POESIA CONTRO L’AMORE
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ALLORA
Grace Paley (1922-2007)
Recensioni letterarie, testi editi
POESIA CONTRO L’AMORE
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ALLORA
Grace Paley (1922-2007)
JAN WAGNER, VARIAZIONI SUL BARILE DELL’ACQUA PIOVANA – EINAUDI, TORINO 2019
Jan Wagner, berlinese di adozione, è nato nel 1971 ad Amburgo. Vincitore del prestigioso premio Büchner nel 2017, in Germania ha pubblicato sette raccolte di poesia. Variazioni sul barile dell’acqua piovana, del 2014, esce ora nella collana bianca di Einaudi con la puntuale (ma anche coraggiosamente inventiva) traduzione di Federico Italiano.
A una prima superficiale lettura, subito si evidenzia l’accentuato interesse dell’autore per la natura e l’habitat vegetale e animale, persino superiore a quello rivolto al soggetto umano. Sono numerose le piante e le erbe citate da Wagner, da quelle domestiche o infestanti a quelle tropicali, con un vocabolario botanico che utilizza termini sia conosciuti sia specifici e desueti: gelso, faggio, sambuco, mandarino, muschio, ficus, anemone, veronica, menta, rosa canina, agata, castalda, amento, braida, prugnolo, farinaccio, carlina, eucalipto, mangrovia, bambù, araucarie, waratah. Anche la zoologia è molto frequentata dal poeta, negli esemplari più comuni come in quelli esotici o mitologici: api, zanzare, falene, cavolaie, aironi, merli, corvi, gufi, rondini, cacatua, asini, mucche, cavalli nelle tipologie di brabanti o lipizzani, bisonti, volpi, lontre, alci, focene, megattere, koi, mante, koala, caimani, lorichetti, nettarinie, kookaburra, cacatua, dodi, armadilli, jabiru, hippocampus.
Un’enciclopedia variopinta, bisbigliante o ululante, che evoca colori e suoni esorbitanti l’ambiente antropico, e ad esso addirittura indifferente. Come nelle esemplari poesie dedicate a un cavallo, a tre asini siciliani e a un koala, che decisi a radicarsi solo in ciò che li circonda, oppure semplicemente assonnati, rimangono testardamente incuranti degli esseri umani, impassibili ai loro richiami (“ma non si muove, sta lì e si guarda il panorama”, “ci sbracciammo, strepitammo, li punzecchiammo – loro / fermi, / solamente impegnati nell’essere asini”, “prima che si stirino e con uno sbadiglio / sprofondino in un sogno d’eucalipto”).
Poca introspezione, quindi, nella poesia di Jan Wagner (vivaddio! visto quanto del proprio minimo e inessenziale vissuto ci propina la letteratura contemporanea…): piuttosto uno sguardo, sospeso tra ironia e nostalgia, rivolto ad alcuni fatti aneddotici dell’infanzia, o ad avventurose esperienze di viaggio. Wagner bambino precipitato in un pozzo (“sei, sette metri di caduta libera / e mi ritrovai più distante / che mai, un cosmonauta / nella sua capsula rocciosa”), o alle prese con una legnosa e noiosa maestra di pianoforte, oppure coinvolto da adulto in incontri estemporanei e casuali. Nelle rare poesie di memoria personale, la messa a fuoco del poeta cela qualcosa di sé e delle proprie emozioni, appuntandosi invece su dettagli esterni che si animano, assumendo sembianze estranianti, osservate dal protagonista con stupito candore. Così il metronomo che scandisce il ritmo sul piano diventa un feretro di quercia da cui esce “il secco dito di un morto”, la luna intravista dal fondo del pozzo si trasforma in “un occhio indagatore sul microscopio”, gli zoccoli dell’alce ucciso in una battuta di caccia e riverso a terra sembrano “le mani di un campione sulla coppa”, il faggio che si erge in un prato ricorda un dormiente che si alza da un sogno, l’enorme montone che lo fissa “dalla sua maschera / d’ebano e aspetta” è il dio della torba davanti a cui inginocchiarsi in lacrime.
