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RECENSIONI

FORLANI

FRANCESCO FORLANI, PENULTIMI – MIRAGGI, TORINO 2019

 

Un libro composito, questo di Francesco Forlani, fatto di versi stampati in tondo e in corsivo, di prosa e interstizi meditativi, di haiku; intervallato da fotografie scattate con il cellulare dallo stesso autore, presumibilmente dalla metropolitana (interrata e sopraelevata) che è l’ambiente da cui, su cui e per cui il testo è stato pensato e scritto. “Pensato” come omaggio ai Penultimi, suoi inconsapevoli e meritevoli protagonisti: un omaggio malinconico, grato e rimordente. “Scritto” in un italiano colto ma nello stesso tempo popolare, striato di francese e di napoletano: le tre lingue e le tre anime dell’autore.

Francesco Forlani è infatti nato a Caserta, si è laureato in filosofia a Napoli, ha insegnato a Torino, è emigrato a Parigi dove tuttora risiede, professore in una scuola della banlieu. Poeta, narratore, saggista, consulente editoriale, traduttore, redattore di blog letterari, vulcanico performer e cabarettista, in questo volume si è ritagliato un suo spazio di riflessione, amara e insieme indignata., sulle vite degli altri, sulla sua che li osserva, sul mondo in cui è inserito pur con dignitosa estraneità. Da due anni si imbarca ogni mattina alle 5,40 sulla linea 6 della metro parigina, «nella tratta che da Nation va a Montparnasse» per raggiungere l’istituto in cui insegna: con lui una massa indistinta di persone, presenze assenti e intercambiabili: i penultimi, appunto, non proprio gli ultimi nella scala sociale. Un lavoro ce l’hanno, e lo raggiungono all’alba di ogni giorno feriale, rassegnati a una routine malpagata, ripetitiva, spersonalizzante: «Se ne stanno seduti i penultimi / alle cinque e mezza del mattino / tutti occupati i sedili sulla banchina / prima che il primo treno del giorno / salpi e porti per mari di moquettes / e vetri negli uffici le donne delle pulizie / o gli operai giù in fabbrica, i travet per piani / senza più nulla chiedere né altro domandare».

Il poeta li osserva, nei copricapi di lana degli uomini, nei foulard delle donne, negli occhi socchiusi per il sonno interrotto e nelle labbra che si muovono in cantilene o preghiere: appartengono a razze e religioni diverse, sono esseri umani come lui, compagni di ventura e sventura, ma forse non altrettanto capaci di introspezione e di valutazione sul destino che altri hanno confezionato per loro: «E ce ne stiamo attaccati studenti ed operai / come le lancette / di un orologio che segni / l’esatta metà del giorno / (e della notte) / c’est l’heure! c’est l’heure!» La Parigi della democrazia e dell’insurrezione ‒ Liberté, Égalité, Fraternité ‒ , si offre nel suo squallore quotidiano al giudizio sconfortato e agro dell’intellettuale, che sa comunque più e meglio dei suoi compagni di viaggio cercare scampo nella bellezza residua della luna seminascosta tra le nubi, del cielo ancora grigio, di una ragazza-runner ansante sul marciapiede, o nel profumo di colonia che improvviso invade lo scompartimento, riaccendendo memorie familiari.

In una posizione di privilegio, l’autore possiede gli strumenti culturali per interrogarsi su cosa sia diventato il vivere in comunità, oggi, nelle metropoli di tutto il mondo, pagando uno scampolo di welfare con la mancanza di rapporti umani e di felicità individuale. Lo fa in uno degli inserti in prosa del libro («Quando è cominciato tutto questo? Quando è iniziato l’assedio che ci stringe in una morsa che rende irrespirabile l’aria del tempo e che strozza l’anima… »), rispondendosi da solo: «Ed è strano e insieme meraviglioso che proprio in quell’attimo di scoramento senti rinascere dentro un soffio di vita nova, il gorgoglìo, la misura della tua forza, sapere che più inespugnabile è il diritto meno la forza potrà e che basta il pensiero di queste cose e quelle a far sollevare lo sguardo, a osservare meglio di fuori sporgerti per scoprire che quelli che sembravano i tratti ingrugnati del nemico sono solo il riflesso del tuo stesso volto nell’acquitrino di cinta e che un solo rimedio al fronte interno vale a quel punto, liberare il portale, calare il ponte, issarsi a riveder le stelle e respirare forte e dire vita, ehi vita mia, urlare, grazie».

Grazie alla vita comunque, grazie ai penultimi, «sti pauvres christi, de christiani, au senso largo / car il y a aussi el muslim, le buddist lo istemmatore, / toti sti pasi, bon, stano toti amuchiati, entassés, / addunuchiate dans la grande salle des pas perdus», che chiedono poche cose alle cose, «a volte solo un segno, un cenno, / da parte a parte della vita », quando bastano «i tre boccioli di rosa sulla piattaforma, in pieno inverno / di piena neve, sussurrano courage, la primavera avanza ».

© Riproduzione riservata        https://www.sololibri.net/Penultimi-Forlani.html         7 gennaio 2020

RECENSIONI

CHODASEVIC

VLADISLAV CHODASEVIČ, NON È TEMPO DI ESSERE – BOMPIANI, MILANO 2019

Il volume pubblicato da Bompiani, con testo russo a fronte, Non è tempo di essere, costituisce la più ampia scelta finora offerta al lettore italiano dell’opera poetica di Vladislav Chodasevič (Mosca 1886-Parigi 1939). Chodasevič iniziò a scrivere sotto l’influenza del simbolismo, approdando presto a uno stile più classico e ad argomenti di stampo metafisico. Ebbe una vita piuttosto tormentata per motivi di salute, sentimentali e politici, e anche per la sua non facile disposizione caratteriale, introversa, malinconica ed elitaria. Con la giovane compagna e nota scrittrice Nina Berberova, lasciò la Russia nel 1922, riparando dapprima a Berlino, quindi a Sorrento (ospite dell’amico Massimo Gor’kij), e in altre città europee, infine stabilendosi a Parigi, dove visse collaborando con importanti riviste e giornali nel ruolo di influente critico letterario.

I versi raccolti in questa antologia sono stati composti tra il 1906 e il 1928: a lungo sottovalutati in patria (nonostante l’apprezzamento di importanti intellettuali come Nabokov, che li definì “di una complicata meraviglia”), trovarono la debita risonanza solo dopo la perestroika di fine ’900.

Nell’approfondita introduzione della curatrice Caterina Graziadei, che ricostruisce empaticamente l’intera vicenda umana di Chodasevič, inserendola nel corrispondente contesto storico e culturale, la poesia dell’autore moscovita viene ripercorsa nei suoi sviluppi e nelle sue fondamentali proprietà stilistiche: «Un’intonazione senile guida i versi di Vladislav Chodasevič, che inclinano al ricordo, alla meditazione sulla morte, appena scossi da un brivido leggero di compiacimento nel contemplare il disfarsi. Senile è la postura da cui osserva il mondo».

