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RECENSIONI

PROUST

MARCEL PROUST, POESIE – FELTRINELLI, MILANO 2020 

Le Poesie di Marcel Proust furono pubblicate nel 1982 da Gallimard, nel decimo dei “Cahiers Marcel Proust”, con l’introduzione di Claude Francis e Fernande Gontier.

Oltre alle otto poesie contenute in Les Plaisirs et les Jours (1894) e a poche altre sparse su riviste,  ne sono state ritrovate decine negli epistolari, o utilizzate come dediche accompagnatorie: probabilmente esistono  ancora composizioni simili, non ancora recuperate,  in manoscritti e archivi privati, protette dalla riservatezza o dall’autocensura degli eredi dei destinatari con cui l’autore aveva avuto rapporti d’amicizia o amorosi. Molti dei titoli sono stati apposti dai curatori.

Un gruppo di versi sono dedicati ad amici e amiche (Reynaldo HahnDaniel Halévy, Robert de Billy, Madeleine Lemaire, Marie Nordlinger, Louisa de Mornand, Antoine Bibesco, Emmanuel Bibesco, Bertrand de Fénelon, Louis d’Albufera, Jean Cocteau, Armand de Gramont, Paul Morand e ai conti Greffuhle), spesso poco comprensibili per le allusioni alla vita privata o ad accadimenti quotidiani. Due poesie sono destinate alla fedele cameriera degli ultimi anni, Céleste Albaret (“Alta, slanciata, bella, un poco magra, / qualche volta stanca, qualche volta allegra, / sia la teppa che i principi rallegra / getta a Marcel una paroletta agra, / rende aceto per miele e mai è pigra, / ma sempre agile spiritosa integra…”).

La versione italiana di Franco Fortini, uscita nel 1983, fu accolta da diverse polemiche, soprattutto da parte di Alberto Arbasino che non condivideva la decisione della trasposizione in prosa di parte della raccolta.

L’attuale riproposta di Feltrinelli recupera due precedenti edizioni, curate da Luciana Frezza, del 1993 e del 2008, ed è introdotta da una presentazione di Luigi De Nardis. Le poesie qui raccolte ricoprono gli anni 18881922, e spaziano dai primi schizzi giovanili fino alla morte dell’autore. Si tratta di un centinaio di composizioni dalla prevalente motivazione ludica, spesso burlesche o satiriche, composte con atteggiamento mimetico nei confronti di altri scrittori, e con un gusto di accentuato virtuosismo. Versi in cui probabilmente lo stesso Proust non credeva appieno: dopo le prime prove giovanili ispirate a Baudelaire e a Verlaine, parve considerare la poesia un’arte minore rispetto alla prosa, incapace di rappresentare la ricchezza e molteplicità dei dettagli e delle sfumature dell’esistenza.

Luciana Frezza nel suo bel saggio introduttivo ritiene che volutamente Proust abbia scelto di bloccare nella crescita e lasciare allo stadio di ipotesi la produzione in versi, consapevole della sua evidente inferiorità nei confronti della narrativa. Secondo la traduttrice il mondo non ha perso molto, rinunciando a un Proust poeta, che “sarebbe stato forse, nella più felice delle situazioni, un fantaisiste, combinando la voglia di giocare con la leggerezza di segno nel delineare alla svelta paesaggi o silhouettes umane”.

Perché scriveva versi, quindi, il sommo autore della Recherche? “Per rilassarsi, per comunicare, stuzzicare o provocare, per essere gentile o chiedere un indirizzo, ‘perdere’ insomma un po’ di tempo, giocando con le cianfrusaglie del Tempo che si perderà”.  Nel suo divertito e dissacrante verseggiare “Proust ci mostra, più che la sua faccia umana, la sua maschera sociale”. L’eletta mondanità viene implicitamente evocata nell’uso ammiccante di nomi propri, nelle allusioni a pettegolezzi salottieri, nell’utilizzo ambiguo dei pronomi possessivi per rivelare la realtà di alcune relazioni. “Ginnastica da camera, saltelli per sgranchirsi e tonificare i muscoli e accrescere così l’agilità sociale… – trionfo dell’effimero!”, postilla Frezza.

In questo poetare di circostanza, la cerimoniosità con cui l’autore si rivolge al sesso femminile rivela sia un’ironica superiorità, sia un parodiante cicisbeismo da librettista settecentesco: “Signora, può darsi che dimentichi / il vostro divino profilo d’uccello / e come si salta in un cerchio / io sfondi la follia del mio cervello / ma gli occhi vostri sul soffitto della mia testa / chiari rifulgeranno come lampadari”.

L’amore è affrontato come argomento retorico, secondo stilemi recuperati da una frustra tradizione letteraria: “Lo so, domani me ne andrò perdutamente / di nuovo solo verso conturbanti dimore / ma oggi la tua grazia mi è amica: / per me i lenti tuoi sguardi color malva sono tutto al mondo. // La tua fronte non chiude nell’esigua bianchezza / l’ombra infinita da cui scaturirà la luce / eppure, o testa cara, io t’amo stranamente. // Quando al tuo riso chiaro non batterà più il cuore / arrossirò forse ancora alla dolcezza / che sarebbe stata accucciarmi nel tuo cuore / come nel chiaro cortile di un delizioso convento”.

Anche l’autoritratto assume caratteri imitativi, quasi parodistici: “Ahimè che troppo ho aperto finestra / e porta, ho cercato / l’azione, il piacere, fosche parole”, “Proust abita al 102 del Boulevard Haussmann più ardente per Ormuz e stufo di Arriman”, “Con il pretesto che è Domenica / Marcel Proust in quel paradiso / da cui un angelo fa capolino / tanto è restato… che è lunedì!”.

Nel ritrarre personalità maschili, Proust sembra più a suo agio, più sciolto e frizzante, addirittura mordace nelle punzecchiature polemiche, spesso con espliciti riferimenti omoerotici: “Maure, balzacchiano, dal passo affrettato / Jean, levigato, occhi viola del pensiero, / Lucien barboncino rasato a squadra, / Douché falso magro sempre desiderabile; / Herrmann per cui la stessa / Pazienza l’ha persa, / Nijinski, del sublime fuoco d’artificio nerastro, / inconcepibile, residuo sottile / Bakhst, spettro della rosa e asino della lesina, / Boni, pancia di crusca e viso di bambola, / la sua mano pare sempre che ti porga una spada / l’occhio che ti giudica ti ha bell’e sistemato”.

Invece languido e ammirato appare nell’omaggiare i musicisti che ama: Chopin: “Pallido e dolce compagno della luna e dell’acqua, / principe della disperazione…”, Schumann “sognante e disilluso combattente”, Mozart, il cui “magico Flauto / stilla nell’ombra ancora calda / degli addii di una bella giornata, / la freschezza dei gelati, / dei baci e del sereno”.

