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RECENSIONI

RUMIZ

PAOLO RUMIZ, VERRANNO DI NOTTE – FELTRINELLI, MILANO 2024, p. 196

 

Con Verranno di notte, il più recente volume di una quadrilogia dedicata all’Europa, Paolo Rumiz (Trieste 1947), firma un pamphlet amaro e allarmante sulla situazione di stallo politico e morale in cui versa il nostro continente.

Nella sua casa di campagna sul confine giuliano, seduto accanto alla stufa in compagnia della sua gatta, Rumiz trascorre un’intera notte insonne a registrare le sue riflessioni su un’altra buia notte che minaccia di avvolgere il mondo. Ripassa mentalmente le memorie di una vita impegnata a raccogliere testimonianze, a mappare luoghi disagiati e dimenticati, paesaggi incantevoli deturpati dall’incuria e dall’abusivismo edilizio, esplorando vette e sottosuolo, descrivendo spiagge e vulcani, periferie e metropoli, incontrando segretari di stato, cardinali, magnati dell’industria e profughi accampati in scandalosi centri di raccolta.

Il suo rabbioso grido di rivolta è un richiamo forte alla mobilitazione democratica, in un’Europa che considera ormai eversivo difendere i principi fondanti della propria Costituzione, e si trova messa alle corde da indebitamento economico, spese militari, corruzione, disinformazione, privatizzazioni nel settore pubblico, muri reticolati e trincee a difesa degli egoismi nazionali: “Un’Europa gestita da antieuropei. Un’accozzaglia di sovranismi destinata a implodere e affondare l’Unione… una serra riscaldata”.

Le previsioni di Rumiz sul futuro del nostro continente sono fosche: “Temo che un’Europa disunita, e per di più senza figli, si ridurrà a casa di riposo, infernale gerontocomio, vascello fantasma alla deriva, di cui i poteri forti faranno un sol boccone”. Altrettanto feroce è il suo giudizio sul passato dei singoli Stati europei, con il colonialismo e le stragi perpetrate nei confronti dell’Africa.

Il parallelo che l’autore suggerisce con il 1914 e lo scoppio della prima guerra mondiale viene ribadito in maniera inquietante, già partendo dall’orgogliosa rivendicazione del ruolo rivestito dalla sua Trieste all’inizio del XX secolo, linea di demarcazione a ridosso dei Balcani, crocevia di culture, popoli e religioni diverse, fulcro dell’Impero Austro-Ungarico deputato a fare da cuscinetto a due mondi contrapposti, ambita testa di ponte per la penetrazione di potenze straniere nel Mediterraneo. Cittadino di frontiera, ripercorre la traumatica esperienza dello scoppio della guerra nei Balcani, vissuto in prima persona nell’aprile del ’92 a Sarajevo. Anche allora “ingenuità e candore” avevano impedito ai bosniaci di avvertire il subdolo avanzare del male, che sempre “trova il suo miglior nascondiglio proprio tra gli uomini di buona volontà”. Ugualmente oggi gli europei camminano sull’orlo di un abisso, sottovalutando colpevolmente l’inevitabile catastrofe futura.

Rumiz vede crescere una destra portatrice di un fascismo nuovo, che rumina “complottismo, negazionismo, vittimismo”, privo di ideologia ma affamato di supremazia, ben inserito nei meccanismi del potere pur parlando col linguaggio di chi è fuori dal potere. Una destra in grado di utilizzare la rete per amplificare e veicolare il malcontento popolare, indirizzandolo verso obiettivi antidemocratici e demonizzando il dissenso. L’autore considera la rete un “uragano mediatico eversivo… una macchina che rimbecillisce, divide la società, cavalca il peggio di noi e uccide il ragionamento col virus di un pensiero bipolare manicheo, partorito da algoritmi cinesi o americani”. Sarcastico è il ritratto che Rumiz fa di tre donne ai vertici della politica conservatrice europea: una Marine Le Pen moderatamente acrobatica, un’algida Ursula von der Leyen legata alle corporazioni agroindustriali e una Meloni-Lupa romana, che voracemente divora ministeri, musei, televisioni, parchi naturali.

Alla destra che avanza pericolosamente ovunque, si contrappone vanamente una sinistra curiale dalle idee confuse, bloccata nell’inerzia, incapace di proporre alternative credibili e di agire di conseguenza: soprattutto riguardo al problema urgente dell’immigrazione, completamente demandato ai metodi repressivi dei conservatori e dei reazionari, i quali soffiano sul fuoco del più facile razzismo. Così osserviamo impotenti, senza riuscire a regolamentare i sistemi di accoglienza, a un odio etnico diffuso, all’approvazione di leggi liberticide, alla costruzione di disumani campi di prigionia e all’occultamento di fosse comuni, mentre migliaia di migranti annegano nei nostri mari, e i richiedenti asilo vengono arrestati e deportati su voli charter verso destinazioni sconosciute.

Gran parte dei cittadini europei esprime ormai un evidente malessere nei confronti degli immigrati che vivono di sussidi statali, o non lavorano e delinquono, diventando terreno di conquista per le mafie in cerca di spacciatori o di manodopera a basso costo.

Esiste oggi un pericolo concreto di guerre combattute con armi atomiche, di nuovi tracolli finanziari, di persecuzioni contro gli oppositori politici, di perquisizioni e indagini lesive delle libertà individuali.

