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RECENSIONI

MAGRIS

CLAUDIO MAGRIS, IL CONDE. ALLA FOCE – GARZANTI, MILANO 2020

Il racconto che Claudio Magris ha pubblicato recentemente da Garzanti, nella collana I piccoli grandi libri e in ebook, è uscito per la prima volta sul Corriere della Sera nel 1990, e in seguito riproposto dalle edizioni genovesi de Il melangolo. L’autore ha rivelato di aver tratto spunto per la sua narrazione da un fatto reale, avendo letto su un giornale, durante un viaggio in Portogallo, la notizia dei festeggiamenti e delle onorificenze conferite a un uomo anziano che da molti anni ripescava i morti da un fiume.

La voce narrante è quella di un pescatore che per anni aveva accompagnato la figura quasi mitologica del Conde (novello Caronte…) nelle sue esplorazioni acquatiche “tra la foce del Douro o dell’Ave fino ai paesi di Trás-os-montes”, con una vecchia barca fornita di funi, reti, arpioni e tute di gomma, per riportare a riva i corpi degli annegati incagliati sul fondo, e seppellirli “in terra benedetta, perché l’acqua è amara di perdizione e distrugge tutto, anche il ricordo…  era un ufficio di pietà, perché senza di lui quei morti non potevano andare né in paradiso né all’inferno”. Morti suicidi, soprattutto: per amore o per fame e miseria, stanchezza di vivere o paura di agonie più dolorose. Tra loro però c’erano anche corpi di naufraghi, persone cadute nel fiume per incidente o distrazione, altri uccisi e gettati nel buio complice e silenzioso delle onde. Il Conde parlava con rispetto di tutti i cadaveri, quando ne raccontava in paese, facendo passare per disgrazie anche le morti volontarie: con particolare pietà ricordava i bambini, che adagiava sul fondo della barca ricomponendoli nei capelli e nelle vesti madide e maleodoranti.

Tra il pescatore, il suo nocchiero, i morti e il fiume era sorta un’alleanza solidale e raccolta, che la scrittura di Magris ricrea nel suo cadenzato e lento fluire, nel tono fiabesco del monologo recitato a se stesso dal mozzo del Conde. Ogni tanto quest’ultimo (il cui padre era annegato al largo delle isole Scilly, a ribadire una specie di maledetta predestinazione) si lascia andare a memorie personali, ricostruendo mentalmente i visi delle donne amate e quello, sfigurato dalla stupidità, della ragazza menomata che gli era stata data in matrimonio, in sfregio e per scherzo. Oppure si perde in considerazioni più filosofiche, rivolgendosi al cielo (“non so se Dio sia il pubblico, il burattinaio, il bastone o qualcuno che un giorno cambierà la musica e calerà il sipario su questa mascherata idiota”) o considerando con amarezza la propria esistenza (“ma poi è solo alzarsi, dormire, grattarsi le punture di zanzara, sgobbare, legare la barca, cambiarsi la camicia e dov’è andata, intanto, la vita?”).

Finché un giorno gli succede di ripescare dal fondo fangoso del fiume il corpo di un marinaio aggrappato alla polena della sua nave naufragata: il busto di una donna dal viso dolce e rassicurante, con gli “occhi socchiusi e beati”, che aveva ingannevolmente promesso protezione e salvezza all’equipaggio.

Recentemente Claudio Magris ha pubblicato un libro illustrato dedicato proprio alle polene, che dalle prue si sporgono verso le indefinite lontananze marine, oltre la linea dell’orizzonte, simbolo di una coraggiosa sfida all’ignoto: “… sono regine che non sai cos’hanno nel cuore e non hanno cuore e per questo ti portano a perdizione. Di solito le polene guardano in alto e lontano, ansiose e atterrite, e ti fanno paura, in mare, perché pensi che vedono la morte che arriva e che tu non puoi vedere”

Il mozzo del racconto di cui parliamo, affascinato dalla lignea figura femminile, se la porta malinconicamente a casa, e la colloca sul tavolo della misera cucina, a benedire i suoi pasti quasi fosse una madonna.

 

© Riproduzione riservata           «Gli Stati Generali», 28 aprile 2020

 

RECENSIONI

GUMILEV

NICOLAJ STEPANOVIČ GUMILËV, NEL GIORNO IN CUI IL MONDO FU CREATO –  AVAGLIANO, ROMA 2020

Con la cura e la traduzione di Amedeo Anelli, l’editore Avagliano pubblica Nel giorno in cui il mondo fu creato, prima antologia italiana di versi di Nikolaj S. Gumilëv (1886-1921), autore russo di cui in Italia erano note finora solo rare composizioni. Figlio di un medico, dopo il liceo Gumilëv si trasferì a Parigi per studiare alla Sorbona: in Francia pubblicò le sue prime raccolte poetiche, collaborando a diverse riviste letterarie. Nella sua breve e intensa esistenza, ebbe esaltanti e tormentate esperienze artistiche, amorose, politiche, ed esercitò un notevole influsso sulle generazioni più giovani per la sua carismatica statura morale, e per il gusto dell’avventura che lo spinse a viaggiare in Europa e in Africa (dove partecipò a numerosi safari, collezionando prodotti dell’artigianato locale per il Museo di Antropologia e Etnografia di San Pietroburgo).

Tornato in Russia, si dedicò attivamente alla produzione letteraria, dando vita al movimento acmeista che propugnava, in reazione al simbolismo, una poesia più quotidiana, democratica e artigianale: all’iniziativa si unirono Osip Mandelstam e Anna Achmatova, che divenne sua moglie e gli diede un figlio, Lev. Allo scoppio della Prima Guerra Mondiale, Gumilëv si arruolò volontario come soldato semplice, combattendo in Macedonia e in Francia, e guadagnandosi due Croci di San Giorgio al valore e la promozione a ufficiale di cavalleria. Tornato in Russia nel 1918, si impegnò sia nella creazione del Sindacato degli scrittori, sia nella composizione di altre raccolte di versi, tra le sue cose migliori: Il falò, La tenda, Colonna di fuoco.

Nell’estate del 1921 fu arrestato con l’accusa di partecipazione a un complotto monarchico, e fucilato insieme ad altri sessanta compagni.

La sua produzione poetica si distingue sia per un ingenuo vitalismo, sia per l’interesse verso gli elementi naturali, sia per l’adesione ai temi della contemporaneità, trattati con uno stile semplice e oggettivo. Nell’antologia proposta da Avagliano, troviamo versi dedicati agli animali (“Lontano, lontano sul lago Ciad / vaga una raffinata ed elegante giraffa, // È leggiadra, armoniosa con lunghe zampe, / e sulla pelle si disegnano magici segni”), ai fiori e agli alberi (“ Sono certo che agli alberi, e non a noi, / la pienezza di vita è data intera / sulla terra benigna, sorella delle stelle, / noi siamo di passaggio, e loro in patria”), alla bellezza del creato, a santi e pittori e scrittori.

Tragiche sono le poesie riservate alla guerra, pur nell’esaltazione virile dell’atto eroico (“Come un cane a una catena pesante / la mitragliatrice abbaia dietro la foresta, / gli shrapnel ronzano come le api / raccogliendo un miele rosso vivo”, “Questo paese che sarebbe potuto essere un paradiso / è diventato la tana del fuoco, / stiamo attaccando da quattro giorni, / non abbiamo mangiato da quattro giorni”). O le meditazioni sulla morte, resa sacra soprattutto durante il combattimento: “Ci sono tante vite degne, / ma una sola morte degna / quella sotto i proiettili nella calma delle trincee”.

