 2020 (ebook)

 

Julio Cortázar (1914-1984) è stato uno dei massimi scrittori sudamericani del Novecento. Romanziere, poeta, critico letterario, saggista e drammaturgo, era nato a Bruxelles da famiglia argentina, e morì a Parigi dopo essersi naturalizzato francese. La sua vita trascorse tra Europa e Sudamerica, e di entrambi i continenti assorbì gli influssi culturali, creando prodotti letterari originali e caleidoscopici, fluttuanti tra il fantastico e lo scavo psicologico, la metafisica e l’ironia, il mistero e la giocosità. Con l’impegno di chi “fra vivere e scrivere non ha mai ammesso una netta differenza”.

In questo ebook pubblicato da Sur sono raccolti due saggi (Del sentimento di non esserci del tutto e Sul sentimento del fantastico) tratti dal volume Il giro del giorno in ottanta mondi.

Secondo l’autore, l’adulto in cui ci trasformiamo crescendo, porta dentro di sé il bambino che è stato, e questa poco pacifica coesistenza permette di guardarsi intorno attraverso due aperture diverse, assumendo differenti nature: poeta e criminale, ragno e mosca. Nella dialettica tra visione puerile e visione adulta, tra realtà e magia, è sempre presente una connotazione ludica, e il gioco è “un processo che parte da una dislocazione per arrivare a una collocazione, a un piazzamento – goal, scacco matto, tana libera tutti”. Chi scrive è dislocato rispetto a ciò che vive, e si trova nella posizione eccentrica di chi esiste a metà. Cortázar si sente continuamente fuori e dentro il reale, e ne dà testimonianza anche nella scrittura funambolica di questo pamphlet: “E mi piace, e sono terribilmente felice nel mio inferno, e scrivo. Vivo e scrivo minacciato da questa lateralità, da quella parallasse effettiva, da questo essere sempre un po’ più a sinistra o più sul fondo rispetto al posto in cui si dovrebbe essere”.

Scoprendosi diverso dagli altri già dall’infanzia, trova una corrispondenza solo nella compagnia dei gatti e dei libri, in un continuo estraniamento, in una tangenzialità all’accadere, in una interstizialità che non gli permette di aderire al vissuto se non nel dubbio, nello sconcerto, nell’inconsueto. Sospendere la contingenza, abbandonarsi alle associazioni verbali o immaginative, è quello che meglio riesce a Cortázar. Che meglio gli è riuscito nel suo capolavoro, Rayuela, Il gioco del mondo (1966). L’irrazionalità del fantastico, la sua non prevedibilità e non programmabilità, lo ha sempre affascinato: già da piccolo era sensibile al meraviglioso, che cercava di rinchiudere nel reale, appunto “realizzandolo”. Ad esempio, estraendo i tesori di un libro dal loro forziere, per introdurli nella propria quotidianità personale. Compito del poeta è uscire dall’assoggettamento all’attualità, alla transitorietà degli avvenimenti, trasformando le funzioni pragmatiche della memoria e dei sensi per dar posto a un impulso creatore, che da solo può cambiare il mondo. “Chi vive per aspettare l’inaspettato accoglie quello che non è ancora arrivato, lascia entrare un visitatore che verrà domani o è venuto ieri”.

Il fantastico possiede istanze schiaccianti che si riverberano su virtualità straordinarie, ampliando la possibilità del caso fino all’inconcepibile. Tutto può accadere, travolgendo il predeterminato: perciò bisogna lasciare la porta aperta all’eventuale, forzando la “crosta dell’apparenza”. “Ho sempre saputo che le grosse sorprese ci aspettano dove abbiamo finalmente imparato a non sorprenderci di nulla, nel senso che non ci scandalizziamo davanti alle rotture dell’ordine”, afferma Cortázar, ben consapevole che per uno scrittore non esiste realismo che non sia invenzione, né verità che non sia finzione.

 

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INTERVISTE

HAJDARI

Intervista a Gëzim Hajdari: la poesia, l’impegno, l’esilio

Intervista a Gëzim Hajdari: la poesia, l'impegno, l'esilio

Gëzim Hajdari è nato nel 1957 in Albania da una famiglia di ex proprietari terrieri i cui beni sono stati confiscati durante la dittatura comunista di Enver Hoxha. Nel corso della sua intensa attività di giornalista ed esponente politico dell’opposizione, ha denunciato pubblicamente i crimini della vecchia nomenclatura e dei regimi post-comunisti albanesi. Dal 1992 è esule in Italia. In Albania ha svolto vari mestieri (operaio, magazziniere, ragioniere, militare, insegnante di letteratura), mentre in Italia ha lavorato come contadino, zappatore, manovale, aiuto tipografo.
Bilingue, Hajdari scrive e traduce in albanese e in italiano, ha pubblicato numerose raccolte di poesia, libri di viaggio e saggi, vincendo prestigiosi premi. Con l’editore romano Ensemble, presso cui cura la collana di poesia Erranze, sono usciti tre libri di versi (Nûr: eresia e besaDelta del tuo fiume e Cresce dentro di me un uomo straniero, appena edito), testimonianza della sua realtà esistenziale di esule e rifugiato, sradicato non solo nel vissuto personale, ma anche intellettualmente.