Eppure, in questo panorama sconfortante, in cui non si delinea nessuna univoca proposta nemmeno riguardo ai conflitti in corso, tra Russia e Ucraina, tra Israele e Palestina, appaiono qua e là i riflessi di incoraggianti punti luce, innestati da pacifisti, obiettori di coscienza, giovani che manifestano per la pace e l’ambiente: “segnali deboli” che anticipano un cambio di tendenza, da appoggiare con convinzione e passione in difesa delle democrazie europee.

Paolo Rumiz lo fa instancabilmente con l’impegno e gli strumenti che gli sono propri: “Quelli come me non hanno che parole da offrire. Ma le parole non sono poco, in questo sconfortante silenzio… Se la barbarie dilaga, quanto più importante è coltivare piccoli orti in cui le parole si salvano dalla distruzione”.

 

© Riproduzione riservata                 «Gli Stati Generali», 26 maggio 2024

RECENSIONI

AAVV, LE TRENTASEI POETESSE IMMORTALI

AAVV, LE TRENTASEI POETESSE IMMORTALI – GATTOMERLINO, ROMA 2024

La scrittrice e traduttrice Piera Mattei ha curato, per la casa editrice Gattomerlino da lei fondata nel 2010, un prezioso libriccino, Le trentasei poetesse immortali, dalla vivace copertina di raffinata ambientazione orientale. Nel suo approfondito saggio di apertura, L’importanza del numero, Mattei ci accompagna in un excursus illustrativo della poesia giapponese, a partire dalla differenza esistente tra le forme letterarie dei Tanka e degli Haiku, per inoltrarsi poi in un originale confronto con la poesia femminile del nostro ’500.

Il tanka si componeva di cinque versi, in cui la prima parte aveva la struttura ereditata dall’Haiku (5-7-5 sillabe) e la seconda era costruita in due versi di 7 sillabe, per un totale di 31 sillabe il cui schema era rigorosamente rispettato dai poeti della corte imperiale, in omaggio a un’ideale di armonia e ricercatezza espressiva.

Nate in contrapposizione al soverchiante modello cinese, queste brevi composizioni venivano raccolte in antologie imperiali riportanti i contributi dei 36 vincitori di una rituale competizione letteraria a tema fisso. Tra queste antologie divenne molto popolare quella delle Trentasei poetesse immortali, le cui autrici erano state scelte, oltre che per la sensibilità ed eleganza nella scrittura, anche per la perizia nelle arti della calligrafia, della musica, della danza e della pittura.

Gattomerlino propone una scelta di tanka tratti da una celebre raccolta del tredicesimo secolo conservata alla NY Library, basandosi sulla traduzione inglese di Andrew J. Pekarik, arricchita dalle illustrazioni del pittore Eishi (1756-1829).

Delle trentasei poetesse che vissero tutte alla corte di Kyoto tra il X e il XIII secolo, sei erano di altissimo rango (principesse o concubine imperiali), le altre erano dame della media nobiltà in servizio a palazzo per funzioni attinenti ad abbigliamento, nutrizione, etichetta, diplomazia, e per tali motivi ammesse alla vita privata del sovrano e delle sue numerose mogli e concubine.

La poligamia e lo stato di dipendenza totale dalle figure maschili in tutta la società medievale, relegava le donne a un ruolo di sudditanza, solitudine ed esclusione dall’ufficialità, che sia nei diari sia nei tanka veniva espressa in toni di rassegnata malinconia, attraverso un repertorio di immagini e situazioni letterariamente collaudate, ereditate dal canone cinese.

Pur nella rigidità e brevità della formula compositiva in cui erano costretti, gli stati d’animo delle trentasei poetesse (indicate singolarmente per nome ed epoca di riferimento), manifestavano un ventaglio di emozioni differenti, dalla nostalgia al rimpianto, dal risentimento al desiderio sensuale, dalla gelosia all’autocompassione: “Quando potremo scioglierci / insieme, nodo così difficile / da allacciare / così facilmente disfatto / che leghi le mie vesti, la notte?” ; “Pensavo che / infine questa vita sarebbe stata quella /  che avevo desiderato. / Perché dovrei, d’impulso / troncarla, per colpa dell’amore?”; “Uomini, senza pensare / fanno promesse / che sono di fatto bugie. / Ciò che fa male è questa mia vita / dove il cambiamento è abitudine”; “Più che mai / e di nuovo sono inzuppate / queste mie maniche delle lacrime / che ho versato / pensando al lontano passato”; “Questa stretta stuoia, / il letto in cui mi abbandonò / pensando “Solo per una notte” / è rimasta intatta, / oggi è coperta di sporcizia e di polvere!”; “Nessuna visita giunge / con lo spirare di questo / vento d’autunno. / Se tu fossi un germoglio di canna / un suono – almeno – emettesti”.

Numerosi sono i tanka da cui si effonde un sentimento di incantata ammirazione per il paesaggio, con la consolante risonanza della malinconia nell’osservazione della natura. Pioggia e rugiada ricordano le lacrime di cui sono intrise le maniche dei chimoni, la luna rischiara delicatamente la minacciosa oscurità notturna: “Il vento della baia / che violento batte la riva / trascina uccelli di sabbia. / Sollevando onde sta arrivando. / Odo i suoi gridi nella notte”; “Con un velo di nebbia / che ancora sale in questa primavera / ecco la luce della luna / rende visibile la bellezza / della profondissima notte”.