Invece intenerita si presenta al lettore la memoria di figure femminili amate (“Mašenka, tu qui vivevi e cantavi, / a me, fidanzato, tessevi un tappeto, / dove sta ora il tuo corpo, la tua voce, / possibile che tu sia morta!”, “Inaspettata e audace, / di una donna al telefono la voce; / quante armonie deliziose / in questa voce disincarnata!”).

Nella quarta di copertina, Daniela Marcheschi loda in Gumilëv la “ricerca poetica originale, tesa a sostituire le aure mistiche e remote della poesia simbolista con limpidezza di visione e di stile: con la parola-cosa”.

 

© Riproduzione riservata                     26 aprile 2020

https://www.sololibri.net/Nel-giorno-in-cui-il-mondo-fu-creato-Gumilev.html

 

 

 

 

 

RECENSIONI

JACKSON

SHIRLEY JACKSON, POMERIGGIO D’ESTATE – ADELPHI, MILANO 2020 – P. 32 (ebook)

In piena emergenza Covid 19, le nostre case editrici sono state costrette a sospendere la maggior parte delle pubblicazioni, scegliendo di proporre ai lettori selezioni meditate di ebook, più facilmente e velocemente acquistabili dei prodotti cartacei. Così ha fatto Adelphi, inaugurando la collana Microgrammi, presentata al pubblico in questi termini:“Abbiamo deciso di farvi leggere, in formato digitale, alcuni dei testi che avremmo pubblicato in queste settimane e che usciranno in un futuro imprecisato. Più qualcosa d’altro che non era immediatamente in programma e qualcosa che non lo era affatto. In questa serie troverete quindi racconti di vario genere, tratti da volumi più ampi, nonché brevi inediti. In un caso e nell’altro, abbiamo cercato di dare a questi minuscoli libri la forma non di un estratto, ma appunto di un libro autonomo, per quanto in miniatura. È una deformazione professionale, verosimilmente: ma ci ostiniamo a rimanerle fedeli”.

L’ultimo di questi ebook adelphiani si intitola Pomeriggio d’estate, e ospita due brevi racconti di Shirley Jackson (19161965), scrittrice e giornalista statunitense, resa celebre dal romanzo  di critica sociale La Lotteria (1948), e da L’incubo di Hill House (1959), considerata una delle più celebri storie di fantasmi del ventesimo secolo. Molto efficace nel delineare il background culturale in cui si muovono i suoi personaggi, Shirley Jackson privilegiava la rappresentazione di ambienti urbani in cui le persone vivono relazioni disturbate con il prossimo, tendendo a un isolamento che spesso suscita in loro paure e complessi di persecuzione: i suoi romanzi possono essere definiti, più che noir o gialli o horror fantascientifici, indagini psicologiche sul male oscuro di una civiltà che si affaccia alla spersonalizzazione estraniante del nascente capitalismo.

La sofferta biografia della Jackson (una madre ostile e anaffettiva, un marito possessivo e infedele, quattro figli da accudire, un aspetto fisico quasi respingente, un carattere spigoloso e introverso, la portarono ad abusare di alcol e psicofarmaci) incise certamente sia nella scelta tematica delle sue narrazioni, sospese tra sarcasmo e ferocia, sia nella sospettosa diffidenza con cui il mondo editoriale e il pubblico dei lettori circondarono la sua figura di donna e scrittrice.

Invito a cena e Pomeriggio d’estate – le due novelle presenti nell’ebook – sono tratte dal volume antologico La luna di miele della signora Smith, la cui uscita è programmata entro quest’anno. Nel primo racconto, una giovane donna ingenua e pasticciona, una sorta di Bridget Jones ante-litteram (“Mi spiego, ogni volta che cerco di fare bella figura qualcosa va storto”), sfida in una gara culinaria un affascinante e vanesio giovanotto, noto per la sua abilità in cucina, invitandolo a cena. “Hugh Talley fa lo stesso effetto a un sacco di gente: è bellissimo, in quel modo virile che funziona perfettamente nei film, ma diventa atroce se uno come lui lo incontri tutti i giorni in ufficio. Fa sembrare tutti gli altri uomini pallidi e trasandati”. Assolutamente incapace di realizzare un qualsiasi piatto appena commestibile, la protagonista viene salvata in extremis dall’intervento di una vecchietta che si incarica di provvedere sia alle vivande sia alla presentazione della tavola. Ma l’umiliazione esercitata dall’ospite, attraverso quell’atteggiamento sfottente di mansplaining che molti uomini assumono quando vogliono far pesare la propria superiorità, la induce a un sano gesto di vendetta liberatoria.

Le poche pagine di Pomeriggio d’estate introducono invece una vicenda del tutto differente, che ha per protagoniste due bambine di cinque anni, vicine di casa in un tranquillo ed elegante quartiere della middle class americana. Carrie e Jeannie giocano con le loro bambole, saltano alla corda, costruiscono “minuscole casette di foglie ed erba” a imitazione dei salotti delle loro villette borghesi, si invitano vicendevolmente nelle rispettive abitazioni, sotto la benevola attenzione dei genitori. A volte si spingono lungo i curati ed erbosi viali vicini, soprattutto per salutare una loro amichetta, Tippie, che non esce mai di casa, ma i cui giocattoli appaiono bene in vista sulla finestra, a ogni smuoversi delle tende. Come mai Tippie non esce mai di casa? Che sia malata, o in punizione, o abbia una mamma apprensiva?

Shirley Jackson ama giocare con le ombre, schernire il perbenismo farisaico statunitense, ammiccare sornionamente a ciò che sopravanza realtà e fantasia insieme.

 

© Riproduzione riservata           «Gli Stati Generali», 21 aprile 2020

 

 

 

 

RECENSIONI

BENZONI

FERRUCCIO BENZONI, CON LA MIA SETE INTATTA. TUTTE LE POESIE – Marcos y Marcos, Milano 2020

Marcos y Marcos ha da poco pubblicato in un unico volume organico tutte le poesie di Ferruccio Benzoni (Cesenatico, 1947-1997). Benzoni è stato una figura marginale, benché rilevante, nella storia della nostra letteratura novecentesca: non tanto per la qualità o quantità della sua produzione in versi, quanto invece per la sua irriducibilità caratteriale alle mode prevalenti in ambito letterario. Nato e vissuto nella provincia romagnola, da essa non riuscì mai ad affrancarsi completamente, nonostante gli anni universitari vissuti a Bologna, e animati da un attivo e fervente impegno politico nella FGCI. In uno dei primi componimenti, aveva definito profeticamente la propria stanzialità esistenziale: “Qui ho vissuto e un male d’ombre ha attecchito / qui devo finire con la mia sete intatta”.

Nella sua Cesenatico, con un gruppo di amici appassionati di poesia (“i fratellini”, come si definivano tra loro), aveva fondato una rivista semi-clandestina, “volutamente alla macchia”, Sul Porto, che a dispetto delle previsioni si rivelò presto nucleo di aggregazione e di discussione, proponendo a un pubblico sempre più ampio poeti di calibro nazionale come Pasolini, Fortini, Raboni, Giudici, Sereni. “La provincia può ancora essere una frontiera dove farsi pionieri di idee e contributi autentici e originali”, orgogliosamente dichiaravano questi giovani, che avevano fatto della poesia una ragione di vita, di incontro e scontro culturale, allargando i loro confini di intervento anche alle arti e al cinema. L’esperienza vitalizzante della rivista si concluse dopo un decennio, nel 1983, e per Benzoni iniziarono anni di delusione e prostrazione, che lo spinsero nel tunnel della dipendenza alcolica, di cui diede testimonianza nella raccolta Sguardo dalla finestra d’inverno, uscita nel 1998: “Furono il mio lager / tanto che venutone fuori (dimesso) / d’ogni cosa ebbi paura: / tornare tra la folla che si urta, le ombre surrogare nella mia. // … Notti e giorni al riparo dall’esistere”.

