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RECENSIONI

PISTOSO

GIULIANA PISTOSO, STORIE INQUIETE E DISORIENTATE – LUCIANA TUFANI EDITRICE, FERRARA 1996

C’è una memoria storica, pubblica, collettiva, che appartiene ai libri, ai film, ai documenti; e c’è una memoria privata, personale, che si riscopre nei diari, negli album fotografici, nelle conversazioni tra amici. A volte capita che le due memorie si intreccino, si accavallino, una apparendo più veritiera dell’altra, una sconfessando l’altra, o stranamente coincidendo.

Nel caso di Giuliana Pistoso (Verona, 1923-2005), scrittrice ed editrice veronese, i fili della memoria, politica e individuale, hanno creato un ordito compatto, in cui il privato si fa pubblico, la voce singola assume l’incisività e il peso del coro. Le sue Storie inquiete e disorientate si aprono con un’epigrafe di Gary Taylor: “Noi siamo quello che ricordiamo”, a ribadire appunto la reciproca compenetrazione tra passato e presente, il fatto che veniamo stratigrafati dai nostri ricordi. Nella prima sezione, A proposito di memoria storica, cinque racconti non nascondono l’ambizione di farsi voce collettiva nel cantare gli anni difficili dell’Italia del fascismo, della resistenza, del dopoguerra, e di un Veneto quanto mai periferico, lontano dai riflettori odierni che lo fanno protagonista attivo del miracolo economico.

Si parte con un iniziale, esilarante e amaro, Mini-dizionario veneto, in cui l’autrice si sofferma sul destino disgraziatissimo delle ragazze nate negli anni ’20, vissute tra emarginazione e omertà, pregiudizi e ignoranza, schiacciate dagli eventi bellici e da un’educazione che tendeva a farne in eterno delle minorate sotto tutela. Ecco quindi il vocabolarietto, divertente e irritato, dei luoghi comuni, dall’Avvenire (“Stai attenta a non rovinarti l’Avvenire”), a “Bellezza”, a “Intelligenza”, a “Pantaloni”; insomma di tutto un po’ quello che si addiceva o no a una ragazza perbene. Si parte da qui, dunque, per arrivare magari a scoprire che, in provincia, le cose non sono poi cambiate di molto, nel corso dei decenni. Altri racconti di questa prima sezione hanno uno spessore autobiografico più evidente, lasciando intuire una sofferenza non del tutto sedimentata. Uomini e donne in guerra, famiglie squassate da casi imprevedibili, una quotidianità messa a soqquadro da malattie, perquisizioni, violenze di ogni tipo. E una ferita (quella profonda, storica, di un conflitto che ha martoriato milioni di innocenti senza una giustificazione credibile), una ferita che diventa marchio perenne, incurabile (“E capì finalmente che era in guerra, che una parte di lei lo sarebbe stata per sempre, che non avrebbe dimenticato, davvero, non avrebbe dimenticato mai”).La seconda parte del volume (Cose così) racconta il tentativo di recuperare una normalità a lungo inibita: gli studi di giurisprudenza, contestati dall’ambiente retrogrado; la collaborazione ai periodici Rizzoli, con le invidie e i ricatti che un impegno del genere poteva destare in un ambiente ristretto e maschilista; il matrimonio e le amicizie in una città di provincia. La penna di Giuliana Pistoso sa farsi leggera e ironica nel descrivere una disinfestazione dalle pulci, o il rapporto problematico con un’ingenua donna di servizio di montagna; sa dimenticare per un attimo lo sdegno civile e i dolori di una comunità per farsi interprete di momenti ovvi, domestici, capaci di sorriso indulgente. Lo fa con il tratto che le è peculiare, un’asciuttezza e vivacità di stile che rende tutte le pagine del volume, dalle più risentite alle più pacificate, piacevoli ed eleganti. La Pistoso, oltre ad avere fondato la prima casa editrice femminista italiana, Essedue, e la rivista SEL, – importante magazine internazionale di studi epigrafici e linguistici del Vicino Oriente Antico -, è stata romanziera e traduttrice,  autrice di importanti biografie storiche (su Robespierre, in particolare) e di saggi di storia delle religioni.

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https://www.sololibri.net/Storie-inquiete-disorientate-Pistoso.html       24 marzo 2020

 

RECENSIONI

DE SIGNORIBUS

EUGENIO DE SIGNORIBUS, ISTMI E CHIUSE – MARSILIO, VENEZIA 1996

Eugenio De Signoribus è un poeta appartato, gentile, con un suo ombroso disagio nei riguardi della vita quotidiana e dei minuetti cui essa costringe: segnato da una ferita che si intuisce immedicabile, non rimarginabile, e però anche da una vocazione costante alla dolcezza, alla clemenza verso sé e gli altri. Poeta sommesso, che raramente osa alzare la voce, ironizzare, o esibirsi in dichiarazioni programmatiche: non ama i punti fermi, e non li usa. Preferisce invece i puntini di sospensione, che utilizza quasi come un marchio di riconoscimento, e sembrano voler rimandare a un non detto o non dicibile, a qualcosa che nemmeno la poesia può riuscire a esprimere. La sua è una scrittura dello scorporamento, dello spossessamento: priva di connotazioni ambientali (paesaggistiche o personalizzanti), evita anche i giochi metalinguistici, ogni sperimentalismo verbale. Se tenta un autoritratto, lo fa in negativo, per esclusione: “sono o appaio”, “fermo o infermo”, “un vivo privo di cimiero”, “non c’è nessuno qui! non sono io / quello che ha il nome sulla porta!”. Si tratteggia, insomma, come uno che “ha cambiato pelle per sopportarsi, / s’è ristretto prudente nel fortino // e non apre, smiccia dallo spioncino / la sghemba orrenda faccia del mondo”. Difficile, quindi, il rapporto con l’alterità: sia essa un io che non si sopporta, sia l’oggetto della scrittura o la scrittura stessa. Eppure la poesia rimane l’unico ponte sospeso nel vuoto, l’istmo che collega due lingue di terra altrimenti non comunicanti, la chiusa che cerca di arginare ogni impeto strabordante di violenza.

Istmi e chiuse è il titolo di un suo volume di versi del 1996, scandito in cinque sezioni, omogenee nello stile e nei contenuti, ma che vanno caricandosi, nello scorrere delle pagine, di un simbolismo sempre più alto e deciso. È proprio nell’ultima sezione, infatti, che il poeta trova un suo accento intensamente civile, là dove si fa presenza viva in una “strada di buche e di spinate”, “nel più scostato luogo”, quando “il suono del pensare s’assordisce” e “i tiranti sono tanti / i certi i cischi gli aquilanti / i granitici graticolanti / che non vedono crepe nel loro dire / ma solo, crudo o cotto, lo stare / nel lotto servile…”.