Piera Mattei nella prefazione propone un interessante parallelo tra la produzione poetica delle dame giapponesi e la stagione di grande creatività femminile sviluppatasi nel nostro Cinquecento a opera di letterate petrarchiste, ugualmente segnate “dal culto della raffinatezza, dall’ossimoro, di un’originale imitazione in forma chiusa, e inoltre, spesso, dal senso di solitudine (e inversamente dal respiro di libertà) connesso alla condizione di un rapporto amoroso non sempre esclusivo, talvolta precario… Interessa nella loro poesia l’esplicita dichiarazione di desiderio e d’attesa, la disposizione a prendere atto di una disfatta o dello spegnimento di una passione, una libertà mentale e affettiva impensabile per le onorabili donne ita liane d’allora”.

I nomi citati sono quelli famosi di Vittoria Colonna, Veronica Gambara, Gaspara Stampa, Veronica Franco, e di un’ulteriore dozzina di artiste meno note al grande pubblico. Di alcune di loro vengono riportati i versi, in un’interessante comparazione tematica con le trentasei poetesse immortali, creature di un mondo lontano nel tempo e nello spazio, ancora vicino nella sensibilità e nel patimento dell’esclusione sociale.

 

© Riproduzione riservata    SoloLibri.net           21 maggio 2024

 

 

 

 

 

 

RECENSIONI

RITSOS

LE PIÙ BELLE POESIE DI GHIANNIS RITSOS – CROCETTI, MILANO 2024

A cura di Nicola Crocetti sono uscite, presso le edizioni omonime, Le più belle poesie di Ghiannis Ritsos. Ritsos (Monemvasìa 1909 – Atene 1990) ebbe una vita segnata da lutti, malattie e miseria, ma animata da un’incrollabile fede negli ideali marxisti e nelle virtù catartiche della poesia, centrata su temi quali la memoria, la bellezza della natura, l’importanza delle opere umane, la rivoluzione etica e sociale. Per aver partecipato alla lotta di resistenza contro i nazisti e poi alla guerra civile, subì le persecuzioni dei governi dittatoriali e reazionari succedutisi in Grecia tra il 1936 e il 1970, trascorrendo dieci anni in carcere, al confino o nei campi di prigionia delle isole-lager di Makrònissos, Ghiaros, Aghios-Efstratios, Ikarià, Leros.

Oltre alla pubblicazione di 150 raccolte di poesie (l’opera completa in 10 volumi è stata pubblicata tra il 1961 e il 1989), compose testi drammatici e romanzi, traducendo in greco molti poeti stranieri.

Il volume di cui ci occupiamo, accompagnato da una minuziosa introduzione biobibliografia curata da Crocetti (massimo ed entusiasta diffusore dell’opera di Ritsos, nel duplice ruolo di traduttore ed editore), consta di una cinquantina di liriche scelte tra le sue più note e meritatamente celebrate. A partire da Epitaffio, del 1936, compianto di una madre per il figlio ucciso dalla polizia durante uno sciopero, scritto in decapentasillabi rimati (“Chi è che me l’ha preso? Chi me lo può strappare? / Le labbra, gli occhi chiusi cominciano a sbiancare. // Datemi artigli e ali, aquile, ch’io li insegua, / quei cuori, e come mandorle li roda senza tregua”). Numerosi furono i testi sulla resistenza, che celebravano l’eroismo dei combattenti per la libertà: “Poi fecero ritorno feriti e congelati, / nascosero i fucili tra le rocce innevate, nelle cavità degli alberi, / nella paglia, fra il tetto e il soffitto, nel buio ripostiglio / che dà sul retro della notte con una piccola lucerna di pazienza” (1942).

Ritsos nutriva un’attenzione partecipe verso il mondo rurale, in cui era nato e cresciuto, per la natura e per il lavoro agricolo e artigianale, come dimostrano questi versi: “Dietro cose semplici mi nascondo, perché mi troviate; / se non mi trovate, troverete le cose, / toccherete ciò che ha toccato la mia mano, / s’incontreranno le impronte delle nostre mani” (Il senso della semplicità,1946); “Le galline piluccavano ancora per la strada. / La vecchia moglie del capitano sedeva sulla soglia / tenendo il nipotino sulle ginocchia aperte. / Un ragazzo trasportava un paniere” (Pomeridiano,1963).

Sono tuttavia presenti anche composizioni dedicate alle molte città visitate, tra cui Milano e Venezia, e altre destinate a figure femminili: per una giovane donna francese scrisse la raccolta Erotica, pubblicata nel 1981 in prima mondiale in Italia. Questa disposizione sentimentale, e il fascino attribuito alle presenze femminili, erano stati testimoniati da molta produzione precedente, come nel famoso poemetto di impianto simbolista Sonata al chiaro di luna del 1956, lungo monologo in cui una donna canta il suo dolore e il suo amore in toni elegiaci intensamente sensuali: “Lasciami venire con te. // Lo so che ormai si è fatto tardi. Lasciami, / poiché per tanti anni, giorni e notti / e meriggi purpurei, sono rimasta sola, / irriducibile, immacolata e sola”.

Sempre nella misura del monologo, il poeta aveva scritto numerosi poemetti dedicati a personaggi mitologici o della storia classica, assunti a prototipo dell’umanità sofferente: Orfeo, Oreste, Elena, Penelope, Ercole, narrando orgogliosamente episodi eroici del glorioso passato ellenico.