Proprio l’osservare, il guardare dalla finestra un esterno cui è orgogliosamente conscio di non appartenere, è il principale leitmotiv della raccolta: «Guardo dalla finestra, e disprezzo, / Guardo me stesso, pure disprezzato, / Invoco tuoni sulla terra, senza credere al cielo», «Assordato dalla vita triviale, /irreparabilmente ferito, / abbasso le palpebre ‒ / e sogno che più lieve dilegui, / come una risacca lontana, / il fragore della vita terrena. // Meglio dormire che ascoltare la ciarla / malevola della vita umana, / la vuota disputa di piccole verità. / Tutto mi è già noto, e tutto vedo, / meglio in sogno attingere / un’alba sconosciuta».

Estraneo al comune sentire, isolato da un diaframma di esibita consapevolezza di sé, il poeta cerca rifugio nella protettiva quotidianità domestica, nella ripetizione dei gesti più semplici, nella frequentazione di luoghi e personaggi conosciuti e mai ostili, utilizzando un lessico colloquiale che intervenga a spezzare il tono elevato imposto dalla sublimità della meditazione filosofica. Spesso quindi la sua scrittura assume timbri prosastici e narrativi, volutamente misurati, talvolta ironici o addirittura sarcastici, scegliendo come oggetto la banalità di comportamenti consueti, la modestia silenziosa degli interni familiari, gli sfondi cittadini dei parchi, delle strade, dei tram, dei mestieri di Mosca. «Qui c’era una casa. È poco che del tetto / han fatto legna da ardere. Rimane solo / in basso la rozza ossatura di pietra. Spesso / qui vengo di sera a riposare», «Solo, fra le anse del fiume, / allo strìdio di attardate gru, / oggi di nuovo apprendo / la muta sapienza dei campi».

Il richiamo della spiritualità rimane un miraggio, nel confronto con la precarietà del vivere terreno, così frequentemente offeso da cattiverie, inimicizie e difficoltà materiali: «Vivere e cantare è quasi vano: / viviamo in una fragile volgarità. / Cuce il sarto, edifica il falegname: / i punti cederanno, crollerà la casa». Abbandonata la madre Russia, l’orizzonte privato di Chodasevič si fa inesorabilmente fosco e minaccioso, la sua scrittura patisce la sconfortante previsione di un futuro grottesco e sadico, da cui difendersi sfidando la storia e Dio dapprima con rabbiose provocazioni, quindi con un progressivo e inaridito silenzio.

Un plauso particolare va riservato alla nuova collana recentemente inaugurata dalle edizioni Bompiani, “Capoversi”, che offre ai lettori volumi di eccellenti poeti novecenteschi, colpevolmente trascurati o poco conosciuti, con testo originale a fronte, accurate presentazioni, ricchi apparati di note biografiche e bibliografiche, una sobria copertina e una grafica accattivante.

 

© Riproduzione riservata                     31 dicembre 2019

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RECENSIONI

TREVI

EMANUELE TREVI, OPINIONI DI UNA ZANZARA TIGRE DI ROMA – PONTE ALLE GRAZIE, FIRENZE 2014 (ebook)

Un monologo divertente e puntuto, come si conviene al più fastidioso e tenacemente persecutorio degli insetti, quello che Emanuele Trevi (Roma, 1964) fa recitare a una zanzara tigre capitolina, ovviamente in un espressivo e scollacciato vernacolo romanesco.

“Zanzara tigre non è uno scherzo, è una cosa che ti devi meritare”, predicava mamma zanzara “seria seria come un prete” alle sue ottanta zanzarine, istruendole su come si vive “in questo porco monno”. Mamma era “un po’ fascia”, e anche la zanzara figlia protagonista è “fascia”, mica come gli insetti che vanno di moda oggi, “che la Natura, ’sta gran paracula, s’è buttata a sinistra. Ma te rendi conto. ’Sta belva feroce, st’impunita. Ha cominciato a fa’ l’intellettuale la Natura, la zozzona femminista, quella che je piace l’armonia, la saggezza, er cibo sano e volemose tutti bene”. A Roma tutte le zanzare sono fasce, zanzare camerate: “Noi, noi semo le bastarde. Le invincibili… nessuno ci può sconfiggere. Noi semo come la steppa russa, come er Vietnam”. A niente possono disinfestazioni, manifesti del sindaco, armi chimiche. Le zanzare sono un esercito, milioni miliardi di femmine rabbiose, mentre i maschi dopo la copula schiattano: “Il maschio, da noi, è come di’ ’na zanzara venuta male, ’na specie de debosciato senza interessi, senza prospettive”.

La mamma in realtà è una finzione, una fantasia, un desiderio inesaudito, perché le zanzare nascono spontaneamente, e orfane: “Basta un pochetto d’acqua morta e zozza, n’avanzo de pozzanghera. Noi nasciamo già scafate, noi sappiamo già tutto. E manco so’ passati due secondi, che già stiamo a rosica’. Perché noi nasciamo incazzatissime”.

La zanzara monologante non ha quindi mamma, marito, amiche: sola, single, basta a sé stessa. Intontita, ubriaca, mezza avvelenata dal sangue torbido che succhia, impregnato di alcol psicofarmaci stupefacenti: se le sue vittime sono poi turisti russi ronfanti in una suite del Grand Hotel, ecco che riescono ad appestare anche l’insetto più robusto. “Sembra de succhia’ ’na farmacia ambulante, ormai. Ce fate sbarella’, ce piombate nella sonnolenza eterna”. Quindi, dei venti giorni destinati alla sopravvivenza di una zanzara, la protagonista è probabilmente arrivata all’ultimo, si appresta a dire addio alla vita, ha perso ormai le ali e qualche zampetta, combattendo valorosamente le sue battaglie sanguinarie contro un’umanità tronfia e padrona. La favoletta esopica di Emanuele Trevi, risciacquata nello spirito di Belli e Trilussa, ci ricorda che tutto ha un’anima senziente: anche la più rosicante incazzatissima moribonda Zanzara-tigre-de-Roma.

 

© Riproduzione riservata            31 dicembre 2019

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RECENSIONI

BOBIN

CHRISTIAN BOBIN, L’UOMO DEL DISASTRO – ANIMAMUNDI, OTRANTO 2015

 

Christian Bobin (Le Creusot, 1951), vissuto sempre in maniera appartata nei dintorni della sua cittadina natale, in Borgogna, ha studiato filosofia dedicandosi alla meditazione e alla scrittura, e lavorando in passato come operaio e infermiere psichiatrico. Tradotto per la prima volta in Italia dalle edizioni San Paolo nel 1996, ha visto crescere negli anni il numero dei suoi lettori ed estimatori, per la qualità del suo timbro narrativo pacato e sobrio, e per la profondità delle sue riflessioni.

Bobin nelle sue pubblicazioni, che spesso consistono in plaquette di poche pagine, si confronta con temi altissimi: il senso della vita, il rapporto con gli altri, il valore della conoscenza e dell’amore, il vuoto e l’assoluto. Non lo si può definire un autore clericale, o particolarmente fedele all’ortodossia ecclesiastica: la sua è una produzione meditativa e raccolta, di prose poetiche intense, miranti al recupero di una dimensione spirituale dell’esistenza, illuminata da momenti epifanici di grazia e di rivelazione.