Qualsiasi episodio avvenuto (l’ascolto di un brano di Bach, l’osservazione di una tela di Canaletto, la morte di un parrucchiere) diventa per il poeta evento spirituale e arricchimento interiore, dando luogo a una vibrante risonanza emotiva. L’attenzione prestata agli oggetti li vivifica, li antropomorfizza, rendendoli messaggeri di significati che li trascendono: i lenzuoli bianchi lanciati da “insospettate altezze” come paracaduti, la tazza di ceramica modellata da un allievo buddhista che aspira alla perfezione, un chiodo nel muro destinato a durare oltre ogni fugace presenza mortale, i tovaglioli con “l’orgoglio dei velieri”, le biblioteche visitate da fantasmi, i barili d’acqua in giardino che inghiottono le nuvole con la serenità di un maestro zen. Maestro nell’analogia, scienziato della metafora, Jan Wagner quando narra di persone si orienta soprattutto verso figure lontane, nel tempo e nello spazio: un uomo morto congelato nella sua auto in Svezia, il bisnonno con la mantella militare, la zia Mia che da bambina si era infilata un’infiorescenza nel naso, il barbone deriso insieme ai compagni di scuola, la misteriosa vicina di casa che in un difetto fisico nascondeva un inconfessabile segreto… Mentre un Lazzaro redivivo puzzolente imbarazza e impaurisce parenti e compaesani con la sua apparizione di miracolato. In ogni storia raccontata un particolare minimo diventa universale, trasfigurandosi in qualcosa d’altro: la realtà sconfina nel fantastico, e il fantastico rivela la sua assoluta, evanescente insignificanza.
Oltre che nei contenuti così vari, ricchi e avvincenti, anche stilisticamente JanWagner esprime una interessante originalità. La sua lingua suona infatti “crepitante”, come viene giustamente suggerito dalla quarta di copertina e come può evincere il lettore, anche se digiuno di tedesco, da questi pochi esempi di allitterazioni, ripetizioni, dissonanze fonetiche: knirschenden kies, der kirsche; ganzen garten giersch; wie er rackert, rackert, / am bach, dem katarakt aus eis; doch ach, / doch ach, / doch ach, yak, ach, yak, ach; dann der wald. der wald. der wald; ein schweben, schwelen; weiter wachsen, weiter wuchern… Altra tipicità formale è la totale assenza in questo libro di lettere maiuscole, in controtendenza rispetto all’uso che ne fanno oggi molti poeti, esibendole a ogni capoverso. Da sottolineare inoltre la totale discrezionalità nell’utilizzo della punteggiatura, con i frequentissimi punti fermi posti là dove non ce li aspetteremmo, quasi a voler imporre pause di voce e di lettura altrimenti trascurate.
Gli imprevedibili accostamenti di situazioni e di riflessi emotivi all’interno di uno stesso componimento, creano in chi legge un effetto di sorpresa, e sembrano divertire o quantomeno stupire lo stesso autore, che nei suoi contrasti umorali vaganti tra comicità e commozione, incanto e repulsione, riesce a toccare tutte le corde dello strumento poetico, con una sapiente e felice padronanza esecutiva.
© Riproduzione riservata «Il Pickwick», 25 ottobre 2019
LA PIOGGIA
Di tutto sono felice: della città fradicia,
dei tetti, fino a ieri polverosi,
che oggi, lustri come seta lucida,
brillano in rivoli d’argento.
Felice della mia passione spenta,
guardo dalla finestra sorridendo,
mentre passi oltre veloce
per la strada scivolosa, sola.
Felice che più forte cada la pioggia,
mentre, riparata in un androne altrui,
tu rovesci l’ombrello bagnato,
sgrullandoti dalla pioggia.
Felice che tu mi abbia dimenticato
quando esci da quel portico,
senza uno sguardo alla mia finestra,
senza rivolgermi il viso.
Felice che sia tu a passare oltre,
eppure che io possa vederti,
che tanto magnifica e innocente
passi col suo ardore la primavera.
Vladislav Chodasevic (1886-1939)
Affonda la sera,
e oppresse dal peso
del giorno le cose intorno
si lasciano andare,
sfumano in un’ombra
più vera e certa.
Deserta
la strada si oscura,
e nella bruma indifeso
si confonde il mondo:
dirada, ha paura.
La notte che arriva
teme il suo buio, il silenzio;
si inventa fanali, lampioni, frenate
agli incroci: ha urgenza di voci
che mostrino a tutti che è viva.
Qualcuno, anche di notte, muore.
Qualcuno prova a piangere:
non esiste sospensione del dolore.
Solo è meno esibito, la luce
non lo scova per mostrarlo.
È un soffrire diverso,
ovattato dal sonno, smarrito;
un dolore sommerso.
Copre la notte con le sue nubi,
il cielo, la fa più scura e severa:
cala un peso silenzioso
sulle cose, a fasciarle di un piovoso velo.
Ma spera in qualche stella ingannevole,
in qualche luce pura e inconsapevole
che illumini improvvisa l’atmosfera.
