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RECENSIONI

DONINELLI

LUCA DONINELLI, L’IMITAZIONE DI UNA FOGLIA CHE CADE – ABOCA EDIZIONI, SANSEPOLCRO 2020

L’azienda toscana Aboca, fondata nel 1978, si occupa di cura della salute creando e vendendo prodotti alimentari e cosmetici naturali, che rispettano l’organismo e l’ambiente. Promuove anche attività culturali, attraverso l’organizzazione di eventi, convegni, mostre, e la pubblicazione di libri: da poco ha inaugurato una collana di narrativa in cui autori italiani di successo (Abate, Parazzoli, Villalta…) pongono al centro del loro testo il rapporto con la natura e il mondo vegetale.

In questo spazio a indirizzo “ecologico” è da poco uscito L’imitazione di una foglia che cade, di Luca Doninelli, racconto di un centinaio di pagine, il cui protagonista è un maturo e affermato scrittore lombardo, Ugo, impegnato in una rivisitazione della propria vita, che lentamente si trasforma in un severo inventario di cedimenti intellettuali e ammorbidimenti morali.

Tornato single dopo la separazione dalla moglie e dai due figli, dedica il suo tempo non solo alla lettura e alla scrittura, ma anche a un’attenta e approfondita disamina di ogni accadimento, materiale o spirituale, si affacci a scalfire la sua quotidianità: dalle difficoltà di un trasloco, alla casuale caduta di un tomo dallo scaffale, a un qualsiasi incontro fortuito. Ogni oggetto gli parla, ogni azione lo interroga: “Mi piace decifrare. Per me il fruscio di un ramo è un discorso, come lo sono il rumore di un aereo che passa sulla mia testa o il battito di un martello pneumatico in un cantiere lungo una via cittadina. Un tram è una lingua, come lo sono i volti di chi lo occupa, i loro abiti e le loro scarpe. Lingua è un ciuffo d’erba che spunta tra una carreggiata e un marciapiede, la cornice di una finestra, la velocità delle automobili su un viale di scorrimento”.

A un personaggio tanto introspettivo, può senz’altro apparire miracoloso e rivelatore l’arrivo inatteso di un pacchetto contenente un libro che gli era appartenuto, l’Historia Francorum di Gregorio di Tours. Sulla busta si legge solo un indirizzo, “Piazzale Martini, Milano”, privo di mittente. Sfogliando le pagine ingiallite del volume, scopre che all’interno della rilegatura è nascosto un quaderno su cui, ancora ragazzo, aveva scritto con grafia minuta e ordinata il suo primo romanzo, mai pubblicato: Gli incurabili. Inoltre, dal quaderno spunta una vecchia foglia d’acero, scura e indurita. Nel riconoscere in entrambi gli oggetti testimonianze del suo passato, Ugo è colto da un sentimento di disagio, sospeso tra gioia e timore. “La lettura di quelle mie pagine ingenue mi ricondusse non soltanto a un mondo che avevo perduto ma anche a un certo modo – non meno perduto – di stare al mondo. Avrei potuto passare ore e giorni a segnare tutti gli errori del manoscritto, ma sapevo che questo non avrebbe dissipato l’impressione di avere lasciato, proprio lì, la parte migliore di me”.

Ovviamente, la parte migliore della sua esistenza viene individuata negli slanci, nelle utopie, e nell’ingenuità della giovinezza. Ugo si rivede studente universitario, innamorato della letteratura, circondato da amici come lui impegnati a rifondare la società, immersi nella lettura di Barthes, Foucault, Derrida. La prima fidanzata, l’incontro con la moglie Valentina, gli anni economicamente precari e professionalmente problematici del matrimonio, l’ambizione di agire e scrivere in modo radicalmente intenso e incisivo. Come, dove, quando tutto ciò era andato perduto? Perché l’intransigente purezza di allora era scesa a compromessi? “Voglio solo dire che la letteratura fu responsabile, in qualche modo, del mio disastro. Una volta diventato scrittore per tutti, una volta raggiunto questo status, le mie parole cominciarono infatti a viaggiare alla velocità del mondo – senza tuttavia appartenergli – e io viaggiavo alla velocità delle mie parole, e quindi del mondo”.

All’epoca frequentava una bancarella di libri in Piazzale Martini, il cui proprietario era un anziano signore francese, Monsieur Pineau, saggio dispensatore di consigli di lettura e di vita. Al vecchio libraio, Ugo aveva venduto uno scatolone dei suoi volumi, tra i quali appunto quello di Gregorio di Tours che ora gli veniva misteriosamente restituito, con le tracce di un’esistenza ormai lontana, macchie di caffè e una foglia di acero come segnalibro. Torna quindi a cercare Pineau, ormai ultraottantenne, ma sempre seduto sulla sua poltrona, davanti alla bancarella: “un vero e proprio salotto letterario all’aperto, con uno stuolo di frequentatori perlopiù giovani e poveri”: ascolta umilmente i rimproveri di lui, e ne accoglie con discrezione le confidenze. Principalmente, quella di un incontro con un profetico, amaro e visionario Roland Barthes, capace di leggere le parole sospese nel vuoto mentre vengono pronunciate. La morte del filosofo francese si intreccia con quella di Pineau, il funerale di quest’ultimo, a cui partecipano molti intellettuali milanesi, svela nell’animo turbato di Ugo che a ogni vuoto, a ogni precipizio, a ogni fine, corrisponde un pieno di vita e di amore.

Ne sono testimoni i nostri guardiani alleati, le creature inoffensive e verdi che ci circondano e sanno tutto di noi. Gli alberi del cortile di fronte, delle pianure, dei boschi; le foglie che cadono, e quella di acero ora incorniciata in una teca di plexiglas, suscitatrice di memorie, ancoraggio a un passato che non va rimosso, ma custodito con gratitudine.

 

© Riproduzione riservata            «SoloLibri», 2 febbraio 2020

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INTERVISTE

CASELLI

SEI DOMANDE A ROBERTO CASELLI

 

Roberto Caselli è giornalista, critico musicale e voce storica di Radio Popolare, ha al suo attivo lunghe collaborazioni con quotidiani, giornali specializzati, enciclopedie e siti web. È stato direttore della rivista Hi Folks! e del mensile musicale Jam. Tra i suoi numerosi libri che spaziano tra rock, blues e musica d’autore si ricordano il saggio Hallelujah (Arcana 2014) sui testi commentati di Leonard Cohen, La storia del blues (Hoepli 2015), Jim Morrison (Hoepli 2016), Storia della canzone italiana (Hoepli 2018), La storia del rock in Italia (Hoepli 2019).

Qual è stato il percorso di studi e professionale che ti ha portato a essere uno dei più stimati e seguiti critici musicali italiani?