In Elogio del nulla, ad esempio, si oppone all’esaltazione del troppo e del superfluo, all’esibizione ostentata, lodando invece l’importanza dell’attesa (“è un fiore semplice: germoglia sui bordi del tempo”), dell’esperienza (“quello che attraversiamo ci cambia: il vento si ingolfa nel sangue”), dell’ amore (“ci solleva da tutto, senza salvarci da nulla”), della natura (“all’inizio si guarda quello cui si passa accanto, poi lo si diventa”), con l’invito a liberarsi da costrizioni inutili, imparando a conquistare la gioia “là dove non c’è più niente da afferrare, se non l’inafferrabile”. La felicità cui ambire deve essere pura, priva di motivazioni e fini esteriori: “Si può chiedere all’uccello la ragione del suo canto?”

Credente, ma di una fede non circoscritta al cattolicesimo, parla di Dio con trasporto lieve, con affettuosa serenità di spirito: pressoché inevitabile, quindi, che venticinque anni fa abbia pubblicato in Francia un libro di grande successo e molto premiato ‒ in Italia arrivato all’ottava edizione presso le Paoline ‒, dedicato alla figura di Francesco d’Assisi: il santo della gioia, delle cose minute e di tutte le creature. In Francesco e l’infinitamente piccolo, alla pesantezza di una religione intesa come istituzione e obbligo antepone una spiritualità luminosa e confidente. Poeta del poco, indifferente ai palcoscenici, alle cattedrali e ai salotti, di sé ha scritto: “Quel che si dice in me non sta nei miei libri. I libri sono un contro-rumore al rumore del mondo. Quel che si dice in me si confida al silenzio, non è altro che silenzio. I libri sfiorano questo silenzio”.

Il silenzio, la quiete, il ritrarsi da ciò che distrae e confonde, è anche la tessitura tesa alla base de Il distacco dal mondo, che in ogni pagina condensa un insegnamento sapienziale, lontano da ogni presunzione o retorica, quasi l’autore scrivesse con scarsa attenzione a un eventuale pubblico di lettori. Non c’è declamazione, né intento pedagogico: solo raccolta riflessione, indagine del pensiero interrogante.  “Se consideriamo la nostra vita nel suo rapporto col mondo, dobbiamo resistere a quel che pretendono fare di noi, rifiutare tutto ciò che si fa avanti – ruoli, identità, funzioni – e soprattutto non cedere mai nulla della nostra solitudine e del nostro silenzio…”,  “L’amore è distacco, oblio di sé… Meglio sarebbe chiederci che cosa ci rende tanto difficile amare qualcuno senza legarlo subito alla nostra vita, il che equivale a domandarci perché ci è così difficile amare”.

Bobin invita a ritrovare nel proprio io, gonfio di cose inutili e poco concentrato su quello che conta davvero, lo stesso abbandono fiducioso del bambino che si addormenta nel chiasso della folla, che impara a parlare innamorandosi del suono di ogni vocale, o che si impegna nel suo gioco con la dedizione propria dei santi. Dovremmo recuperare la leggerezza “dell’uccello che per cantare non ha bisogno di possedere il bosco, nemmeno un solo albero”, e la volontà di compiere ogni atto, anche il più banale e quotidiano, con la massima applicazione, perché questa cura verso le cose minime si riflette immancabilmente nell’ordine universale. Consapevoli della nostra inessenzialità, impariamo a conquistare l’essenziale: “Riconosco lo splendore del vero soltanto nella gioia e in quella coscienza di noi stessi che l’accompagna sempre, la coscienza radiosa di non essere nulla”.

Ancora, in Mozart e la pioggia: “I momenti più luminosi della mia vita sono quelli in cui mi accontento di vedere il mondo apparire. Questi momenti sono fatti di solitudine e silenzio. Sono sdraiato su un letto, seduto a una scrivania o cammino per strada. Non penso più a ieri e domani non esiste. Non ho più legami con nessuno e nessuno mi è estraneo. Questa esperienza è semplice. Non c’è da volerla. Basta accoglierla quando arriva. Un giorno ti sdrai, ti siedi o cammini, e tutto ti viene incontro senza fatica”.

Due letttori doc di Christian Bobin, Franco Arminio e Mariangela Gualtieri, hanno detto di lui: “Bobin sembra che scriva frasi fatte apposta per essere citate. E ancora più incredibile è che questo autore riesce sempre ad assomigliarti. Tu leggi e pensi che sta scrivendo come scrivi tu, come pensi tu, come senti tu”, “La scrittura di Bobin è certamente poesia, perché è colma di silenzio, perché ha al proprio centro il silenzio: lo suscita, lo impone alla lettura, come respiro obbligato, come passo di forte e lento camminatore… cosicché da lettori si diventa auscultatori, da corridori distratti a meditanti, da divoratori onnivori ad attenti. Bobin dunque ci conduce fuori dall’ordinario, ci educa”.

La casa editrice Animamundi, fondata a Otranto nel 2012, sta dedicando molta attenzione all’opera di Christian Bobin, e in pochi anni ha pubblicato dodici suoi testi. Tra questi, forse il libro che più si allontana dalla produzione usuale e conosciuta dello scrittore francese è L’uomo del disastro, dedicato alla figura di Antonin Artaud.

Qui, l’urlo rabbioso di un teatrante angosciato si placa nel tratteggio lieve del filosofo, la fisicità del primo si disincarna nella spiritualità del secondo. Cinquantacinque anni dividono i due scrittori: “l’abbondanza di un dolore” che “esigeva l’impossibile”, il furore solitario della follia, la morte tragica e silenziosa di Artaud incontrano in Bobin la clemenza di un ascolto docile e amichevole, la consolazione di una comprensione tardiva e inutile. “Così eri tu, con un balzo saltavi nel cuore del reale, al centro della vita cruda, riaprendo ogni volta la ferita dei tuoi nervi, la piaga di un corpo soffocato nella pena di vivere senza vivere”, “Credo ci si ammali per intelligenza, per una intelligenza troppo esatta, troppo improvvisa, non acclimatata”.

La lettera ad Artaud, a un artista incompreso, all’uomo del disastro mentale, è quasi una richiesta di scuse proveniente da un paese intero che non ha saputo o voluto comprendere. Bobin si fa portavoce di questo senso di colpa collettivo: “Non scrivo su di te. Non scrivo un libro dotto”. Racconta d’altro, infatti, sfiorando i propri contenuti d’elezione: l’infanzia, il tempo, la vicinanza e l’indifferenza, il cielo vuoto, la malinconia e la speranza. Per avvicinare “un uomo che ha perduto la propria ombra… che va nel mondo come in un deserto… che sbraita contro Dio che manca”. Antonin Artaud, uomo senza misura, titanico, eccedente, nelle parole di un mistico si scontra con la misura per lui inaccettabile della pace interiore: mondi e pensieri inconciliabili, che nella scrittura cercano in modi diversi lo stesso scampo dall’inferno.