La sua biografia giovanile fu segnata profondamente nel 1967 dalla morte della madre, cui dedicò versi struggenti, che nella prima sezione del volume, Canzoniere infimo, vengono marchiati dal reiterato proporsi del termine “figlio”, legittimato pure all’interno di relazioni sentimentali diverse (“È insistente il mio chiedere, terribile: arte di figlio”, “nient’altro che vaghezza o / un’ossessione di figlio”, “Dunque sono solo un figlio, enfatica radice”, “per te anche / fui figlio: m’hai dato amore in cambio / di stranezza”, “a puntar spilli alle veglie io solo fui figlio”). Il richiamo alla pasoliniana Supplica a mia madre riecheggia evidente nella struttura formale di alcuni versi (“Devo dire che non l’acqua mi manca / o il pane o il letto dove sfinirsi. // … Ho voglia di cose disamorate e vive // … È dentro il tuo viso che nasce la devozione / della mia solitudine”). E a Pasolini viene riservato l’omaggio di altre citazioni poetiche e filmiche. I debiti che il primo Benzoni riconosce alla poesia italiana del secondo ’900 sono riscontrabili nella preziosità lessicale e in numerosi incipit montaliani, nei versi a gradino e nelle titubanti interrogazioni di Caproni, nella oggettiva discorsività sereniana (Vittorio Sereni fu per lui faro intellettuale e guida paterna), nell’esibita intenzionalità comunicativa di un “tu” a cui appellarsi (un tu con “valore individuale e insieme universale”, come giustamente sottolinea Massimo Raffaeli nella prefazione).

All’interno della produzione più matura, si emancipa invece dalle eredità letterarie del nostro dopoguerra, trovando una voce più decisamente sua, meno affabilmente espansiva e talvolta addirittura criptica, in uno stile più asciutto e nervoso, in una sintassi franta e complessa, in scelte formali innovative che introducono frequenti neologismi, anastrofi, paronomasie, allitterazioni (“affettata (ammetto) sfiatata / se spiove”, “Precipitando allucciolava”, “Libecciate petulanti lune”, “una luce una lucina latitava // … mi disfaceva in uno sfacelo”, “le stanghette / di similoro spettrali / per stornarti”, “in una gibigianna di / chiatte chete, bacilli, balsami”, “T’avviluppi, t’accartocci”, “e slogato snodato”, “aggallare all’alba”, ecc.). E poi l’uso frequentissimo di parentetiche e di gerundi che rimandano a un discorso sempre sospeso, volutamente aperto a soluzioni parimenti temute o sperate.

Tuttavia, ciò che più caratterizza la poetica benzoniana non sono tanto i requisiti stilistici, quanto il tono di assoluta e pudica discrezione, di rassegnata malinconia, di pacata umiltà con cui si rapporta all’esistere: cifre di un consapevole e desiderato appartarsi dal brusio confuso del mondo. Francesco Scarabicchi ne intuisce con sensibile acutezza il tratto distintivo nel risvolto di copertina: “La sua poesia era ed è il passo notturno delle ‘musiche’ di attesa e stupore, d’una arresa triste dolcezza che guarda e ascolta il quotidiano andarsene del giorno”. Poesia domestica, comunque, perché proprio nella tenerezza dei rapporti familiari e quotidiani riesce a recuperare un legame con il brulicante tepore dei rapporti umani. La mamma (“mia madre, esile filo di vita sfiorente. Ischeletrita, / arresi e grigi i capelli senza tintura, le dita / agitava ai saluti”). La zia (“Non sono per lei / un ragazzo per bene: sto fuori la notte, non rincaserei mai. //… Io la amo e fossi buono a pregare / per lei pregherei, per la poca vita di scricciolo”). La bambina che appare imprevedibile, improvviso miraggio, rimpianto di una paternità negata (“Mia figlia potrebbe essere avessi avuto cuore / allora”, “selvaggia figurina”, “una bambina cui aggiustare berretto e sciarpa”). La cagnetta Orazio (“Abituata al canile / randagia / sgranavi gli occhi ai rimbrotti / o li strizzavi / sciagurati e dolenti / timidissimamente / più che potevi / da farmi male”). Gli amori giovanili (“Ah, i tuoi capelli e come viziata li trascuri / ridendo degli specchi piccola strega e ridendo / come sai bene che a sfiorarli morirei”). La moglie Ilse, musa protettrice (“Nel verde dei suoi occhi aguzzi / riarde un mio futuro / di metrica e di vita”). Un universo tutto femminile cui aggrapparsi per continuare a sopravvivere nel confortante e banale dipanarsi dei giorni.

Nonostante il bene e il bello intravisto e riconosciuto, lo smarrirsi nel proprio inarrestabile dolore, la volontaria clausura entro confini avvertiti come invalicabili, in un continuo “deragliamento dalla vita”, è in questo poeta un lento, progressivo e inarrestabile avvicinarsi alla morte: “Ma resto solo / e vivo, picchio la testa, come vedi scrivo: / fossero viole le voci, sarei di primavera! / M’allontano invece, deraglio dalla vita”, “Verrà un crepacuore d’inverno”, “Cosa c’è tra questo paese e me / (tra questo involucro) / che tacitato infine non sia / confinato dentro un cortile. / Immagine io stesso di una camera / (piccola morgue di febbricole) / chiusa dal di dentro. / Invece d’un vetro una crepa – stucco / sui ragnateli dell’intonaco. / Ma l’anima costipata tossisce, / specie di notte, non so se d’amore”, “Riconosco – è mio – il dolore: gli faccio festa / neanche fosse un cane battuto”, “Ne morivo mia anima che accorrevi / ai brani di una giovanezza a pezzi”. Con l’angosciante certezza che “non esiste grazia senza l’orrore”, Ferruccio Benzoni ci ha lasciato una delicata e sofferta testimonianza poetica, timorosa di qualsiasi stentorea e invadente sonorità: “Torna alto il silenzio. S’invola”.

Al suo silenzio, raggiunto a soli cinquant’anni, rende omaggio questo volume curato con filologica perizia da Dario Bertini.

 

© Riproduzione riservata                «Nazione Indiana», 20 aprile 2020

RECENSIONI

NOVE

ALDO NOVE, POEMETTI DELLA SERA – EINAUDI, TORINO 2020

 

Nelle dodici sezioni in cui Aldo Nove articola il suo ultimo libro di versi, Poemetti della sera, viene offerta, con un ritmo incalzante e frantumato, una lettura del presente (privato, affettivo, familiare) che sconfina negli sterminati spazi cosmici del non-tempo, o del fuori-tempo.

Così la sua voce singola di uomo concreto, nel nascere e crescere “a Viggiù, in provincia di Varese”, con le paure e le curiosità comuni a tutti i bambini, diviene paradigma universale delle ansie e delle domande che da sempre il genere umano si pone sulla propria identità e destino: “ero le chiese, / le case, i respiri di tutta / la gente. Ero l’universo contratto / in niente e poi dilagante / nelle stanze / di ogni paese, / in ogni galassia…// non c’era / presente, / passato / o futuro, non c’era / alcun muro / o barriera… // da lì / non ci siamo mai spostati / perché non siamo mai morti / e non siamo mai nati”.