Apparentemente una laurea in Scienze Biologiche c’entra poco o niente con il percorso musicale che ho poi seguito ma in realtà a unirli c’è un sottile filo rosso esistenziale: la necessità di allargare la conoscenza su quel poco che si conosce della vita.
Da ragazzo pensavo che la scienza, con la sua apparente oggettività, potesse aiutare a risolvere tutti i miei dubbi, ma presto ho realizzato che non sarei mai riuscito a superare una certa soglia di comprensione e così ho virato con più convinzione sul percorso parallelo della letteratura e della poesia. Ho poi scoperto che poesia e canzone avevano origini comuni, anzi che all’inizio erano proprio la stessa cosa e ho proseguito in quella direzione. Certo, dire oggi che canzone e poesia si compenetrano è forse presuntuoso, ma aldilà della diffusa banalità, che tuttavia si riscontra in qualsiasi ambito, è vero che la canzone può fare pensare. Visto che la poesia la leggono ormai in pochi, la canzone d’autore potrebbe avere qualche chance: è una sintesi di pensiero interessante e nello stesso tempo un veicolo di comunicazione straordinario. Ecco, ho pensato che un pensiero originale espresso da una melodia che intriga fosse un bel percorso da seguire per ragionare sulla vita e così è cominciata una lunga avventura che dura ancora oggi. Ho iniziato a occuparmi professionalmente di musica con l’avvento delle radio libere e poi ho proseguito con quotidiani come Il Manifesto e l’Unità per arrivare infine alle fanzine di settore e alla scrittura di libri monografici e di genere.

 

Ti sei occupato di blues e rock in due importanti volumi pubblicati da Hoepli. Quali sono i tre artisti che ritieni più rappresentativi nei rispettivi due generi musicali?


Difficile fare una sintesi così estrema, ma per il rock direi Bob Dylan, il grande indagatore di tutti gli aspetti più significativi della vita (amore, società, esistenza, utopia) con una scrittura non convenzionale, spesso onirica, talvolta surreale, poi direi Leonard Cohen per la sua meravigliosa vena intimista in cui cozzano costantemente aspetti antitetici come la mistica e la passione che riescono tuttavia a trovare, nel suo Hallelujah, un’impensabile compenetrazione, e infine i Rolling Stones che hanno saputo coniugare nello stesso suono originale il rock con il blues e rappresentare la trasgressione per eccellenza che unisce l’eros al demonio. La “simpathy for the devil” che cantano in una loro celebre canzone è in realtà un patto col diavolo che permette, a settantacinque anni suonati, di continuare a salire sul palco senza essere patetici.


Per il blues direi senz’altro Robert Johnson per il suo essere artista maledetto ante litteram, il primo del famigerato “Club 27” cioè delle rock star morte a ventisette anni (Janis Joplin, Jimi Hendrix, Brian Jones, Jim Morrison, fino a arrivare a Kurt Cobain e Amy Winehouse). Johnson ha vissuto il suo tempo e la sua condizione con sregolatezza e fretta di vivere esagerati, riassunti in ventinove blues per narrare di amore, sesso e superstizione, tre argomenti che debitamente elaborati sarebbero diventati gli elementi chiave del repertorio rock successivo. Muddy Waters non ha minore importanza per avere introdotto il blues elettrico e avere creato con la sua band un sound ancora oggi identificabile come il blues di Chicago e infine B.B. King per avere codificato quel suono inconfondibilmente puro e nello stesso tempo lacerante, amato e copiato da musicisti di mezzo mondo.

 

Hai recentemente pubblicato un corposo volume sulla storia della canzone italiana degli ultimi settant’anni. Analizzando gli sviluppi della canzone, possiamo comprendere meglio anche l’evoluzione dei costumi e delle ideologie del nostro Paese?


Non c’è alcun dubbio, anzi il taglio che ho voluto dare al libro è stato proprio questo. La canzone è spesso considerata una forma d’arte minore, ma non si può negare che, nei migliori casi, abbia in sé una capacità di sintesi immediata che ha pochi eguali. Naturale quindi possa anche fungere da veicolo di trasmissione di nuove idee e bisogni capaci di mettere in discussione il vecchio e desueto modo di pensare.


Se si considera una canzone degli anni ’30 si può fare una seria analisi del suo linguaggio e della musica che lo accompagna e accorgersi che era perfettamente coerente con l’etica vigente del tempo, assolutamente non più proponibile oggi. I sentimenti sono sempre gli stessi, ma sono vissuti in modo molto diverso in funzione del momento storico e di costume che regola la società. Per trattare di epoche più vicine a noi basta pensare a quanto ha influito la musica beat nel cambiamento del costume giovanile. Capelli lunghi, minigonne, camice floreali sono elementi apparentemente poco importanti, ma in realtà sono un preciso sintomo dell’urgenza con cui i giovani di quel periodo attendevano un cambiamento. Più che i testi sacri del socialismo, credo siano stati certi modelli di libertà raccontati dalle canzoni a promuovere un primo cambiamento che ha poi portato al Sessantotto. Per dirla tutta, a diciotto anni mi ha certamente più influenzato Bob Dylan che Gramsci.

 

Quali sono e sono stati secondo te gli autori e gli interpreti più originali nella creazione di un proprio stile e di una tendenza condivisa, e verso quali voci nuove riponi maggiori aspettative?


Credo che i due generi che hanno raccolto un maggior seguito per almeno trent’anni siano stati il cantautorato e il rock, due filoni che inizialmente erano poco comunicanti tra loro. Fino alla fine degli anni Settanta solo De André aveva avuto l’intuizione di legare la sua opera alla musica di un gruppo rock. Il suo sodalizio con i New Trolls permise la nascita di quel piccolo capolavoro che fu Senza orario senza bandiera, in cui figurano molte canzoni che erano in realtà poesie scritte da Riccardo Mannerini e solo aggiustate da Fabrizio. I primi cantautori erano molto attenti ai testi che scrivevano e abbastanza indifferenti alla musica con cui si accompagnavano. Bastava una chitarra che tenesse il tempo ed era più che sufficiente.
Al contrario i musicisti rock degli inizi erano molto concentrati sulla musica lasciando ai testi una pura funzione riempitiva. Col tempo si è capito che i due aspetti potevano parlarsi tra loro per concepire canzoni migliori. È stato ancora De André a sperimentare il grande salto e ad affidare alla Premiata Forneria Marconi il compito di rivisitare in chiave rock il suo repertorio. De André anche per il seguito di epigoni che ha avuto è stato certamente, insieme a Francesco Guccini, il mentore di un’intera generazione impegnata. Non si possono tuttavia dimenticare tra i cantautori storici Luigi Tenco, Paolo Conte, Francesco De Gregori, Ivano Fossati e Gino Paoli che ha dato il via alla stagione. Tra le nuove generazioni mi piace Brunori Sas anche se ormai non è proprio quel che si dice un ragazzino.