 

© Riproduzione riservata     «Il Pickwick», 28 dicembre 2020

 

 

 

 

 

INTERVISTE

FAZIO

RAFFAELA FAZIO, TRADUTTRICE E POETESSA

Raffaela Fazio, nata ad Arezzo nel 1971, risiede e lavora a Roma come traduttrice, dopo aver vissuto in vari paesi europei. Laureata in lingue e politiche europee (Grenoble) e specializzata in interpretariato (Ginevra), ha poi conseguito un diploma in scienze religiose e un master in beni culturali (Roma), interessandosi in particolare all’iconografia cristiana. È autrice di vari libri di poesia, tra cui: L’arte di cadere (Biblioteca dei Leoni, 2015), canzoniere amoroso; Ti slegherai le trecce (Coazinzola Press, 2017), rivisitazione della mitologia classica al femminile; L’ultimo quarto del giorno (La Vita Felice, 2018), scansione del tempo interiore; Midbar (Raffaelli Editore, 2019), rilettura di racconti e archetipi biblici; Tropaion (Puntoacapo Editrice, 2020), poetica del “polemos” esistenziale. Si è occupata anche della traduzione di Rainer Maria Rilke, le cui poesie d’amore sono state raccolte in Silenzio e tempesta (Marco Saya Edizioni, 2019).

  • In quale ambiente familiare e universitario ti sei formata?

Sono nata e cresciuta ad Arezzo. Mio padre (che ho perso quando avevo 24 anni), venuto da un sud molto povero (con sette fratelli e una famiglia contadina in Calabria), faceva l’avvocato. Mi piace ricordare di lui l’intraprendenza, la capacità di osare. Mia mamma, aretina, era professoressa di matematica e scienze alle medie. Ho sempre avuto un forte legame con lei. Di lei amo la paziente tenacia, la sensibilità, l’affidabilità. Ora che ci penso, credo che ad accomunare i miei genitori, molto diversi per temperamento, fosse il senso della correttezza, un’allergia innata alle scaltrezze che vanno oggi così di moda. Mio fratello, di cinque anni più grande di me, architetto e fotografo ora stabilitosi a Londra, è stato la mia “scuola di sopravvivenza”: ho dovuto affilare la mia ironia per rispondere alla sua, spesso inclemente. Anche mia nonna materna, ferrarese, ha influenzato la mia giovinezza: era combattiva, schietta, sempre pronta alla battuta. Questo è l’ambiente che ho lasciato, dopo la maturità. Mi sono iscritta direttamente all’università di Grenoble: là, per ottenere la laurea in “Langues étrangères appliquées”, ho seguito principalmente corsi di lingua, cultura e politica tedesca e inglese. Grazie ai programmi Erasmus previsti dall’università francese, ho frequentato il terzo anno in Germania, a Ludwigsburg, e il quarto anno in Inghilterra, a Cambridge. Mi sono così laureata e poi ho trascorso un anno a Londra, per lavoro. In seguito mi sono specializzata a Ginevra, alla Scuola di Interpreti e Traduttori. Dopo un altro anno in Germania, a Heidelberg, mi sono trasferita a Bruxelles, come interprete presso la Commissione europea. Il Belgio è stato l’ultimo paese straniero in cui ho vissuto, prima del rientro in Italia, che allora non credevo definitivo… ma che tale si è poi rivelato. Adottata da Roma, ho ripreso a studiare negli interstizi di tempo permessi dal lavoro (e dai figli): qua ho approfondito soprattutto le materie religiose e artistiche.

  • Sei una poetessa e sei una studiosa. Ti sei occupata a livello professionale di lingue straniere, di traduzione e interpretariato, di scienze religiose e di iconografia cristiana. Quanto ha inciso questa molteplicità di interessi culturali sulla tua scrittura?

Credo che abbia inciso come ha inciso tutto quello che ho fatto nella vita e tutte le persone che ho incontrato. L’aver vissuto in contesti diversi ha forse ammorbidito la mia visione del mondo, mostrandomi che ogni situazione ha la sua dinamica specifica e che, prima di esprimere un giudizio, andrebbe conosciuta la cosa dal suo interno o almeno da molto vicino. Il cambiamento, la necessità di lasciare paesi e persino persone penso che mi abbia insegnato anche una certa tendenza all’essenzialità, per far tesoro di quello che davvero conta e per non disperdermi nel superfluo. Questo, naturalmente, è uno sforzo continuo, non un traguardo raggiunto una volta per tutte: ero e rimango una persona irrequieta! Nei miei studi, ho privilegiato quelli che mi hanno permesso di fare principalmente due cose: accogliere la diversità (le lingue straniere e le culture sottostanti), e andare a fondo di ciò che pare evidente, quasi scontato (gli studi biblici e iconografici). Come ho detto altrove (intervista su poesiadelnostrotempo), mi piace leggere la realtà come una grande “foresta di simboli”, attraverso i quali scoprire il “nuovo” anche dentro il “vecchio”, in un tessuto connettivo che unisce ogni cosa, senza annullare la specificità del singolo.

  • Quale tra i poeti italiani e stranieri ha regalato più linfa alla tua ispirazione?

Confesso che i poeti che mi hanno maggiormente nutrita sono i classici che ho conosciuto da bambina e da ragazza, anche se ce ne sono di nuovi e di nuovissimi che trovo sicuramente interessanti. Scoprire una voce stimolante mi dà la carica, di più, mi rincuora con un senso di fiducia. Ma i vecchi amori sono indimenticabili. Innanzitutto gli ermetici (da Ungaretti a Luzi) e i simbolisti francesi. Però ricordo anche che, alle elementari, Pascoli mi colpì per la capacità di addensare il mondo in un dettaglio, e Leopardi per quella, quasi opposta, di aprire il dettaglio alla sconfinatezza (solo in seguito ne ho apprezzato la disincantata resistenza). I romantici tedeschi e inglesi sono arrivati dopo. Sul mio comodino ora ci sono sempre Rilke, Tagore e Salinas. E sullo scaffale degli “irrinunciabili”, le mie poetesse: Antonia Pozzi, Emily Dickinson, Hilde Domin. Accanto, tre poeti francesi: Yves Bonnefoy, Francis Ponge e Pierre Reverdy. Tra le scoperte degli ultimi anni, la poesia polacca: oltre la Szymborska, Zagajewski, Twardowski, Herbert. La lista è naturalmente molto più lunga, e credo che non smetterà mai di crescere…

  • La parola della poesia, nei tuoi versi, sembra sia da coltivare e accogliere nel silenzio e nella meditazione. Che spazio ti sei ritagliata all’interno del mondo letterario contemporaneo, così freneticamente attivo e competitivo mediaticamente, sui social, nei festival, nelle letture pubbliche?