La spiritualità di cui si nutrono le poesie qui raccolte non è contrassegnata da un’appartenenza religiosa particolare, cristiana o buddhista: piuttosto si libra aerea e informe, celeste e innocente, attraversata da creature alate e nuvole, trapuntata di stelle e di sogni: in essa si smaterializza anche la morte, divenuta trascurabile e indolore passaggio da uno stato fisico a uno incorporeo: “Il giorno della mia morte / nasceranno di nuovo tutti i bambini / che sono stato, e giocheranno assieme / in tondo come è stato fino / a quando ero nel mondo… // Sarò un’aquila e un gabbiano…// Sarà bello tornare sole, / luna, / cavalletta, geranio, / uvetta… // Il giorno / della mia morte / sarà / un giorno / eccezionale. Il giorno / più bello della mia vita… // Sarà il sapere che siamo / – tutti – / un’unica / rifrazione / di Dio”.  Il Dio universale e privo di caratterizzazioni teologiche di Aldo Nove fa rima con “io”, con pensiero, cuore, libertà: in lui siamo destinati a perderci come creature mortali e a ritrovarci come esseri divini, quando Dio “sarà tutto in tutti”, come scrive San Paolo.

Se l’esistenza vera è quella in cui ci scioglieremo nel flusso indeterminato del nulla, in una specie di nirvana privo di connotazioni materiali, allora è evidente che durante la vita indossiamo una maschera: la realtà della carne è appunto apparenza, finzione o schermo, data per illuderci di una nostra consistenza, e difenderci dal terrore di non contare nulla, per nessuno (“un breve tragitto / di gioia e dolore, di meraviglia / e stupore”).

Il periodo storico attuale è “delicato”, anzi “schifoso”, un postmoderno impaurito e malato, privo di prospettive, “Vuoto / che fa sanguinare”, in cui dominano finanza e profitto, scienza disanimata e indifferenza morale. Il titolo di alcune sezioni del libro sottolinea questo rifiuto dell’oggi: La fine del mondo, Rivolta contro il mondo contemporaneo. Per salvarsi dall’abisso, e da un castrante “impero della mente” troppo razionale, ci si può aggrappare solo al sentire quotidiano, ai ricordi, agli affetti familiari. Il dialogo del poeta con le figure dei propri cari è intenso e continuamente ribadito. La madre, quindi, prima ineludibile referente di un colloquio mai interrotto (“Nelle tue vene / ancora tu sei / me… // Guarda, madre, sono / la contrazione della tua pelle / in cui il mio nome ha preso forma”), e poi i fratelli, chiamati per nome, figure amate in presenza e in lontananza.

La consolazione concessa dalla poesia è quella della cantilena che culla, dello stordimento acustico che ottunde e impantana (“Siamo stati ingannati. / Imprigionati”): Aldo Nove la rende dando alla sua scrittura una cadenza ansiosa e ansiogena, da rullio di treno veloce, da swing spezzettato in versi brevissimi, ripetitivi, echeggianti di rime baciate, di assonanze ribattute con ostinazione: utilizzando un lessico elementare e ridotto, con ostentate citazioni, inserti, prelievi da altri poeti, in un manierismo sapientemente insistito e quasi compiaciuto, che si rifà al frasario martellante del rap, o alla litania degli spiritual afroamericani (Le parole «Ti amo». / Le parole «Ti amo». / Le parole «Ti amo». / Le parole «Ti amo». / Le parole «Ti amo». / Le parole «Ti amo»).

L’effetto che gli preme raggiungere è quello di una provocazione, ottenuta accostando temi “alti”, benché ormai molto frequentati in letteratura e nella coscienza civile collettiva, con uno stile calcolatamente disturbante, nel suo procedere insieme dimesso e tamburellato, vox clamans millenaristica, amplificata nel megafono di versi sincopati.

 

© Riproduzione riservata       «L’Indice dei Libri del Mese» n. 4, aprile 2020

 

 

 

RECENSIONI

BRUNI

LUIGINO BRUNI, CAPITALISMO INFELICE. VITA UMANA E RELIGIONE DEL PROFITTO

GIUNTI & SLOW FOOD EDITORE, 2018.

 

In una recente serie di conversazioni radiofoniche nella rubrica Uomini e Profeti di Radio3 Rai, Luigino Bruni (professore ordinario di Economia politica all’Università Lumsa di Roma ed editorialista del quotidiano Avvenire) ha affrontato il tema del rapporto tra capitalismo e cristianesimo, fede e denaro, mercato e solidarietà civile. Argomenti trattati in tutte le sue numerose pubblicazioni, con effervescente vis polemica e piacevolezza di stile, secondo un’ottica manifestatamente cattolica.

In Capitalismo infelice, volume del 2018 coedito da Giunti e Slow Food, Bruni si pone due obiettivi: la contestazione dell’ideologia capitalistica (basata sull’individualismo, l’idolatria del denaro e del consumo, la negazione del bisogno, l’enfatizzazione del merito e della concorrenza, la santificazione del business) e la proposta di un nuovo modello di sviluppo, in grado di riconfigurare l’economia e trasformare il mercato in un laboratorio di virtù etiche e civili, costruendo organizzazioni bio-diversificate e riscoprendo valori comunitari responsabili.

L’autore attribuisce al capitalismo contemporaneo, così radicalmente diverso da quello degli ultimi due secoli (descritto da Saint-Simon, Karl Marx e Max Weber),, altrettanto feroce ma meno spersonalizzante, un’enorme capacità di “creazione distruttiva” soprattutto in ambito umanistico, là dove per creare merci da vendere finisce per distruggere ogni spazio di libertà personale.

Dominato dal tecnicismo e dalla finanziarizzazione, esso si presenta come ideologia globale del successo e della ricchezza, avente come dogmi la meritocrazia, l’organizzazione manageriale del lavoro, gli incentivi di produzione. Relegando le relazioni private, i sentimenti, la creatività in un ambito di non-essenzialità, privilegia nei luoghi di lavoro e della vita quotidiana rapporti frammentati, funzionali a interessi economici, elettivi e molto circoscritti tra consimili.

“La società di mercato ha bisogno di individui senza legami forti e radici troppo profonde… Le persone con relazioni interpersonali significative, con una vita interiore coltivata, sono sempre consumatori imperfetti e difficili da gestire”. Da ciò deriva la necessità di “controllare, arginare, normalizzare” qualsiasi pericolosa indipendenza di giudizio, contestazione, spirito critico di chi consuma: siamo stati svuotati di senso e riempiti di cose, con lo scopo di attivare emozioni, codici simbolici, desideri e sogni catalizzati intorno all’acquisto e al possesso.

È cambiato il concetto di lavoro, parcellizzato e privato di motivazioni personali. Il vecchio spirito calvinista del capitalismo, centrato sull’operosità e la produzione, era ancora essenzialmente e naturalmente sociale, basato sull’attività collettiva, di cooperazione e mutualità. Oggi, la parola d’ordine delle rivendicazioni politiche e sindacali sembra si stia spostando dal “lavoro per tutti”, che era il grande ideale del XX secolo, al “consumo per tutti”. L’incancrenirsi del sistema economico su se stesso ha provocato una visione riduttiva sia degli esseri umani sia dell’ambiente, e ha prodotto un isterilimento delle risorse emotive, facendo prolificare nuovi culti idolatrici, votati a feticci mercantili, a un totemismo degli oggetti da acquistare, da possedere, di cui saziarsi anche in mancanza di effettiva necessità. Da un lato ha creato estese aree di indigenza, dall’altro una bulimia fisica e psichica, un’obesità diffusa e ingorda nell’accaparramento di beni materiali.