Poesia di un’asprezza che non si maschera e non si stempera, non cela in metafore la sua voglia di farsi proposta etica, e protesta, contro i tanti soloni (“i certi”, “i granitici”), e chiede invece “un varco solidale / un’altra cura della ferita”, “con la mente che vuole / immaginare un agire / e rema con forza”. Altrove, nei primi capitoli del libro, De Signoribus si muove con minore sicurezza esistenziale in una geografia dell’assurdo, fatta di “mutazioni” e “scomposizioni” (terre senza orizzonti, case sparse, fortini senza torre), in una specie di poetico e allucinato deserto dei tartari: “nessuno che ne esca o lieto vi torni, / non un’apparizione o sgranare di passi // non strappi di pelle o lancio di sassi… / chi sono i vivi di questo luogo?”

A volte, temi e toni sembrano mutati da un accigliato Proto-Isaia: “ sempre vengono a te, o dio assediato, / i cupi gladiatori, i fingitori // inginocchiati, i portatori d’orpelli”, “l’ora è notturna, la casa è rasa / al suolo, il dolo non si muove”; oppure ricalcati su litanie medievali, come la felice serie al femminile di dannate, prefiche, sacrificate, con una costante: quella di una voce, sola, che si erge profetica e pura contro la corruzione e la volgarità del tutto, e di tutti. È il destino della poesia, del poeta che osa spingere lo sguardo là dove altri preferiscono non guardare, e parla, il poeta, con l’accento straniero di uno venuto da lontano: “alzandosi sfiatano le voci presenti / solo a se stesse, schiume sonore / del mondo invaghite o insipienti… // un fiume di muri risale le menti / e la rabbia singolare resta al palo / e mostra il silenzio il detto familiare…”.

 

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23 marzo 2020

RECENSIONI

WHARTON

EDITH WHARTON, ETHAN FROME – RIZZOLI, MILANO 2018

Con l’introduzione di Harold Bloom e la bella traduzione di Greti Ducci, le edizioni BUR hanno riproposto a un prezzo modico, nella collana Grandi Classici, uno dei più meritatamente famosi romanzi di Edith Wharton, scritto nel 1911: Ethan Frome.

La Wharton, nata a New York nel 1862 e morta in Francia nel 1937, fu la prima donna a vincere nel 1921 il Premio Pulitzer con  L’età dell’innocenza. Discendente di un’antica e ricca famiglia di New York, dopo la separazione dal marito (un banchiere colpito precocemente da disturbi psichici), si trasferì in Francia nel 1907, dedicandosi alla letteratura su consiglio e incoraggiamento dell’amico Henry James. La sua copiosa produzione narrativa ebbe prevalentemente come oggetto i rapporti tra il singolo individuo e la società di appartenenza, regolata da rigidi schemi di comportamento e da una mentalità conservatrice e classista. Nel corso della prima guerra mondiale, la scrittrice si adoperò in favore dei disoccupati e dei rifugiati, ottenendo il riconoscimento della Legion d’Onore francese.

Da Ethan Frome è stato tratto nel 1993 un film diretto da John Madden e interpretato da Liam Neeson e Patricia Arquette.

Harold Bloom nell’introduzione afferma che questo romanzo breve è “la più americana” tra le storie raccontate da Edith Wharton, la più riuscita e certo la più letta: da essa sprigiona il senso tragico di un ambiente immerso non solo nel gelo e nel bianco indifferente dell’inverno, ma nell’apatia dei movimenti al rallentatore dei personaggi, nello squallore di una povertà immodificabile degli interni abitativi, nella “sofferenza cupa, insopportabile e, nel vero senso della parola, inutile” dei due protagonisti. Un dolore che permea il racconto e a cui non ci si può ribellare, trattato dall’autrice con pacato fatalismo, senza alcuna concessione alla retorica e al pietismo.

Ethan Frome si staglia nella narrazione come una figura scultorea, indimenticabile, nella sua muta rassegnazione a un destino feroce: il suo silenzio, la sua disperazione repressa e tormentata ha tuttavia la forza prometeica di una protesta contro il cielo: inascoltata proprio perché disumana. Già nelle prime pagine viene presentato nella sua consistenza fisica, cui si contrappone una reticenza verbale che produce sospetto e timore: “Anche allora, sebbene non fosse più che una rovina di uomo, egli era la figura più imponente e impressionante di Starkfield. Non era solamente la sua altezza che lo distingueva, perché i nativi del luogo si riconoscevano facilmente per la dinoccolata, longilinea figura dalla razza straniera, più tarchiata: era l’aspetto possente e noncurante che aveva quantunque fosse zoppo e ciò gli impedisse ogni passo come lo strappo di una catena. Vi era qualcosa di lugubre e scostante sul suo volto, ed era talmente irrigidito e brizzolato che pensai fosse un vecchio, e rimasi sorpreso di sentire che non aveva più di cinquantadue anni”. L’aspetto inquietante di Ethan non ne rispecchia la scalfibile emotività, la delicatezza dei sentimenti, l’espressa volontà di mettere in secondo piano i propri desideri di fronte a quelli altrui. Le vicende della sua triste esistenza vengono raccontate dai compaesani con reticente pudore, ma anche con rispettosa solidarietà: “malattie e dispiaceri: ecco cosa è stata la porzione ben colma di Ethan, fin dalla prima portata… viveva in una profondità di isolamento morale troppo vasta per potervi accedere casualmente… sembrava far parte del muto, malinconico paesaggio, una incarnazione del suo gelido dolore, con tutto ciò che di caldo e di sensibile vi era in lui ben sepolto sotto la superficie; ma non vi era nulla di ostile nel suo silenzio”.