  • Puoi raccontarci da quale ambiente familiare provieni, che studi hai fatto e attraverso quali percorsi sei arrivato a interessarti di poesia?

Sono nato e cresciuto in un ambiente familiare in cui si armonizzano gli spiriti di due grandi tradizioni culturali, quella epica e quella mistica dei bektashi. I miei antenati appartengono ai rapsodi dell’antica stirpe malësor (montanara) delle Bjeshkëve të Nëmuna (Montagne Maledette) delle Alpi, nel nord del paese, dove ha regnato per cinquecento anni il Kanùn, (Codice Giuridico Orale Albanese) e la besa (la parola data, la promessa presso gli albanesi). Il mio nonno paterno era il rappresentante dei bektashi nella provincia di Darsia e del teqé (piccolo tempio). Bektashi è una confaternità mistica che fa capo all’ordine dei dervisci (darwish) di Jalāl ad-Dīn Rūmī: un ponte di dialogo tra l’Islam e Cristianesimo. Mia nonna paterna era una guaritrice di morsi di serpenti nel villaggio, mentre la cugina di mio padre, Zadè, che abitava vicino a casa nostra, era una sciamana, diceva che comunicava con kecka (belle spose danzatrici che apparivano di notte alla riva dei torrenti) e gli xhin (djinn: anime malvagie che escono di notte e hanno una potenza soprannaturale sugli uomini e sulle cose). Zadé annientava le fatture che gli xhin facevano ai contadini, facendo una controfattura.
Nella nostra famiglia si festeggiano sia le feste islamiche che quelle cristiane.
Mio padre conosceva a memoria le leggi del Kanun, i versi dell’epica leggendaria albanese e i versi mistici di Khayyam e Saadi di Shiraz. Sono stati proprio l’epica albanese e la mistica araba che hanno plasmato il mio essere e la mia identità di uomo fin da bambino. Ogni sera, prima di dormire, io dovevo recitare cento versi a memoria davanti a mio padre.
Questo patrimonio culturale inestimabile veniva tramandato di generazione in generazione e di padre in figlio nella nostra stirpe montanara.
Nel villaggio natale, Hajdaraj (Lushnjë), ho terminato le elementari, mentre ho frequentato le medie, il ginnasio e l’istituto superiore per ragionieri nella città di Lushnjë.
Ho studiato Lettere Albanesi all’Università “A. Xhuvani” di Elbasan e Lettere Moderne a La Sapienza di Roma. Senza aver avuto mai avuto una borsa di studio e senza seguire mai una lezione universitaria: ho dovuto lavorare come operaio per quasi quindici anni per potermi mantenere. Durante la sciagura comunista, mio nonno paterno venne dichiarato kulak e mio padre (membro della Resistenza durante la Seconda guerra mondiale), che lavorava come funzionario nell’ufficio del catasto per conto del Ministero dell’Agricoltura, fu licenziato, e per il resto della vita ha lavorato nella cooperativa agricola del regime di Enver Hoxha. Da quando confiscarono i nostri beni di famiglia, la povertà non ci si è mai tolta di dosso. Quando morì mio padre, mi ha lasciato in eredità solo una penna di sambuco con la quale aveva scritto il diario della sua vita durante gli anni di terrore, quando tornava dalla campagna come pastore di buoi, distrutta poi da mia madre Nur per paura che fosse sequestrata dal Sigurimi.
Mio padre Riza era un uomo colto, istruito e molto severo. Era un grande lettore dei classici russi, inglesi e francesi. Ogni sera, dopo cena, raccontava a noi cinque bambini seduti intorno al focolaio le saghe che aveva letto durante le pause dei lavori in campagna. Mentre mia madre è una donna semplice e generosa come la madre terra. Lavorava scalza nei campi, inverno ed estate per un pezzo di pane. La sera, stanca e sfinita, mi pregava di toglierle le spine nere con l’ago dai piedi insanguinati. Avevo otto anni. Mi alzavo di buonora per portare la piccola mandria di capre al pascolo, poi andavo alla scuola elementare del villaggio. Quando frequentavo le medie e il Liceo vendevo il latte delle mie capre nei suoi quartieri, prima di andare a scuola. Tornavo nel villaggio facendo due ore a piedi, nei pomeriggi andavo nei campi a lavorare per comprare il pane quotidiano, e i libri per studiare. Erano gli anni del terrore di Stato. Condanne, fucilazioni, lavori forzati in nome della lotta di classe. Nella città di Lushnje, all’età di dodici anni, ho assistito per la prima volta all’arresto di un “nemico del popolo” nel boulevard da parte di Sigurimi (polizia segreta del regime) e l’impiccagione di un giovane “traditore” della patria.
Davanti la mia scuola passavano le camionette della polizia cariche di deportati, nella città di Lushnje c’erano undici campi di internamento. Il destino mi ha reso uomo in un età molto precoce.
È stata proprio la durezza della vita che ha segnato il mio destino d’uomo e che mi ha spinto a scrivere la prima poesia. Avevo undici anni.