 

Ritieni ci siano oggi interpreti italiani che possano ambire a un riconoscimento a livello internazionale? In che considerazione tieni l’attuale produzione nazionale di musica rap?


Un conto è considerare le voci, un altro lo spessore di quello che si canta. Le belle voci non mancano di certo, un po’ più difficile è trovare repertori importanti. Jovanotti ha avuto una bella evoluzione e le sue canzoni sono spesso interessanti, ma sul piano internazionale non ha avuto la stessa fortuna di Ramazzotti o della Pausini che sono delle autentiche pop star, con tutto quello che si può dire di bene e di male a riguardo. Per emergere nel mercato anglofono e quindi mondiale devi avere alle spalle una casa discografica che ci crede e ti spinga con determinazione, ma questo, qui da noi, succede solo per la musica pop.
Per quel che riguarda il rap credo, invece, che sia l’unica espressione giovanile che abbia qualcosa da dire. È un genere che si è evoluto in mille direzioni con influenze multiple che punta comunque sempre molto sul testo. È ormai fuori da ogni regolamentazione perché la maggior parte dei musicisti che lo interpreta si auto-produce e proprio per questo può permettersi di essere uno dei potenziali esempi di critica sociale più efficaci.

 

La tua lunga collaborazione a Radio Popolare ha avuto anche un peso nella formazione di una coscienza civile e politica, oltreché di gusti culturali, degli ascoltatori. Com’è cambiato il pubblico di chi segue i tuoi programmi, e come sono cambiati anche indirizzi e finalità dei tuoi programmi stessi?

Diciamo che trasmettendo per Radio Popolare, che è un’emittente schierata, sono seguito da un pubblico che ha già in potenza una coscienza civile e politica ben definita con cui è facile dialogare e fare delle proposte musicali di un certo tipo. In questi tanti anni di collaborazione ho trasmesso un po’ di tutto privilegiando naturalmente le mie passioni e cioè il blues, il rock e la canzone d’autore, costruendo monografie e ambientazioni musicali che tenessero sempre presenti i contesti sociali in cui si sono sviluppati e si sono evoluti. Sono stati proprio questi programmi, in cui spesso dialogavo con ospiti importanti della scena musicale, che mi hanno permesso di archiviare materiale di prima mano che poi è servito a scrivere i miei libri. Capita spesso di fare anche semplici conduzioni generiche nelle quali si può spaziare attraverso vari mondi musicali e trasmettere belle canzoni pop che sono comunque gradite anche da un pubblico impegnato. La canzone è momento di riflessione, ma è anche gioia espressiva e quando c’è una melodia accattivante è un piacere ascoltarla.

 

© Riproduzione riservata             «Il Pickwick», 28 gennaio 2020

 

 

RECENSIONI

BONAZZI

MAURO BONAZZI, CREATURE DI UN SOL GIORNO ‒ EINAUDI, TORINO 2020

Con il titolo poeticamente evocativo di Creature di un sol giorno, tratto da Pindaro, il professor Mauro Bonazzi, titolare della cattedra di Storia della filosofia antica all’Università degli Studi di Milano, ha pubblicato da Einaudi un volume che indaga il contributo della grecità (mito, letteratura, religione, arte e, ovviamente, pensiero filosofico) all’elaborazione del tema dell’essere e del non essere più, del vivere e del morire, nel suo impatto sulla cultura occidentale.

“La civiltà greca ha prodotto una riflessione luminosa sul senso della condizione umana – su quello che siamo e sul valore delle nostre vite – capace di attraversare i secoli, influenzando e stimolando grandi scrittori e grandi pensatori. Lo ha fatto partendo dal tema della morte: questo è il punto di attacco. La morte è uno scandalo, un mistero, qualcosa che non riusciamo e non possiamo accettare. Il problema non è tanto quello di dover morire; ne siamo tutti consapevoli. A essere insopportabile è l’idea che questo fatto, il fatto che prima o poi ce ne andremo, rischia di togliere valore alla nostra esistenza, qui e ora. Quale è il senso di qualcosa che non c’era, c’è e non ci sarà? Quale il valore di qualcosa destinato a scomparire nell’oblio? È questa la domanda a cui bisogna trovare una risposta, perché è qui la chiave per comprendere il senso della nostra esistenza”.

A partire dal modo in cui i greci hanno valutato la morte, Mauro Bonazzi recupera il senso che essi hanno dato alla vita degli esseri umani, creature fragili come gli insetti che vivono solo un giorno, eppure immense, nel loro “impasto di miseria e grandezza”, perché uniche e irripetibili nei pensieri, nelle azioni, nelle trasformazioni cui soggiacciono attraverso il tempo. Esseri incompleti, a cui manca sempre qualcosa che devono conquistare per realizzarsi come persone; esseri desideranti, che aspirano alla felicità, da cercare nell’amore o nella gloria; esseri prede di passioni contrastanti, a volte nobili, a volte turpi.

Prendendo le mosse da Omero, dai suoi due eroi più rappresentativi (Achille nell’Iliade, magistralmente commentato da tre studiose ebree, costrette all’esilio dal nazismo: Simone Weil, Rachel Bespaloff e Hannah Arendt; e Ulisse nell’Odissea, personificazione sia della nostalgia per il paese natio, sia dell’ansia di conoscenza), l’autore si interroga su cosa intendessero i greci per gloria (kleos), e per onore (time), e quanto fossero disposti a sacrificare di sé stessi per ottenere entrambe le cose. Consapevoli che l’immortalità si può raggiungere solo in due modi: o riproducendosi biologicamente (a livello di specie, come fanno animali e vegetali), o lasciando dietro di sé il ricordo delle proprie imprese, attraverso l’azione eroica che sottrae all’oblio, alla caduta nel nulla. È la scelta di Achille, che assoggetta anche l’eros alla brama di lode, e che muore per sconfiggere la morte. L’Ulisse omerico vaga per anni sui mari in attesa di tornare a Itaca, la “cara patria”, non spinto dal desiderio di avventura, ma solo dalla nostalgia per il focolare domestico: sarà Dante, nel celeberrimo XXVI canto dell’Inferno, a fare di lui il simbolo del desiderio di conoscenza, addirittura in grado di trascendere qualsiasi responsabilità etica, di marito, padre, re, nocchiero pur di saziare la sua ansia di sapere (“l’ardore / ch’i’ebbi di divenir del mondo esperto / e de li vizi umani e del valore”)