Ethan da giovane avrebbe voluto studiare ingegneria, si interessava alla tecnica e a ogni aspetto delle scienze cui riusciva ad avvicinarsi con i pochi mezzi messigli a disposizione dall’ambiente contadino e arretrato in cui viveva, nel New England; dapprima la morte del padre, poi la demenza della madre e le difficoltà dell’azienda agricola di famiglia, l’avevano indotto a sposare una lontana parente, più anziana di lui, Zeena ‒ acida, malaticcia e rancorosa ‒, obbligandolo a rinunciare ai suoi sogni di riscatto sociale e culturale. La sua esistenza opaca e rassegnata sembrò improvvisamente rischiararsi con l’arrivo in famiglia di una giovane cugina della moglie, Mattie, tanto gentile e affettuosa quanto incapace di muoversi nella rude concretezza della cerchia parentale in cui era stata accolta. Il sentimento di attrazione reciproca che inevitabilmente nasce tra Ethan e Mattie è avvertito come colpa e trasgressione, quindi negato interiormente e contrastato negli atteggiamenti: si esprime in improvvisi trasalimenti, in impercettibili sguardi incantati, in frasi troncate sul nascere, in involontari ed emozionati contatti di mani. Quando la moglie megera, improvvisamente messa in allerta dalla propria gelosia e malignità, fingendo un aggravarsi della sua salute impone alla ragazza di andarsene da casa per lasciare il posto a una nuova domestica, i due giovani decidono di sacrificare il loro amore davanti all’invincibile dominio della cattiveria. Il loro immolarsi non si risolverà, come sperato, in un definitivo scomparire insieme nella morte, ma in un ulteriore e ancora più tragico destino comune di sofferenza.

Questa vicenda sentimentale, di un’intensità ascetica (come giustamente suggerisce Harold Bloom) trova nello sfondo sociale e naturale in cui si situa una rispondenza che la rende ancora più drammaticamente suggestiva. L’inverno e la neve del paesino di Starkfield congelano i rapporti umani, rendendoli più lenti e più consapevoli, nella maestosità silenziosa e bianca del paesaggio, nella luce implacabile del giorno, nella vastità dei boschi, nella cupezza delle notti: “Dall’altra parte della cinta di abeti si stendeva ondulata dinanzi a loro la campagna aperta, grigia e solitaria sotto le stelle. A volte il sentiero li portava sotto l’ombra di una scarpata o attraverso la sottile oscurità di un gruppo di alberi spogli. Qua e là si vedeva, lontana nei campi, una fattoria, muta e fredda come una pietra tombale. La notte era così silenziosa che sentivano la neve gelata scricchiolare sotto i loro piedi. Il rumore della neve che cadeva da un ramo carico lontano nei boschi echeggiava come un colpo di moschetto, e a un certo punto una volpe abbaiò, e Mattie si strinse vicino a Ethan e accelerò il passo”. Un passo accelerato che porterà entrambi a una rovinosa sciagura, più desiderata che involontaria.

 

© Riproduzione riservata          «Il Pickwick», 20 marzo 2020

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

RECENSIONI

FIORI

UMBERTO FIORI, CHIARIMENTI – MARCOS Y MARCOS, MILANO 1996

Che al nome corrisponda la cosa, al segno il senso, alla forma il concetto; che parlare significhi comunicare qualcosa di oggettivo, non essere fraintesi, farsi capire: è probabilmente desiderio di tutti, destinato a venire disilluso dalla quotidianità e banalità del discorrere comune. La chiarezza espositiva costituisce in genere l’obiettivo primario della saggistica, molto meno della narrativa, meno che mai, poi, della poesia: la quale fa della finzione, della metafora, dello straniamento il carattere peculiare della sua scrittura. Tuttavia, esistono poeti “espositivi”, piani, che usano un linguaggio privo di artifici: fanno parte di una tradizione collaudata, secolare, dai realisti del ’200 a Saba. Poeti il cui tratto specifico non è il gioco letterario o il lavoro sulla lingua, bensì lo sguardo che rivolgono a ciò che hanno intorno e dentro di sé. Uno sguardo da clic fotografico, intento a illuminare particolari solitamente trascurati.

Uno di questi poeti, Umberto Fiori, ha intitolato Chiarimenti un suo volume di versi dominati dalla volontà di illuminare con ossessiva insistenza, disarmante caparbietà, alcuni aspetti del reale. Fiori si interroga, ad esempio, su Il discorso e la voce, sulle parole che usiamo e sono monche, inespressive, fuorvianti: “Sono pronte, le parole. / Gli stanno in faccia / e non dicono niente”. Sui discorsi che scambiamo tra amici, e rimangono vuoti e futili, quando non addirittura offensivi, aggressivi: “Sempre un dunque ti aspetti / da quelle quattro chiacchiere, / una stretta finale, un chiarimento. / Invece, niente: a parte quando “era inutile, / non potevamo intenderci su niente. / Aveva poco senso tu dici, / loro travisano”, “Anche stasera / ognuno ha detto la sua / senza che poi nessuno, / alla fine, / riuscisse a chiarire niente. / Ma solo chi ha parlato veramente / può veramente essere frainteso”, “Dirsi quelle due cose, / con le persone, / più ci si tiene più / sembra impossibile. / A volte si sta lì davanti a loro / come i parenti al cimitero / coi fiori in mano / davanti ai marmi, alle foto”.

Questa situazione di incomunicabilità diventa disagio esistenziale, incapacità di riferirsi non solo agli altri, ma anche a se stessi: “E intanto se lo sente, il mondo, / proprio qui, / sulla punta della lingua. / Una cosa su tre / fa un verso, gli manca il termine. / Zitto, però, non ci sa stare”. Se le parole tradiscono, deludendo chi le ascolta e chi le dice, anche i pensieri e i gesti non corrispondono mai alle intenzioni, la realtà esteriore rimane incompresa e incomprensibile, non definibile, non riportabile a coordinate precise: “A soffi, a onde, / il vuoto ti viene addosso. / Sentila che ti scappa tra le gambe / e ti saluta, la verità”, “Così ce ne andiamo in giro / nei bar, sui tram: ognuno un santo mistero / messo in piazza, un esempio / che nessuno può seguire”, “Giù, giù, sul fondo / si va, dove le cose / ‒ tutte – sarebbe uguale / se non ci fossero mai state”.

Chi scrive rimane stranito, estraneo, incapace di definirsi in un ruolo preciso: “Si sta col cielo, qui, / e con la terra, / come per strada i piatti / col frigo e le piante grasse / per un trasloco”, “Sentivo, ora, che loro – alle mie spalle ‒ / erano fatti della pasta del mondo, / solida, chiara. E io, di niente”, “Tre case / stanno là, sopra il ponte, / belle come un saluto. / Solo a loro io bado / qui, con le mani in mano, / con l’occhio del pastore / che da lontano conta le sue capre”.

Averlo, l’occhio del pastore, concreto, fattivo, e capire le cose, sapersele spiegare nella loro semplicità. Riuscire a chiarire ciò che esiste sarebbe, secondo Umberto Fiori, il dovere (un imperativo filosofico, quasi) del poeta. È un assunto contrario a quanto scriveva Giorgio Caproni, che non nel chiarimento, bensì nel confondimento indicava la missione di chi scrive versi: “Imbrogliare le carte, / far perdere la partita. / È il compito del poeta? / Lo scopo della sua vita?”.