Nicola Crocetti, amico personale e grande estimatore di Ghiannis Ritsos, così conclude il proprio commento introduttivo: “La sua smisurata produzione, essenzialmente di natura lirica, è un’appassionata affermazione di speranza, un ardente atto di fede nel potere di riscatto e di immortalità della poesia”.

 

© Riproduzione riservata    SoloLibri.net                  14 maggio 2024

INTERVISTE

AIRAGHI

Intervista ad Alida Airaghi, finalista al Premio Strega Poesia: “La storia siamo noi, tutti responsabili di qualcosa”

Alice Figini Pubblicato il 08-05-2024

La poetessa Alida Airaghi è finalista al Premio Strega Poesia con la sua ultima silloge Quanto di storia, edita da Marco Saya Edizioni.

Definire Quanto di storia un semplice “libro di poesie” appare quasi riduttivo, perché in queste pagine viene effettuato un catalogo ragionato del nostro tempo, unendo a catena avvenimenti storici e memoria individuale attraverso la luminosità chiarificatrice del verso che isola il sintagma del senso. I versi di Alida Airaghi possono essere definiti una forma di “poesia civile”: nel raccontarci gli episodi della storia contemporanea l’autrice non nasconde indignazione e impotenza, anzi, ce le trasmette con viva emozione e partecipazione, facendoci provare la medesima volontà di riscatto per avvenimenti che, talvolta, sembrano travalicare la capacità di comprensione umana.

La scrittura di Airaghi fissa sottoforma di date alcuni cambiamenti epocali che hanno travolto la nostra società – dalla strage di Piazza della Loggia alla caduta delle Torri Gemelle alla nascita di Facebook, sino alle guerre recenti in Ucraina e a Gaza – e lentamente li dipana attraverso i versi, come nel tentativo di disbrogliare una matassa intricata: dalla data, in un giorno qualunque inserito nel calendario, al senso storico e umano che toglie quel “giorno qualunque” dal suo apparente anonimato. È sempre l’umano a dare un senso alla Storia, forse senza gli uomini non esisterebbe neppure il concetto astratto di tempo né il tentativo di ordinarlo, calendarizzarlo, intrappolarlo in ore e minuti. In Quanto di storia il tempo assume un duplice volto: la memoria collettiva e la memoria individuale, proprio come ne Gli anni di Annie Ernaux, in cui viene narrata la vita di una donna che si incide nel solco di un’intera generazione lungo il filo di una storia condivisa.

La storia siamo noi, nessuno si senta escluso”, cantava Francesco De Gregori, Alida Airaghi ce lo rammenta attraverso versi che si fanno espressione dello “scandalo che dura da diecimila anni” narrato da Morante.

Ne abbiamo parlato in questa intervista toccando vari temi, dalla guerra alla pandemia, dai social network alla coscienza individuale.

  • Ha scelto di dare alle poesie il titolo di date storiche significative, che però forse non tutti i lettori riconoscono nell’immediato. È stata una scelta voluta? Voleva che fosse la poesia a svelare l’evento?

In un primo momento avevo affiancato alla data un titolo che identificasse l’avvenimento con più immediatezza, poi ho pensato che dovesse essere il lettore stesso a recuperare nella memoria la situazione collegata a un preciso, e spesso tragico, momento cronologico.

  • La silloge si muove entro i due poli della storia individuale: giovinezza e vecchiaia. La prima poesia si intitola Juvenilia e l’ultima De senectute, in cui si ritrae in due diverse età della vita. Scrive: “si cambia, si invecchia eppure restiamo gli stessi di sempre”. La vecchiaia è un artificio, in fondo si è per sempre giovani?

Sono convinta che ogni età abbia un suo dignitoso profilo, sia esso acerbo o maturo. Gli atteggiamenti giovanilistici degli âgée mi infastidiscono, mi sembrano alquanto patetici.
Personalmente, credo di essere sempre stata più “antica” che giovane, già da bambina e da ragazza. Posata, riflessiva, forse addirittura soporifera…

  • Mi ha colpito la scelta di mettere Giovanni Giudici in epigrafe. È una citazione che sottolinea la dimensione privata di quel grande calderone collettivo che è la Storia. Nelle poesie intreccia avvenimenti universali, ad altri più intimi e privati che tuttavia hanno lo stesso impatto di una guerra o di un disastro nucleare su una vita. Secondo lei quale dimensione prevale nella narrazione della storia: quella collettiva, oppure quella individuale? La Storia è un destino che schiaccia e a cui è impossibile opporsi?

Amo la poesia di Giudici, che riusciva a scrivere versi civili e privatissimi con lo stesso candido entusiasmo: parlava d’amore e di impegno sociale sentendosi parte di un tutto. Penso che così dovrebbe essere: siamo frammenti di un insieme, pur mantenendo la nostra individualità, la nostra minima rilevanza personale. E abbiamo comunque voce in capitolo, possiamo e dobbiamo esprimere i nostri sentimenti, le idee, le passioni, senza lasciarci travolgere dalla storia collettiva. Che io non vedo mai come un destino incombente e oppressivo, ma sempre nel suo svolgersi in una prospettiva di sviluppo, di miglioramento, a cui dobbiamo aderire positivamente.

  • Elsa Morante definiva la Storia come uno “scandalo che dura da diecimila anni”. Per Morante lo scandalo era il Potere, per lei è lo stesso?