Accompagnando come un divertissement leggero e vivace la monumentale struttura della Recherche, i versi di Marcel Proust ne sottolineano per contrasto la complessità. Sono, come suggerisce la curatrice, “un angolo incolto nell’immenso giardino” della sua opera. La presentazione di Luigi De Nardis non si sofferma tanto sulle qualità letterarie della raccolta, quanto invece sull’eccellenza della traduzione di Luciana Fresa (Roma, 1926-1992), che è stata oltreché francesista di rispetto, valida e originale poetessa: le sue rese in versi sono vere ri-creazioni e introiezioni in un lessico poetico personale, che ha saputo valorizzare lo stile proustiano, “troppo spesso privo di espressività”, in vivaci moduli ritmici e indovinate accensioni verbali.

© Riproduzione riservata             «Il Pickwick», 16 giugno 2020

 

 

RACCONTI

NONNINO NONNINO

Mio padre è un uomo compito. Diversamente da me, che sono sempre un po’ arruffato, scomposto nel vestire e nel gestire, spavaldamente impetuoso nella parola, contorto nei pensieri: come tutti i timidi.

Lui no. Lui è sempre sobrio (anche se non ricercato) nell’abbigliamento, attento ad accostare con discrezione i colori: camicia e cravatta, pantaloni e calzini. È anche molto controllato nell’esprimersi, mai una bestemmia, una parolaccia. Riflessivo nei ragionamenti, gentile nel rapportarsi agli altri.

Un signore, insomma.

La cosa comica è che io insegno storia dell’arte nel liceo più glorioso della città, e lui ha sempre fatto il magazziniere in una fabbrica di calzature. Io posso vantarmi di una laurea e di un dottorato in estetica, lui ha il diploma di terza media. Io divoro libri di saggistica, sono appassionato di musica barocca, parlo correntemente inglese e tedesco. Lui è abbonato alla Settimana Enigmistica, ama i quiz televisivi e ascolta Radio Birikina.

Da quando mia moglie se ne è andata, lasciandomi le due bambine di tre e cinque anni, il mio buon papà ha generosamente deciso di trasferirsi nel nostro appartamento per aiutarmi nella cura della casa, e per occuparsi di Marta e Cecilia. Che lo adorano. Sospetto che vogliano più bene al nonno che a me.

Le mie figlie non chiedono mai della loro mamma, l’hanno cancellata da occhi bocca cuore. Con me si limitano a brevi comunicazioni di servizio, accendi spegni la luce, fa freddo fa caldo, ho fame ho sonno. Tutte le loro carezze, i baci, i gesti affettuosi sono per mio padre. “Nonnino nonnino”, lo chiamano. Cecilia, addirittura, è il suo ritratto, come se i suoi cromosomi avessero saltato una generazione. Stessi occhi azzurri, naso regolare, labbra un po’ piegate in giù, spalle strette.

Lui se ne compiace, gongola quando la osserva di nascosto e rivede sé stesso negli atteggiamenti composti e garbati di lei, per favore-permesso-grazie-scusa. Le accarezza i capelli biondi, e piano le sussurra “la mia bambina, la mia cara bambina”.

Quando torno da scuola, di pomeriggio, li vedo seduti sul divano. Complici, mano nella mano. Lui le legge un libro di fiabe, commentando le illustrazioni. Lei appoggia la sua testolina treenne al suo petto, e ascolta in silenzio, attenta. Spesso gli chiede di ripetere più volte la stessa frase, modulando la voce a seconda dei personaggi descritti. Lui obbedisce, paziente. “Nonnino nonnino”, irrompe in salotto la sorella più grande “Posso ascoltare anch’io?”. Spezza l’idillio, ma i due fidanzatini la accolgono comprensivi. Ecco edificato un allarmante triangolo, tra un maschio e due femmine rivali.

Io sono il quarto incomodo, l’escluso. Geloso? No di certo. Direi anzi, sollevato. Perché a essere sincero mi scoccerei proprio se ogni pomeriggio dovessi leggere una favola alle bimbe, dopo aver tentato di domare più classi di adolescenti, sciatti distratti arroganti.

“Nonnino nonnino”, già mi dà fastidio. “Papino papino”, non riuscirei a sopportarlo.

Loro lo sanno? Se ne accorgono? Ne soffrono? Non credo, troppo piccole, troppo occupate a succhiare ogni goccia di bene venga loro dispensata dall’avo.

Mio padre invece ha capito. Lo sa. E non gli dispiace avermi detronizzato. “Vuoi bene alle bambine?”, mi ha chiesto una sera, improvvisamente, senza preamboli. Preso di sprovvista, non ho risposto. “Volevi bene a tua moglie?”, ha continuato, implacabile pubblico ministero. “Certo”, ho risposto: deglutendo, sorpreso. dopo un’imbarazzata esitazione. Poi, sentendomi salire dentro una certa inquietudine, quasi una stizza, ho aggiunto in fretta: “Lei mi voleva bene? Loro mi vogliono bene?” Si è alzato dal divano, ha preso le parole crociate, e scandendo pacatamente “Vado a letto, buonanotte”, si è chiuso in camera.

Mio padre ha sempre avuto un modo irritante e insieme profondamente inattaccabile di farmi sentire non solo in difetto, ma anche in colpa. Già da quando ero bambino, e poi soprattutto negli anni tormentosi della prima giovinezza. Non alza la voce, non rimprovera, non condanna. Semplicemente, con ogni suo silenzioso e correttissimo atteggiamento, scava un baratro tra la mia banale mediocrità e il suo essere migliore. Probabilmente l’ho deluso dalla nascita, e lo deludo in continuazione. La cosa tragica è che non so perché. Credo di essere stato un bravo figlio, ubbidiente, studioso, educato. Mai abbastanza, forse.

La settimana scorsa, tornando dagli scrutini nel tardo pomeriggio, l’ho trovato in cucina intento a preparare un dolce di castagne, con Marta e Cecilia che eccitate e infarinate gli sfarfallavano intorno. “Stiamo impastando una torta, io e le mie bambine”, ha detto ammiccando trionfante, nonnino nonnino. “Non sono tue, le bambine”, ho avuto la temerarietà di rispondergli.

Si sono bloccati come statue bianche, loro tre. Lui mi ha rivolto uno sguardo interrogativo e disapprovante, al di sopra degli occhiali scivolati sul naso. Poi, come se niente fosse, il trio ha ripreso ad armeggiare intorno al tavolo, mentre lui intonava una canzoncina, tra le tante della sua infanzia che ha insegnato alle bimbe. “O quante belle figlie Madama Dorè”, e loro ripetevano “o quante belle figlie”, con le garrule vocette innocenti.