 

© Riproduzione riservata        https://www.sololibri.net/Chiarimenti-Fiori.html      19 marzo 2020

 

 

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BARBARINO

LINDA BARBARINO, LA DRAGUNERA – IL SAGGIATORE, MILANO 2020

Sulla scia della più consolidata narrativa siciliana (che va da Camilleri a Silvana Grasso, da Simonetta Agnello Hornby a Silvana La Spina e a Emma Dante, risalendo fino a Bufalino, Sciascia, Pirandello e Verga), Linda Barbarino – insegnante di lettere a Enna – propone in questo suo primo romanzo, La Dragunera, uno spaccato ambientale fitto e irto di personaggi, paesaggi e termini siculi, in cui si muovono protagonisti molto carnali e passionali, animati da gelosie, ossessioni, credenze e fobie ancestrali.

Cominciando dall’analisi del lessico, possiamo offrire al lettore uno stringato esempio dei tanti vocaboli presenti in ogni pagina del libro, che se non sono sempre facilmente interpretabili nel significato, risultano comunque molto espressivi dal punto di vista fonetico. Aggettivi come annirbato, immiruta, ntrusciato; sostantivi quali babbasunazzo, vanedda, catoio bummuli, cuticchie; e i verbi, sempre allusivi a moti fisici e dell’animo frastornanti, agitati: sciaurare, cupunare, azziccare, acchianare, spatuliare…

La vicenda si annoda intorno a un triangolo passionale e familiare intricato e primitivo, raccontato con tonalità che sfumano dalla visionarietà alla visceralità incontrollata. Il primo personaggio a comparire nella narrazione è la più procace e ricercata prostituta del paese di Suriano, Rosa Sciandra: “Rosa Sciandra avrebbe dato qualunque cosa per tornare nella casa di quand’era carusa… Osserva le cose che si è guadagnata col suo mestiere di buttana, una per una: la credenza, le sedie, la poltrona sfondata”.  La casa poverissima dell’infanzia è stata sostituita da un alloggio altrettanto squallido, dove riceve i molti clienti che la cercano, giorno e notte, e che soddisfa con rapida indifferenza e malcelato disprezzo. “Solo con Paolo è diverso”; di lui, che lavora le vigne di famiglia, è innamorata in maniera cieca e possessiva, non limitandosi ad appagarlo sessualmente, con ritualità fantasiose e avvincenti, ma coinvolgendolo in confidenze sui problemi familiari e lavorativi: “Marito e moglie che si muovono e scangiano parole casa casa, così parevano”.

In realtà Paolo non può e non vuole aderire completamente ai desideri di Rosa, pur soffrendo di “quella gelosia di mascolo che la considerava cosa sua, la faceva creta e cosa liquida”: perché è innamorato della cognata, moglie di suo fratello Biagio: “Una che si capiva subito era meglio starci lontano, una strega, coi capelli rizzi e niuri come scursuna nturciuniati. Al paese si diceva che era magara, ntisa la Dragunera, così la chiamavano, come la tempesta di vento e acqua”. “Magara”, cioè maga, fattucchiera: come sua madre e sua nonna, entrambe capaci di sortilegi che portavano sciagura e morte. Ma sensuale, occhi verdi come un ramarro, “una statua di marmo pareva, la femmina del diavolo: le cosce scolpite, i fianchi, le minne disegnate perfette…”. Era riuscita a farsi sposare dal fratello di Paolo, flaccido timido inetto, pur di entrare nella famiglia avvantaggiandosene economicamente. La scena di seduzione in cui la Dragunera pigia l’uva nel tino, di notte, stordendo ed eccitando Paolo con beffarda provocazione, è descritta da Linda Barbarino con la pregnanza visiva di inquadrature filmiche che rammentano l’arte ammaliatrice di una Mangano, di una Loren nel cinema neorealista. Una Lupa verghiana, felina e satanica, una circe rurale, questa Dragunera, a cui si oppone, altrettanto famelica e rabbiosa, la buttana Rosa: tutt’e due artigliate, brancicanti il corpo scultoreo dello stesso uomo. Che non riesce ad allontanarsi da loro, nonostante i genitori gli apprestino un matrimonio con Nunziatina, una donna brutta dentro e fuori, ma rispettata e di solide rendite. Pur sposato, e perché infelice, Paolo torna a cercare la prostituta, a patire il fascino della cognata magara, che quando lavorava i campi “sapeva di rosmarino e terra”: lui, travolto dalla passione, tarantolato da chissà che sortilegio, non diventa tuttavia la vittima sacrificale della storia. Perché a immolarsi sarà la figura più fragile.

In questa cavalleria rusticana moderna, le pagine dedicate all’infanzia orfana di Rosa, alla vendemmia in paese, al matrimonio grasso e triste di Paolo, all’esistenza grama dei vecchi, sono rutilanti di colori, visioni, invenzioni linguistiche tali da rendere il romanzo di Linda Barbarino tra i più originali apparsi negli ultimi anni.

 

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https://www.sololibri.net/La-Dragunera-Barbarino.html       18 marzo 2020

 

 

 

 

 

 

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ARISTOFANE

ARISTOFANE, LA FESTA DELLE DONNE – GARZANTI, MILANO 2020

Con una puntuale prefazione di Filippomaria Pontani, Garzanti ripubblica La festa delle donne, commedia che Aristofane portò sulla scena nel 411 a.C., in un periodo delicato della storia di Atene, in guerra con Sparta da oltre vent’anni, e preda di turbolenze politiche che nel giro di pochi mesi l’avrebbero portata alla momentanea caduta della democrazia e all’instaurazione dell’oligarchia dei Quattrocento. Questo testo ci è stato tramandato da un singolo manoscritto medievale, vergato nel X secolo a Costantinopoli, e conservato nella Biblioteca Classense di Ravenna. Si tratta di un atto unico recitato in occasione delle Tesmoforie, una festa autunnale dedicata alle dee Demetra e Persefone, a cui potevano partecipare solo donne nobili e sposate, con una serie di processioni, riti segreti, canti, digiuni e rappresentazioni sacre.

In questa pièce, dalla vis comica particolarmente mordace, viene discusso il ruolo delle donne nella vita pubblica della città, con riferimento alla perenne guerra tra i sessi. L’intenzione di Aristofane non è però di denuncia politica, bensì di satira contro un unico obiettivo culturale: Euripide, il più famoso tragediografo dell’epoca, accusato di empietà, scarso amore di patria, corruzione dei costumi. Euripide, nell’invenzione aristofanesca, deve difendersi davanti a un’assemblea di donne riunita nel tempio (parodia dell’ekklesía ateniese), in cui si contestano i contenuti denigratori delle sue tragedie nei confronti del sesso cosiddetto “debole”. Non lo fa in prima persona, ma affida l’arringa a un suo parente, camuffato in vesti muliebri, il quale tenta di controbilanciare le accuse inviperite delle protagoniste sottolineando anche le colpe e i difetti che si annidano negli animi e nei comportamenti femminili.