Decisamente non amo il Potere, in nessuna delle sue espressioni: militare, finanziario, politico, religioso, e anche culturale. Credo abbia come obiettivo di manipolare e asservire l’individuo, violentando il diritto di ciascuno all’indipendenza di pensiero e azione. Ma non do invece un giudizio negativo della Storia, che – ripeto – considero come il risultato di una collaborazione umana verso il progresso, pur con tutti i tradimenti, gli stravolgimenti, le crudeltà e le ingiustizie di cui si può macchiare.

  • Definisce la morte di Borsellino una “congiura del silenzio” e allude alla sua agenda rossa scomparsa come metafora di una verità per sempre perduta. Questo silenzio, secondo lei, dura tuttora?

Mi sembra evidente che non sia mai stato alzato del tutto il sipario che copre tante stragi di mafia, le collusioni tra politica e alta finanza, i delitti efferati dei diversi terrorismi, le mistificazioni e la corruzione che serpeggiano nei palazzi del Potere.

  • Molte poesie sono dedicate alle stragi: dalla strage di Ustica a Chernobyl sino a Via D’Amelio. La poesia narra il dolore delle vittime, di coloro che non possono raccontarlo. La Grande Storia in fondo non è fatta di vincitori, ma di martiri?

Come canta De Gregori, “la storia siamo noi”, vincitori e sconfitti, eroi e disertori, tutti responsabili di qualcosa, nella buona o cattiva sorte. I martiri ci sono e ci saranno sempre, nei conflitti di ogni genere, sul lavoro, nella dedizione a un’idea, nella generosità del sacrificio. Luci nel buio, lampi di verità e coraggio, agnelli che aiutano il mondo a sopportare il male.

  • Nel libro tratta anche temi molto privati, tra cui una grave perdita. Inserire il proprio dolore nel solco della grande Storia aiuta, in qualche modo, a curarlo?

La morte di mio marito, nel ’91. La nascita delle nostre bambine, nel ’79 e nell’85. Due grandi gioie e un grande dolore. Felicità e sofferenza si compenetrano, e forse si compensano, continuamente. Il privato che ci coinvolge nel profondo spesso mette in secondo piano la Grande Storia. Che poi però riaffiora, ed è giusto sia così.

  • In 11 settembre 2001 si concentra sul crollo delle Torri Gemelle, forse nessuno prima le aveva immaginate come vittime, le aveva piante come vuoto, umanizzandole. Ci si concentra sempre sull’uomo che cade e di rado sulle due Torri. Pensa che le Twin Towers siano la metafora della crisi dell’Occidente?

Senz’altro il crollo delle Torri che sfidavano il cielo, nella loro pretesa onnipotenza, ha colpito l’immaginario universale, evidenziando la fragilità di un’America che si riteneva invincibile. L’orgoglio di Babele frantumato, ridotto in polvere: tutto quel fumo che nascondeva corpi carbonizzati… Come non ripensare al monito “ricordati che sei cenere”?

  • Dedica una poesia alla nascita di Facebook: il 4 febbraio 2004. La introduce come “un’idea vincente”, ma poi rivela il rovescio della medaglia. Qual è la sua opinione sui social network?

Non sono iscritta a nessun social, mi sembrano invadenti e schiavizzanti, nella loro presuntuosa e futile aspirazione ad imporsi, esponendo la quotidianità di chi li utilizza. Perché dovrebbe interessare ad altri dove passo le vacanze, che profumo uso, cosa mangio?

  • La storia contemporanea si muove tra tre avvenimenti terribili che lei narra in successione: la pandemia di Covid, la guerra in Ucraina e la guerra di Gaza. Racconta sempre le tragedie dal punto di vista dei civili, anche focalizzandosi sugli animali, vittime inermi del conflitto. Riporta gli eventi collettivi a una dimensione privata, individuale, che accresce l’impotenza. Scrive “nel vuoto del cielo che tace di un mondo saziato di pace”, non una preghiera ma una specie di atto d’accusa nei confronti della crudeltà innata degli uomini. L’uomo è per natura malvagio? Secondo lei non c’è nessun Dio?

Non credo in una Provvidenza che predilige un decimo della popolazione mondiale e condanna i restanti nove decimi alla fame, allo sfruttamento, alla mancanza di libertà. Soffrono i civili di Gaza, gli ebrei dei pogrom, la cagnolina della vecchietta ucraina: gli innocenti, gli innocui. Non esiste alcun Dio che possa giustificare quest’enorme ingiustizia. Ma credo nella possibilità di un riscatto finale, a cui dobbiamo contribuire tutti, come esseri umani. Nessuno nasce malvagio, la cattiveria si sviluppa nell’animo di chi si sente poco amato.

  • Nella poesia che chiude la silloge scrive “sappiamo di essere storia”. Cosa significa per lei “essere storia”? Qual è il suo rapporto con il trascorrere degli anni?

Pacificato, direi. Non sono ossessionata dal passare del tempo, dalle rughe, dalla morte. La vita inizia e finisce, è giusto lasciare spazio a chi verrà dopo di noi. Mi addolorano le morti precoci, di giovani che non hanno potuto realizzarsi come persone. In giugno compio settantuno anni, mi considero tra i privilegiati che hanno trascorso molto tempo sulla terra.
E non credo nell’immortalità individuale, in una mia esistenza in un qualsiasi opinabile al di là. Si spengono anche le stelle, finirà il sole, si polverizzeranno le galassie, Perché mai Alida dovrebbe vivere in eterno? Se sarò ricordata per alcuni anni da chi ho incontrato e amato, sarà già questo il mio felice paradiso. Tuttavia spero che l’umanità sopravviva in qualche modo, anche solo biologicamente, ridotta magari a un batterio (com’è stato all’inizio!) in cui sia compresa l’intera sua splendida storia millenaria: magari l’intelligenza artificiale ci aiuterà a capire come.