Fu poi Platone, nel Simposio e nel Fedro a dissertare su amore e morte, attraverso le voci di Aristofane, Socrate, Diotima, Fedro stesso, che si interrogano su cosa prevalga nell’eros, se la sensualità, l’attrazione per la bellezza fisica, il desiderio di armonia o di completarsi in un altro da sé. Un Platone recuperato anche da Freud, nelle sue indagini sulle pulsioni di piacere e morte. E Aristotele, nell’Etica Nicomachea, ventilava tre possibili strade da percorrere per costruire una vita felice: seguire l’istinto del piacere, praticare un’esistenza politicamente attiva, o scegliere la meditazione contemplativa. Inaspettatamente, lo Stagirita, filosofo della concretezza e della materia, indicò proprio nell’esercizio del logos l’unica maniera per esercitare pienamente le proprie potenzialità di uomini: “Siamo fatti per conoscere, pensare, capire, qui è la nostra vera natura”, chiosa Mauro Bonazzi. Solo attraverso il pensiero riusciamo a essere immortali e divini, partecipando all’ordine, alla verità e alla bellezza del tutto. L’intuizione aristotelica verrà ripresa da Plotino e Spinoza, e da gran parte della filosofia spiritualistica. Ma sarà Nietzsche, invece, a scardinare l’utopia di una realizzazione filosofica dell’esistenza, proclamando la morte di Dio e l’inconsistenza della vita umana. Nell’universo descritto dalla scienza moderna, privo di un centro definito, animato da miliardi di elementi cosmici, l’uomo ha perso il suo ruolo dominante, il bene e il male non trovano più alcuna fondazione oggettiva, e non si pone nessun limite etico alla ricerca scientifica. Il materialismo di Epicuro e Lucrezio sembra aver prevalso sugli interrogativi religiosi, e l’unica realtà conseguibile è la felicità quotidiana da vivere nel presente, senza temere il futuro e la morte, valutando positivamente la natura che ci circonda e di cui siamo fatti, prendendo atto e accettando di essere “creature di un sol giorno”.

Eppure, proprio in questa nostra fragilità, nella fugacità del tempo determinato che ci è dato di vivere, risiede la possibilità straordinaria che abbiamo di poter fare progetti, impegnandoci in un disegno collettivo e solidale di salvezza.

 

© Riproduzione riservata          24 gennaio 2020

https://www.sololibri.net/Creature-di-un-sol-giorno-bonazzi.html

 

 

 

 

 

 

 

RECENSIONI

LAGOMARSINI

CLAUDIO LAGOMARSINI, AI SOPRAVVISSUTI SPAREREMO ANCORA – FAZI, ROMA 2020

 

Un incipit ungarettiano, quello con cui Claudio Lagomarsini apre il suo primo romanzo, pubblicato da Fazi, Ai sopravvissuti spareremo ancora: “Di tanti che eravamo siamo rimasti in pochi” (Di tanti / che mi corrispondevano / non è rimasto / neppure tanto, scriveva il poeta). Chi siano i sopravvissuti, e perché si debba loro sparare, il lettore verrà lentamente a scoprirlo, con qualche sorpresa.

La voce narrante del racconto è un giovane uomo incaricato dalla madre di vendere la vecchia casa di famiglia in Versilia: lui vive in un altro continente, avendo scelto di lasciarsi alle spalle il passato. Tra gli scatoloni preparati per il trasloco, trova l’abbozzo di un romanzo di suo fratello Marcello, da cui lo dividevano una piccola differenza d’età e una sostanziale estraneità di carattere. Legge gli appunti, “frastornato da una miscela di amarezza, angoscia e disincanto”, e leggendo recupera episodi avvenuti quindici anni prima e narrati con analitica severità, da cui nessun membro della famiglia sembra uscire bene. I cinque quaderni in cui Marcello aveva vergato la sua storia, con grafia minuta e quasi indecifrabile, prendono l’avvio da una rapina avvenuta nell’estate del 2002 nel villino di un vicino di casa ottantenne, chiamato “il Tordo”. Lentamente, attraverso le parole scritte, si delineano i caratteri dei familiari, le diverse ideologie e i rapporti faticosamente instaurati tra di loro.

Famiglia allargata, e piuttosto scombinata: una nonna ancora vivace, che nulla si nega e si è mai negata dal punto di vista sessuale; una madre separata dal marito, agronomo emigrato in Brasile quando i figli erano bambini; il nuovo compagno della mamma, rozzo negoziante (divorziato con due rampolli problematici), a cui è stato affibbiato il nomignolo di Wayne a motivo della sua passione per i film western e per le armi. Passione condivisa anche dal vecchio vicino derubato, che è l’ultimo amante della nonna, e coltiva a metà l’orto di casa insieme a Wayne, con i conseguenti e inevitabili litigi e reciproci dispetti, in una visione condivisa, e asfitticamente provinciale, del concetto di proprietà.

All’interno di questo variopinto universo adulto, ruota una costellazione giovanile altrettanto disarmonica. L’autore del romanzo in bozze, Marcello, è un liceale sensibile e colto, infelicemente innamorato della coetanea Sara, e orgogliosamente maldisposto nei confronti della fauna umana che lo circonda, ritenuta volgare, stupida, malvagia, violenta. Il fratello di lui, detto “il Salice” per la propensione alle lacrime, primo lettore del tragicomico diario: forse superficiale, forse indifferente, comunque deciso a non lasciarsi coinvolgere più di tanto dagli avvenimenti domestici. Un nipote gay del vecchio vicino, interessato esclusivamente alle mance del nonno e alle proprie volubili amicizie maschili. I due figli di Wayne, una insipida e impaurita Ramona, e un Diego modesto ladruncolo spacciatore di hashish.

Marcello registra nei quadernetti le sue emozioni di adolescente, una malinconica e rabbiosa ostilità nei riguardi del mondo ottuso da cui è oppresso, fantasie omicide e progetti di suicidio, (“Immagino com’è dolce, il non esistere più”), l’amarezza di un amore non corrisposto, i complessi causati da un leggero strabismo e dal fisico mingherlino, gli “accessi di disperazione e ira” che lo spingono al mutismo o a rabbie incontrollate, il fastidio intellettuale provocato dai programmi televisivi (Montalbano, Studio Aperto, Paperissima…), tanto apprezzati da chi gli è accanto. Insomma, la sua totale estraneità ai pregiudizi e alle isterie della piccola borghesia toscana in cui si trova a vivere, ne fa a tutti gli effetti la vittima predestinata, consapevolmente presago del destino che lo attende. A proposito del patrigno Wayne scrive: “Mi troverò seduto a tavola, col sorrisetto d’angelo a ridere delle battute volgari, delle trovate pecorecce e dei doppi sensi, degli aneddoti da spaccone che fanno ridere mamma. Lo guarderò trattarla come una serva e una badante, ordinarle il caffè con la distrazione sprezzante che non si riserva nemmeno a un aiuto-barista di un autogrill affollato. Lei come una cosa sua, ormai, che lui ha tolto a mio padre, e che mio padre, mansueto e remissivo, si è lasciato rubare zitto zitto, prima di scappare lontano a formattarsi la vita”.