Una delle più esagitate rappresentanti dell’accusa, Mica, così parla del massimo autore teatrale greco: “Mi alzo a parlare non per ambizione, donne, lo giuro in nome delle dee: ma davvero da tempo non sopporto di vederci infangate e sputtanate da Euripide, quel figlio di erbivendola: subiamo offese a iosa, e d’ogni tipo. Di quali oltraggi non ci copre? E quali calunnie ci risparmia, niente niente che abbia un coro, gli attori, e un po’ di pubblico: ci definisce adultere, ninfomani, ubriacone, ciarlone, traditrici, poco di buono, male immenso ai maschi”. Altre voci singole di donne, e il coro intero, si esprimono con giochi di parole equivoci o scurrili, parodiando personaggi e contenuti dei drammi euripidei, bersaglio polemico di Aristofane, che non ne apprezzava la mancanza di fede negli dèi, la morale libertaria, la eccessiva giustificazione delle debolezze umane, l’esibito intellettualismo.

Non ci troviamo di fronte a un manifesto di rivendicazioni femministe: il tono della commedia è leggero e spumeggiante, nella conclusione rappacificante che ammette le reciproche manchevolezze nei rapporti tra i due sessi. Ma anche nell’orgogliosa sottolineatura del coraggio, della generosità e dell’onestà che caratterizza l’esistenza di mogli e madri, attente custodi dell’economia domestica. Così il coro può affermare con fierezza: “Adesso, perbacco, lodiamo noi stesse, benché dicano cose tremende del sesso muliebre: noi saremmo rovina degli uomini, fonte perenne di discordie, di lotte intestine, di guerre e dolori. Ma se siamo davvero un disastro, perché ci sposate, ci vietate di uscire, di mettere il naso di fuori, e volete a ogni costo tenervi ben stretto il disastro? Se una donna va fuori e tornando scoprite che è in giro, impazzite di rabbia, anziché rallegrarvi e gioire constatando che è uscito, il disastro, e non circola in casa…”

Insomma, uomini che si lamentano a torto, che sfruttano e ridicolizzano, ma poi non riescono a fare a meno delle loro insopportabili compagne.

 

© Riproduzione riservata                  17 marzo 2020

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RECENSIONI

BAUDRILLARD

JEAN BAUDRILLARD, LA TRASPARENZA DEL MALE – SUGARCO, MILANO 2018

Nel 1990 Jean Baudrillard (1929-2007) pubblicò in Francia una raccolta di saggi, come sempre acuti e provocatori, intitolata La trasparenza del male, più volte riproposta in Italia fino a quest’ultima edizione di Sugarco del 2018.

In questo volume, è l’articolo iniziale ad assumere un rilievo filosofico fondamentale, nel suo porre quesiti ineludibili alla riflessione etica sulla società contemporanea. L’orgia come momento esplosivodella modernità, determinato dalla liberazione (avvenuta a partire dagli anni ’60) di tutti gli impulsi consci e inconsci, individuali e collettivi. Liberazione politica, sessuale, artistica, con la conseguente sovraproduzione di modelli materiali e comunicativi, ideologici ed edonistici, svincolati dal reale. Tutte le varie categorie della modernità arrivarono alla deflagrazione, aprendosi a un cambiamento continuo, e quindi all’indeterminazione e all’incertezza. Il crollo dei valori, delle fedi e delle ideologie, comportò un disorientamento nei comportamenti individuali e collettivi, poiché lo stesso senso della realtà risultava diluito e fortemente ridimensionato. Un’orgia, quindi, di sensazioni e condotte individuali non più sottoposte al vaglio della razionalità, ma obbedienti alle direttive fornite dai media mondiali, direzionati da interessi economici sovranazionali che hanno mercantilizzato anche le relazioni umane.

Se tutto è per tutti simultaneamente politico, sessuale ed estetico, ecco che non esiste più politica come mediazione, sesso come amore e piacere, arte come bellezza. Non esiste più avanguardia perché non c’è nulla da anticipare, né informazione obiettiva poiché ogni avvenimento si trasforma in spettacolo, non produzione ma solo ri-produzione. Qualsiasi espressione supera sé stessa, arriva all’oltre, al “trans” e al “post”. L’arte e la critica dell’arte sono scomparse proliferando i loro segni all’infinito, riciclando forme passate e attuali, eliminando qualsiasi criterio di giudizio: tutto è arte, quindi niente è più arte.

Alla stessa maniera, tutto è sessualizzato e indifferenziato nel rapporto fisico tra i corpi: al desiderio si è sostituito il consumo della pornografia (anch’esso arrivato all’eccesso bulimico), alla cura dell’aspetto l’idolatria del look. E nella gestione del potere finanziario si è arrivati allo stesso sdoppiamento, tra economia reale e economia fittizia; intrappolati come siamo tra speculazioni bancarie, debiti insolvibili, nazioni intere in deficit, inflazione e disoccupazione. Persino lo sport non è più un’attività disinteressata, ma programmata per superare record, per distruggere gli avversari, per esaltare fino all’ossessione la propria forma fisica.

Quale ruolo rivestono, a questo punto, internet e la rete, nella creazione dei modelli culturali? “Il successo fantastico dell’intelligenza artificiale non proviene forse dal fatto che essa ci libera dall’intelligenza reale, dal fatto che, rendendo ipertrofico il processo operativo del pensiero, ci libera dall’ambiguità del pensiero e dell’enigma insolubile del suo rapporto col mondo?” La macchina pensa per noi, decide per noi.

Cos’è allora, oggi, il male? Da dove viene, come agisce, con quali finalità? Sulla malattia (tema oggi attualissimo!) e sul terrorismo, Baudrillard scrive pagine addirittura profetiche, quando afferma che le difese messe in atto dalle società progredite sono addirittura controproducenti. I “fenomeni estremi”, come li definisce, sono i soli capaci di attirare l’interesse della gente. Per vincerli, per superarli, per disarmarli, dobbiamo rimettere in gioco tutti gli scenari possibili, reali o virtuali, riproponendo l’utopia di una liberazione dal male capace di usare le sue stesse armi, spuntandole.

“Abbiamo portato nel resto del mondo abbastanza germi, abbastanza malattie, epidemie e ideologie nei confronti delle quali era privo di difese; sembra ora che con un rivolgimento ironico delle cose siamo noi oggi senza difese di fronte e un infame piccolo morbo arcaico”.