Fino a tre anni fa, ho vissuto la poesia in maniera molto privata, non solo per carattere, ma per motivi pratico-organizzativi. Ho iniziato a frequentare poeti in carne e ossa soltanto di recente, partecipando a letture e a incontri, anche se continuo a diffidare delle maratone poetiche e dei concorsi letterari, preferendo situazioni in cui c’è uno scambio da una parte “più personale”, nel senso del confronto dialogico, e dall’altra “meno personale”, nel senso di una valutazione oggettiva. A mio parere, nell’ambiente letterario odierno, anche a livelli più modesti, la difficoltà rimane quella di non farsi influenzare da criteri esterni al testo, come la simpatia (legittima) o l’antipatia per l’autore, oppure il nome già noto, considerato che spesso la visibilità, nel mondo dei social, non coincide con la qualità. Frequentare persone che hanno passioni (o quantomeno interessi) simili ai propri è piacevole e arricchente, anche per una crescita personale, ma è altrettanto importante non limitarsi all’orticello letterario e, soprattutto, non scordare che l’arte è sempre in debito con la vita, e che da essa non può prescindere.

  • Credi che la poesia, con la sua minima incidenza editoriale, possa ancora svolgere un ruolo etico e culturale motivante, collettivamente e individualmente?

La mia risposta è sì, ma ovviamente non è una risposta oggettiva, perché amo la poesia da sempre e la vado a scovare anche in nicchie o su scaffali impolverati. La poesia è il mio canale preferenziale nell’esperire il mondo e nell’esprimere me stessa nel mondo. Forse la domanda andrebbe fatta a chi non scrive poesia. Allora dico semplicemente: se la poesia, come qualsiasi altra forma creativa, riesce a mantenere viva (o a rianimare) la parte più “umana” della persona, avrà sempre un ruolo etico e culturale. Cosa vuole dire “umana”? Per me vuol dire relazionale e riflessiva, empatica e ingegnosa, capace di provare gratitudine, di farsi domande anche dolorose e di compiere un passo fuori dai propri confini.

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https://www.sololibri.net/Intervista-a-Raffaela-Fazio.html      20 dicembre 2019

RECENSIONI

BORSO

DARIO BORSO, TRE QUADERNETTI INDIANI – EXORMA, ROMA 2019

Nonum prematur in annum, raccomandava Orazio. Ma Dario Borso (filosofo e germanista, uno dei nostri più stimati traduttori dal tedesco) ha moltiplicato per sei il suggerimento del poeta latino. Infatti solo dopo cinquant’anni ha osato far uscire dal cassetto e affidare alle stampe questo libro di viaggi e memorie, Tre quadernetti indiani.

Ventenne, durante un pellegrinaggio laico in India, si era imbattuto per caso al Crown Hotel di Delhi in un coetaneo milanese, Pietro Spiga: entrambi reduci da un altro tour iniziatico negli Stati Uniti, erano partiti insieme alla volta del Nepal. Dario poi, ammalatosi di malaria, era stato ricoverato in ospedale a Calcutta, quindi aveva raggiunto da solo Madras, iniziando a scrivere un resoconto dei suoi inquieti, affascinati, illuminanti itinerari fisici e mentali. Tornato in Italia, aveva chiesto all’amico Pietro di illustrare con disegni a china le sue narrazioni, e tali schizzi (incorniciati in quadri neri ‒ punteggiati, zebrati, stellati, animati da facce paesaggi animali vegetali) sono riprodotti nell’edizione romana di Exorma.

Un mese intero – ottobre ‒, passato girando da una città all’altra (Mamallapuram, Kovalam, Quilon, Alleppey, Cochin, Mahé, Hampi…) a piedi, in treno, in corriera, su ferryboat e barconi; incontrando i personaggi più incredibili provenienti da ogni parte del mondo; ascoltando musica orientale monocorde (“le voci indiane si rincorrono su tempi estenuanti senza mai raggiungersi”); fumando hashish e mangiando funghi allucinogeni, che producono in testa “tante storie sconnesse, come un film muto impazzito”; cibandosi di vivande piccanti e bevendo intrugli alcolici; leggendo e citando brani e poesie occidentali, oppure recuperando miti, leggende, divinità indù (Shiva, Kali, Parvati, Zarathustra, Ganesh, Krishna) indicanti nuove strade da percorrere, nuove mete intellettuali da raggiungere.

A ragione Valerio Magrelli nella prefazione scrive che Borso nel suo diario ha inteso coscientemente privilegiare l’aspetto visivo (e io aggiungerei coloristico) delle descrizioni, con i cieli di volta in volta blu inchiostro, “rosso porpora con increspature giallognole” o “di un grigio fosforescente elettrico”, nubi violacee, lune bianchissime, arcobaleni doppi e fulmini saettanti nel buio. Mare, spiagge, deserti, giardini, templi, città caotiche e affollate. Donne e uomini mezzi nudi o avvolti in vesti variopinte. Frutti (“ananas col suo bel ciuffo verde, una noce di cocco abbronzata ma pelosa, una papaya smunta e allampanata”). Animali minuscoli come le lucciole, zanzare e scarafaggi, o enormi come gli elefanti, e poi anatre, sorci, scimmie, vacche, tigri, capre, cammelli. E un’avventurosa Sylvie francese da amare con dolcezza, s’il vit…

Un turbinio di percezioni, suoni odori visioni che si accavallano, insieme alle parole (“Si sta seguendo un filo, si formula una frase, ed ecco che una parola qualsiasi, anche un avverbio, anche una particella, sale sul palco e chiama altre sorelle a improvvisare”). Eppure, in questo vortice di impressioni, chi narra mantiene non solo un suo stile composto, limpido, curato e quasi classico, ma addirittura rispolvera una propria disposizione meditativa, razionalmente critica, che lo porterà negli anni a insegnare filosofia nelle università milanesi. Così contesta l’ascetica severità di Wittgenstein in favore di una fisicità materiale più esuberante: “Non è detto che su ciò di cui non si può parlare si debba tacere. Si può sempre gridare, pregare, cantare”. Infatti, “certe cose dell’India costringono all’infanzia: la luce che va e viene spesso e volentieri, le ghiacciaie di legno e i furgoni con i blocchi del ghiaccio, i dodge polverosi dalle sponde tremolanti, gli altoparlanti in strada che trasmettono a tutto volume come al cinema parrocchiale nelle domeniche d’estate…”: allora gli anni bambini passati nel paesino veneto tornano alla memoria, insieme all’alito della mamma ritrovato nel giro lento del ventilatore, al parlare svelto di lei e a quello burbero del padre, al negozio da fruttivendolo di famiglia (“‒Mamma, mamma, hanno appeso le ciliegie all’albero! ‒. Finora le avevo viste solo da noi, in bottega”).

La breve postilla finale di Chandra Livia Candiani sottolinea lo sguardo mai giudicante, mai arrogante, con cui Dario Borso si volge all’India, rendendocela com’è: superficie indulgente su cui galleggiare, senza pretendere di scendere in profondità, puntando gli occhi agli orizzonti.