I passi fanno compagnia a se stessi,
soli nel silenzio a scandire
pensieri, cacciano via ieri
– calpestati i ricordi, i rimpianti schiacciati ‒
e sordi, pesanti nel rumore dei tacchi
schivano i sacchi dei rifiuti,
i sassi, gli sputi.
Se il giorno è stato senza luce,
la notte lo riscatterà:
le parole sbagliate taceranno,
le offese saranno perdonate.
Nel sonno innocente di ognuno
il male si riduce a niente.
Forse basta alla stella più lontana
che qualcuno la guardi
pulsare piccolissima e spersa;
le basta per sentirsi diversa
dalle altre, per essere bella.
Pietà di noi ci prende,
dei nostri corpi indifesi
che la notte sorprende e addormenta,
offrendoli a sogni sconosciuti.
Sopravvissuti al giorno,
distesi in una levità spenta.
In altre stanze, corpi si cercano,
bocche si baciano.
Aspettano la notte e il silenzio
per parlarsi a gesti non più timidi
e fidarsi di una carezza.
Con cauti movimenti di scoperta
celebrano antichi riti, resti di danze
classiche: una salvezza incerta.
È il tempo segreto dell’essere,
il buio dell’inizio,
il silenzio che tutto assorbirà.
La notte del nulla infinito
sarà culla di dio,
suo giudizio mansueto e pentito.
In La luna, Grafiche Fioroni, 2000; in Un diverso lontano, Manni, Lecce 2003
e in Sud, rivista europea, n. 69 – 2019
NICOLETTA POLLA-MATTIOT, ESPLORARE IL SILENZIO – ENRICO DAMIANI EDITORE, SALÒ 2019
È strano come, per commentare il silenzio, si sprechino oggi tante parole. Ma se a farlo è Nicoletta Polla-Mattiot, ci troviamo davanti a un’attenta conoscitrice ed esperta del linguaggio non verbale, che da decenni affianca all’impegno di giornalista (La Stampa, Repubblica, Il sole 24 ore, How to Spend it) un’intensa attività didattica e di ricerca. Curatore scientifico del Festival del Silenzio di Vicenza e Treviso, fondatore del sito www.ascoltareilsilenzio.org, nel 2010 ha fondato con Duccio Demetrio l’Accademia del silenzio, scuola di pedagogia e comunicazione del silenzio.
Nel volume Esplorare il silenzio edito da Enrico Damiani, l’autrice raccoglie interventi di vari studiosi che analizzano il valore del non-detto, del taciuto, dell’ineffabile, e il ruolo che la sospensione della parola riveste nella società e nella cultura contemporanea. Il prefatore Gigi Spina considera il silenzio “un’esperienza individuale e collettiva, sperimentabile ma non facilmente definibile”, oscillante tra due poli: di sottrazione e mancanza da una parte, di aggiunta e pienezza dall’altra. Nell’esaustiva e approfondita introduzione di Nicoletta Polla-Mattiot si sottolineano i molteplici significati di cui si carica il tacere, in specie quando è volontario, scelto, intenzionale, e non imposto da una condizione di malattia, inferiorità o dolore.
Abbiamo tutti sperimentato “silenzi d’amore, d’intesa, di dominio, di controllo… silenzi professionali, personali e intimi”. Gli antichi retori insegnavano tecniche del discorso che prevedevano pause e dilazioni per meglio catturare l’attenzione degli ascoltatori, valorizzando così la parola per espanderne il senso. Anche oggi molte aziende organizzano corsi e lezioni per migliorare l’eloquenza del personale, insegnando metodiche comunicative che implicano l’utilizzo di interruzioni nell’esposizione argomentativa. Addirittura, in linguistica esistono figure retoriche caratterizzanti il controllo della narrazione: reticenza, preterizione, enfasi, ironia, ellissi, perifrasi eufemistica, litote, cesura, metafora esornativa.
Tacere può manifestare l’intenzione consapevole di opporsi alla verbosità eccessiva e ridondante, alla chiacchiera, al fatuo pettegolezzo, all’esibizione autoreferenziale, alla martellante iperconnessione mediatica attuale, per privilegiare invece l’ascolto, la riflessione, l’intensità emotiva. Esistono tuttavia anche silenzi meno nobili. Quello dei potenti, ad esempio, che minaccia e intimorisce. Quello agonistico che esprime superiorità e umilia. La maldicenza insinuata e non espressa chiaramente. Oppure il travestimento ipocrita dell’allusione, il ricatto intimidatorio, il mistero di un segreto irrivelabile, la deferenza carica di ritegno verso un superiore, la rimozione difensiva di un conflitto interiore.