Il lessico familiare forgiato da Lagomarsini è vivace e ironico, modulato sulla narrativa americana più recente, forse con qualche insistita e compiaciuta minuziosità nella parte centrale del romanzo, tuttavia riscattata dal finale imprevisto e drammaticamente risolutivo.

 

© Riproduzione riservata            «Il Pickwick», 23 gennaio 2020

 

 

 

RECENSIONI

ITALIANO

FEDERICO ITALIANO, HABITAT – ELLIOT, ROMA 2020

Federico Italiano è, a mio parere, tra i poeti nati negli anni ’70, il più solidamente ancorato a una nostra tradizione di poesia narrativa, e il più originalmente innovativo nel recepire e fare suoi stimoli culturali provenienti da ambiti non solo letterari, ma anche filosofici e scientifici.

Già leggendo una precedente raccolta, L’invasione dei granchi giganti, avevo ricavato questa impressione di composta padronanza dei mezzi espressivi, nel loro muoversi tra ambienti interni ed esterni, passato e presente, scrittura descrittiva e meditativa. Ora, in questo nuovo volume di versi pubblicato da Elliot, Habitat, Italiano affina il suo sguardo introspettivo in una dimensione delicatamente malinconica, nella rievocazione di figure e paesaggi amati, e contemporaneamente analizza con severa analiticità il proprio vissuto includendolo in un orizzonte storico, geografico e sociale più ampio e complesso.

Habitat, appunto, ciò in cui siamo inseriti e che ci circonda: e che per lui, piemontese della pianura padana, ricercatore a Vienna, critico letterario e traduttore dal tedesco, scisso tra due lingue e due culture, diventa stimolo e vincolo insieme, provocazione e freno. La prima delle cinque sezioni del volume è quindi circoscritta nell’ambito di un privato domestico, tra ricordi dell’infanzia e dell’adolescenza vissuta a Romentino, in provincia di Novara, e rievocazioni di figure amicali, o di ambienti lavorativi già più adulti. Squarci di memoria, inteneriti ma lontani da ogni compiacimento retorico. Così la visita alle zie “con l’Audi 80 / color senape”, e altri personaggi tipici del paese (il medico condotto, camiciai gommisti cacciatori e anziane signore sulla Graziella…), animano uno sfondo di periferia industriale spoglia e angosciante, attraversata dall’autostrada Torino-Milano, con i tir rombanti e fumosi, e frantumata da risaie inondate per la semina e sorvolate dalle “garzette bianche dal becco nero”. La caccia alle rane sugli argini del Ticino, tra tafani zanzare e libellule, e la magica apparizione di uno sdegnoso airone cinerino, o di due leprotti saltellanti tra le felci e i canneti, abbatte i muri dell’appartamento di famiglia, aprendolo in un contesto di spazio ecologico.

Il bambino di allora, curioso di ciò che gli stava intorno, torna a vivere ponendo domande al poeta diventato uomo (“Non avevo paura delle case degli altri / da bambino, ma adesso / sono i loro fantasmi a farmi visita”): la più assillante e tormentosa, su cosa si perde e cosa si guadagna allontanandosi dalle proprie origini (“penso… / al coraggio – che non ho – di sparire, / di piantarla lì, per unirmi calmo al tavolo dei giusti, // dove mani adorate hanno steso la tovaglia, / disposto piatti caraffe posate / e un vassoio di verdure alla griglia”). Personale e universale, nella poesia di Federico Italiano, si rincorrono, intrecciandosi e sfidandosi: l’amore con la prima ragazza fatto in piedi, appoggiati alla parete di una chiesetta abbandonata, si proietta poi nel giro cosmico dei pianeti; l’impiego universitario e la convivenza matrimoniale a Monaco si inseriscono nella cornice della storia secolare del Regno di Baviera. Nelle altre sezioni del volume, il poeta si muove su terreni diversi e compositi, immaginando tattiche di sopravvivenza in un habitat estraneo, alternativamente umano animale o vegetale.

Allora, le strategie di combattimento difensive vanno acquisite imitando Il metodo nigeriano per vincere a Scrabble; alla fauna differenziata della Foresta Nera (astori, fringuelli, serpenti, corvi, conigli, leprotti, galli cedroni, passeri, scoiattoli, nibbi, poiane, sparvieri, venturoni alpini…), si oppone confortante il ricordo degli animali domestici posseduti nell’infanzia: cani, gatti, tartarughe, canarini, pesci rossi. L’ironia di un umanissimo “Supplemento alle beatitudini” premia ed esalta gli outsider sociali (clandestini, insonni e sonnambuli, ritardatari, magazzinieri: “Beate le colf, perché il regno dei cieli / è pulito”). Nell’amara litania di Pronome indefinito, si elencano i tanti anonimi “qualcuno” che popolano il mondo, salvandolo o inquinandolo con le loro presenze e assenze: “Qualcuno dichiarò che non ci avrebbero / messo in salvo le lingue dei sapienti / ma ciò che crea gioia negli interstizi”. Una parodia del Qohèlet esorta a un atteggiamento fiducioso e positivo nei confronti della vita troppo fugace. Sogni e fantasie si trasformano in vere e proprie allucinazioni, mimanti assalti militari a una città nemica, o metamorfosi corporee in differenti specie subumane, o ancora viaggi in una spettrale Europa nordica, rianimata da profetici incontri con sconosciuti. Anche la voce di raffinati poeti del passato, orientali ebraici europei, porge lo spunto per eleganti rivisitazioni e rielaborazioni tematiche, e i Frammenti d’autunno conclusivi offrono al lettore accenti di dolente abbandono sentimentale.

Resta forse da accennare qualche considerazione sullo stile di questa raccolta, classicamente omogeneo, privo di sperimentalismi e dissonanze formali, e invece fedele a un pensiero emotivo letterariamente sorvegliato, espresso in tonalità limpidamente narrative. Il linguaggio usato appartiene a un lessico mediamente domestico, in cui l’unica ricercatezza pare essere l’attenzione all’esattezza della terminologia scientifica. Una puntualità resa sulla pagina anche dalla scansione ordinata del susseguirsi di strofe perlopiù in terzine e quartine, a offrire un respiro più ampio e modulato di lettura.