Mi sono ritirato nel mio studiolo, a rileggere gli appunti di un libro che da anni tento vanamente di portare a termine. Sul mecenatismo nell’arte seicentesca. Dalla cucina sentivo distintamente ogni parola del ritornello scemo, “Il re ne domanda una Madama Dorè, il re ne domanda una”. Sapevo che mi avrebbe tormentato il cervello fino a notte.

Ieri però è successa una cosa, strana, imprevedibile. Rientrando a casa, verso le cinque, mi ha accolto un’inquietante assenza di rumori. Ho chiamato, come faccio sempre, “Ceci, Marti…”. Poi, non ricevendo risposta, ho aggiunto “Papà?”.

Non c’erano. Ho passato in rassegna tutte le stanze, spaventosamente in ordine e zitte. Niente. Nessuna traccia del terzetto. Allora ho provato a cercare mio padre al cellulare, ma era spento.

Ho aspettato l’ora di cena, un po’ titubante, ma senza una vera e propria ansia. Mi sono riscaldato due sofficini e un po’ di verdura grigliata trovati nel freezer. Non mi succede mai di dover cucinare, ci pensa sempre nonnino. Ho acceso la tv per il telegiornale, e sono rimasto seduto in poltrona a guardare fino alle dieci una specie di quiz con tanti concorrenti esaltati dagli applausi di un pubblico gaudente. Dei miei tre cari nessuna traccia. Né un biglietto, né una telefonata.

Se ne erano andati.  Magari a prendere un gelato al bar del quartiere, o una pizza nella solita trattoria. Oppure al centro commerciale e poi al cinema. O avevano deciso di salire su un treno, di imbarcarsi su un aereo per una vacanza chissà dove. E se avessero invece programmato da tempo di trasferirsi altrove, in un nuovo appartamento, in una città diversa, all’estero?

Se ne erano andati. Forse per poco, forse per sempre.

Mi avvicinai alla finestra, guardai già in strada, poi in alto, nel cielo ormai buio. Le mie labbra si schiusero in maniera del tutto imprevista e involontaria. “Finalmente”, mi ascoltai sussurrare.

 

«Gli Stati Generali», 12 giugno 2020 e in «Gente normale», Eretica 2024.

 

RECENSIONI

MALVALDI

MARCO MALVALDI, IL CASTELLO DALLE MILLE BOTOLE – SELLERIO, PALERMO 2020 (ebook)

Marco Malvaldi (Pisa, 1974), chimico e giallista di successo, ha pensato – nel suo ultimo ebook pubblicato da Sellerio, Il castello dalle mille botole – ai bambini, in un periodo difficile in cui a loro si sta pensando poco, e si ipotizza di incapsularli in scatole di plastica trasparente, o di imbavagliarli perché imparino a non ridere e a parlare di meno, senza avvicinarsi ai loro amichetti, senza dare più baci e fare carezze. Quindi, nel futuro crudele e sterilizzato che il mondo adulto sta allestendo per i suoi figli più piccoli e del tutto innocenti, forse è giusto raccontare loro una favola. Una Favola per fare restare svegli i bambini, come recita il sottotitolo della storia inventata da Malvaldi. In cui c’è un signore molto ricco che avrebbe voluto starsene tranquillo nel suo grande castello, ma veniva invece continuamente importunato dagli abitanti del paese che gli chiedevano favori, raccomandazioni, regali, consigli. Ragion per cui aveva pensato di far costruire nella sua splendida dimora molte trappole: “trappole che schiacciavano, trappole che segavano, trappole che mordevano e altre ancora, tutte nascoste da delle botole, per renderle invisibili a chiunque avesse osato inoltrarsi nei suoi corridoi”, in modo da evitare che indiscreti questuanti lo disturbassero mentre guardava tutto solo e pacifico le trasmissioni di Maria De Filippi alla televisione.

Ma dopo alquanto tempo, al signore egoista e annoiato era venuto il ghiribizzo di uscire dalla sua magione per fare una passeggiata. Come fare, però, a evitare tutte le mille botole che l’avrebbero senz’altro inghiottito? Preparò un bando offrendo una lauta ricompensa ai coraggiosi paesani che si fossero prestati alla temeraria impresa di liberarlo dalle sue stesse trappole. Si presentarono dieci intrepidi, decisi a mettersi alla prova nella perigliosa avventura. Ma uno alla volta finirono per cadere in spietati tranelli: schiacciati dal ponte levatoio, fatti a pezzi da un coltellino svizzero, precipitati da scale marce, avvelenati da vino adulterato, rosolati da fili elettrici, dilaniati da dinamite, sbranati da uno squalo bianco, tagliuzzati da cocci di bottiglia.

Dei dieci prodi era rimasto vivo e integro solo il più eroico e intelligente, Guidobaldo Maria Guardalà Che Cosce, che giunto nella “stanza più alta della torre più lontana dell’angolo più remoto del castello” alla presenza del signore altezzoso, si era rivelato essere suo figlio, un tempo diseredato e allontanato dalla casa paterna. Al rifiuto del figliolo Guidobaldo di soccorrere il padre, seguì quello di tutti gli abitanti del paese, che decisero di non salvare il signore solitario e misantropo (ben gli sta se preferisce la solitudine alla compagnia del prossimo!).

E con questa favoletta consolatoria di un ebook a costo zero, Marco Malvaldi si congeda dai piccoli lettori, invitandoli a fare una donazione al reparto di terapia intensiva di Livorno. Che speriamo abbiano già fatto in molti, volontariamente e generosamente.

 

© Riproduzione riservata                     12 giugno 2020

https://www.sololibri.net/Il-castello-dalle-mille-botole-Malvaldi.html

 

RECENSIONI

BRUCK

EDITH BRUCK, TI LASCIO DORMIRE – LA NAVE DI TESEO, MILANO 2019

Sessant’anni di amore hanno unito la scrittrice Edith Bruck al poeta e regista Nelo Risi, e Ti lascio dormire è il commovente racconto che ne dà una lucida, sincera e affettuosa testimonianza.

Edith Bruck, nata nel 1932 in un’umile famiglia di ebrei ungheresi, ai confini della Slovacchia, ultima di sei figli, ha attraversato il ’900 scontando sulla sua pelle tutti le discriminazioni e le sofferenze impartitele dalle drammatiche vicende del secolo. Come ha scritto in un suo verso, “Nascere per caso nascere donna nascere povera nascere ebrea è troppo in una sola vita”: deportata a tredici anni ad Aushwitz, è stata in seguito trasferita in altri quattro campi di concentramento, fino a venire liberata nel 1945 dal lager di Bergen-Belsen, dopo lo sterminio di buona parte dei suoi familiari. In seguito a un periodo trascorso in Israele, nel vano tentativo di recuperare le proprie radici ebraiche, si è trasferita a Roma, dove vive tuttora, dedicandosi alla scrittura.