Con le ventiquattro lettere dell’alfabeto, si possono ottenere 243.373.844.957.207.298 miliardi di combinazioni diverse, eppure nella quotidianità utilizziamo un vocabolario standardizzato, banale, ripetitivo. Per questo, a volte, sarebbe semplicemente preferibile non aprir bocca, come invitava a fare Menandro: “Di’ qualcosa migliore del silenzio o taci”. Sul fascino del silenzio hanno scritto tutti i grandi della letteratura mondiale, da Alcmane a Virgilio, Tasso, Ariosto, Milton, Goethe, Lee Masters, Auden, Anche in questo poliedrico e interessante volume si esprimono noti intellettuali e professionisti convinti che la dicotomia esistente tra il detto e il taciuto imponga una riflessione approfondita in ambito teorico e di ripercussione sociale. Sono romanzieri, musicologi, classicisti, psichiatri, biologi, pittori che ne indagano la rilevanza nella creazione artistica, nella natura, nella scienza, nell’analisi psicanalitica, nei rapporti interpersonali e nella famiglia.
Parlare di meno, ascoltare di più è la ricetta che propongono, come suggeriva un antico apologo orientale: “Poco prima della predica di un maestro buddhista, un uccellino iniziò a cantare su un ramo fuori dalle mura del monastero. Il maestro tacque e tutti ascoltarono il canto in rapito silenzio. Appena l’uccellino smise, il maestro annunziò che la predica era finita, e se ne andò”.
© Riproduzione riservata
https://www.sololibri.net/Esplorare-il-silenzio-Polla-Mattiot.html 18 ottobre 2019
JEAN PAULHAN, LENTI PROGRESSI IN AMORE – IL MELANGOLO, GENOVA 1992
Jean Paulhan (1884-1968), fondatore e firma prestigiosa delle più importanti riviste letterarie francesi dal 1925 al dopoguerra, fu anche critico d’arte e narratore, interessato soprattutto alle sfumature psicologiche e subconsce del linguaggio. Amico fraterno di Ungaretti, Paulhan ebbe una vita avventurosa, fu cercatore d’oro in Madagascar e partecipò alla Resistenza.
Lenti progressi in amore, scritto nel 1916 ma pubblicato integralmente per la prima volta solo nel 1966, e tradotto in Italia nel 1992, resta la sua opera più nota. Si tratta di un breve romanzo-saggio in cui si alternano ricordi, riflessioni, descrizioni di ambienti, personaggi e stati d’animo. Ambientato durante la I guerra mondiale, il suo protagonista principale è un giovane militare, alter ego dell’autore, che sta trascorrendo alcune settimane di riposo in un vecchio mulino della Borgogna, ospite di una famiglia contadina. Per riprendersi dalle fatiche dei combattimenti e delle marce, Jacques si culla in una pigra oziosità, cercando di svelare a se stesso la reale disposizione che prova nei riguardi del mondo circostante, e in specie dell’universo femminile, verso cui nutre sentimenti contrastanti di attrazione, fascino e timore.
Una lenta educazione affettiva e sessuale, lo porterà dall’esame severo della propria indole a una più benevola indulgenza verso i suoi impulsi e verso la fragilità della natura altrui. “È strano come il desiderio di una donna non sia per me proporzionale a quanto mi piace, al contrario, devo poterla disprezzare un po’. Si dice pure sia compito dell’uomo, ad ogni istante, lottare contro gli istinti che sorgono in lui, come nelle bestie feroci. Io però mi imbatto raramente in istinti simili, e la morale conforme, per quanto comune sia, non è affatto per me. Sarebbe piuttosto l’opposto”. Rievocando le sue esperienze amorose, confessa di averle vissute o con troppa precipitazione, o con esasperante metodicità, ricavandone sempre sentimenti di insoddisfazione, di vergogna o di noia.
La stanza polverosa che occupa nel mulino è posta in cima a una scricchiolante scala di legno, e gli permette di osservare dall’alto la vita gravosa di chi lavora nei campi, spiando le donne anche negli atteggiamenti più umilianti.