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https://www.sololibri.net/Tre-quadernetti-indiani-Borso.html            18 dicembre 2019

 

 

 

 

 

 

 

RECENSIONI

FAZIO

RAFFAELA FAZIO, MIDBAR – RAFFAELLI EDITORE, RIMINI 2019

Dopo aver indagato nelle sue ultime pubblicazioni il mito classico attraverso le figure femminili, e il tempo nelle sue scansioni materiali e inconsce, Raffaela Fazio (Arezzo, 1971) affronta nei versi di Midbar l’universo veterotestamentario, con competenza scientifica e lievità di stile, riuscendo a rendere coinvolgente un argomento di non facile assimilazione.

Già il titolo della raccolta rivela la consuetudine dell’autrice con l’ebraico: midbar significa deserto, termine che richiama le estese solitudini abitate dai profeti, i silenzi umani e divini tanto difficili da interpretare. Con un minimo scambio consonantico, può riallacciarsi al sostantivo dabar, indicante sia la parola sia l’evento. Ecco quindi che nel vuoto dell’assenza si iscrive l’incontro, il suono verbale emesso dall’altro da sé, l’esperienza di un avvenimento che sconvolge e trasforma, come suggerisce l’epigrafe di Heidegger posta in esergo a questo volume.

I protagonisti biblici narrati sono appunto tra coloro la cui vita è stata segnata da una sconvolgente epifania, a cui hanno risposto con un’affermazione o una negazione, con un’obbedienza o una ribellione. Prevalentemente si muovono all’interno della Genesi: Eva, Abramo, Isacco, Agar, Giacobbe, Rachele, Giuseppe. Mosè ci parla dall’Esodo, Rachab dal libro di Giosuè; altri personaggi hanno la voce dei profeti, Giobbe alza il suo grido di dolore e protesta in chiusura del volume: “Cos’è che crolla in me? / Cosa rimane / se stendi uguali i giorni / sul boia e l’innocente? / Chi mente / non vacilla. / Prospera il più forte / e il gregge dell’iniquo / non ha aborti. / Perché taci? / Dove il mio sbaglio?” Sono uomini e donne vissuti migliaia di anni fa, che si pongono le stesse nostre domande sulla vita e sulla morte, vivono la stessa nostra ansia nei riguardi del futuro, un uguale rancore contro l’ingiustizia e la sofferenza immeritata, attendendo una risposta, un’illuminazione e una guida da Dio.

“Ogni parola è un passo. / Cambia nel dirsi e nell’ascolto”: così, con questi due versi intensamente asseverativi si apre la prima poesia, a indicare che proprio nel doppio binario della comunicazione l’essere umano si propone come alterità all’assoluto, relazionandosi con gli altri e con la storia, facendosi lingua e orecchio che esprime e attende la parola, la quale “Nasce dal deserto e non lo lascia: / mentre lo attraversa / ne spinge il confine più lontano”. Gli elementi naturali (luce e vento, sabbia e pietra, terra e cielo, acqua e fuoco), eterno sfondo a ogni presenza animata, partecipano al miracolo dell’esistente: ma è solamente il parlare che li vivifica, è con la presenza della creatura che diventano eco, domanda e risposta. Eva nell’Eden parla con l’albero della conoscenza, l’una attribuendo all’altro la responsabilità della scelta del male e del peccato che gravano sull’umanità: “Da me si passa / per morire. / La donna lo sapeva: per generare / barattò l’eterno con la storia / s’iscrisse nella fine / e offrì un inizio”.

Nella dotta ed esauriente prefazione, Massimo Morasso dà atto a chi scrive di aver saputo rendere nella semplice linearità del suo poetare la risonanza solenne del testo sacro, osando “la sfida del confronto fra teologia e letteratura”. L’autrice ha intessuto un dialogo tra umano e divino privo di ambizioni spiritualistiche, lontano da ogni aspirazione alla trascendenza, ma decisamente terreno, impastato di un epos che supera la soggettività, e si fa invece portavoce di una vicenda storica diventata simbolica e universale. Calandosi e insieme celandosi negli eventi che racconta, Raffaela Fazio partecipa a una ricerca condivisa, incardinata nel tempo eppure fuori dal tempo, e l’accompagna con la presenza discreta, sensibile e indulgente della testimonianza poetica.

 

© Riproduzione riservata    https://www.sololibri.net/Midbar-Fazio.html      17 dicembre 2019

 

 

 

RECENSIONI

MARINETTI

FILIPPO TOMMASO MARINETTI, UCCIDIAMO IL CHIARO DI LUNA! – STREETLIB, 2019 (ebook)

Il chiaro di luna riveste, nell’immaginario collettivo, lo sfondo ideale di ogni espressione sentimentale, dalle dichiarazioni d’amore alla nostalgia intenerita per ciò che è perduto, fino alla vaghezza idilliaca offerta da un paesaggio naturale. Magari accompagnato dalle note della celebre sonata beethoveniana, risulta anche essere il simbolo più trito e retorico di un certo romanticismo languido e sognante, a lungo sfruttato in poesia, nell’arte, nel cinema. Naturale, quindi, che il rivoluzionario fondatore del futurismo Filippo Tommaso Marinetti (1876-1944), esaltatore del progresso, della velocità, della guerra e della fisicità, abbia voluto chiamare Uccidiamo il chiaro di luna! un suo provocatorio pamphlet del 1912, il cui titolo è diventato la parola d’ordine del movimento futurista e della sua ansia innovatrice contro ogni tradizione, politica e letteraria. Già le frasi iniziali del breve saggio indicano l’esaltazione con cui Marinetti intendeva spronare i suoi compagni alla ribellione contro gli amorfi interpreti del pacifismo, del neutralismo e della classicità artistica, definiti Paralisi, Podagra, gregge puzzolente, insetti, cimici, lebbra schifosa, pesce ammucchiato, lugubri formiche della saggezza, code di pavoni, pomposi galli di banderuole, leziosi fazzoletti profumati:

“Olà! grandi poeti incendiari, fratelli miei futuristi! … Usciamo da Paralisi, devastiamo Podagra e stendiamo il gran Binario militare sui fianchi del Goriankar, vetta del mondo! … Turbini di polvere aggressiva; accecante fusione di zolfo, di potassa e di silicati per le vetrate dell’Ideale! …Fusione d’un nuovo globo solare che presto vedremo risplendere! —Vigliacchi! — gridai, voltandomi verso gli abitanti di Paralisi, ammucchiati sotto di noi, massa enorme di obici irritati, già pronti per i nostri futuri cannoni. «Vigliacchi! Vigliacchi! …Perché queste vostre strida di gatti scorticati vivi? … Per ora, ci accontentiamo di far saltare in aria tutte le tradizioni, come ponti fradici! …La guerra? … Ebbene, sì: essa è la nostra unica speranza, la nostra ragione di vivere, la nostra sola volontà! …Sì, la guerra! Contro di voi, che morite troppo lentamente, e contro tutti i morti che ingombrano le nostre strade!”