Autrice di numerosi e premiati romanzi – documentazioni sofferte della Shoah -, ha sceneggiato e diretto tre film e svolto attività teatrale, televisiva e giornalistica, sempre impegnandosi in coraggiose campagne di sensibilizzazione sui problemi dell’antisemitismo, del pacifismo e delle ingiustizie sociali.

Il suo lungo sodalizio sentimentale e artistico con Nelo Risi, scomparso nel 2015 dopo una dolorosa malattia neurodegenerativa, ha costituito terreno fertile per numerose e commosse rivisitazioni narrative. Appunto quest’ultima opera letteraria è il resoconto di un’amicizia amorosa, di una fiduciosa solidarietà che ha unito due esseri umani, due artisti, in una convivenza complice e valorizzante, in cui reciprocamente e alternativamente hanno tamponato o riacutizzato le loro ferite, smussato gli spigoli, alleggerito tensioni: capaci anche di allegria, di scoperte quotidiane, di amicizie, letture, viaggi condivisi.

Edith alterna le sue memorie di infanzia tragica e poverissima, con i ricordi feroci dei campi di concentramento, e li puntella con i versi dei poeti ungheresi amati e tradotti per il pubblico italiano, con quelli di Nelo, con la corrispondenza conservata dagli anni del fidanzamento (si chiamavano vicendevolmente Munzilo e Munzila, Nano e Nana). Rievoca gli ultimi anni trascorsi con il marito ammalato, vegliato giorno e notte insieme alla fedele governante Olga: il momento della morte, le ore convulse del funerale, e la silenziosa solitudine che ne è seguita.

Del marito tratteggia un ritratto ammirato: lo descrive intellettualmente (ateo, laico, freudiano), moralmente (schivo, onesto, riservato, poco interessato al denaro e al successo), fisicamente (asciutto e agile come un ragazzo); a lui che era il suo tutto (“lingua patria famiglia padre e madre”) raccontava la persecuzione patita dai nazisti, le piaghe inguaribili dell’anima, il rancore ancora insopprimibile, cercando conforto e comprensione. Teme ora, rimasta sola, di averlo ossessionato con la propria inquieta malinconia e con la narrazione delle vessazioni subite: “Ah caro, caro, episodi simili ne hai sentiti da me anche troppi, buttati sulle tue fragili spalle, sul cuore e sulla mente indignati per l’assoluto della barbarie umana… Ero troppo per te, dicevi”.

Ma quegli sfoghi quotidiani, quel troppo di sofferenza veniva mitigato dalla ricchezza del lavoro comune, dalle frequentazioni intelligenti con personalità dell’arte e della cultura, dai film e dai libri goduti insieme. E dalla dedizione, materna e filiale insieme, con cui lei – moglie attenta e discreta – lo accarezzava la mattina, quando svegliandosi presto, gli ripeteva “Ti lascio dormire”.

 

© Riproduzione riservata        9 giugno 2020

https://www.sololibri.net/Ti-lascio-dormire-Bruck.html

 

 

 

 

 

 

 

RECENSIONI

MAUROUARD

ELVIRE MAUROUARD, RENDERE A NAPOLI TUTTI I SUOI BACI  – ENSEMBLE, ROMA 2015

Nei nove capitoletti in cui è diviso il libro di Elvire Maurouard, Rendere a Napoli tutti i suoi baci, l’autrice offre ai lettori una ricostruzione storica della città partenopea a partire dalle origini mitologiche fino al Regno dei Borboni, rivisitando luoghi e personaggi che l’hanno resa grande e ammirata in tutto il mondo.

Il titolo sembra voler indicare quanto Napoli sia in credito, da parte della cultura e dell’opinione pubblica universale, di stima e affetto (e di baci!), per ciò che nei secoli ha elargito con generosità nell’arte, nella musica e nella letteratura. Un patrimonio di bellezze naturali e di sapere che è stato regalato agli uomini, e che oggi pretende giustamente di venire ricompensato.

Elvire Maurouard, nata ad Haiti nel 1971, membro della Société des Poètes français, è insegnante, giornalista, poetessa e scrittrice di saggi. Autrice di romanzi e racconti pluripremiati e tradotti in molte lingue, si è fatta conoscere dal pubblico italiano per la prima volta con questo pamphlet pubblicato dalle edizioni Ensemble.

Seguendo le tracce dello scrittore e politico francese, fautore dell’indipendenza haitiana, Alphonse de Lamartine (1790-1869), anch’egli affascinato dallo splendore della Campania e cantore entusiasta del suo capoluogo, Elvire Maurouard fonde in una prosa musicale e irruente testimonianze documentarie, ricordi personali, descrizioni impressionistiche e poesie piene di luce e colori, di eccitata e prorompente venerazione: “Napoli! La Vita! La Vita! La Vita!… // Napoli, io ti ho vista! Mi è sembrato che Dio nascesse / nel mio cuore inebriato; ho sentito vibrare il movimento del mondo, / portavo in me la luce di coloro che camminano sui sentieri della verità… // o Città Radiosa e Intramontabile… // Città di inni, camminavo nel tuo cuore / lungo il viale ombreggiato e dorato //…Mi abbagli ancora, luce torrida e infinita”.

All’entusiasmo incontenibile dei versi celebrativi, l’autrice associa un’alta considerazione per tutta la storia, il pensiero, l’arte napoletana. Esalta i filosofi come Giambattista Vico; i musicisti come Corelli, Vinci, di Capua, Jommelli, Durante, Leo, Porpora, Paisiello, Piccinni, Pergolesi; i pittori come Luca Giordano e Salvator Rosa (“pittore delle tempeste che fracassano i vascelli e sradicano le querce, della polvere, delle acque straripanti, delle mischie e del vento”); gli scrittori come Salvatore di Giacomo (“ama cullare il popolo. Lo sente nobile, fiero, degno di ammirazione, di una fierezza ostentata nelle piaghe oscure di Napoli”). Virgilio, “dolce poeta dal limpido verso”, ha la sua tomba in questa città, e qui anche Boccaccio aveva trovato nella procace Maria d’Aquino la sua Fiammetta ideale.

Napoli fonte di ispirazione per grandi artisti, meta privilegiata del turismo universale, ha fornito e ricevuto vicendevolmente prestigio e onore da chi ha ospitato, regalando gioia con la vivacità degli abitanti, con il folklore delle tradizioni, con la spettacolarità dei paesaggi e la magnificenza degli edifici. Ha sofferto invasioni ed epidemie, rivoluzioni e saccheggi, in un avvicendarsi di epoche di miserie e di splendori. “Più volte conquistata, Napoli ha conservato immutata nei secoli la propria personalità. Puntualmente fu vittoriosa sui suoi vincitori: non furono loro a soggiogarla, bensì lei ad accoglierli, sedurli, a farli suoi”.