 

© Riproduzione riservata               23 gennaio 2020

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RECENSIONI

VIGANO’

DARIO EDOARDO VIGANÒ, IL BRUSIO DEL PETTEGOLO – EDB, BOLOGNA 2016

 

Il volumetto che Monsignor Dario Viganò ha pubblicato nel 2016 con le Edizioni Dehoniane, Il brusio del pettegolo, ha un sottotitolo esplicativo: Forme del discredito nella società e nella Chiesa. Monsignor Viganò può vantare titoli legittimi per occuparsi di questa spinosa questione in ambito sia civile sia ecclesiale, essendo intellettuale stimato a livello internazionale, autore di rilevanti pubblicazioni sul cinema e sul mondo dei media, e avendo occupato incarichi prestigiosi all’interno del Vaticano e della Pontificia Università Lateranense. Da pochi mesi è stato nominato Vice Cancelliere della Pontificia Accademia delle Scienze e della Pontificia Accademia delle Scienze Sociali, ma in passato è stato oggetto di polemiche e contestazioni che lo avevano costretto a dimettersi dal ruolo di Prefetto del Dicastero per la Comunicazione.

Già il titolo dell’introduzione al saggio (“La pietra più dura che esiste al mondo: la lingua”) mette in luce quanto sia pesante, dannosa e deprecabile l’abitudine alla mormorazione, al pettegolezzo (“figlio primogenito dell’invidia”), che finisce spesso per sfociare nella diffamazione e nella calunnia. Papa Francesco lo definisce un peccato diffuso e difficile da combattere: “Su questo punto, non c’è posto per le sfumature: se parli male del fratello uccidi il fratello. E, ogni volta che facciamo questo, imitiamo il gesto di Caino, il primo omicida”.

Forza motrice, subdola e distruttiva, del pettegolezzo è appunto l’invidia, “che non desidera avere ciò che l’altro possiede; piuttosto, desidera radicalmente che l’altro non disponga di ciò che io non possiedo oppure ho perduto”. Il calunniatore, il cui perfido simbolo è il serpente, usa le armi della parola superficiale, ambigua e seduttiva per seminare sospetto e biasimo. Da studioso della comunicazione, Dario Viganò si propone di indagare in che modo la chiacchiera, la calunnia e la delazione riescano a innescare nella società, attraverso le pratiche dei rumors, strategie finalizzate a ottenere ascolto e consenso, per provocare l’esclusione e spesso l’eliminazione di un rivale o antagonista scomodo. I rumors sono sempre esistiti: ne è testimonianza il consiglio che la dea Atena diede a Ulisse, invitandolo a camuffarsi perché non si spargesse anzitempo la notizia del suo ritorno a Itaca.

“I rumors sono forme di comunicazione soggette a una continua rinegoziazione, testi aperti che possono conoscere infinite aggiunte ed elaborazioni, fin quando non vengono assorbiti dall’oblio collettivo. Vivono nello sfondo antico e diffuso dell’attività comunicativa reticolare”. All’epoca dell’oralità primaria, il passaparola utilizzava i modi della simultaneità e della compresenza: e ancora nei Vangeli la relazione tra Gesù, i discepoli, la folla dei seguaci e gli oppositori, era intessuta in questo modo, creando legami sociali di unione, riconoscibilità o di opposizione. Più tardi, con l’avvento della scrittura, la chiacchiera veniva sviluppata dai pamphlet e dai testi di parodia.

La forza strategica dei rumors si è amplificata con l’avvento dei media digitali, e soprattutto con lo sviluppo dei social, che grazie alla loro natura conversazionale alimentano in maniera esplosiva la circolazione di pratiche narrative capaci di coinvolgere progressivamente e rapidamente un numero enorme di attori sociali. La propagazione di virus comunicativi viene utilizzata economicamente nel commercio online, nelle strategie pubblicitarie, in operazioni di propaganda politica, in cui il recettore del messaggio finisce per assumere funzioni di autorialità o co-autorialità. Le fake news presenti sul web si diffondono volontariamente, con un atto autonomo e intenzionale di comunicazione che produce riverberi volutamente programmati per generare coesione e/o isolamento sociale. Quali sono le caratteristiche dei rumors? Per ciò che riguarda il contenuto “sono un genere di discorso onnivoro”, che può avere come oggetto qualsiasi argomento; dalla vita dei vip alle leggende metropolitane, dagli allarmismi delle pseudoscienze al successo di libri e film, dalla politica alla religione o allo sport. Si attivano a partire da un evento non verificato ma credibile, portatore di grande impatto emotivo, trasmesso da persone ritenute attendibili e spesso introdotto ad arte nel circuito informativo con evidenti scopi strategici.

È un processo collettivo, non lineare, che coinvolge diversi attori con differenti ruoli e responsabilità, realizzando effetti di distorsione che si autoalimentano secondo il numero dei soggetti e dei media coinvolti nella trasmissione e diffusione della notizia. Un racconto originato da un fatto presunto, si trasforma in una narrazione complessa che nel tempo si arricchisce di sempre nuovi dettagli e sottintesi, in una catena di rimandi divulgativi realizzanti coesione e consenso, psicologicamente finalizzati a produrre aggressività verso un oggetto, o difese da paure comuni. L’obiettivo ultimo di queste comunicazioni virali è comunque politico, teso a creare conformismo sociale, obbedienza acritica, ottundimento del giudizio individuale.

Il pettegolezzo, diffuso in ogni ambiente (Monsignor Viganò si sofferma particolarmente su quello ecclesiastico) ha in genere motivazioni affettive di amore/odio, o di interesse professionale, e tende a generare discredito o approvazione su un fatto o personaggio di rilievo: non avrebbe alcun successo se l’ambiente circostante non fosse recettivo, riproduttivo e malignamente interessato alla diffusione. Veicola ostilità e disprezzo, aspira a umiliare e svilire il prossimo: più subdolo, anonimo e sotterraneo dell’atto di aperto bullismo, è in grado di ottenere conseguenze socialmente devastanti, e in genere procura un sottile, indubbio piacere e un sentimento di rivalsa in chi lo pratica.

 

© Riproduzione riservata       17 gennaio 2020

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MAESTRI

FRIED

SAREBBE PIÙ SEMPLICE

La vita
sarebbe
forse più semplice
se io
non ti avessi mai incontrata
Meno sconforto
ogni volta
che dobbiamo separarci
meno paura
della prossima separazione
e di quella che ancora verrà
E anche meno
di quella nostalgia impotente
che quando non ci sei
pretende l’impossibile
e subito
fra un istante
e che poi
giacché non è possibile
si sgomenta
e respira a fatica
La vita
sarebbe forse
più semplice
se io
non ti avessi incontrata
Soltanto non sarebbe
la mia vita

Erich Fried (1921-1988)

POESIE

RICORDANDO LUIGI TENCO

I

Conosci il vuoto,

ore lente a passare

e l’insonnia la notte.