  • Quali sono i poeti e i narratori che più hanno influenzato la tua scrittura?

Oltre l’epica albanese e i mistici arabi, direi Omero, Dante Alighieri e Virgilio, la poesia classica femminile cinese, Isidore Ducasse, Whitman, Blok, Esenin, Mandelstam, Trakl e Senghor.

  • Che tappe ha avuto e ha tuttora il tuo impegno politico e civile?

Nell’inverno del 1991 sono stato tra i fondatori del Partito Democratico e del Partito Repubblicano della città di Lushnjë, partiti d’opposizione, e sono stato eletto segretario provinciale per i repubblicani nella suddetta città. Ero cofondatore del settimanale di opposizione “Ora e Fjalës”, nel quale ho svolto la funzione di vice direttore. Più tardi, nelle elezioni politiche del 1992, mi presentai come candidato al parlamento nelle liste del PRA, ma non risultai eletto. Nel corso della mia intensa attività di esponente politico e di giornalista d’opposizione in Albania, ho denunciato pubblicamente e ripetutamente i crimini dell’ ex-regime di Enver Hoxha, nonché la corruzione e gli affari sporchi tra mafia e i politici dei regimi corrotti post-comunisti di Tirana. Anche per queste ragioni, a seguito di ripetute minacce di morte, sono stato costretto, nell’aprile del 1992, a fuggire dal mio paese. Durante il mio esilio italiano sono stato presente politicamente nella vita quotidiana dell’Albania e in quella italiana tramite le mie opere, Poema dell’esilio, la prima edizione nel 2005, e la seconda edizione ampliata nel 2007, edita con Fara Editore, nonché Gjama, Genocidio della poesia albanese, 1945 – 1990, “Mësonjëtorja” (Tirana 2010).
Senza dimenticare le mie interviste e le mie conferenze impegnate in Italia e all’estero. Dal 2001 al 2005 ho attraversato Tanzania, Mali, Uganda, Etiopia, Ruanda, il sud del Sudan, Filippine, insieme al fotoreporter Piero Pomponi (World Focus), visitando campi profughi, zone di guerre dimenticate, malati di ebola, di AIDS, di malaria. Ne testimoniano i miei libri, San Pedro Cutud. Viaggio nell’inferno del tropico (Fara 2004) e Muzungu. Diario in nero (Besa 2005). La mia casa a Frosinone per diversi anni ha ospitato missionari africani dell’Uganda e Ruanda, che venivano in Italia per raccogliere medicine per i malati dei loro dispensari nei loro paesi.

  • Credi che la poesia possa avere ancora un ruolo nella trasformazione democratica della società?

La vera poesia, che viene dal “basso”, dalla vita, da un percorso umano e interiore intenso e profondo, caratterizzato dall’onestà intellettuale di fronte alla pagina bianca, illumina il lettore con l’immenso, ispira uomini e donne con il senso della bellezza e della virtù, che potrebbero un domani svolgere un ruolo nella trasformazione più che democratica, direi spirituale e visionaria della società, senza le quali non si ci può essere una trasformazione democratica. Questo tipo di poesia profetica sopravvive a se stessa e ai secoli.
Invece la poesia sterile, che nasce dalle serre di scrittura, dalle cattedre, dalle accademie e dalle stanze dell’editing, sperpera il denaro pubblico, avvelena la mente dei lettori, uccide la vera arte, diventando così complice della politica nel degrado sociale, spirituale e civile della società. Questo tipo di poesia inesistente viene imposta ai lettori dalla critica, dai media e dall’industria culturale. I nostri antenati si cibavano di grandi valori culturali e pretendevano molto dai loro artisti.

  • Quali sono state le maggiori soddisfazioni e delusioni che hai vissuto in Italia? Se potessi tornare indietro, emigreresti ancora nel nostro paese, e cosa rimpiangi di più dell’Albania?