Il grido di battaglia chiama a raccolta “pazzi e pazze, scamiciati, seminudi”, decisi a “ringiovanire il volto rugoso della Terra”, ruggenti e famelici come leoni che “erette le code, sparse al vento le criniere, foravano il cielo nero e profondo”. E se nel cielo splende “la Luna carnale, la Luna dalle belle cosce calde”, ecco che dalle turbe animose dei combattenti “si udì gridare nella solitudine aerea degli altipiani: — Uccidiamo il chiaro di luna!”, simbolo di languore imbelle e sdolcinato. “Fu così che trecento lune elettriche cancellarono coi loro raggi di gesso abbagliante l’antica regina verde degli amori”. Luce elettrica contro i bagliori del satellite pallido, mitragliatrici contro le arrugginite baionette, aeroplani contro la vecchia cavalleria. “Facciamoci dunque degli aeroplani! — Saranno azzurri! — gridarono i pazzi — azzurri, per sottrarci meglio agli sguardi del nemico, e per confonderci con l’azzurro dèi cielo …È nostra, la vittoria …ne sono sicuro, poiché i pazzi lanciano già al cielo i loro cuori, come bombe! Attenti! …Fuoco! …Il nostro sangue? …Sì! Tutto il nostro sangue, a fiotti, per ricolorare le aurore ammalate della Terra!”

Ma, cent’anni dopo la furiosa battaglia marinettiana, la graziosa e silenziosa luna leopardiana continua a illuminarci: gentile, paziente. Per nostra fortuna.

 

© Riproduzione riservata      13 dicembre 2019

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RECENSIONI

GRUENBEIN

DURS GRÜNBEIN, DELLA NEVE, OVVERO CARTESIO IN GERMANIA – EINAUDI, TORINO 2005

Il poeta che in Europa si è più avvicinato al pensiero scientifico, esplorando le conquiste della neurobiologia, del cognitivismo, della psicanalisi, della fisiologia, è senz’altro il tedesco Durs Grünbein, nato a Dresda nel 1962, e oggi residente a Berlino. Il suo approccio positivista (anzi, decisamente materialista) alla scrittura, non gli ha impedito di produrre versi di profonda risonanza emotiva, sia nella ricostruzione della propria storia familiare e sentimentale, sia nelle coraggiose prese di posizione politiche, animate da una vivace vena sarcastica e da un generoso, sebbene risentito, slancio utopistico. Di questo originale e difficile percorso intellettuale, sospeso tra ricerca, meditazione, denuncia, sogno, elaborazione formale, è testimonianza il primo libro pubblicato sempre da Einaudi nel 2005, a cura di Anna Maria Carpi: Della neve, ovvero Cartesio in Germania.

In quarantadue canti e duemila versi, Durs Grünbein narra la nascita del razionalismo attraverso la figura di Cartesio, primo interprete filosofico della modernità. La scelta del matematico, astronomo e filosofo francese fu determinata senz’altro dal ruolo fondamentale da lui giocato nella storia del pensiero occidentale, ma probabilmente ebbe anche un rilievo la memoria del poemetto pubblicato da Samuel Beckett nel 1930, Whoroscope, in cui il drammaturgo irlandese tratteggiava un Cartesio superstizioso ed esoterico alle prese con dilemmi metafisici e culinari, mentre affida al suo servo Gillot la cottura di un uovo, esibendosi poi in un’esposizione erudita sul concetto di tempo, tra citazioni colte e provocazioni blasfeme e scurrili.

Gillot è anche il co-protagonista del libro di Grünbein: giovane servo e allievo di René Descartes, sua controparte ingenua e impulsiva, destinato a rappresentare il sano buon senso popolare e la fisica concretezza rispetto all’astrazione concettuale del maestro-padrone. Il primo canto si apre appunto con Gillot che sollecita con insistenza Cartesio ad alzarsi dal letto, per approfittare della gelida giornata nevosa, particolarmente adatta a un produttivo lavoro di riflessione e scrittura: «Destatevi, Monsieur. Tutta notte che nevica. / Fin dove arriva l’occhio è bianca la pianura, / è tutta un cono bianco. Sono gli alberi / che il grande arrangiatore con invernale mano ha ingentilito. // … Forse la neve aiuta – a capire cos’è la percezione. // … Placato ogni pensiero, un invito a studiare».

È l’inverno del 1619. Il giovane René passa alcuni mesi in una cittadina della Baviera, sommersa dalla neve e insanguinata dalla Guerra dei Trent’anni: massacri, saccheggi, incendi, stupri, ruberie. «Guerra e furia di lupi ‒ / L’artiglio del demonio attraversa l’Europa». Costretto all’inazione, si mette a riflettere su alcuni problemi di algebra e di geometria, prendendo in considerazione tutto ciò che vede e sente, senza mai prescindere dai suoi fondamentali processi cerebrali. Il cogito cartesiano ha infatti la prevalenza su qualsiasi altro argomento: «Io mai fantastico. // …Io sono un realista. //… Non mi serve l’esterno. Ho da guardarmi dentro. // … Io sono solo spirito. // … Io sono – sì. Ma cosa? / Tengo in pugno soltanto – ciò che ho pensato io, io convenuto. // … A me va contre coeur ogni fuga dal mondo». Il mondo e la mente, essere e pensare.

Senza mai prescindere dalla fisicità del corpo, steso nel bianco del letto, mentre fuori è tutto candido di neve, gelo e silenzio. Un corpo che ha necessità materiali e sessuali, che mangia e piscia, si ammala e delira, rimanendo tuttavia un inciampo nell’attività preminente dell’elucubrazione mentale («Banale è questo corpo. / Il cervello è al coperto – però i bisogni chiamano»). La regola che dà ordine al caos si afferma sovrana («In tutto regna numero e rapporto. Felicità: di essere impregnati / di coerenza»), e manifesta la sua gratitudine a chi ha indicato al mondo la strada della ragione: Euclide, Archimede, Copernico, Keplero, Galileo – il più grande, che per motivi di sicurezza va nominato con lo pseudonimo di Stephanus, onde evitare censure ecclesiastiche.

Gli aneddoti della tediosa esistenza condotta in Germania da Cartesio rivelano in lui sfumature di carattere oscillanti tra empatia e insensibilità: se Gillot piange per amore, lo scienziato disserta sulla composizione chimica delle lacrime; se il servo si confessa impietosito dalla sofferenza degli animali, subito il padrone sottolinea la loro natura sub-umana; se musica, luce e pittura appaiono miracoli ai sensi, ecco che vanno ridimensionati alla loro struttura materiale. L’osservazione della luna è ridotta ad abbagli ottici, una noce sgusciata viene paragonata alla dissezione del cervello, il rogo di Giordano Bruno contraddice ogni spiritualità cristiana. Spietato, il razionalista francese non concede a sé e agli altri la minima indulgenza verso credenze consolatorie.

Durs Grünbein, sulla base di fonti storiche, dei diari e degli appunti di René Descartes, ne ha ricostruito la biografia a partire dai mesi trascorsi a Neuburg fino agli anni vissuti alla corte svedese della regina Cristina, dove morì di polmonite nel 1649, circondato dal seguito protocollare di striscianti e ottusi leccapiedi (intense e commoventi le pagine finali sull’agonia: «E il mondo intorno è neve»). Da una neve all’altra, da un ghiaccio all’altro.