Luigino Bruni sottolinea il fatto che a un conformismo indotto nei comportamenti si è sovrapposto un ancora più dannoso conformismo ideologico attraverso l’imbonimento mediatico (pubblicità pervasiva e condizionante, talkshow sempre più urlati e volgari, preponderanza ossessiva di temi riguardanti la salute, la cucina, il sesso, la performance).

Anche la religione ha ceduto alle lusinghe della spettacolarizzazione e della produttività, riducendo la spiritualità a merce acquistabile (le indulgenze…), e conducendo a una deriva consumistica della fede. Alle liturgie ecclesiastiche si sono sostituite ritualità laiche (team building, business school, giochi di ruolo, sessioni di escape room, meditation room, convention imprenditoriali, piece teatrali): stratagemmi miranti a intensificare la produzione e il profitto, i cui celebranti sono i nuovo leader aziendali, manager carismatici in grado di motivare i dipendenti rendendoli devoti adepti dell’impresa, in questa new age materialistica che celebra la natura spirituale del denaro.

L’autore, commentando alcune delle più note parabole evangeliche (dei talenti, dell’operaio dell’ultima ora, del figliol prodigo), suggerisce una loro rilettura non più come giustificazione dello spirito imprenditoriale e capitalistico, ma nel senso di una condanna cristiana delle ricchezze inique, del sistema economico-sociale basato sulla meritocrazia e sull’esclusione degli svantaggiati. La vera specificità del messaggio cristiano rimane infatti il primato della gratuità, della misericordia, della grazia. “Ieri e oggi le meritocrazie hanno un solo grande nemico: la gratuità, che temono più di ogni cosa perché scardina le gerarchie e libera le persone dalla schiavitù dei meriti e dei demeriti… Se oggi volessimo spezzare la spirale di ineguaglianza e di esclusione, dovremmo dar vita a politiche educative anti-meritocratiche… Nulla è più trasgressivo del dono, nulla è più libero. È trasgressivo e libero ovunque, ma nell’ambito economico i suoi effetti sarebbero particolarmente devastanti. Perché spezzerebbe le regole dei contratti, minerebbe la gerarchia”.

Se la pars destruens, più criticamente corrosiva, del libro di Luigino Bruni risulta convincente nella sua impetuosa e polemica condanna del “capitalismo infelice”, riescono meno persuasivi i capitoli dedicati alla proposta di nuove soluzioni di organizzazione economica, capaci di rispettare le libertà dell’individuo, incoraggiandone la crescita culturale e spirituale, e intensificando la solidarietà e la generosità nei rapporti interpersonali.

Nell’ultimo capitolo del volume, intitolato utopisticamente Il lavoro di domani sarà bello, Luigino Bruni immagina una rivoluzione epocale che permetta a uomini e donne di lavorare di meno, liberando tempo e spazi privati, incoraggiando la creazione di cooperative sociali in ambiti finora non abbastanza utilizzati, a partire dai beni culturali, artistici, religiosi, turistici.

L’auspicio finale dell’autore, che forse l’attuale tragico momento pandemico rende meno illusorio, è di poter adattare la metafora vegetale al sistema economico, ancorandosi alla territorialità come le piante al suolo, in una sopravvivenza sussidiaria più sobria, essenziale, resiliente e sana. Potremmo trasformarci così in un organismo collettivo pulsante, che come una foresta apporti nuovo ossigeno nelle nostre asfittiche ed egoistiche società moderne.

 

© Riproduzione riservata                    «Gli Stati Generali», 13 aprile 2020

 

 

 

 

 

 

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RECENSIONI

RAMAT

SILVIO RAMAT, UNA FONTE – CROCETTI, MILANO 1988

Queste cinquanta poesie di Una fonte, pubblicate nel 1988, sono state scritte da Silvio Ramat nell’arco di sei mesi, dal gennaio al luglio dell’81. Solo due di queste liriche sono state composte nello stesso giorno (il I aprile), molte invece in giornate contigue: infatti l’autore chiarisce, nella postfazione, di aver creduto “nel valore traente, nell’energia aggregante e autogenerativa che ha l’idea forma del poema”.

L’essere stati prodotti in un periodo di tempo circoscritto, e il fare parte di un unico flusso poetico, fa s^ che questi versi abbiano tutti uno sfondo ambientale comune: un’unica stagione dominante (l’inverno), un’ora prediletta (l’alba che sfora nel mattino), un colore ricorrente (il grigio, nelle sue varie sfumature dal bianco al nero), un paesaggio urbano e nordico, con o senza fiume (“Il fiume che manca a questa città / duole di mattina come il frammento / dell’arto reciso”).

Scritte quasi in stato di trance, o comunque “imposte” da un’inconscia pressione coercitiva (“Dettando / a me stesso invasato invischiato / in una dettatura d’abisso o / alla mia altezza”, “Questi versi paiono tradotti da altro / e magari lo sono, il testo-base / è in una lingua sospesa, la parlavano / qualcuno la parla tuttora in qualche terra sospesa”), le poesie alludono cripticamente a un messaggio di salvezza, o forse indicano con foga millenarista nella loro stessa possibilità d’espressione l’unica alternativa alla condanna del silenzio.

Il poeta è di nuovo vate, profeta, vox clamans: a lui è demandata la comprensione ultima del significato reale dell’esistenza e la rivelazione finale della sua verità agli altri. Ne è un chiaro esempio la poesia XXXIII (un’allusione agli anni di Cristo?): “Ma – fuori tema, fuori poema oggi / tocca al poeta, a chiunque s’accerti / nei suoi panni sensitivi segnato / consegnato alla febbre intempestiva – // misurare in minuti / dove i più leggono anni lo scempio / lo sbriciolarsi dell’ostia”. Il poeta è “tardivo come ogni divinante”, “demonico”, “erede / sensitivo non del fuoco, del fumo”. E ancora in XXII: “I poeti dicono la verità. / Una parte di essa duole in altri / ed è quella che dura”.

Il libro, secondo l’autore, “stringe l’essenziale dei suoi nuclei nella stessa parola-titolo”. Una fonte è infatti parole-chiave nel volume: fonte come origine, sorgente lustrale, ma anche come eredità culturale, o sollievo nel cammino, oasi nel deserto: in quest’ultimo caso collegata all’idea di palma (“Un’isola di capogiro / … una palma, una fonte”, “la fonte occulta / verso il cuore occulto della palma?”). L’albero (più spesso, appunto, individuato come palma, segno di pace, di festa, ma anche segno inquieto, interrogativo) è un altro simbolo ricorrente, come la briciola, l’animula, il sole, la caverna. In un crescendo di spessore culturale, di tradizione filosofica a sottolineare quanto più la poesia diventi messaggio, idea.

Molteplici nodi concettuali e morali vengono toccati: la partecipazione politica (“Sali – mi cercano – alla nostra corte. / Siamo dalla parte della storia ‒. / Mi danno in mano la carta più facile / per il labirinto, nessun’ombra da scansare”), la polemica letteraria (“Adesso incontrerò / qualche Innamorato della Parola, / qualche Parola che per Amore si fa / Società di Poesia”), l’esserci nella storia (“Persi, persi di vista, / slittati in punta d’ali giù dai margini / bassi del quadro, i committenti umiliati – // … chi sta in campo nessuno lo cancella”), il rifiuto dei maîtres à penser, gli “immortali” delle ultime pagine. Qui la vis polemica rasenta lo sdegno, la poesia si fa civile riuscendo a elevarsi in versi molto intensi: “Gli immortali tramontano. / Qualcuno aveva mentito, / se non loro gli agiografi, i servi”, “Il tacere, il tacere oltre il tempo / non meno che nel tempo, questa dote / inflessibile hanno gl’immortali / in vincoli. Non potrò amarli mai, / neanche se le apparenze mi trasportano / con loro, in una stessa caverna”, Il teatrino / dei dotti – pentole con strani coperchi / nel cui brodo non voglio mescolarmi – / sto fuori scena, un’altra la mia scena”.