 

© Riproduzione riservata                  «SoloLibri», 8 maggio 2024

MAESTRI

MILOSZ

UN INCONTRO

Attraversavamo all’alba campi ghiacciati su un carro.
Un’ala rossa si levò nel buio.

E all’improvviso una lepre corse sulla strada.
Uno di noi la indicò con la mano.

È stato molto tempo fa. Oggi nessuno dei due è vivo,
Né la lepre, né l’uomo che fece quel gesto.

O amore mio, dove sono, dove stanno andando?
Il lampo di una mano, una striscia di movimento, un fruscio di ciottoli.
Lo chiedo non per pena, ma per meraviglia.

 

                                                                                                                            Czeslaw Milosz  (1911-2004)

RECENSIONI

CASTRONUOVO

PAOLO CASTRONUOVO, BUGIARDINO – CONVIVIO, CATANIA 2023

Un libro “come un referto improrogabile e necessario”, scrive Alfonso Guida nella prefazione a Bugiardino, piccolo volume di poesie di Paolo Castronuovo, parlando di una ferita non rimarginabile e di una cura posta al limite tra speranza e scacco. Il foglietto di indicazioni che accompagna ogni scatola di medicinali diventa nel titolo metafora della possibilità di salvezza da una malattia che attanaglia soprattutto l’anima, e come tale si scandisce in sezioni esplicative del contenuto, delle modalità di assunzione, degli effetti indesiderati e del metodo di conservazione.

La fatica di vivere viene avvertita già dal mattino: “una giornata inizia col peso / smisurato della luce / un fardello roboante di ferraglia”, e il prosieguo del giorno si svolge come in “un centro riabilitativo / senza infermieri”, dove “i libri sono sbarre di un carcere”.

Se “non c’è una via di fuga dal male”, spetta all’immaginazione più visionaria aprire mente e cuore all’evasione benefica; nei versi di Castronuovo le immagini si susseguono esplodendo nella loro ricchezza di colori, suoni, personaggi, come in un caleidoscopio di sogni bizzarri e vivaci: ballerine e rapinatori, sassofoni e lamiere accartocciate, elefanti e droni, pullman e compressori, urla e silenzio, deflagrazioni di bianco-giallo-nero. Scatti di luce e buio mimano la danza allucinata di percezioni visive e uditive scollegate tra loro, secondo la lezione mai superata del surrealismo, rivisitata dall’eredità della beat generation, con sprazzi di brutalità filmica alla Cronenberg: “una continuità fluente / senza logica ma con un filo tesissimo / un ritmo surreale, automatico, sostenuto, / la corsa del corpo e la pacatezza della mente / sedata dopata impazzita”. A tale ritmo sincopato si alternano momenti di quiete e riflessione malinconica: “L’urna della vita / è solo piena / di cenere // non vale la pena / piangere”.

 

© Riproduzione riservata                IBS, 17 aprile 2024

 

RECENSIONI

GROSJEAN

JEAN GROSJEAN, IL MESSIA – QIQAJON, BOSE 2024

Le Messie di Jean Grosjean uscì in Francia nel 1974: oggi lo ripropone la casa editrice Qiqajon di Bose nella limpida traduzione di Emanuele Borsotti, con prefazione del Cardinale José Tolentino Mendonça e un’appendice composta da sette “spigolature” di Christian Bobin.

Poeta, scrittore, teologo e traduttore (Parigi 1912 – Versailles 2006), Jean Grosjean fu ordinato prete nel 1939, tornando allo stato laicale dieci anni dopo. Pubblicò numerose raccolte di versi, principalmente di ispirazione religiosa, e innovative rielaborazioni di episodi biblici. Si cimentò in traduzioni impegnative, dai tragici greci a Shakespeare, dal Nuovo Testamento al Corano, ma il suo nome viene ricordato soprattutto per le originali interpretazioni dei testi sacri, tendenti ad approfondire ed espandere il loro significato letterale, esaltandone allo stesso tempo il valore letterario e l’atmosfera poetica. Proprio sul gioco ermeneutico instaurato tra scrittura, riscrittura e lettura si sofferma l’acuta introduzione al testo di Tolentino Mendonça, mentre Bobin sottolinea il carattere profondamente meditativo di Grosjean, il cui “cuore di cristallo”, “cuore sovra-illuminato” sapeva coniugare la sapienza teologica con uno stile elegantemente essenziale.

Nel Messia lo scrittore immagina, prendendo spunto dal materiale neotestamentario, in che modo Gesù possa aver trascorso i quaranta giorni tra la resurrezione e l’ascensione, traendone una narrazione sul filo del fantastico e del prodigioso. L’icastico e surreale incipit del romanzo presenta il Risorto accompagnato da altri morti tornati a vivere nelle sembianze di fantasmi, per rivedere i cari che hanno lasciato:Gesù camminava sotto le stelle. Doveva essere guardingo per riabituarsi a vivere. Si limitava a frequentare le tombe e il suo passaggio ne risvegliava gli ospiti. Per insignificanti che fossero stati, avevano avuto la sua stessa esperienza di naufragio. Si alzavano, pronti a fargli da scorta, ma lui li congedava gentilmente, lasciandoli impacciati nella loro resurrezione”.