Speravo di incontrare

qualcuno, uscendo,

ascoltare parole.

Grazie prego grazie:

almeno.

Invece silenzio,

ombre, sguardi altrove.

Forse solo per questo

ho deciso.

Non avevo niente da fare,

niente da perdere.

Più nessun desiderio speciale.

Mi sono innamorata

per questo motivo

solamente. L’amore

c’entra poco, o niente.

 

 

II

 

È bastato un tuo ritardo,

la scorsa settimana,

per farmi tremare.

Così, improvvisamente,

ho capito, con paura di capire.

Poi una frase,

buttata lì come un saluto

del tutto indifferente,

e uno sguardo

quasi fosse una carezza.

Ho capito, e nel capire

mi sono fatta tenerezza.

 

 

 

III

 

Non mi hanno insegnato

(quando mi hanno insegnato

a parlare) a dire di te

le cose giuste (a chi di te

voleva sapere), che giusto

ti facessero apparire.

Non mi hanno insegnato

parole diverse

per fare diverse le sere

le mattine. Nostre.

Sono rimaste

di tutti e di sempre,

le mie parole.

Come le storie

e gli amori di tutti.

 

 

 

IV

 

Probabilmente non lo sai

o non vuoi confidarlo

nemmeno a te stesso.

Hai bisogno di me.

Sempre, e adesso.

Per questo sono qui, stasera:

pena di noi, oppure

un cuore troppo tenero.

Timore che perdendomi

tu finisca per perderti.

Eccomi, allora,

e non è stato facile.

Scalare una montagna

per chiederti «Lo vuoi,

il mio bene, ancora?»

 

 

 

 

V

 

Proprio non mi hai capito,

forse mai.

Sei lì che aspetti sempre.

Fermo, zitto. Non so

se insofferente.

Aspetti che sia io a parlare,

a fare il primo gesto.

Murato nel silenzio,

incementato.

Mi costa tanto

riuscire a non abbatterti

a colpi di bazooka.

Se non mi chiami adesso:

ti detesto.

 

VI

 

Tenaci a sperare

per pura abitudine,

senza scopo o ragione.

Domani uguale a ieri

(così sfocato

che non lo ricordiamo,

il nostro passato di nebbia);

un giorno, un altro giorno,

il giorno prima.

Un’ora, o l’ora dopo,

il nuovo anno.

Continuiamo,

solitudine in due;

ma non vale la pena.

 

 

VII

 

Io sì.

Non quell’altra

che alla fine ti sei scelto.

La poverina, la noiosina.

Io sì.

Non lei ubbidiente.

Dolce, silente.

La cagnolina, la cinguettina.

Io sì.

Non una brava in cucina.

La cucitrice, la stiratrice.

Donna in cornice.

Io sì.

Lei che sbadiglia,

che ti somiglia.

La sorellina, la cuginetta.

Io sì.

Ti ho consegnato,

con lei,

la mia vendetta.

 

 

VIII

 

Stanca distratta distrutta

non ho nemmeno voglia di parlare.

Mi fa fatica anche solo guardarti.

Vedrai che piano piano tornerò

quella che ero.

Non essere però troppo paziente;

non sei mio padre, non sono una bambina.

Vedrai che se mi sgridi

qualche volta, (mio severo)

ce la farò a cambiare.

Non ti deluderò

per sempre.

 

 

IX

 

Ti verrò in mente quando

mi avrai perduto.

Improvvise torneranno

a stupirti

le frasi che suggerivo,

incantate, sospese.

«Noi siamo il cielo»,

dicevo. «Siamo gli alberi».

Ricorderai

di come sorridevo,

di come sorridevi «Anche le nuvole?»,

chiedendo.

«Anche», mentivo.

 

 

X

 

E lontano in due dimensioni

ti ho nascosto nelle nove

restanti.

Sparso ovunque. Sperso

come sempre sei stato.

Ma riaffiori, ogni tanto,

imprevedibile inatteso,

a guardarmi

con la tua timidezza

di offeso, benché innamorato.

Lontano irraggiungibile,

tempo e spazio nemici.

 

«Il Pickwick», 12 gennaio 2020

In Rime e varianti per i miei musicanti, Marco Saya Edizioni, Milano 2020

 

 

 

 

 

 

 

RECENSIONI

STRINDBERG

AUGUST STRINDBERG, SOLO – SALERNO, ROMA 1992

Verso la fine del lungo racconto Solo, August Strindberg (Stoccolma 1849-1912) pone in bocca al suo protagonista alter-ego questa confessione: “La solitudine mi ha reso ipersensibile, come se la mia anima fosse priva delle protezioni della pelle, e sono ormai così viziato dalla libertà di governare i miei pensieri e i miei sentimenti che non riesco quasi a sopportare il contatto fisico con un’altra persona. Di più: qualsiasi persona mi si avvicini mi fa un effetto soffocante per il fatto stesso di invadere con la sua la mia sfera spirituale”.

La novella era stata commissionata allo scrittore svedese dal suo editore Bonnier nel maggio del 1903, e composta nell’arco di un mese. Inizialmente doveva ribadire il tema della solitudine, già indagato da Strindberg in molte opere narrative e teatrali, come fonte di sofferenza patologica, generatrice di angoscia, sensi di colpa e manie di persecuzione. In realtà l’analisi approfondita dell’argomento sfociò in una valutazione positiva dell’isolamento dalla vita sociale, come possibilità di scavo interiore e metamorfosi morale, approdo a una maggiore libertà personale, indipendenza dalle convenzioni e padronanza dei propri istinti.

L’io narrante è uno scrittore che, tornato nella sua città natale dopo un periodo di lontananza, non riesce più ad adattarsi alle abitudini e all’ideologia della ingessata classe sociale cui appartiene. Quindi affitta una camera ammobiliata da cui esce solo per brevi passeggiate, evitando ogni rapporto con il prossimo che non sia quello puramente formale della sopravvivenza quotidiana.  Le sue peregrinazioni attraverso Stoccolma, nello scandire meteorologico delle varie stagioni, non è solo un’osservazione visiva e uditiva di ciò che lo circonda, spietatamente analizzato nei comportamenti degli esseri umani e animali incontrati, ma soprattutto una continua rielaborazione mentale di ricordi, progetti, letture, esperienze vissute e ricostruite immaginosamente. “Così sono rimasto a poco a poco solo, limitandomi ai rapporti superficiali a cui mi obbligava il mio lavoro e che di solito sbrigavo per telefono. Non voglio negare che all’inizio fosse difficile e che il vuoto che circondava la mia persona esigesse di essere riempito. Nel rompere i contatti con gli altri ebbi dapprima l’impressione di perdere energia, ma intanto il mio io cominciava come a coagularsi, ad addensarsi intorno a un nucleo in cui si riunivano, si fondevano le mie sensazioni, e la mia anima le assorbiva come nutrimento. Inoltre mi abituai a dare corpo a qualsiasi cosa vedessi o udissi in casa, per la strada o nella natura, e nel trasferire ogni mia percezione al lavoro in corso sentivo crescere il mio capitale; così, gli studi che facevo in solitudine risultavano più significativi degli studi sulla gente nella mia vita di società.”