Il rifiuto dell’apparenza, che talvolta ricalca moduli espressivi montaliani, assume qua e là echi evangelici, lascia affiorare ricordi di versetti di Marco (XLVI) e Matteo (XXXIII), parabole rovesciate (XVI), termini di indubbia risonanza (vigna, samaritana, Damasco), nell’ipotesi di un nuovo Getsemani, ma senza salvezza, senza riscatto finale (“Che cosa è in ritardo, / quanto di previsto non sta accadendoci?”)

Un libro non facile, questo di Silvio Ramat, carico di suggestioni, denso di chiavi di lettura diverse, “Un libro da avverare in mille rami”, e che merita tutto il tempo che il lettore gli deve dedicare per penetrarlo almeno in alcuni dei suoi sensi.

 

© Riproduzione riservata              10 aprile 2020

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RECENSIONI

LAMARQUE

VIVIAN LAMARQUE, UNA QUIETA POLVERE – MONDADORI, MILANO 1996

 

Nel 1996 Vivian Lamarque venne premiata dal prestigioso Pen’s Club per il libro di versi Una quieta polvere, che indicava una svolta importante nella sua produzione, una precisa e coraggiosa volontà di cambiamento contenutistico e formale rispetto ai volumi precedenti. Attiva già da un quindicennio in campo letterario, gratificata da molte e meritate attenzioni critiche, Lamarque era stata letta fino ad allora soprattutto, anche se non esclusivamente, attraverso le categorie della favola, dell’ironia, dell’analisi junghiana: elementi certo presenti nella sua scrittura, ma che non ne esaurivano il significato.

Nel volume di cui ci occupiamo apparve come una novità il tema dominante della morte, del lutto e della sua elaborazione a livello etico e intellettuale. Già dal titolo, tratto da Emily Dickinson, è evidente il richiamo alla dissoluzione finale del corpo. Nel poemetto omonimo, le nove sezioni sono scandite da immagini funebri di una presenza minacciosamente incalzante, rifiutata con terrore e quasi infantile testardaggine (“Io non voglio la morte Giardiniera / io voglio un giardino”, “io non voglio essere polvere”, “io non sono morta io sono nata”, “quando muoiono gli altri / non è come morire noi in persona”, “io al mattino voglio svegliarmi e alzarmi”), con un procedimento tipico e collaudato nell’autrice già dalla prima raccolta (Teresino, premio Viareggio nell’81), fondato su frasi lapalissiane, ribadite con ostentata e ingenua caparbietà. La morte, vissuta come buio, freddo e immobilità, è sofferta soprattutto in quanto distacco, conclusione definitiva di ogni sentire e patire, di ogni devozione e dedizione agli affetti: incomprensibile assurdità che ulcera l’anima e annulla il bene fatto e ricevuto. Da respingere, quindi, con paura e ostinazione, in nome della vita e dell’amore. Vivian Lamarque si ribella all’allontanamento, all’essere divisi in due, quando invece vorrebbe poter aspirare alla fusione totale e totalizzante.

La vicenda biografica dell’autrice offre un’evidente motivazione a questa penosa angoscia. Segnata da una serie di abbandoni già dalla nascita in provincia di Trento, poi adottata da una famiglia milanese presto colpita dalla morte del padre, in seguito vittima-protagonista di altre separazioni sentimentali, a partire da quella, fondamentale, avvenuta nel proprio matrimonio.

Nella prima sezione del volume, Madri padri figli, la storia personale dell’autrice è rielaborata con i toni fiabeschi di Hansel e Gretel, divenuti d’un tratto tragedia, incubo: la madre vera si trasforma in matrigna, il padre vero non si fa più vivo come il taglialegna di Grimm: l’abbandono diventa allora il più imperdonabile dei tradimenti, la più feroce delle violenze. La bambina cresce ferita, dimezzata, scissa: impara troppo presto a tacere e a negarsi (“Col punto erba / col punto croce / diligente si cuciva le labbra / faceva il nodo”), intuisce la sua diversità che diventa subito un marchio distintivo, promessa di infelicità futura (“Cenavo sola / o in altre case”, “Venti anni che trascina il ricordo / di quel riso bianchissimo / di una sera / da qualcuno da mangiare”, “Basta: alle dieci c’è da ringraziare / e scendere le scale”). Vivian bambina in prestito, passata da una casa popolare del dopoguerra a una colonia, a nuove e diverse case di vicini compiacenti, con la consapevolezza di qualcosa che le è stato negato per sempre (“Quei bambini in cortile / potevo essere io”). Poi l’età adulta, il marito, la figlia Miryam e una volontà inseguita affannosamente di ricreare un puzzle familiare che sapesse profumo di natali e compleanni,  di trepidazioni condivise per febbri ed esami e assilli quotidiani: invece sopravviene ancora una volta un distacco, una rottura dolorosissima (“Non mi ero separata / padre madre figlia / la famiglia continuava unita / oh il percorso bello della vita”).

La ricerca di una famiglia è anche ricerca di una casa in cui stare e ritrovarsi, ancorandosi a qualcosa di fermo e luminoso: c’è in Vivian Lamarque questa esigenza concreta di luce e pulizia, di solidità e certezza, che si rispecchia anche nella resa formale della sua poesia, riconoscibilissima nel nostro panorama letterario proprio per il suo particolare timbro di limpidezza.

Cercasi: poesie per un trasloco è la quinta sezione del volume, dedicata appunto alla ricerca di un appartamento-guscio. La casa è vista come interno che difenda e permetta di ritrovarsi (“Cercasi casa / cercasi casa con sole /… cercasi casa / con dentro famiglia”), ma nello stesso tempo metta in relazione con altre realtà (il condominio, il quartiere, la città): “Quanto cara mi è questa finestra / che mi separa, e unisce a Milano”. La metropoli di fine millennio è abitata da nuove divinità: ladri distinti, governanti sussiegose, cani viziati, piccioni e piccioni, e “Persone / che chiamano Vù Cumprà”. Soprattutto a questi “nuovi milanesi di colore” va l’intenzione dell’autrice in un ideale testamento di solidarietà.

Se è nuova nella Lamarque questa corda del “sociale”, dell’interesse per ciò che è pubblico, con una accentuata sensibilità anche verso le tragedie mondiali, più consona e sua appare invece la voce intimista nell’accenno alla pratica di analisi junghiana. Dopo tre libri dedicati allo psicanalista con cui è stata in cura per molti anni, temi e toni rimangono costanti: un minimalismo formale e di pensiero (“Sonnambulina l’amavo / leggermente stordita”, “Caro Dottore / un amore vorrei / uguale uguale / a Lei”), per cui la poetessa si fa piccola, bambina,  per essere guidata da chi può salvarla; un continuo e ricattatorio bisogno di donare per rendersi gradita (“Le ho portato / basilico rosmarino aghi di pino”); un’esibita adorazione, ingenua e auto-compatita (“Oh fossi io / la pagina di libro / che Lei / così fortemente riga”, “Io guardo / la forma del suo sguardo”, “quando Lei sarà albero / e io fogliolina / nessun ottobre / nessun novembre / riuscirà a staccarmi / scommettiamo? / dal Suo ramo”); il ricorrente pensiero della morte come separazione ma anche come unico modo per arrivare a una simbiosi definitiva (“Caro Dottore / quando La chiamerò nell’aldilà / ci sia mi raccomando / (e ci sia l’Eternità)”.