Io penso che ogni poeta contemporaneo, se vuole conoscere il proprio talento per la poesia e la propria capacità intellettuale, dovrebbe fare un’esperienza italiana e formarsi in Italia, paese che non ha uguali nel mondo e, al tempo stesso, di strani paradossi. Da un lato c’è Dante Alighieri, il sommo Poeta che incombe e schiaccia tutti coloro che osano misurarsi con lui e la sua Divina Commedia. Dall’altro lato c’è l’establishment della poesia ufficiale, chiusa, quasi una setta, che conserva con gelosia e cinismo la purezza e il primato della poesia italiana, scambiando favori editoriali e premi letterari. Il vero “razzismo” e si può dire, non è nei confronti dei migranti, quest’ultimi sono trattati bene, anzi anche troppo bene. Il vero “razzismo” in Italia è verso i veri poeti esuli. Finché sei un migrante semplice e timoroso, le istituzioni mostrano un senso di pietà, ma nel momento in cui diventi un poeta e intellettuale “eretico”, allora la politica e l’establishment non ti perdonano né il successo, né l’”eresia’”.
Fare il poeta in Italia è una grande sfida più che in qualsiasi altro paese europeo. Un poeta straniero che riesce a sopravvivere e a creare grandi valori letterari in Italia è un eroe e, al tempo stesso, un martire. I miei amici poeti-esuli in Italia, Heleno Oliveira, Thea Laitef, Hasan Atiya Al Nassar, Egidio Molinas Leiva, che hanno creato grandi valori letterari, non sono mai stati accolti dai poeti della “lingua alta” del bel paese. Se ne sono andati giovani, in povertà, solitudine e disperazione. Thea Laitef rimase per mesi all’obitorio di Roma perché nessuno poteva pagare le spese funebri, Hasan Atiya Al Nassar morì in un ospizio, Egidio Molinas Leiva lo gettarono in una fossa comune al Verano. Ali Mumin Ahad fece in tempo a fuggire in Australia.
Io resisto ancora tra le colline della Ciociaria e le brughiere britanniche.
Dell’Albania rimpiango il fatto di non essere mai invitato a leggere o a presentare la mia opera, nell’arco di sessantatré anni. Anzi il mio contributo letterario viene ignorato volutamente dalla cultura di potere di Tirana.


© Riproduzione riservata      30 giugno 2020    https://www.sololibri.net/Intervista-Gezim-Hajdari-poesia-impegno-esilio. html

 

RECENSIONI

MANCUSO

VITO MANCUSO, IL CORAGGIO E LA PAURA – GARZANTI, MILANO 2020

L’epigrafe che Vito Mancuso ha scelto di apporre in apertura del suo ultimo libro, Il coraggio e la paura, è una delle più famose e citate frasi di Giovanni Falcone: “L’importante non è stabilire se uno ha paura o meno, è saper convivere con la propria paura e non farsi condizionare dalla stessa. Ecco, il coraggio è questo, altrimenti non è più coraggio, è incoscienza”.

Accettando l’invito dell’editore a rielaborare alcuni suoi interventi giornalistici relativi all’attuale pandemia del Covid, Mancuso si è proposto di contribuire ad alleviare il senso di timore, esclusione, impotenza che ha pervaso e condizionato pensieri e comportamenti della maggior parte delle persone in questa terribile contingenza, offrendo loro sollievo e consolazione.

Come fare, quindi, a sfuggire dal sentimento alienante che blocca il respiro e azzera le prospettive del futuro, come reimparare a sorridere, a schiarire mente e sguardo? “Facendo tesoro della saggezza esistenziale e spirituale distillata lungo i secoli da chi ci ha preceduto”: dai filosofi classici, dai maestri cristiani e orientali della spiritualità. In primo luogo è necessario sfatare il pregiudizio che la paura sia sempre qualcosa di negativo, e il coraggio sia solo una qualità positiva. Senza paura si scade nella temerarietà, nella sconsideratezza, nella sottovalutazione del pericolo, e con un’esibizione eccessiva del coraggio si rischia la vanteria, il narcisismo, l’aggressività.

La paura non si vince con il coraggio, cioè con un atto di forza, ma con la saggezza, “bisogna
piuttosto scioglierla con la luce dell’intelligenza unita al calore del cuore”. Ascoltando le motivazioni della paura, siamo in grado di comprenderla e di vincerla. Per disarmarla, e raggiungere la padronanza di sé, secondo Mancuso è necessario frequentare le “cose buone” dell’esistenza: buone letture, buona musica, buone amicizie, e il contatto sano e partecipe con la natura, che aiuta a ingentilirci, rendendoci meno supponenti e più affettuosi. Prendersi cura della propria interiorità, lasciando spazio alla meditazione, alla contemplazione, al silenzio, riduce l’ansia prodotta dall’attivismo sfrenato, dalla corsa al successo.

Tante sono le emozioni che animano l’essere umano, alcune frenandolo, inibendolo, altre espandendone e arricchendone la coscienza sia individualmente sia socialmente: rabbia, tristezza, felicità, disgusto, sorpresa, compassione, imbarazzo, vergogna, senso di colpa, disprezzo, gelosia, invidia, orgoglio, ammirazione. Altrettanti sono i sinonimi della paura, gli aggettivi e i verbi associati ad essa, le gradazioni in cui si manifesta (dal presentimento e dal sospetto, fino al panico e al terrore), i modi in cui le reagiamo (scappando, immobilizzandoci, opponendoci), a significare quanto questo sentimento sia universale, innato, costitutivo di ogni essere vivente.