Strindberg stesso aveva vissuto un auto-esilio forzato tra il 1883 e il 1889, poiché il suo inquieto anticonformismo e la sua scrittura di denuncia radicale l’avevano messo al bando del mondo letterario, così come la sua tribolata e contraddittoria esistenza professionale e sentimentale aveva avvolto la sua persona in un’aureola leggendaria di misantropia e ribellione politica.

Solamente nell’attività materiale dello scrivere il protagonista del racconto recupera la propria naturale disposizione creativa: “La solitudine, la solitudine è produttiva”, mentre il relazionarsi con l’altro da sé gli crea una sorta di ripugnanza fisica, che modifica addirittura la percezione dei cinque sensi, in un progressivo estraniamento dalla realtà. I visi di vecchi e bambini gli appaiono deformati e imbruttiti, le voci e i suoni esasperati e stridenti, odori e sapori esaltati e disgustosi, in una continua sovrapposizione di quadri sensoriali deliranti. Nella riflessione sul suo stato mentale, e nella ricomposizione di esso sulla pagina trova comunque un potenziamento della propria interiorità, capace di rispecchiare le varie anime dell’esistente.

“Quando però torno a casa e mi siedo alla scrivania mi sento veramente vivo…sguscio fuori dalla mia persona e parlo come fossi un bambino, una donna o un vecchio: sono re e mendicante, sono il signore potente, il tiranno e il più disprezzato, il ribelle sconfitto; qualsiasi opinione mi appartiene e qualsiasi religione è la mia; vivo in qualsiasi epoca, e io stesso non esisto più”.

Solitudine, quindi, non come impoverimento ma come possibilità di crescita e di ricchezza individuale e collettiva, scandaglio interiore e giudizio sociale: “In conclusione la solitudine è questo: avvolgersi dentro al filo di seta che fila la nostra anima, diventare crisalide e aspettare la metamorfosi. Viviamo, intanto, delle nostre esperienze, e telepaticamente viviamo la vita degli altri. Morte e resurrezione, una nuova educazione a qualcosa di inusitato e sconosciuto”.

© Riproduzione riservata

https://www.sololibri.net/Solo-Strindberg.html         9 gennaio 2020

RECENSIONI

ORLEV

URI ORLEV, L’ISOLA IN VIA DEGLI UCCELLI – SALANI, MILANO 2009

Un’infanzia tragica e avventurosa, quella di Uri Orlev (Varsavia, 1931). Nato da genitori appartenenti alla borghesia ebraica, allo scoppio della seconda guerra mondiale la sua famiglia fu internata nel ghetto di Varsavia e la madre venne uccisa dai nazisti. Uri e il fratello minore trovarono riparo presso alcune famiglie polacche. Nel 1943 furono scoperti e condotti nel campo di concentramento di Bergen-Belsen, da dove vennero liberati nell’aprile del 1945. Dieci anni dopo, i due ragazzi, arrivati da soli in Israele, furono accolti in un kibbutz. Solo molto più tardi il padre, sopravvissuto alla guerra e risposato, si fece vivo con i figli. Uri Orlev lasciò il kibbutz nel 1962 e ora vive a Gerusalemme, dove dal 1975 si occupa di traduzioni dal polacco all’ebraico, e soprattutto di letteratura per l’infanzia. Ha pubblicato più di trenta volumi, per lo più ispirati da esperienze personali o autobiografiche legate alla repressione nazista del popolo ebraico. I suoi libri sono stati tradotti in 38 lingue: nel 1996 ha ricevuto il premio Hans Christian Andersen, nel 2003 il Premio Cento per Corri ragazzo, corri.

Uno dei suoi romanzi più famosi, L’isola in Via degli uccelli, ha conosciuto anche una trasposizione cinematografica. In esso, ambientato negli anni ’40, il protagonista è un bambino ebreo polacco di undici anni, Alex, la cui madre è misteriosamente scomparsa dal ghetto, mentre il padre è stato prelevato dalle SS e fatto partire per una destinazione ignota. Rimasto solo, nel corso di una retata degli occupanti tedeschi, Alex si rifugia in un edificio diroccato, al numero 78 di Via degli Uccelli, nascondendosi in cantina, con la speranza che suo padre, sfuggito ai nazisti, torni a recuperarlo. Come unica compagnia gli è rimasta quella del suo topolino addomesticato, Neve, che porta con sé nella tasca della giacca.

Il ragazzo passa le giornate esplorando gli appartamenti vuoti del palazzo, attento a ogni rumore sospetto; esce di notte dalla sua isola segreta per cercare di procurarsi del cibo, e tutto ciò che trova nelle case abbandonate del quartiere ebraico: candele, libri, coperte, corde, il poco avanzato dai saccheggi di altri disperati come lui. Ingegnosamente scampato a una perquisizione, Alex scopre inaspettatamente un bunker costruito sotto la sua cantina, utilizzato in precedenza da un folto gruppo di rifugiati: riesce così a rifocillarsi per alcuni giorni. Le imprevedibili avventure, gli incontri casuali o minacciosi, le fughe precipitose, i miracolosi ripari dalle perquisizioni poliziesche che è costretto ad affrontare, ne acuiscono l’intelligenza, il coraggio, l’indomabile istinto di sopravvivenza. Nei cinque mesi trascorsi nella casa abbandonata di Via degli Uccelli, Alex impara a conoscere la durezza della vita, la cattiveria degli uomini, la capacità di ribellarsi, e i primi turbamenti d’amore per una bambina spiata dalla finestra mentre fa i compiti. Partecipa a un’imboscata, salva un partigiano ferito, uccide un tedesco, lotta contro il gelo dell’inverno polacco: e alla fine ritrova finalmente suo padre, scampato alla deportazione e unitosi alla resistenza.

Un apologo, questo di Uri Orlev, destinato agli adolescenti, per far conoscere loro le difficoltà e le persecuzioni incontrate dal popolo ebraico durante la seconda guerra mondiale, e l’eroismo di chi ha saputo superarle, nonostante la giovane età.

 

© Riproduzione riservata          8 gennaio 2020

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