Il tema della fine, del disfacimento del corpo, conclude tutto il volume nella sezione Come i fiori, viva di una umanità dolce e dolente, di una malinconia consapevole, che tutto accomuna perché tutto si sa degno di pietas (terra, insetti, fiori): ma anche gli amici che ci hanno preceduto nell’addio alla vita, anche Pasolini, e coloro che per caso ci hanno accompagnato nel viaggio terreno (“A vacanza conclusa dal treno vedere / chi ancora sulla spiaggia gioca si bagna / la loro vacanza non è ancora finita: sarà così sarà così / lasciare la vita?”).

Una teologia della quotidianità, una metafisica degli affetti, fanno di Vivian Lamarque una voce particolare nella nostra poesia contemporanea, subito riconoscibile tra tante, che da tempo abbiamo imparato ad apprezzare.

 

 

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https://www.sololibri.net/Una-quieta-polvere-Lamarque.html              6 aprile 2020

RECENSIONI

FOREST

PHILIPPE FOREST, UN DESTINO DI FELICITÀ – ROSENBERG & SELLIER, TORINO 2019

 

Rileggere Arthur Rimbaud, e interpretarlo attraverso un’ottica non puramente ermeneutica ma di invenzione narrativa, secondo la scansione alfabetica tipica dell’abecedario. Lo fa Philippe Forest, critico letterario e cinematografico francese (Parigi 1962), che da oltre un ventennio esplora la relazione esistente tra il genere romanzesco e la realtà, contaminando analisi testuale, invenzione e autobiografia.

Forest indaga gioie e dolori, conquiste e fallimenti esistenziali propri e altrui, usando come fonte ispiratrice versi e aforismi rimbaudiani, i più noti e citati (Io è un altro; È sicurissimo, è oracolo quello che dico; M’incaponisco spaventosamente ad adorare la libertà libera; Bisogna essere assolutamente moderni; Scrivevo silenzi, notti, annotavo l’inesprimibile. Fissavo vertigini; Che cos’è il mio nulla, in confronto allo stupore che vi attende?). Non solo Rimbaud, comunque: molti sono gli autori di riferimento che Forest cita, a supporto e approfondimento delle sue riflessioni: Aragon, Bataille, Breton, Baudelaire, Eliot, Yeats, Mallarmé, Borges, Nietzsche, Verne, Mishima, l’amato Kierkegaard…

Ma è soprattutto il poeta adolescente dagli occhi celesti e interroganti, il visionario fieramente ribelle e inquieto, ad affascinarlo: “Ogni volta che sento di perdere fiducia nelle parole, apro volentieri Rimbaud, come se consultassi un oracolo, e mi fermo su frasi di cui non capisco niente e che, di colpo, prendono l’aspetto di una profezia alla quale io resto libero di dare il valore che preferisco. Sono certo che dice la verità. Sono certo anche che la verità che dice dipende unicamente dal senso che le do io”.

La parola, quindi. È proprio sul mistero dell’espressione umana che Philippe Forest pone l’accento in queste sue divagazioni, letterarie e filosofiche. Già da bambino si meravigliava del legame capace di unire le cose ai nomi, quando prima ancora di iniziare la scuola aveva imparato a leggere da solo, suscitando irritazione nella maestra e uno stupore intimorito nella mamma. La magia delle vocali colorate sui cartelloni al muro dell’asilo era già stata espressa un secolo prima da Rimbaud “A nero, E bianco, I rosso, U verde, O blu: vocali. Io dirò un giorno le vostre nascite latenti”.

Alfabeti, quaderni, sussidiari, un mondo da scoprire e inventare: “Quel bambino ero io, allevato tra i libri, e che forse li preferivo alla vita, convinto che valevano più di lei perché ne svelavano il senso”. Ecco come si snocciola l’abecedario di Forest; alfabeto, biblioteca, curiosità, dolore. E poi gloria, nulla, politica, sesso, zero.

La biblioteca tante volte frequentata ha lo stesso odore di quella universale raccontata da Borges: una Babele di lingue e significati da penetrare e di cui arricchirsi: “La storia di ogni individuo ripete quella dell’Umanità intera: dal giardino dell’Eden alla torre di Babele. Dapprima, Dio accorda all’uomo la facoltà di dare alle cose il loro vero nome. Poi subito gliela ritira per umiliare il suo orgoglio, moltiplicando le parlate in modo che una grande confusione si estenda sul mondo che ha creato. Le lingue separano gli uomini. Soprattutto: li separano da una realtà che non sanno più con che nome chiamare”.

La curiosità è l’ansia che ci spinge a seguir virtute e canoscenza: “La curiosità: il desiderio di sapere che cosa c’era prima, che cosa ci sarà poi. Come se la vita fosse un libro aperto nel bel mezzo di una storia già iniziata e destinata a continuare, di cui si ignora praticamente tutto, e non si capisce quasi niente. Perché del libro della vita, non si ha mai sotto gli occhi altro che la pagina del presente”.

Philippe Forest alterna note autobiografiche (lo straziante ricordo della sua bambina morta di cancro a tre anni, la lunga permanenza in Giappone per arricchire il proprio pensiero di nuovi orizzonti, il rapporto con il sesso e il mondo femminile, l’interesse per la fisica quantistica) con la ricerca di nuove modalità narrative, in grado di utilizzare fonti di scrittura esterne, citazioni, memorie, elementi diaristici, in uno stile che si mantiene costantemente lieve ed elegante.

 

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2 aprile 2020

 

RECENSIONI

COHEN

ALBERT COHEN, DIARIO – RIZZOLI, MILANO 1995

Di Albert Cohen, autore di romanzi intensi e bellissimi, ormai quasi introvabili, in pochi ricordano il nome, sebbene sia stato uno dei migliori scrittori europei del ’900.

Chi era costui, quindi, è da chiedersi. Nato a Corfù nel 1895, morto a Ginevra nel 1981, proveniva da una famiglia ebrea di industriali di origini greche, travolta da difficoltà economiche ed emigrata nel 1900 a Marsiglia. Dopo il diploma, trasferitosi a Ginevra per studiare diritto e letteratura, ottenne la cittadinanza svizzera. Ebbe sempre incarichi in diplomazia, che lo portarono a Parigi (dove diresse la Revue Juive, cui collaborarono Einstein e Freud), Bordeaux, Londra, Bruxelles, dapprima come funzionario della Società delle Nazioni, e nel dopoguerra presso l’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati o UNHCR. Convinto sionista, si attivò con altri intellettuali a favore della fondazione dello Stato di Israele, di cui fu poi anche ambasciatore. Si sposò tre volte: la terza moglie Bella Berkowich curò con dedizione le sue opere, fino alla loro pubblicazione definitiva in due volumi presso la Bibliothèque de la Pléiade di Gallimard (1986 e 1993). Cavaliere della Legion d’Onore nel 1970, fu sempre molto critico nei riguardi dell’aristocrazia e dei valori borghesi, della religione ufficiale e dell’ambiente diplomatico, che riteneva vacuo e farisaico, roso da invidie e ambizioni frustrate.

Diario, uscito nel 1978 con il titolo di Carnet, è stato il quarto volume tradotto in Italia, nel 1995, dopo Solal, Il libro di mia madre e Bella del Signore: testamento spirituale e sintesi altissima, rarefatta, del suo pensiero. Sono pagine “stranamente nate a capriccio dei giorni, concepite e continuate al di fuori d’ogni motivo e d’ogni piano”, imposte, quindi, da una necessità extra-letteraria, “scritte lentamente sotto una strana dettatura”, in nove lunghi mesi del ’78, tre anni prima che Cohen (già ottantaduenne ma lucido nelle analisi teoriche, dolorosamente intenerito dai ricordi) morisse. Vi ritroviamo, quasi esasperati da una passione non più dissimulabile, tutti i suoi temi, le sue figure di sempre, ma raccontate con un abbandono lirico più accentuato, con la pena di chi è certo del prossimo, inevitabile, addio da dare a una vita troppo amata.