Una scrittrice haitiana che vive in Francia ha saputo ricordarci con entusiasmo e passione la grandezza e la bellezza di una nostra città, ricca di fascino e contraddizioni.

 

© Riproduzione riservata

https://www.sololibri.net/Rendere-Napoli-tutti-suoi-baci-Maurouard.html      7 giugno 2020

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

RECENSIONI

RISI

NELO RISI, TUTTE LE POESIE – MONDADORI, MILANO 2020

 

Nelo Risi (Milano 1920-Roma 2015), oltre che poeta fu regista, come il fratello Dino e i nipoti Claudio e Marco. Laureato in medicina, si dedicò alla poesia a partire dal 1941, anno in cui pubblicò la sua prima raccolta, Le opere e i giorni.

All’attività letteraria affiancò presto quella cinematografica, realizzando otto film, vari telefilm e  cortometraggi, inchieste televisive e documentari, tra i quali l’ultimo, uscito nel 2008 col titolo Possibili rapporti, proponeva una conversazione tra lo stesso Risi e Andrea Zanzotto, allora entrambi ultraottantenni. L’operatività pratica con la macchina da presa fu determinante nel dare ai suoi versi un’incidenza visiva più che uditiva, nella ricerca di inquadrature marcate e penetranti. Cimentatosi spesso con la traduzione poetica,  Risi ebbe a occuparsi di molti autori francesi: Pierre Jean Jouve, Jules Laforgue, Guillaume ApollinaireGérard de Nerval Max JacobAndré FrénaudRaymond QueneauHenri Michaux, con testi antologizzati in Compito di francese e altre lingue 1943-1993. L’interesse per la letteratura d’oltralpe va fatto probabilmente risalire al periodo trascorso a Parigi nel dopoguerra (1948-1953).

Il recente volume pubblicato da Mondadori, Tutte le poesie, non solo traccia l’evoluzione dello stile del poeta e l’eclettico arricchimento dei suoi contenuti, ma rappresenta anche una preziosa testimonianza dei cambiamenti (sociali, etici, ideologici) che hanno segnato la storia del nostro paese dagli anni bellici fino al primo decennio del Duemila. “Un documentario sull’epoca acuto e puntuale, ricco e tempestivo”, suggerisce Maurizio Cucchi nell’introduzione, sottolineando la fondamentale caratteristica di questo autore: “Risi ha sempre preferito muovere il proprio sguardo in direzione dell’esterno, catturando così un’infinita serie di immagini utili a leggere il mondo, e praticamente azzerando la presenza di un io lirico”.

Con una scrittura discorsiva e prosastica, ironica ed elegante, nitidamente asciutta, Risi ha affrontato nelle sue raccolte temi civili ed etici, con tonalità che rifuggivano dalla retorica e dal compiaciuto estetismo, dall’evasione, dall’ermetismo o dallo sperimentalismo linguistico, optando invece per un linguaggio appassionato e radicale, a volte addirittura risentito, quando si misurava con argomenti di rilevanza morale e politica (il razzismo, il conformismo culturale, la superficialità dei rapporti umani), limpido e delicato quando trattava di ricordi familiari, amici, donne e città amate.

Già dagli anni Cinquanta i maggiori critici italiani si interessarono alla sua produzione in versi. In un articolo del 1957 sul Corriere della SeraEugenio Montale scrisse che “Risi deve aver imparato, più che dalla poesia, da certa recente pittura francese”. Cesare Garboli, in un intervento del 1958, parlava di “una poesia essenzialmente non metaforica”, definizione ripresa e ampliata da Giovanni Raboni che, nell’introduzione a Poesie scelte 1943-1975 (Oscar Mondadori), sottolineava come nella poesia risiana “il detto prevale sempre e comunque sul non detto, il nero sul bianco, la chiarezza sull’ambiguità, il piano sullo spessore, l’univocità sulla polivalenza”.

Nelo Risi vedeva nella scrittura uno strumento di impegno, soprattutto nelle raccolte degli anni Sessanta-Settanta. “Scrivere è un atto politico” affermava in Dentro la sostanza (1965), convinto che la prima intenzionalità del poeta dovesse essere la chiarezza comunicativa, nella denuncia delle ingiustizie, dei soprusi, dello sfruttamento capitalistico, della malignità gratuita nelle relazioni interpersonali.

Ne sono un esempio queste poesie: Una sola famiglia: “L’operaio ingrassa la macchina / la macchina ingrassa il padrone / entrambi si affacciano a sera / a un balcone che dà sulla fabbrica / la nostra fabbrica dice il padrone / l’operaio preferisce tacere”, Telegiornale: “Stando nel cerchio d’ombra / come selvaggi intorno al fuoco / bonariamente entra in famiglia / qualche immagine di sterminio. // Così ogni sera si teorizza / la violenza della storia”, Sotto i colpi: “C’è gente che ci passa la vita / che smania di ferire: / dov’è il tallone gridano dov’è il tallone, / quasi con metodo / sordi applicati caparbi. // Sapessero / che disarmato è il cuore / dove più la corazza è alta / tutta borchie e lastre, e come sotto / è tenero l’istrice”.

La partecipazione emotiva, lo sdegno nei riguardi della sopraffazione e dei pregiudizi razziali, rimase costante anche nelle ultime raccolte. Ad esempio, in Neri: “Impediti di esprimersi al meglio / li vorremmo a sudare per noi / in lavori di accatto // E che delimitino i loro spazi / tanti spruzzi di orina / sul territorio // Soffocati sul nascere / un nido coperto da un panno”.

“Il poeta deve muovere coi piedi ben saldi nella realtà… La poesia è un grido che appartiene all’artista come alle vittime, in questo senso è sociale e appartiene a tutti”, scriveva dando una definizione del suo ruolo, perseguito con severa e integra semplicità, nella scia dell’illuminismo lombardo di Parini, di Porta, del Manzoni della Storia della colonna infame, citata in una sezione di Dentro la sostanza (1965). Amava pertanto utilizzare materiali linguistici presi in prestito dalla terminologia tecnica, burocratica, giornalistica, proprio nella volontà di mantenere saldo il rapporto con l’esistenza quotidiana, domestica e lavorativa, di tutti.

Nei primi trent’anni della sua produzione si alternavano modalità espressive cantilenanti e popolari (come nella famosa I meli i meli i meli: “Quell’albero che mi sorprese / con i suoi rami gonfi / quanti corvi sul ramo più alto // Quel toro che si accese / per una macchia scura al mercato / quanto sangue versato alle frontiere // Quella ragazza in tuta che s’intese // prima con i francesi e i polacchi // quanti vantaggi il suo corpo tra le braccia // Quel soldato che mi chiese // la via breve oltre Sempione // quanta ansia in uno sguardo”), a una sentenziosità epigrafica, ammonitrice, spesso sarcastica (esemplarmente caustiche e beffarde sono le poesie di Sviluppo psicomotorio della primissima infanzia di un capo).