È l’amigdala il centro di rilevazione e di controllo delle nostre emozioni, che le rielabora in base alle informazioni ricevute dagli ormoni del cortisolo e dell’adrenalina. Ma non agiamo condizionati solo dai nostri neurotrasmettitori, né possiamo ridurre la nostra psiche a combinazioni biochimiche, plasmati come siamo da una cultura millenaria.

Le argomentazioni di Vito Mancuso diventano via via più coinvolgenti, man mano che si inoltrano nei campi che gli sono più consoni, e ne hanno fatto uno dei filosofi e teologi più seguiti oggi in Italia. Le sue citazioni abbracciano la letteratura e il pensiero di ogni epoca e luogo, e spaziano da Omero a Montale, da Kierkegaard a Wittgenstein, includendo ovviamente i testi sacri ebraico-cristiani e orientali, che nelle loro esortazioni suggeriscono diversi atteggiamenti nei confronti della paura: dall’affrontarla, al bandirla, all’ignorarla, a semplicemente ascoltarla, prendendo atto che esiste in noi e dobbiamo farne uno strumento di conoscenza interiore e di crescita spirituale.

Dopo essersi a lungo diffuso sull’accezione di paura, l’autore riflette nella seconda parte del libro sul concetto di coraggio, inteso come atto di forza morale, fondato sulla fiducia, sulla speranza e sull’ottimismo operativo. Mancuso analizza l’etimologia del termine, che deriva da cor, cuore, lì dove hanno sede i sentimenti più nobili. In latino veniva chiamato virtus, in greco andréia, ed entrambi i vocaboli, nel mondo antico, avevano una strettissima connessione con la forza esercitata nel combattimento, nelle imprese di guerra affrontate valorosamente.

Da cosa possiamo e dobbiamo trarre coraggio? Dall’istinto di sopravvivenza, dall’amore per i nostri cari, dal desiderio di riconoscimento sociale e di gloria, dal senso del dovere, dalla fede, dal bisogno, da un’ideologia e addirittura dalla volontà di vincere un nemico. Sono molte le motivazioni che ci spingono all’audacia e alla forza di carattere. Essenziale è avere una meta da raggiungere e un porto in cui rifugiarsi per trovare conforto. Se quindi vogliamo tentare di definire cosa sia il coraggio, possiamo qualificarlo come capacità di sconfiggere la paura di esistere: forse la prima che proviamo venendo al mondo, e contro cui combattiamo quotidianamente. Per stemperarla e renderla inoffensiva, Vito Mancuso suggerisce una risposta, valida per chiunque voglia crederci e praticarla: la benevolenza verso sé stessi e gli altri, l’importanza di mantenersi saggi, giusti e temperanti, nel “qui e ora” di ogni giorno. Anche nell’oggi della crudele pandemia che il mondo sta attraversando.

 

© Riproduzione riservata                    25 giugno 2020

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RECENSIONI

VENDITTO

SERENA VENDITTO, MALÙ SI ANNOIA – MONDADORI, MILANO 2020 (ebook)

Con l’ebook di recente pubblicazione {{Malù si annoia}}, {{Serena Venditto}} (Napoli, 1980) prosegue nella serie di racconti di successo dedicata al gatto detective Mycroft e ai 4+1 di via Atri 36, serie che ha ricevuto numerosi riconoscimenti e segnalazioni.

I quattro inquilini che condividono l’interno 5 di Via Atri sembrano tutti ugualmente tediati e in ansia per il prolungarsi della reclusione forzata causata dalla pandemia da Covid 19: in pigiama o in tuta, guardano partite di calcio alla TV, o fiction su Netflix, puliscono ossessivamente ogni superficie e mettono in ordine gli armadi, cucinano e litigano, punzecchiandosi a vicenda. La voce narrante in prima persona è quella di Ariel, che essendo traduttrice è abituata a lavorare da remoto e in solitudine: tuttavia ogni tanto le prende il magone per la nostalgia dei parenti e degli amici lontani, e allora si rifugia sul terrazzo a singhiozzare tra le lenzuola stese. Il suo fidanzato Samuel si ingegna ad aiutare i vicini portando a casa loro la spesa, il musicista Kobo si finge sereno, ma in realtà è preoccupato per la sua compagna che vive a Cremona, in piena zona rossa. Poi c’è Malù, archeologa in perenne ricerca di stimoli intellettuali e di brividi esistenziali, inquieta e curiosa, che soffre più di tutti per la noia e l’inattività.

Malù aspira ad avere sempre “{un problema da risolvere, un dato da apprendere ed elaborare, qualcosa da fare}”, altrimenti rischia di impazzire. Decide quindi di chiedere all’amico commissario Timoteo De Iuliis se per caso abbia tra le mani qualche caso da risolvere, per cui potersi valere della sua collaborazione.