Negando il male, espellendolo dai suoi confini, l’occidente l’ha reso più contagioso: candeggiando la propria violenza, mimetizzandola retoricamente in un farisaico buonismo generalizzato, l’ha in realtà potenziato. E in qualche modo, ora il male si vendica, in totale trasparenza.

 

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//www.sololibri.net/La-trasparenza-del-male-Baudrillard.html           10 marzo 2020

RECENSIONI

ANEDDA

ANTONELLA ANEDDA, NOMI DISTANTI – EMPIRIA, ROMA 2006

Antonella Anedda è poeta, critico letterario, traduttrice che non ama le amplificazioni, e il suo tratto distintivo nella scrittura sembra essere invece la delicatezza, la leggerezza con cui si avvicina alla pagina. Aborrendo l’enfasi, l’irruenza, non riconoscendosi nell’ironia o nei calembour linguistici, la sua prima esigenza è etica: il confronto con la parola, lo scavo, l’approfondimento che tuttavia non violenti, non coercizzi in alcun modo il testo. Nomi distanti raccoglie “non esattamente versioni, non esercizi, non variazioni. Libere versioni? … Risposte da lontano”. Echi di poeti amici, ascoltati in silenzio, per recuperare e rendere “l’essenziale di ciò che sembra inesprimibile”.

Se la traduzione è insieme la più umile e la più presuntuosa delle arti, Anedda cerca per sé un nuovo ambito e ruolo, “una terza voce in un terzo spazio”, tra l’originale del poeta e il contraffatto per eccesso di fedeltà del traduttore. Prendendo l’avvio da un verso, anzi dall’emozione provocata dal verso di un poeta lontano nello spazio e nel tempo, vicinissimo nel pensiero, l’autrice ricrea un suo universo di suoni e immagini; risponde a un richiamo imperioso, lascia che in sé transiti e fermenti, e infine si esprima in una sua autonoma e individuale voce.

I poeti prescelti parlano tutti differenti lingue (Tjutčev, Mandel’štam, Cvetaeva, Brontë, Pound, Herbert, Jaccottet), abitano diversi dialetti (Loi, Doplicher, Noventa): ed è appunto da questa estraneità che Anedda riceve l’invito alla riappropriazione, alla reinvenzione del testo. Se Osip Mandel’štam scriveva in una poesia potente e diretta come un pugno nell stomaco “Parlava con me il mio paese, / mi dava corda, mi faceva la predica, non mi aveva letto”, ecco che lei inventa una visionarietà pacata e ricca di echi biblici, folclorici, favolistici (“Non parlava con me il mio paese / non mi leggeva… / Mi ha dato tempo e notte. / La voce si è levata prodigiosa / dimessa, nel secolo che cresce sul millennio / né lupo, né scoiattolo, non una bestia in fuga…”). E ancora, il Poema della montagna di Marina Cvetaeva, nella sua stentorea durezza, diventa pretesto in Anedda per una preghiera intimista rivolta all’altro da noi, che si allontana e insieme ci allontana da noi stessi, sullo sfondo di un paesaggio rarefatto, poco partecipe e antico, immutabile.

“provo a trattare la vita con lentezza”: è in questo splendido verso la chiave, forse, di interpretazione della poesia di Antonella Anedda, e nel reiterarsi di espressioni quali “cautela”, “distacco”, “pazienza”, “mancanza”, tutti termini che indicano in qualche modo una volontà di controllo, di autodifesa, il timore di un’adesione più piena al semplice esistere. Ma in realtà, al di sotto di questa esitazione, si intuisce una forza difficile da domare, sia negli incipit delle poesie, sempre memorabili (“Scrivere è terribile / con orrore lo spazio si misura / nel vuoto di parole che battono a distanza”), sia nella ricerca severa di precisione con cui definire esattamente l’oggetto della poesia.

Stranamente e senza nessuno stridio, in Anedda la leggerezza si concilia con la dolcezza, la precisione con l’indeterminatezza, la descrizione del particolare esterno con l’introspezione più acuta: e il dolore più immedicabile con la sospensione miracolosa di ogni sofferenza. “Lasciami parlare del dolore / da te a me; scavato fino al fondo. / Anche questa è altezza / lascia che la misuri, qui, dalla terra / in giù, dal cielo al fuoco. / Uguale è il nero squarcio, uguale. / Solo, non un sussulto / ma un brusio di foglie, di animali / giù fino al gelo / per capire, per accrescere il peso”.

Abbiamo a che fare con una poesia nutrita di dolore, che nel dolore trova la sua linfa: in cui testo e vita si tengono reciprocamente a bada, chiedendosi l’un l’altro di non farsi troppo male.

 

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https://www.sololibri.net/Nomi-distanti-Anedda.html     6 marzo 2020

 

 

RECENSIONI

YEHOSHUA

ABRAHAM B. YEHOSHUA, CINQUE STAGIONI – EINAUDI, TORINO 2007

“La moglie di Molcho morì alle quattro del mattino, e con tutto se stesso Molcho si sforzò di individuare il momento preciso di quella morte, così da inciderlo dentro di sé, perché lui voleva ricordare”.

È la prima frase di Molcho, titolo ebraico del romanzo di Abraham Yehoshua, che Einaudi ha proposto in una raffinata traduzione e con un diverso titolo italiano, Cinque stagioni. Tante sono infatti le scansioni in cui si suddivide materialmente il volume, da un autunno all’autunno successivo del primo anno di vedovanza del protagonista. Molcho è un mite impiegato statale di Haifa, ebreo osservante anche se non ortodosso, dalla bella faccia orientaleggiante e dall’incipiente pinguedine, che a 52 anni si ritrova stordito e scorticato dopo la morte della moglie, avvenuta in seguito a un tumore al seno che l’ha tormentata per sette anni. Nel corso della malattia, Molcho segue la sua compagna – un’intellettuale molto rigida e critica, di origini tedesche, che è stata la sua prima e unica donna – con una devozione e una competenza ossessiva, pignola, al punto che qualcuno gli rimprovererà, in seguito, questa sua morbosa fedeltà al male come un lento, inesorabile uxoricidio.