Gesù sollevatosi dal sonno della morte si mette a sedere nel sepolcro e si libera dalle bende che lo avvolgevano, scavalca i corpi addormentati delle guardie e si incammina nella notte, “meravigliosamente malsicuro”, cercando di riambientarsi alla vita. Cammina a piedi nudi sull’erba rugiadosa di inizio primavera, ascolta le tortore tubare tra i cespugli, poi torna al sepolcro per spiare le donne e i discepoli che cercano il suo cadavere sparito, osserva Maria Maddalena angosciata davanti alla tomba vuota, e le rivolge parole di consolazione nella lingua dialettale che li accomunava in vita. Poi si allontana, senza lasciarsi toccare dalla donna che, dopo sua madre, aveva più amato.

Tornare a esistere, a confondersi con la gente, a godere nuovamente di ogni respiro, prima creatura risorta dal momento della creazione, è un’impresa vertiginosa nella sua unicità, richiede coraggio e prudenza: implica la solitudine più assoluta, perché oscilla tra il vuoto della morte e il troppo pieno di una vita che non offre appigli a cui aggrapparsi. Sulla strada per Emmaus il Messia incontra due viaggiatori, li riconosce ma non viene riconosciuto; parla con loro, cerca di scuoterne l’ottuso torpore. Non appena un vago turbamento li sfiora, forse un sospetto di verità, allora riprende il suo cammino solitario, invaso dallo stupore per la bellezza di ogni cosa che vede: fiori, sabbia, uccelli, rettili. Bellezza sconfortante, la civetteria della natura! Qualcuno si nasconde dietro l’incanto del paesaggio come fosse un’esca. È forse il Padre? “Gesù era solo, fra un Dio dalle tracce sfuggenti e una terra dalle apparenze ingannevoli”. Intanto gli apostoli raccolti nel cenacolo da tre giorni, rancorosi, si accusano a vicenda di aver abbandonato Gesù: quando lui si ripresenta, avverte in loro più imbarazzo che gioia, più timidezza che adesione. Anch’egli li sopporta a fatica, e tornato ad avvolgersi nella notte, viene illuminato dai bagliori delle armature di una schiera di arcangeli, mandati dall’alto a vegliare sul suo cammino. Umana realtà o sogno sovrumano, la sua figura è sospesa tra carne e spirito, concreta e immateriale nello stesso tempo. Dio tace, il Padre non si mostra.

Il Messia fa altri incontri, va in cerca di chi aveva preso parte alla sua vita terrena (Lazzaro con le sorelle Marta e Maria), ripete i miracoli che aveva compiuto durante i tre anni di missione pubblica, rivive la trasfigurazione sul monte Ermon, il rinnegamento di Pietro, lo strazio dell’abbandono nel Getsemani, rimmergendosi nel passato: “Così, senza mangiare né dormire, Gesù frequentava in segreto i luoghi che erano stati suoi e dove pensava di ritrovare il cammino verso il suo Dio, quel cammino che era stato doppiamente offuscato dai tormenti della morte e dalle sorprese della resurrezione”.

Grosjean inserisce nella topografia dei luoghi attraversati dal Risorto i nomi di piccole località della Borgogna (Montussaint, Crénu, Puessans), dove a lungo aveva abitato con la moglie, nel paese di Avant-lès-Marcilly, e introduce oggetti, architetture, suoni, cerimonie e personaggi sia novecenteschi sia di epoche lontane (il condottiero cartaginese Annibale, l’imperatore Tiberio), a significare che la Resurrezione è evento che si produce e rimane al di là del tempo e dello spazio. Infine, davanti a una piccola folla di proseliti, viene assorbito da una nube, sollevandosi da terra, mentre il paesaggio si fa sempre più lontano e il cielo si avvicina. Raggiunge finalmente il Padre, si pone alla sua destra, e insieme si incamminano “nella grande frescura degli spazi”.

Il Gesù di Jean Grosjean ci appare umanissimo e divino, nella sua fragilità di creatura risvegliata dalla morte e nella forza luminosa di una rinascita destinata a durare in eterno.

 

© Riproduzione riservata     «La Poesia e lo Spirito», 6 aprile 2024

 

 

RECENSIONI

CARRERA

ALESSANDRO CARRERA, SAPERE – IL MULINO, BOLOGNA 2023, p. 152

Alessandro Carrera, professore di Italian Studies e World Cultures and Literatures alla University of Houston, in Texas, è autore di numerosi volumi di critica letteraria, di romanzi e poesie; si interessa da sempre di musica, e per Feltrinelli ha tradotto tutte le canzoni e le prose di Bob Dylan, a cui ha dedicato diversi studi. È pienamente titolato, quindi, a interrogarsi – nel suo volume Sapere, edito da Il Mulino – sul valore della cultura e della sapienza che ad essa si collega nell’origine e nelle finalità: sapere inteso come “bene” non solo intellettuale, ma anche etico, civile, di collante sociale. “Il sapere non è né l’istruzione che ho ricevuto né la somma dei libri che ho letto. Inizia insieme all’umanità, ben prima che si formi la nozione di cultura. È, per prima cosa, il sapere delle origini…”

Quindi, il sapere è originario e collettivo, si differenzia presto dalla cultura, anche se spesso le loro strade si intersecano. Con un’azzeccata intuizione, Carrera definisce il sapere come l’inconscio della cultura, la quale può essere classificata, conservata in biblioteche, commercializzata e addirittura cancellata. Il sapere no, rimane, resiste, è indistruttibile, perché introduce alla visione delle idee, non ha una funzione eminentemente pratica. Il problema da porsi è come tramandarlo alle generazioni future, in maniera non dogmatica né gerarchica.