Il poliziotto sottopone allora a tutti i coinquilini, e a Malù in particolare, l’indagine sull’omicidio di un giovane programmatore informatico, incensurato, introverso e solitario, di cui si era ritrovato nascosto nel materasso un hard disk esterno, protetto da una password alfanumerica. Malù, offrendosi eccitata di decriptarla, tenta di immaginare a cosa la vittima si fosse ispirata nell’inventarla, magari osservando un particolare del suo studio. Così, esaminando le foto inviatole dal commissario, scorge nell’arredamento tipico da nerd cinefilo dell’ucciso, un poster di un film di Tarantino e la riproduzione dell’uomo vitruviano di Leonardo. Ricostruisce quindi vittoriosamente la password attraverso una citazione filmica del profeta Ezechiele riletta al contrario, per arrivare a comprendere in conclusione che tutto il suo fiuto poliziesco era servito al commissario burlone per regalarle un diversivo anti-noia nella clausura collettiva.

Come morale del racconto, Serena Venditto suggerisce che l’antidoto alla depressione e all’indifferenza risiede nel mantenere rapporti affiatati e benevolenti con chi ci sta vicino: inquilini, fidanzati, poliziotti e gatti. Magari aiutando con una piccola offerta volontaria l’Ospedale Cotugno di Napoli, come invita a fare nella nota conclusiva dell’ebook a costo zero.

 

© Riproduzione riservata                    23 giugno 2020

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RECENSIONI

AAVV, IL VENETO CHE AMIAMO

AAVV, IL VENETO CHE AMIAMO – EDIZIONI DELL’ASINO, ROMA 2020 (ebook)

Quattro grandissimi della letteratura italiana del ’900, quattro autori che hanno reso il Veneto migliore, sono i protagonisti di questo originale e interessante ebook pubblicato dalle Edizioni dell’Asino: Andrea Zanzotto, Mario Rigoni Stern, Luigi Meneghello, Fernando Bandini. Intervistati, coinvolti in una serie di riflessioni, pungolati da Goffredo Fofi, Gianfranco Bettin, Marco Paolini, Nicola De Cilia, Leonardo Ruffin, raccontano se stessi e il territorio in cui sono nati e vissuti, e che ha nutrito la loro scrittura. Parlano di ciò che il Veneto è stato, nella storia e nella cultura, e di quello che rappresenta oggi per l’economia, l’arte, la politica, l’ambiente del nostro paese.

Nella prefazione, Fofi, amico in particolare di Zanzotto e Bandini, tratteggia un ritratto del Nordest in bilico tra l’affettuosa ammirazione e un fastidio insofferente: “Il Veneto che ha dato così tanto alla storia e alla cultura dell’Italia e che ha saputo resistere e sa ancora resistere al generale degrado, morale e culturale prima ancora che politico” è la stessa regione che con la Lombardia ha contribuito a diffondere comportamenti di scandaloso malaffare, corruzione, inquinamento. Il docile paese conosciuto da Fofi negli anni ’50-60 era ancora fatto di contadini e proletari che emigravano, di famiglie cattoliche numerose, di soldati e servette che animavano la narrativa e il cinema neorealista, di dialetti cantilenanti che riflettevano la dolcezza del paesaggio. In seguito, le rivolte dei movimenti studenteschi padovani e degli operai di Marghera, la crescente industrializzazione e cementificazione edilizia hanno contribuito a modificare l’immaginario collettivo e gli stereotipi più radicati. Oggi il Veneto si è imbruttito e involgarito, nella corsa allo sviluppo e alla ricchezza individuale che ha trasformato i lineamenti del territorio e il carattere degli abitanti. Troviamo tracce di questo accanimento feroce e autodistruttivo nei romanzi di Carlotto e di Bettin, nelle inchieste di Rumiz.

Andrea Zanzotto (1921-2011) parlando nel giorno del suo 87esimo compleanno, lamenta che la sua Pieve di Soligo sia stata deturpata da un’aggressiva pianificazione urbanistica. “Oggi abbiamo un paesaggio in cui sembra prevalere la fabbrichetta velenosa, la puzzolente discarica, l’orribile intasamento del traffico per strade sempre più insufficienti e pericolose”. La poesia rimane come baluardo, “forma di salute e di resistenza biologica”, che proprio nel salvare un’immagine sana dell’habitat, compie un’operazione ecologica di mantenimento della bellezza. Perché “la poesia dice quello che deve dire sempre da una specie di esilio dentro la realtà…”. Zanzotto racconta degli anni del dopoguerra, della sua emigrazione in Svizzera, dell’insegnamento e dei primi amori giovanili: da poeta, ne tratta con toni affabulatori, sorridenti e nostalgici. Rispetto a un mondo guasto e frenetico, conclude, “meglio stare qui, anca picadi a un spin, ma comunque qui”.