Molcho vive quindi con disorientamento, ma anche con sensi di colpa, timori assillanti del giudizio degli altri e blocchi emotivi, il peccato imperdonabile di essere sopravvissuto a lei. Desideroso di recuperare sentimenti e rapporti cancellati nel lungo periodo della sua dedizione al progredire del cancro, si aggrappa a ciò che gli resta: tre figli quasi adulti, verso cui sente crescere un’incomunicabilità fatta di delusioni reciproche, di vicendevoli intrusioni e sospettosi spionaggi, una madre lontana ma incombente, la suocera ottantaduenne che, in virtù della parentela strettissima con la moglie morta – considera più vicina di chiunque altro. I riti che Molcho mette in atto per riappropriarsi di se stesso e del mondo sono gesti minimi e banali: la riscoperta della natura, del mare e del deserto, il perdersi tra la folla, l’ascolto catartico della musica, l’osservazione maniacale di proprio sesso, mortificato dalla perdurante mancanza di desiderio.

Ma ciò che più lo ossessiona nel suo lento ritorno alla vita sono i rapporti con le altre donne, incoraggiati e favoriti dagli interventi impiccioni di parenti e amici. Il fantasma della moglie lo perseguita, si insinua in impietosi confronti fisici o in illuminazioni fulminee: “le donne gli parevano tutte molli e stanche e piene di difetti, ma a volte il suo sguardo catturava anche particolari anatomici così belli da fargli venire le lacrime agli occhi… Pensava: – se solo fosse possibile prendere pezzi separati, di qui una gamba e di là i capelli, una spalla o un sorriso, e costruire, come in un collage, una donna da poter tentare di amare davvero -”.

Aldilà del sogno, Molcho si scontra con una realtà deludente. Tenta un approccio con una vedova, funzionaria di grado superiore al suo, e vive con lei un viaggio a Berlino che potremmo definire fantozziano, da quanto i suoi impacci e le sue esitanti premure sortiscono a effetti di comicità grottesca. In seguito, un amico ritrovato gli propone di sposare la moglie che lui intende ripudiare in quanto sterile, e Molcho se la prende in casa, questa sua antica fiamma liceale incanutita e rinsecchita, intenerendosi al pensiero di una confidenza recuperata (il sonno di lei nell’altra stanza, due spazzolini nello stesso bicchiere: ma ancora una volta il tentativo si blocca per la timidezza di entrambi. Una nuova ipotesi di convivenza accarezza l’inconscio di Molcho quando deve accompagnare in Europa, su incarico della suocera, una giovane profuga russa con cui si intende a gesti; e ancora si lascia commuovere da questo donnino goffo e animalesco, e si strugge di malinconia quando lei viene riaccolta in patria. Ma è solo una bambina undicenne conosciuta in un villaggio di Galilea, durante un’ispezione di lavoro, che davvero arriva a turbarlo e  a tentarlo; una bambina strabica e esile “che lo conduceva con una durezza fiera e gentile al tempo stesso, e si chiese perché ne era così affascinato: – È come se mi fosse entrata nel sangue, si disse, ma è una pazzia -; e d’un tratto lo invase un pensiero selvaggio anteriore al sesso: mangiarla, masticarne la carne; e i denti quasi gli batterono e quel pensiero lo fece un po’ ridere ma anche lo spaventò e lo depresse”.

È forse il simbolo del nuovo Israele che sta per nascere, inquieto e multirazziale, questa magra bambina di origine indiana, che vive là dove la convivenza tra arabi ed ebrei s fa più inquieta, e le tracce della guerra col Libano incombono minacciose. Le donne sono qui testimonianza di un ambiente e di una cultura scissa tra oriente e occidente, tra fanatismo religioso e miscredenza, una zona franca per la narrativa moderna, che Yehoshua esplora con risultati di notevole interesse.

La storia di Molcho, e del suo primo anno di vedovanza passato senza riuscire a sfruttare la nuova libertà, senza nemmeno poter baciare una donna, si chiude con il suo ritorno a Haifa, dove trova la suocera morente, e decide di non assistere al trapasso di lei, rifiutando un coinvolgimento sempre più penoso, e scegliendo invece di andare incontro alla vita, a nuove emozioni, magari a un amore più grande.

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https://www.sololibri.net/cinque-stagioni-Yehoshua.html     5 marzo 2020

«Gli Stati Generali», 14 giugno 2022

RECENSIONI

CENI

ALESSANDRO CENI, 77 – HELICON, AREZZO 2019

 74 poesie edite + 3 inedite: settantasette sono le poesie raccolte nell’auto-antologia di Alessandro Ceni, poeta-pittore-traduttore nato a Firenze nel 1957. Ceni ha vinto numerosi premi letterari, esposto i suoi quadri in note gallerie, e tradotto classici anglo-americani per le più importanti case editrici italiane: ma vive appartato ed estraneo a conventicole culturali nella vecchia casa di famiglia a Pian dei Giullari, sulle colline fiorentine; sposato, con due figli. Nei suoi versi alcuni critici hanno voluto leggere l’influenza della poetica di Walt Whitman e di Dylan Thomas: in realtà, la sua scrittura mantiene un’impronta originale e fedele a se stessa da più di trent’anni, e sostanzialmente atipica nel panorama letterario italiano.

Settantasette si presenta come una raccolta acquatica, erbosa, ventosa, avendo per lo più come sfondo un ambiente fatto appunto di fiumi e torrenti, di prati e piante, di elementi atmosferici e cosmologici. Ma non è certo un sentimento panico di immersione nella natura quello che contraddistingue l’atteggiamento del poeta, poco incline alla nostalgia retorica verso la genuinità idilliaca della vita campestre. Piuttosto, l’aspetto che caratterizza la sua posizione di osservatore distaccato e disincantato dell’ambiente circostante è l’interesse per la storia, la geografia, le scienze naturali, che viene espresso attraverso l’esibizione di una terminologia specifica, fatta di vocaboli tecnici o desueti, emergenti da una tessitura linguistica destabilizzante, quasi provocatoria.

Ne è un esempio, subito in apertura, l’attacco della prima poesia, I campi davanti: “Voltatoti, / le rovine fumanti / il pìare lento / il risolversi in un soffio del tarassaco: // revelle / stacca a forza / distoglie in altra parte: // la cupola del fieno / la portula che vi si apre / che ne camuffa un’altra / dove un flamine cieco ti tasta”.

Il lessico tratto dalla botanica e dalla zoologia è sconcertante nella sua insolita sovrabbondanza: vegetali e animali costituiscono una sorta di bizzarra enciclopedia dell’inusuale. Tarassaco pappo pungitopo polmonaria racemo austorio loppa gluma esperidio boaria accompagnano i più usuali pruni gelsi frumento rosmarino arance e limoni. Volatili dai nomi stravaganti (frusoni ossifraghe ardeidi) si associano ai più domestici corvi, gabbiani, rondini, cigni, oche.