Il primo capitolo del libro si occupa proprio della gerarchizzazione del sapere, a partire dalle esperienze personali dell’autore: un suo primo impiego come caporedattore in un giornale di medicina e alimentazione alternativa, gli studi di estetica musicale, il trasferimento negli Stati Uniti nel 1987, un viaggio a Kyoto a visitare il parco Ryoanji. Esperienze che l’hanno convinto dell’irrilevanza delle teorie che pretendono di spiegare il reale, catalogandolo, quando invece vengono continuamente superate, modificate da nuovi paradigmi ideologici (hanno stancato molti -ismi idolatrati in passato: strutturalismo, personalismo, esistenzialismo, storicismo, cognitivismo ecc.). Al loro posto si stende un’orizzontalità assoluta, un vuoto che è anche immanenza ma in senso antigerarchico, disegnando una diversa topologia dei campi del sapere, dove non esiste “né sopra né sotto, né destra né sinistra”. Alla verticalità cristallizzata di valori – in scala a seconda della loro rilevanza e del loro prestigio culturale –, si sostituisce la ricchezza della compresenza di posizioni e situazioni non confrontabili tra loro, eppure ugualmente potenti. “I Beatles sono ‘come’ Stockhausen, Bob Dylan è ‘come’ Miles Davis”. Ogni prodotto culturale in futuro sarà letto con criteri interpretativi oggi sconosciuti: bisogna riuscire a considerare artefatti diversissimi tra loro sul piano della compresenza, pur sapendo che

appartengono a momenti temporali diversi e non paragonabili, per approdare a un pensiero non gerarchico, analogico, immediato. Il concetto di diacronia va relativizzato rispetto alla sincronia dei saperi nel momento in cui appaiono, globalmente e in maniera differenziata: la cultura dominante mezzo secolo fa oggi è considerata di nicchia, non più egemonica, e viene di continuo sostituita da nuovi saperi prima ritenuti periferici, di minoranza.

Quale sapere trasmettere, quindi, e come? Nel secondo capitolo Alessandro Carrera riflette sulla sua professione di docente, ora universitario, precedentemente in ogni grado di scuola. Ironicamente si definisce un disc jockey della cultura, dato che oggi i concetti di classicità, bellezza, significanza  sono stati profondamente modificati in senso funzionale: di efficienza, resa economica, produttività. Il tablet, nella sua piattezza unidimensionale, è più comodo del libro; la rapidità è preferibile alla lentezza; il progresso tecnologico è essenziale, mentre le discipline umanistiche non lo sono. Anzi, mancando di utilità pratica, costituiscono un privilegio.

Se il knowing how è più importante del knowing what, l’insegnante dovrà adeguarsi a una nuova metodologia di trasmissione del sapere, tracciando un ambiente di apprendimento non lineare, trasmettendo capacità di discernimento, idee, gusto, stile, e concependo collegamenti attraverso cui le opere confluiscono una nell’altra, in forme contigue che si incastrano tra di loro. Come fa il dj miscelando musiche diverse. Confessa Carraro: “Faccio girare qualunque remix riesco a trovare. Ho imparato a tagliare, mischiare, graffiare, campionare e sequenziare. Imposto le frequenze, passo da una playlist all’altra in dissolvenza incrociata e ci faccio sopra qualche rap. Ma sia chiaro che non sto insegnando nulla, e lo so benissimo. Certamente nulla di come è stato insegnato a me. Sto facendo il dj della cultura”. Insomma, l’interpretazione pare valere di più della comprensione, e la conoscenza non sembra importante quanto la comunicazione.

Ma anche la comunicazione presenta pericoli, equivoci, tranelli: negli ultimissimi anni, più che la pandemia, il cambiamento climatico, le guerre in Europa orientale e in Asia, o il divario economico tra i ceti sociali, l’opinione pubblica si è focalizzata su due problemi messi in luce dal movimento MeToo e dall’uccisione dell’afroamericano George Floyd a Minneapolis: le questioni riguardanti il sesso e la razza “hanno messo in gioco l’intera autopercezione della cultura occidentale, nonché di riflesso planetaria”, più di qualsiasi altro argomento politico internazionale. I gender studies e i race studies monopolizzano tutte le ricerche e discipline nelle facoltà umanistiche, provocando una radicalizzazione estrema delle scelte linguistiche

La political correctness e la cancel culture, pur giustificate negli obiettivi da raggiungere, utilizzano spesso metodi di sorveglianza sulla produzione scritta e orale capaci di creare faglie epistemologiche di difficile ricomposizione, senza riuscire a sanare le lacerazioni che qualsiasi approfondimento culturale e scientifico crea nelle coscienze più fragili. Quale soluzione si può proporre che non sia inibente nei riguardi delle varietà culturali? Forse, senza pretendere di fornire scandagli esaustivi di analisi alle nuove generazioni, basterebbe fornire loro ciò che è sufficiente “per passare all’azione, per vivere”, scendendo dalla cattedra, e ponendosi tutti assieme le stesse domande.

 

© Riproduzione riservata           «Gli Stati Generali», 30 marzo 2024