I ricordi privati diventano memoria collettiva e civile nelle testimonianze di tutti gli intervistati.

Mario Rigoni Stern (1921-2008), asciutto cronista e memorialista della seconda guerra mondiale e della campagna di Russia, profondo conoscitore dell’altopiano di Asiago nelle sue tradizioni e in ogni anfratto territoriale, constata come preambolo al suo discorso che quando la neve si scioglie a 2500 metri di altezza è unta. Unta, sporca, come l’aria appestata dal carburante degli aerei e le montagne invase dai rifiuti degli alpinisti della domenica: uomini e donne che per cercare un paesaggio vergine, in realtà contribuiscono a inquinarlo. Rigoni Stern parla di tutto, della televisione che condiziona i pensieri, dell’editoria interessata solo al mercato, degli scrittori giovani esibizionisti e di quelli maturi permalosi ed egocentrici. Concludendo pessimisticamente: “È difficile liberarsi del mondo che avanza. Mi sono detto, salviamo almeno quello che è stato abbandonato. Lo diceva Rilke: andremo a cercare ai margini delle strade quello che abbiamo buttato via”.

Anche Luigi Meneghello (1922-2007), indimenticato autore di Libera nos a Malo, prende spunto dalla propria biografia per meditare sulla storia passata e recente della regione in cui è nato. Partendo dagli anni fascisti della sua infanzia da “balilla”, rievoca gli studi universitari, la guerra combattuta come alpino, la partecipazione attiva alla Resistenza, il matrimonio con la moglie ebrea ungherese scampata ai lager, la passione per le motociclette, e infine l’emigrazione in Inghilterra, con l’impegno accademico a Reading durato tutta la vita lavorativa. Quindi i suoi romanzi, vivacizzati dal “trasporto” in italiano di molti termini dialettali, e il recupero ironico di una koinè linguistica che definiva anche un modo di stare al mondo, con solidale indulgenza: “Volta la carta… la ze finia”.

Ultimo ma non ultimo, Fernando Bandini (1931-2013), raffinato poeta in italiano e latino, si sofferma sulla necessità di un impegno fattivo nella politica locale: “Sono totalmente immerso in Vicenza, in un rapporto di odio-amore, cerco di interpretare il mio tempo partendo da questo piccolo spazio”. E ribadisce il dovere che abbiamo di dialogare con i morti, come memoria familiare e storica: “L’interesse per il passato aiuta a riannodare fatti e personaggi, a farti presente che sono esistite una storia nazionale, una storia culturale e sociale estremamente ricche di cui adesso si è voluto dimenticare tutto, sia la sinistra che i cosiddetti ‘laici’ che i cattolici”.

Non solamente laudatores temporis acti, quindi, questi “grandi vecchi” della letteratura italiana, ma anche esempio di uno spessore morale e intellettuale di assoluta rilevanza, propositivo e fiducioso nell’aprire alla speranza di un cambiamento, che a partire dalla campagna, dai monti, dalle cittadine in cui sono nati e vissuti, possa investire tutto il Veneto, e l’intera nazione.

 

© Riproduzione riservata            «Gli Stati Generali», 19 giugno 2020

RECENSIONI

BERTOLUCCI

ATTILIO E NINETTA BERTOLUCCI, IL NOSTRO DESIDERIO DI DIVENTARE RONDINI. POESIE E LETTERE – GARZANTI, MILANO 2020

Attilio Bertolucci (1911-2000) ed Evelina – detta Ninetta – Giovanardi (1912-2005) si sono sposati nel 1938 e hanno avuto due figli, Bernardo e Giuseppe, registi di fama. Sessantadue anni di matrimonio vissuti nell’affetto, nella stima e nella collaborazione reciproca: lui valente poeta, impegnato intellettuale, traduttore e critico; lei insegnante e sceneggiatrice di piccoli film gialli ricchi di humour. La loro lunga storia d’amore era iniziata tra i banchi del liceo Romagnosi di Parma, e a partire dagli anni del corteggiamento si era nutrita di una fitta corrispondenza, consolidata in seguito attraverso lo scambio di esperienze e di passioni comuni – la musica, il cinema, la letteratura. Garzanti, editore di quasi tutti i volumi di poesie di Attilio, pubblica adesso il loro epistolario, integrato dai molti versi dedicati alla moglie, con un titolo suggestivo: Il nostro desiderio di diventare rondini, a cura di Gabriella Palli Baroni.