Nella maturità furono invece i temi e gli argomenti privati a prevalere, attraverso accenti più inteneriti e malinconici, e lo scandaglio dell’analisi psicanalitica. Tutta la sezione Suite a ritroso ripercorre episodi, dolorosi o divertenti, vissuti nell’infanzia. Particolari sono poi i versi, commossi e grati, dedicati alla moglie Edith Bruck, scrittrice ungherese di origine ebraica, reduce dai campi di concentramento. Vali più tu: “Vali più tu / coi tuoi piedini piatti d’orsacchiotta / coi tuoi occhi asimmetrici / col tuo codino d’anatroccola che alzo / quando bacio la tua nuca / vali più tu con tutti i tuoi malanni / i tuoi veri spaventi immaginari / con la tua contezza appresa dalla vita / (e non ti fu mai tenera!) / vali più tu indifesa di me che mi difendo / vale più un tuo sfogo del mio stare zitto / vale più un tuo sogno di una mia conquista / vale più un tuo sabath di una mia domenica / vale più la tua fame del mio appetito / vale più un tuo detto di un mio verso / vale più un tuo accento sghembo di una mia rima / vale più la tua mente fresca della mia mente libresca / vali più tu che canti la tua Tosca / vali anche più tu con me vicino”.

E ancora, in Madrigale, l’amore tra un uomo e una donna viene considerato consolazione e medicamento per le ferite della vita: Ho fatto un pieno di versi / per la traversata dei deserti / dell’amore, là dove il viaggiare / più comporta dei rischi, dove / occorre tenere gli occhi bene aperti / perché non sempre regge il cuore. // A malapena si conserva un viso / se il tempo ingoia il resto; / con un ritratto appeso non si va / molto lontano, a meno che un sorriso / una figura non venga a divorarti / con dolcezza, un modo ancora / per stare con la vita”.

Dagli anni ’90 in poi, lo stile poetico di Nelo Risi conobbe un’accelerazione formale verso stilemi più condensati e frementi, con frequenti inserti prosastici e un gergo più decisamente colloquiale, anche nell’affrontare argomenti di rilevanza culturale o scientifica, a cui dava (da “stilista dell’universale”, secondo la definizione di Giovanna Ioli) il rilievo poeticamente adeguato: “In questa fine di millennio, nel caos dei linguaggi telematici e dei manierismi tardosperimentali, nella vacuità delle pratiche individuali e dei progetti neoavanguardistici dove sta la poesia? La poesia sta dove la lingua vive”.

Così in Alea: “una serie d’eventi sfortunati (per es. / l’uso del latino o della storia senza / apprendistato) uno sbaglio di opinioni? / lo si dovrà pur rimediare, l’oggi / non è più un domani / La strada è polverosa la luce vaga / anche il tramonto è in fuga e la notte / una pietra levigata che non sia il momento / dell’antico fiume il nostro rubicone? / un ruscello e sembra un mare puro azzardo / che una volta sola è dato attraversare / un VADO O RESTO un tagliar corto / senza un amico cui consultarsi / solo con te stesso tu conosci / alternative un esito diverso?”, e in Origine vertigine: “Voce delle cose / delle onde delle piante brusii sommessi / frammenti in quel silenzio / così la musica tra due silenzi / un primo fondamento ha il seme / che dall’origine ci appartiene / è LA PAROLA un corpo fatto / della stessa carne dell’uomo / e del mondo capogiro in movimento / una vertigine dall’invisibile / al visibile che affiora”.

Alfredo Giuliani definì Risi poeta “discontinuo e ricco di sfumature”, dotato di “perentorietà tagliente anche nel contraddirsi”. La sua mai diluita bruschezza, la sua manifesta petrosità, ne hanno fatto “un impareggiabile testimone critico del secondo Novecento”, come scrive Maurizio Cucchi presentando questa fondamentale antologia.

 

© Riproduzione riservata                     «Il Pickwick», 2 giugno 2020

 

 

 

 

 

 

 

 

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RECENSIONI

AAVV – POETI GIAPPONESI

AAVV, POETI GIAPPONESI – EINAUDI, TORINO 2020

Mancava, nel nostro panorama letterario, un’antologia aggiornata ed ampia della poesia giapponese contemporanea, e l’iniziativa dell’editore Einaudi di inserire una tale accurata rassegna nella sua “collana bianca” risulta pertanto opportuna e lodevole. Il volume, con testo a fronte, comprende ventidue autori e autrici scelti fra le generazioni che si sono susseguite a partire dai nati negli anni Venti, come Ishimure Michiko (1927), fino a Fuzuki Yumi (1991): due donne ad aprire e chiudere un secolo.

L’approfondita introduzione di Maria Teresa Orsi (professore emerito dell’Università La Sapienza di Roma, e autrice di fondamentali lavori sulla letteratura giapponese) e le preziose note di Alessandro Clementi degli Albizzi, ci avviano alla conoscenza di una cultura poetica finora non abbastanza frequentata in Italia, presentandoci un ventaglio di scritture diverse negli stili e nei temi, ma sempre originali e interessanti.

Tratto comune agli autori presentati è l’utilizzo del verso libero, introdotto nella poesia giapponese alla fine del XIX secolo su imitazione dei modelli occidentali, e in seguito adottato continuativamente, in un reciproco e intenso scambio con la produzione americana ed europea, pur nel rispetto della tradizione classica nipponica. A questa compenetrazione tra oriente e occidente, era affiancata la perenne influenza esercitata sulla poesia giapponese dalla cultura e dalla lingua cinese, proficuo terreno di formazione letteraria per intere generazioni. Alla fine della seconda guerra mondiale, si impose necessariamente la volontà di rompere con un passato di celebrazioni nazionalistiche e retoriche, di esasperata liricità e simbolismi, nella ricerca di contenuti che rendessero evidente la critica ideologica a ogni fanatismo ideologico e bellico, testimoniando invece il dolore e il lutto collettivo di una nazione, la fatica della ricostruzione, il senso opprimente di disperazione e morte. I poeti nati negli anni ’30 ambivano a porre l’accento soprattutto sulle proprie esperienze individuali, accentuando la particolarità delle loro scelte stilistiche, in cui venivano privilegiati ritmo, musicalità e linguaggio colloquiale, senza trascurare una vena più ironica nell’interpretazione del proprio vissuto.