Quindi la madre, “santa madre povertà, regina schiava, sovrana china, benefattrice, dispensatrice eterna”, in una litania di attributi che sa di liturgico e di sacro. Madre “un po’ grossina, come devono essere le madri”, umiliata in un lavoro massacrante, costretta a un’esistenza ingiusta “da farmene vergogna per Dio”, e che il bambino Albert promette di riscattare. Per lei, suo primo, insostituibile amore, lui si lava e si veste da solo, riordina la casa, “fiero di servirla, di essere il suo sguattero premuroso e sempre complimentato”. Madre e figlio vivono un rapporto esclusivo, fatto di attenzioni minime, di storie inventate per il piacere reciproco dell’ascolto: insieme scoprono l’Eterno, benedicono il suo santo nome, attenti al rispetto delle norme più severe della tradizione giudaica. Quando invece sono costretti alla separazione, il bambino si riconosce ebreo nello scoprirsi rifiutato dai compagni, condannato a recitare da solo ruoli di diversi attori nelle drammatizzazioni improvvisate, ridotto a scrivere nell’aria col dito messaggi destinati a lui stesso.

Già nello splendido Il libro di mia madre (titolo essenziale ed esclusivo per un amore essenziale ed esclusivo), scritto nel 1954, Cohen aveva reso un infervorato e dolente omaggio alla figura materna, alla fedeltà docile e orgogliosa di lei, insieme deprecando la propria boriosa disattenzione adulta e la condiscendenza infastidita di gesti frettolosi. Solo alla morte della mamma diventa consapevole di ciò che ha avuto e di quello che ha perso: allora la malinconia si fa strazio, la memoria struggimento, il bene goduto senso di colpa: “Nessun figlio sa veramente che sua madre morirà e tutti i figli si arrabbiano e si spazientiscono con le loro madri, quei pazzi così presto puniti”.

Altro tremendo e ricattante groviglio di passioni sarà quello che legherà lo scrittore affermato alle donne della sua vita, alle tre mogli, a ragazze sensuali e bellissime. Diane soprattutto, “Diane volteggiante e assolata, così nobile e alta nel suo abito veliero”, che però lo tradisce perché muore prima di lui, lasciandolo nella disperazione. Nel romanzo più famoso, Bella del Signore, uscito nel 1968, premiato con il Grand Prix du roman de l’Académie Française, Cohen intesse un inno all’amore fagocitante e distruttivo, che nel momento della realizzazione porta inevitabilmente al fallimento del rapporto, alla noia, al tradimento delle promesse: perché solo nella privazione può sopravvivere il desiderio, solo nella lontananza brucia la nostalgia.

Chi se ne va, chi abbandona, è comunque crudele, merita tutta la rabbia e il dolore dell’abbandonato: anche e soprattutto se il suo addio è determinato dalla morte. Così alla scomparsa del suo più caro amico, Marcel Pagnol, compagno di scuola poi diventato accademico di Francia, in Diario scrive parole straziate e violente: “Come perdonare a Dio che lui, che fu così vivace e allegro, non ci sia più? Me lo hanno rinchiuso in una scatola, una scatola orrenda che dei vivi indifferenti hanno sigillato, una scatola terribile, e il mio innocente dentro, una lunga scatola, e manate di terra sulla scatola, e hanno calato giù la scatola con delle corde, senza troppa attenzione l’hanno calata e deposta in fondo a un buco d’argilla, la sua ultima umile dimora. E lui non ha gridato, non ha protestato, li ha lasciati fare, ormai muto, rimbecillito dalla morte e di mutismo triste, il mio intelligente…”.

È una rivolta, la sua, che riguarda la morte di tutti, questa enorme ingiustizia a cui ogni cosa vivente è destinata: il non vivere più, il disfarsi, l’essere votati al niente. La protesta diventa allora imprecazione, bestemmia, o può trasformarsi in furiosa preghiera: “Dio, mio amato assente, mostra la Tua potenza e la Tua bontà, convertimi e fa che io possa credere in una vita dopo la morte. Dio, fa che il mio Marcel sepolto non sia venuto invano sulla terra e dentro a questa trappola. Dimmi che vive e che lo ritroverò. E adesso, basta, ne ho abbastanza di parlare con il vuoto, di rivolgermi a chi non risponde mai. Andrò a dormire, a dimenticare i miei morti o a ritrovarli”.

Il Dio di Albert Cohen si nasconde, come quello di Isaia, rifiutandosi al suo desiderio e alla sua ricerca, e poi improvvisamente gli appare, innegabile, incontestabile: “L’Eterno! Ho proclamato loro dietro la tenda della mia finestra. Voi non lo sapete, diletti, l’Eterno è! ho gridato, con gioia esasperata. Egli è, cretini miei, cari atei, Egli è! Avrete un bel dire, Egli è! E ho tenuto la mia verità come un bimbo si stringe al petto un agnellino e ho gridato che egli è, e che tutto ciò che dicono gli atei è falso, infatti Egli è! E con un tremito, un tremore io ho saputo Dio, l’Inesprimibile, l’Esistente, lo Sconosciuto, il Creatore del cielo e della terra e di mia madre. Non è come lo dicono i religiosi, ho esclamato, ma è, terribilmente, e proprio sui suoi altari i miei avi hanno bruciato l’incenso! E all’improvviso ho avuto paura della mia gioia. Dio è, lo so, ho ridetto in quella santa notte. Ma lo saprò ancora, domani?”

Il Dio di Cohen è, come quello di Pascal, “Dio di Abramo, di Isacco, di Giacobbe”, Dio ebreo, creato dal popolo di Israele, Dio dei profeti dei patriarchi e degli eserciti, della Legge e della Sinagoga. Un Dio che si è fatto destino e storia di un popolo, sua cultura: Israele è infatti popolo d’anti-natura, agli antipodi dalla naturalità animalesca, dalla potenza fisica e pagana tanto esaltata dai nazisti. Cohen è permeato di ebraicità, intesa come estrema radicalità del sentimento (si legga, ad esempio, quando afferma che, per essere grandi scrittori, è necessario farsi “pazzi del cuore”, cioè “incessantemente pronti al dolore assoluto per ogni cosa, alla gioia assoluta per ogni cosa”; o ancora quando esorta alla “tenerezza di pietà” verso gli altri, a identificarsi con loro, a essere consapevoli “dell’irresponsabilità universale, tutti comandati e determinati come siamo…”: tenerezza e pietà che, forse sulle tracce di Abraham Heschel, Albert Cohen prova anche verso il Creatore. Ma tutto ebraico è anche il severo giudizio critico, di una moralità totalmente cerebrale, che l’autore dà su vari aspetti della vita contemporanea: i buoni sentimenti borghesi, lo spiritualismo religioso, il culto esteriore per i defunti, il falso amore per il prossimo, il corteggiamento tra i due sessi.

Pagine risentite che si alternano ad altre, abbandonate e trepide: che dovrebbe assolutamente leggere chi volesse avvicinarsi a questo grande narratore lirico, composto e raffinato nella scrittura quanto dilaniato e pungente nello spirito.

 

© Riproduzione riservata               «Gli Stati Generali», 26 marzo 2020