Da cosa è definito il paesaggio della poesia di Alessandro Ceni? Dall’acqua, intanto, elemento mobile e inafferrabile, amico-nemico, minaccioso e salvifico (“Lascia che il fiume sciolta in te la zavorra della speranza / si volga a controllare gli scalmi / e discenda le numerose anse del suo andare, che moltiplichi, / sgomiti, macini sassi stesi ed erbe insane; cose, tutte / facilmente immaginabili”, “acqua desolata / amata soltanto dal silenzio delle piante, / dai gesti e suoni d’un solitario animale”). Dalla luna, più del sole misteriosa ed evocativa, resa pertanto classicamente, leopardianamente (“Luna, luna, immobile luna nella mente”, “l’eterna e sconfortata luna”, “una luna acidula e mezzana d’amori”). Da boschi, campi e rocce (“gli erbari ronzanti e i minuti insetti estivi”, “l’erba che si rialza nelle impronte, / lo sbandare della pineta”, “agri argini / acuminati di gialle fruste / di fossi sannuti e balze e pruni e gelsi”). Tutto un repertorio naturale a cui si oppongono descrizioni perimetrali di case, paesi, città, cimiteri, ospedali, ricoveri per indigenti: costruzioni umane, insomma, e per questo impenetrabili e ostili.

Naturale e artificiale sono intesi come antipodi concettuali, alla stessa maniera in cui si contrastano e compenetrano passato e presente: preistoria, medioevo, risorgimento, guerre mondiali, viaggi astrali… Come le epoche storiche, anche i luoghi geografici si intersecano e sovrappongono, indefiniti e mitici: la Valle dello Scesta (con i suoi calanchi, torrenti, dirupi) sfida gli altopiani del Nord America, le tombe etrusche affiancano i “fabbricati isolati” delle periferie industriali, le navi spaziali sorvolano Auschwitz.

Analizzando poi l’elemento antropico nei versi di settantasette, notiamo che non esiste reciproca benevolenza tra uomo e natura, tra uomo e uomo, tra uomo e Dio. Piuttosto rintracciamo gesti assassini, ostilità mortali e celesti, indicanti ferocia o indifferente sadismo, impermeabili al sentimento della pietà: “Là c’è una donna, che con la mano / si spande le lacrime sul volto; / con quelle stesse dita che lo conobbero / e che durante la notte desiderarono ucciderlo”, “Possa colui che sposta i confini / annientare cielo e mare / cancellare i tuoi passi nel ritorno, / possa perderti, schiacciarti sul promontorio”, “viene a massacrarci un odio / abbassata la guardia / spento il lume”, “Non dico, no, torna a casa / e picchia tua madre, dico: / torna a casa e guarda tua madre / come se volessi farlo; meglio, / come se l’avessi fatto”, “ di qua / tutto è infelice e indigesto, / gli uomini vanno servi, le donne prostitute, i bambini / vomitano densi liquidi verdi e cacano nero”, “Quindi sia lode agli uomini che non dichiarano il / proprio amore / e non perdonano e sono spietati / e strappano gli occhi dei fanciulli”.

Un cielo senza dio, quello di Alessandro Ceni, in cui “Non vi si distende la grazia di nessun Signore”, «perché se una divinità esiste, è un Dio che “mangia con le mani”, cannibalesco, onnivoro, crudele, da cui l’essere umano non viene soccorso e benedetto, ma è tenuto lontano, se non addirittura respinto.

Il “tu” così spesso presente nei versi di Ceni sembra indicare un’apertura alla conoscenza, un incoraggiamento, un invito, ma in realtà è rivolto più a se stesso che ad altri, con un frequente scambio di soggetto all’interno della medesima composizione, di maschile improvvisamente mutato in femminile, di singolari moltiplicati in plurali, come a dire che l’individualità non è più difendibile, nella sua illusoria apparenza; non c’è più nessun io, nessun tu, si è ovunque e in nessun posto, eternamente spaesati: “la mente altrove e lo spirito sempre”.

La resistenza che i contenuti manifestano nei riguardi di una comprensione solidale e garbata dell’esistente è ribadita anche dalla struttura formale dei versi di questa raccolta, in cui si dispiega un ricchissimo repertorio di figure retoriche (analogie, iperbati, anafore, anacoluti, sinestesie) che contribuiscono a rendere ancora più irta una sintassi di per sé già frammentata e contorta.

Anche i frequenti e spiazzanti neologismi e arcaismi (incanna, cannicciati, infemminirsi, slontanano, sovrassalati, sbrezzano, avverdite, pacciume, ghiareti, storre), contribuiscono a rendere straniante il messaggio del poeta. Mentre la ripetizione di vocaboli, avverbi o aggettivi, spessissimo a tre a tre, ottiene di cadenzare il ritmo della poesia in un respiro più lento: “e balze e pruni e gelsi; per dune / forre stagni; ad angoli anime animali; la foglia, l’ala, il vento; tra / aria e aria e aria; il marmo il granito il cinabro; cieco sordo invalido; il bue il maiale l’oca; resta resta resta; non / ricordo non ricordo non / ricordo; schizzi emissioni flussi; e frusci e sussurri e sospiri; incolmabile e adorata e vuota; nell’orto nella vigna nell’agro; corsi d’acqua, strade, siepi …”. Questa strategia formale viene ripresa anche in articolazioni di verseggiatura più ampie: Il canto delle balene: “com’è possibile possibile / possibile che tu ti esprima esprima esprima con / parole comprensibili da noi da noi da noi / che ti abbiamo tolto e ritolto dalla vita / dalla vita con le sue parole?”; Nella valle dello Scesta: “concludersi in una continua scia tra le foglie / o perpetua macellazione tra le foglie / o fortore di bestia inferma tra le foglie / o rapido slaccio di cintura tra le foglie”; Forma: “io ti saluto mentre la porta si chiude / mentre la porta scorrevole dell’ascensore si chiude / mentre la portiera della macchina si chiude”.

Considerando che l’autore utilizza poco la punteggiatura (fatto salvo il punto fermo a conclusione di ogni composizione), e pochissimo la rima, sembra ipotizzabile che la formula della reiterazione venga sfruttata con finalità quasi musicali, echeggianti la canzone popolare, folclorica, magari – parodisticamente ‒ lo stornello toscano che tanto si adatterebbe alle immagini campestri e alle leggende tradizionali evocate dai suoi versi (non è un caso che a lui si debba la curatela di Fiabe irlandesi e Fiabe africane per l’editore Bulgarini)

Una poesia difficile, in qualche caso addirittura respingente, questa di Alessandro Ceni, perché non consolatoria e volutamente esasperata. Ma densa, intricante, visionaria, e persino metafisica nel suo avvampante descrittivismo concettuale.

© Riproduzione riservata                     «Il Pickwick», 2 marzo 2020