Fondamentali furono, nell’inaugurare questo nuovo indirizzo creativo, le raccolte e gli interventi critici pubblicati negli anni ’50 da Ōoka Makoto e Tanikawa Shuntarō, i quali proposero nuove e differenziate modalità di espressione, dal sonetto ai testi di canzoni, dal metro classicheggiante alla sperimentazione surrealistica. Negli anni del dopoguerra, con la veloce sterzata dell’economia in direzione di uno sviluppo capitalistico e consumistico, divennero più frequenti e vivaci i contatti con altri fenomeni artistici, dalla pittura al teatro, dal cinema alla pubblicità. A una dinamica attività editoriale volta a diffondere la poesia si affiancarono negli anni ’70 i festival, le letture in pubblico, le performance, dando un valore sempre più accentuato all’oralità, al suono, alla recitazione dei versi: in questo campo fu ed è tuttora maestro Yoshimasu Gōzō, teorizzatore di una nuova libertà sintattico-grammaticale nel testo scritto, e di un’interpretazione destabilizzante e innovativa nella proposta vocale. La sua famosa A fianco (cotes) della poesia utilizza in maniera inedita e sovversiva simboli, spaziature, caratteri tipografici, onomatopee, frantumazioni, proponendo una clamorosa rottura con la tradizione poetica orientale.

Maria Teresa Orsi presenta nell’introduzione una particolareggiata rassegna degli autori antologizzati, nei loro peculiari caratteri esistenziali ed espressivi: dal raffinato estetismo dei temi omoerotici di Takahashi Mutsuo a quelli mitologici e leggendari di Irisawa Yasuo, dalle battaglie ambientali di Ishimure Michiko a quelle politiche di Sasaki Mikirō e di Fujii Sadakazu, fino alla recente produzione che riflette sul disastro ecologico di Fukushima.

Molti testi alternano ai versi brani prosastici, utilizzando tecnicismi, slang, dialetti; altri riprendono stilemi classicheggianti e metri tradizionali, soprattutto quando tratteggiano in modi sfumati ed elegiaci il paesaggio, o affrontano concetti spirituali e atmosfere magico-religiose.

A poesie evocative e nostalgiche di ambienti familiari o di memorie infantili si contrappongono messaggi divulgativi e terminologie provocatorie degli autori più giovani, o proposte di ardua interpretazione a livello semantico e stilistico di scrittori di nicchia come Arakawa Yōji e Nomura Kiwao. Quest’ultimo così teorizzava in un articolo: “La cosiddetta poesia moderna di cui mi occupo si chiama anche poesia libera. Infatti non ha una forma prestabilita come lo haiku o il tanka, ma volta per volta si sposta senza sosta e scorre liberamente da una forma all’altra. Assomiglia all’immagine di un viandante”.

Largo spazio viene dato alla poesia delle donne, che dagli anni ’80 a oggi si è imposta in Giappone con assoluta rilevanza in termini di successo di pubblico e di prestigio culturale. Sulla scia delle istanze femministe occidentali, tra le poetesse contemporanee si è fatto strada l’interesse per l’esplorazione psicologica e fisiologica della femminilità, attraverso un uso del linguaggio istintuale e spregiudicato (Itō Hiromi, Sugimoto Maiko, Fuzuki Yumi).

Una panoramica esauriente, quindi, quella che ci viene offerta da questo volume, che propone ai lettori appassionati di poesia un secolo di storia, cultura e costume del Giappone letto attraverso gli occhi dei poeti.

© Riproduzione riservata    https://www.sololibri.net/Poeti-giapponesi.html       1 giugno 2020

RECENSIONI

HAJDARI

GËZIM HAJDARI, CRESCE DENTRO DI ME UN UOMO STRANIERO – ENSEMBLE, ROMA 2020

“Io sono un poeta messo al bando nel cuore dell’Europa, / Europa cannibale e allegra”. Con questi versi si apre l’ultimo libro di poesie di Gëzim Hajdari, Cresce dentro di me un uomo straniero, pubblicato dalle edizioni romane Ensemble con testo a fronte.

Gëzim Hajdari, nato nel 1957 in Albania da una famiglia di ex proprietari terrieri, i cui beni sono stati confiscati durante la dittatura comunista di Enver Hoxha, ha studiato all’Università di Elbasan e alla Sapienza di Roma. Nel corso della sua intensa attività di giornalista ed esponente politico dell’opposizione, ha denunciato pubblicamente i crimini della vecchia nomenclatura e dei regimi post-comunisti albanesi. Nel 1991 è stato tra i fondatori del Partito Democratico e del Partito Repubblicano della città di Lushnje, e cofondatore del settimanale di opposizione Ora e Fjalës.  Dal 1992 è esule in Italia. In Albania ha svolto vari mestieri (operaio, magazziniere, ragioniere, militare, insegnante di letteratura) mentre in Italia ha lavorato come contadino, zappatore, manovale, aiuto tipografo.

Bilingue, Hajdari scrive e traduce in albanese e in italiano, ha pubblicato numerose raccolte di poesia, libri di viaggio e saggi. Da Ensemble sono usciti già altri due libri di versi, Nûr: eresia e besa e Delta del tuo fiume, testimonianza della sua realtà esistenziale di esule e rifugiato, sradicato non solo nel vissuto personale, ma anche intellettualmente.

Orgoglioso della sua “vita profetica”, delle sue “utopie remote”, Hajdari non nasconde di covare sotto la pelle “gemiti gonfi di rabbia” per essere stato costretto a lasciare il suo paese, senza riuscire a integrarsi completamente nella nazione ospitante. Eppure in Italia ha vinto importanti premi letterari, dirige una collana editoriale, è presidente del Centro Internazionale Eugenio Montale, e viene da tutti considerato il maggiore poeta albanese vivente. In Cresce dentro di me un uomo straniero il titolo stesso ribadisce ciò che l’autore sente come una condanna: il proprio destino di emigrato, straniero a se stesso e agli altri.

Ne sono un evidente esempio i reiterati richiami alla profonda ingiustizia subita solo per il fatto di essere nato in una nazione e in un periodo storico svantaggiato, rispetto alla privilegiata situazione democratica ed economica del resto dell’Europa: “Perché mi hai fatto nascere albanese, cieco e senza memoria? // … Condannato all’esilio da un altro esilio, / lontano dalla terra del crimine. Dentro di me fuochi, spari, argilla e sangue”, “vivo alla giornata, venticinque anni in Italia / non so cos’è uno stipendio a fine mese”, “Gëzim in esilio, solo e lontano, / oltre il mare negro dell’Europa, vecchia puttana viziata!”, “Raccolgo la frutta dimenticata sugli alberi per le strade dei quartieri / di Frosinone, susine, nespole, ciliegi, pere e fichi. / Non mi vergogno di essere povero”.