Anna Maria Carpi nella postfazione giustamente suggerisce che l’inverno rappresenta qui una metafora della condizione moderna, inaugurata proprio con la separazione cartesiana fra res cogitans e res extensa: «Muovendo dalla ‘tabula rasa’ dell’inverno, sentieri sublimi della conoscenza razionale portano al progressivo raffreddarsi dei rapporti dell’uomo con se stesso e coi suoi simili». Nella sua versione, la curatrice rende il verso alessandrino del poeta tedesco, elasticamente classicheggiante, con diverse aggregazioni di settenari, quinari ed endecasillabi, al fine di mantenerne il ritmo incalzante. Compito non facile, tradurre Grünbein, perché in lui all’indubbia maestria formale, si aggiunge una rara competenza scientifica, e un abbagliante enciclopedismo, alleggerito dall’arguzia e dall’ironia.

 

© Riproduzione riservata                  «Il Pickwick», 13 dicembre 2019

 

RECENSIONI

LOEWENTHAL

ELENA LOEWENTHAL, DIECI – EINAUDI, TORINO 2019

Dieci sono i comandamenti che Jahvè detta a Mosè sul Sinai, e dieci sono i capitoli che Elena Loewenthal dedica al loro commento nel suo ultimo saggio, intitolato appunto Dieci. Elena Loewenthal (Torino, 1960) insegna Cultura Ebraica allo Iuss di Pavia e all’Università Vita-Salute San Raffaele di Milano, collabora a “La Stampa”, e ha pubblicato numerosi volumi e studi sulla tradizione religiosa, culturale e letteraria di Israele. Le citazioni bibliche e talmudiche presenti in questo piccolo libro einaudiano sono state da lei tradotte con una particolare adesione morfologica e sintattica al testo originale: da ciò è derivata una lettura capace di prendere coraggiosamente le distanze dall’esegesi più tradizionale.

Il primo capitolo si apre sottolineando le due differenti versioni di Genesi sulla creazione (“Nella sua breve essenzialità, è stata fonte inesauribile di ispirazione, interpretazioni e travisamenti”), per analizzare poi più approfonditamente il dialogo tra Dio e Adamo nel giardino dell’Eden, fatto di richiami e nascondimenti, di delusioni e timori (l’uno in cerca della sua creatura, l’altro che rispondendogli pronuncia per la prima volta il pronome personale “io”). Un dialogo tra il Signore e l’uomo che si ripropone nel corso di tutto il Pentateuco: spesso impositivo, conflittuale, intessuto di silenzi. Jahvè è qol, voce che parla e propone una comunicazione: Adamo, Abramo, Giacobbe, Mosè ascoltano. Impauriti, dubbiosi, confidenti o recalcitranti. “Ascolta, Israele” (“Shemà, Israel”, Dt 6, 4-5: “Ascolta, Israele: il Signore è il nostro Dio, unico è il Signore”) è una preghiera tuttora pronunciata dagli ebrei due volte al giorno. Dopo aver ascoltato, questi uomini biblici rispondono, attuando una dinamica di confronto e di ricerca reciproca fatta di parole udite e scambiate, di obbedienza e disobbedienza, di rispetto e di ira: ovvero, di libertà.

Sulla consegna delle tavole a Mosè (“il momento centrale di tutta la Bibbia ebraica”, “scena di grande mobilità, carica di forza narrativa”), Elena Loewenthal si sofferma enucleando alcune incongruenze, e molti interrogativi. Per due volte i dieci comandamenti (devarim: cose, parole, pronunciamenti) vengono affidati al profeta, incisi su tavole di pietra. La prima redazione, distrutta da Mosè stesso in un impeto di rabbia, era stata scolpita su due lastre dalla mano di Jahvè: di essa non rimane alcuna traccia. Il testo delle seconde tavole, recuperate in una successiva salita sul Sinai, è riportato nella Bibbia due volte, con poche variazioni, in Esodo 20, 2-17 e Deuteronomio 5, 6-21: stesure simili ma non uguali. Due sono anche i toponimi della montagna in cui è avvenuta la rivelazione: Sinai e Choreb. “Tutta la rivelazione è all’insegna della doppiezza”, postilla l’autrice del commento. L’imperfezione della Torah, con le sue aporie, si adatta all’imperfezione dell’uomo, richiedendogli un intervento interpretativo. “Il mondo è, dunque, l’irruzione dell’imperfezione dentro la perfezione, il tutto che è Dio”.

Il testo della legge ‒ assolutamente normativo, poichè impone cosa fare e cosa non fare, come succede con altre raccolte di regole comportamentali e liturgiche negli ultimi tre libri del Pentateuco ‒ è solo consonantico: ad esso è stato aggiunto in epoca medievale il sistema vocalico, che lo ha reso più melodioso all’orecchio (ancora una volta, “Ascolta, Israele”). Elena Loewenthal ne sviscera i molteplici significati, rimarcando il peso che tutto l’ebraismo ha da sempre attribuito alla parola, scrigno del sapere e del potere, ponte che collega cielo e terra.  Così, se la Bibbia inizia con la seconda lettera dell’alfabeto, bet, i dieci comandamenti esordiscono con la prima, alef, che contrassegna il pronome “io”: “Io sono il signore Dio tuo”. Io, anokhí, pronome di persona singolare pronunciato per la prima volta da Adamo. “Qualcosa di profondo e cruciale lega i due passi, nella trasgressione e nell’obbedienza, dal giardino alla montagna, da una voce all’altra”.

E poi c’è il “tu”, poiché ogni comandamento è diretto a una seconda persona singolare (“Non farai”, “Non dirai” …), sempre maschile: soggetto e oggetto della comunicazione sono decisamente maschi, essendo la donna nominata fuggevolmente solo come proprietà o conquista. Il dialogo è comunque a due, un discorso diretto tra due individualità. Si tratta inoltre di imperativi negativi, di proibizione, che raffigurano un Dio possessivo, minaccioso, punitivo, addirittura geloso. Succube delle passioni come le sue creature (“Non avrai altri dèi al mio cospetto. Non alzare il nome del Signore Dio tuo invano”). Nel cuore del Decalogo stanno i due unici comandamenti positivi: “ricorda” e “osserva”. Poi tornano i divieti: cinque “non”, relativi al controllo delle azioni in un ambito più sociale e collettivo che personale.

Quindi, il silenzio. Jahvè ha parlato, si è pronunciato. Ma al Decalogo, suggerisce Elena Loewenthal, andrebbe aggiunto un undicesimo comandamento: “Non causare dolore”. Il silenzio sul dolore degli uomini e delle donne rende il messaggio di Dio imperfetto, non conchiuso, in attesa di un compimento “nella giustizia e nel bene”.

 

© Riproduzione riservata          https://www.sololibri.net/Dieci-Loewenthal.html      11 dicembre 2019