Poeta con una manifesta vocazione alla descrizione e al racconto, Attilio Bertolucci componeva in forma pacatamente narrativa, come nel romanzo familiare in versi La camera da letto, utilizzando immagini di ambienti interni ed esterni recuperate da memorie personali, con forte incidenza affettiva. Ne sono testimonianza i numerosi testi riportati nel libro garzantiano (di poesie edite e commentate singolarmente, e di lettere inedite), che definiscono l’autore non solo come poeta d’amore, ma come suggerisce la curatrice, “poeta d’amore coniugale”. Ninetta è stata la musa ispiratrice di Attilio, protagonista in grazia e festosità già dai primi versi dedicatele nella raccolta Fuochi in novembre, del 1934: “Coglierò per te / l’ultima rosa del giardino, / la rosa bianca che fiorisce / nelle prime nebbie. / Le avide api l’hanno visitata / sino a ieri, / ma è ancora così dolce / che fa tremare…”, “Vorrei esser il sole che ti scalda / quando esci dall’acqua, freddolosa / e gocciolante, e sì ti fa radiosa / negli occhi, felice e calda…”.

La vivace e gioiosa esuberanza giovanile si trasforma col passare del tempo in una più ponderata consapevolezza sentimentale e morale, per cui la fidanzata diventata moglie e madre assume il ruolo più maturo di compagna, confidente e guida, come si evince dalle struggenti parole di questa lettera: “Noi dobbiamo attraversare questa cosa dolce e terribile che è la vita, insieme, dobbiamo fare un lungo viaggio sempre insieme, e avremo in comune la gioia e la tristezza e tutte le mattine svegliarsi vicini e volerci sempre bene e comprenderci”. La richiesta d’amore che il poeta rivolge alla sua donna è insieme esigente, timorosa, grata, impaurita: “Non mi lasciare solo se io / ti lascio sola”, “Perché le farfalle vanno sempre a due a due / e se una si perde entro il cespo violetto / delle settembrine l’altra non la lascia ma sta / sopra e vola confusa”, “Portami con te nel mattino vivace / le reni rotte l’occhio sveglio appoggiato / al tuo fianco di donna che cammina / come fa l’amore”.

Sarà sempre Ninetta, dopo il trasferimento a Roma dalla campagna emiliana, a proteggere il marito non solo dall’estraneità minacciosa della capitale, ma soprattutto dalle sue ansie ben presto deformatesi in pura nevrosi. Pratica e razionale, salda nella difesa del nucleo familiare, è Ninetta l’ancora a cui la fragilità del marito si aggrappa, “luce diurna della sua ragione”. Nelle più tarde Chroniques maritales, la complicità tra i due sposi ormai anziani si esalta nella descrizione di momenti di intimità quotidiana, gesti concreti di ogni giorno, e sentimenti che sfumano dalla tenerezza alla gelosia, fino a un delicato erotismo: “– Ma tu lascerai che affondi la faccia / nella tua erba? / Che io estingua la mia sete nel tuo sonno?”, “I nostri corpi, cara, in questo letto / famigliare nell’aria ferma dell’amore / mentre al di là delle finestre chiuse / le stagioni piangendo se ne vanno”, “Ma continua con me / ormai che ci sfiora radente / l’ala del tempo e dell’età”. Accanto alla donna amata, il poeta rappresenta con altrettanta delicatezza e trepidazione i due figli, Bernardo e Giuseppe, in componimenti che li ritraggono dalla prima infanzia all’età adulta: “Avete visto due fratelli, l’uno / di quindici l’altro di dieci anni, lungo / il fiume, intento il primo a pesca, / il secondo a servire con pazienza / e gioia?”.

Oltre alle poesie dedicate a quello che pascolianamente potremmo definire il “nido” familiare, è soprattutto la fitta corrispondenza scambiata tra Attilio e Ninetta il nucleo documentario più nuovo e interessante del volume proposto da Garzanti. A partire dal primissimo scambio epistolare della giovinezza: “Mi sembra d’essere sicuro ora che ho te, d’essere sulla terra ferma” (28 gennaio 1934), “Sei talmente entrato nel mio cuore che non sarò mai proprio sola” (20 febbraio 1934), “Non staremo bene se non saremo uniti” (10 giugno 1934).). Da una parte la tenerezza indulgente con cui lei accoglie le titubanze e le inquietudini di lui, dall’altra la ribadita necessità di lui di averla vicina, comprensiva e paziente, sempre in nome di “quell’armonia senza la quale vedo che nessuno di noi due si potrebbe più rassegnare a vivere” (11 novembre 1936).

Il loro intenso e romantico carteggio, secondo Gabriella Palli Baroni, “rappresenta perfettamente i due innamorati, riportandoci non solo la profondità dei sentimenti, ma il colore del tempo, gli slanci della loro giovinezza, le atmosfere della campagna e della città, le gioie del loro ritrovarsi, le trasgressioni e la quotidianità, la fatica dello studio e la grazia del comporre liriche, l’inclinazione infine verso ciò che è bello e importante: il sentimento del tempo e della natura, l’arte, il cinema, la musica, la poesia”. Una testimonianza, quindi, di grande valore letterario e umano, che apre anche ampi orizzonti su sessant’anni della vita culturale del nostro paese.

 

© Riproduzione riservata                   18 giugno 2020

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