L’odio per la corruzione imperante in Albania è esibito quanto il disprezzo per l’opulenza occidentale: “C’è un paese oltre l’Adriatico, / si chiama Albania, / paese castrato, misero e dannato, / con le donne sgualdrine, / gli uomini codardi, perfidi e malvagi, / figli trafficanti, assassini spietati, / killer a pagamento. // La nuova Albania sorta / sui crimini, droga, / corruzione, ruberie, / denaro sporco, / traffici umani, / contrabbando di armi. / Coloro che alzano la voce, / vengono costretti all’esilio, / condannati al silenzio, / sepolti vivi”.

Altrettanto costante è però il ricordo dolente e iroso della sua terra, di un sud arido e martoriato, degli anni bambini tormentati dalla miseria: “Ho nostalgia di passeggiare con le mani in tasca nella città di Lushnje. / Quando frequentavo le medie e il liceo vendevo il latte / delle mie capre / nei suoi quartieri, prima di andare a scuola”, “Nessun segno dall’altra costa selvatica / di varcare l’infanzia incendiata, i tetti dei miei libri in attesa”, “Nel villaggio abbandonato quasi non è rimasto più nessuno, / di notte fischia il vento e tra gli olivi spia la luna di rame”, “Il Sud è ferita, eternità, arancia matura lasciata a marcire / a terra. Il Sud scorre nelle vene, abita nel sangue, è maledizione”. Le figure della madre, del padre e dei quattro fratelli, costretti a una vita di lavori duri nei campi, rassegnati a una violenza domestica irrimediabile, si confondono con il rimpianto del poeta, fiero del coraggio dimostrato nell’emigrare, e insieme turbato dalla consapevolezza di aver tradito la sua gente, scegliendo per sé il prestigio di un ruolo intellettuale.

Come lui, tanti sono i poeti che vivono di stenti in Italia, esuli dal Brasile, dall’Iraq, dal Paraguay, dal Marocco, dalla Somalia: a tutti loro, che muoiono dimenticati e senza il dovuto riconoscimento, Hajdari dedica una lunga elegia, solidale nel dolore e nell’indignazione contro “i sottouomini / della patria delle lettere”, illustri e celebrati scrittori, indifferenti alle tragedie vissute dai colleghi in esilio.

Nella sua approfondita e partecipe prefazione al volume, Fulvio Pezzarossa definisce Gëzim Hajdari poeta delle non-patrie, che “ripercorre itinerari educativi e letterari mai ristretti al contesto privato, e sempre nutriti da valori di generosa solidarietà tra i viventi”; rapsodo di una poesia civile e popolare, dal risentito richiamo in versi a non dissipare il contributo culturale e umano che la produzione artistica degli immigrati offre al nostro paese.

 

© Riproduzione riservata            «Gli Stati Generali», 30 maggio 2020

 

 

 

 

 

 

RECENSIONI

RICO

EUGENIA RICO, STORIA DEL SILENZIO – ELLIOT, ROMA 2020 (ebook)

Eugenia Rico, nata a Oviedo nel 1972, vive oggi a Venezia col marito e la figlia. Definita da Luis Sepúlveda una delle voci più originali della narrativa spagnola, ha ricevuto numerosi riconoscimenti
internazionali e la sua opera è stata tradotta in molte lingue. In Italia i suoi romanzi, pubblicati da Elliot, narrano soprattutto di relazioni familiari e sentimentali tormentate, con un’attenzione particolare anche all’ambientazione sociale e storica.

In questa Storia del silenzio, finora uscito solo in formato digitale, Eugenia Rico si confronta con il doloroso incubo che stiamo vivendo in tutto il mondo, assediati dal virus del Covid. Incubo che, per la città in cui l’autrice abita attualmente, Venezia, è iniziato il 23 febbraio manifestandosi in una San Marco dapprima festosa e affollata, poi improvvisamente ammutolita: “Di colpo la piazza si è fermata, la folla in silenzio ha cominciato a guardare i cellulari, come la scena di un film in cui tutti eravamo comparse: il Carnevale di Venezia è stato cancellato, che è un po’ come chiudere la vita”.

Da quella data Eugenia Rico registra quotidianamente, scandendo l’implacabile e lento trascorrere di giornate tutte uguali, il diario malinconico della quarantena, nel suo imporsi a macchia d’olio dalla Cina all’Italia del Nord, alla Spagna e a tutta l’Europa, e infine a livello planetario. Uno scenario di guerra, con isolamento e coprifuoco, maschere protettive e tende ospedaliere, terrore e povertà, allarmismi e sfide provocatorie. La paura ha immobilizzato tutti, pietrificato i rapporti sociali, alzato muri di diffidenza e litigiosità: “Prima hanno chiuso le scuole, poi hanno chiuso i negozi, i bar aprivano fino alle sei di pomeriggio, i bar non aprivano, fino a quando è stato chiuso tutto. E anche noi ci siamo chiusi. La società si è trasformata in una rete sociale”. E, in questo scenario di silenzio e solitudine coatta, “Sappiamo come siamo entrati, non sappiamo quando usciremo né come”. Certo diversi, come è successo all’umanità dopo ogni cataclisma, ogni evento bellico, ogni epidemia. Migliori o peggiori, è comunque da vedersi. Senz’altro il Coronavirus ha minato dalle fondamenta i rapporti di convivenza, la fiducia negli altri, l’economia e la salute mentale, oltre ad aver ucciso persone e seminato dolore e spavento.

Le considerazioni dell’autrice sono quelle che leggiamo da mesi sui giornali, che ascoltiamo alla radio e alla televisione, che ci scambiamo in famiglia, tra amici o sui social. Diciamo e pensiamo tutti le stesse cose: anche l’originalità, la fantasia, l’ironia hanno ceduto il passo alla stanchezza, al pessimismo, all’intolleranza, ai pregiudizi.

Venezia resiste, è quasi più felice, senza turisti e trolley cigolanti: l’acqua dei canali è cristallina e si vedono saltare i pesci, nuotare anatre e cigni, i pochi residenti fissi sono diventati più amabili e solidali tra di loro… Fino a quando, però? Cosa succederà se alberghi, ristoranti, bar, le varie attività commerciali non riusciranno più a riaprire, dovranno licenziare il personale, dichiarare fallimento?

Eugenia Rico nella sua analisi alterna ottimismo e scoraggiamento, esaltazioni improvvise e prolungate depressioni, barcamenandosi nella quotidianità tra i propri impegni di moglie-madre-cittadina, e le proprie riflessioni di scrittrice intellettuale. Con l’ansia comune a tutti noi, di riprendere al più presto l’esistenza attiva del pre-virus, e la speranza in una rinascita personale e collettiva, conclude ogni pagina di diario sempre con le stesse parole: “Vi voglio bene”.

© Riproduzione riservata              26 maggio 2020

https://www.sololibri.net/Storia-del-silenzio-Rico.html