Jeanne, la maggiore delle figlie dei padroni di casa, una ragazzona bionda dai seni prominenti, spesso discinta più per sciatteria che per malizia, lo illude tentatrice lasciandosi avvicinare e abbracciare, per poi rifuggire, scontrosa o indifferente, da ulteriori approcci. Anche la madre della giovane sembra rivolgere un’attenzione particolare al bel soldatino, offrendosi di rassettargli la stanza nottetempo: ma lui, ingenuo, tarda a comprendere, e non ne approfitta. Poi c’è la sorellina Marie-Louise, precoce non solo nei pensieri. E Juliette, una timida sarta impaurita dall’ipotesi di concedere le sue grazie poco graziose: con lei il corteggiamento, delicato e pudico, si protrae più a lungo, ma induce Jacques a desistere per un eccesso di tenerezza. Il ragazzo manifesta una sua convinzione riguardo alle relazioni tra uomo e donna: “Non esiste un avvenimento più serio di un’avventura amorosa… Si rischiano un mucchio di cose, in primo luogo il concetto che si ha di se stessi”. Forse proprio per imparare a conoscersi più a fondo, e non solo per libidine, si lascia trascinare in un rapporto di sfrenata sensualità dalla bella e sregolata Simone, conosciuta in treno dopo una notte trascorsa a bere con dei commilitoni.
Quasi orgoglioso di aver scoperto un aspetto del suo carattere prima censurato, ammette: “Che fare nella vita di un difetto? Bisogna attendere che diventi una qualità. Con pazienza, se possibile”. Lenti progressi in amore, dunque, come recita il titolo del breve romanzo di Jean Paulhan, scritto in una prosa modernissima, espressa in ritratti calzanti e puntuali di cose e persone, contenuta in frasi brevi e dialoghi rapidi.
© Riproduzione riservata
https://www.sololibri.net/Lenti-progressi-in-amore-Paulhan.html 17 ottobre 2019
EMILIO ISGRÒ, QUEL CHE RESTA DI DIO – GUANDA, MILANO 2019
Emilio Isgrò (Barcellona Pozzo di Gotto, 1937) esordì giovanissimo nel 1956 con un libro di versi ambientato nella sua Sicilia, ma già nel decennio successivo si dedicò alla poesia visiva e all’arte concettuale, realizzando le prime “cancellature” che lo hanno reso famoso a livello mondiale. Dal 1965 vive a Milano, fatta eccezione per alcuni anni trascorsi a Venezia come responsabile delle pagine culturali del Gazzettino. Nel 1966 pubblicò Dichiarazione 1, in cui precisava la sua concezione di poesia come “arte generale del segno”: a questa prima definizione della propria attività creativa seguirono numerose altre, come corredo teorico delle sue produzioni. Il lavoro di Isgrò si è sempre diviso tra scrittura e arte applicata, con importanti riconoscimenti ottenuti sia in campo editoriale sia nel corso delle partecipazioni a mostre nazionali e internazionali, individuali e collettive (alla Biennale di Venezia nel 1972, 1978, 1986 e 1993) e per l’allestimento di opere teatrali e liriche. Dal 2014 nella Galleria degli Uffizi è esposto l’autoritratto Dichiaro di non essere Emilio Isgrò.
La cifra che contraddistingue le sue operazioni artistiche è appunto la cancellatura, attraverso cui righe o brani interi di libri, articoli di giornale, documenti ufficiali, testi sacri, spartiti musicali e mappe geografiche vengono soppressi con tratti bianchi o neri di pennello, nella volontà di eliminare il superfluo, facendo risaltare la parola nel suo significato essenziale e duraturo.
Nella produzione poetica, l’artista sembra invece preferire alla tecnica distruttiva una più mite operazione compositiva e di recupero, di cui danno testimonianza i versi del volume edito da Guanda Quel che resta di Dio, in cui sono raccolte poesie scritte dagli anni ’80 a oggi. Qui i vari timbri espressivi si sovrappongono, in qualche modo riprendendo l’alternanza delle pratiche pittoriche, per cui ciò che viene rivelato sulla pagina ha lo stesso valore del sottinteso, del taciuto, dell’omesso. Lo stile di Isgrò, infatti, è composito e oscillante tra tradizione e novità, tra toni didascalici e accenti provocatori o ironici: più nei contenuti che nella forma si oppone all’ovvio cui ci hanno abituati l’uso e l’abuso di temi e linguaggi stereotipati, conformisti, resi logori dalla banalità mediatica e dall’egemonia della comunicazione virtuale. La sua scrittura ricorre sia a forme chiuse (sonetti, distici, terzine e canzoni), sia a componimenti nostalgicamente descrittivi di una Sicilia ormai scomparsa, sia ad altri testi più rabbiosamente spavaldi o di coraggiosa denuncia civile.
Per esempio, a un intenso Sonetto funebre, da godere negli audaci enjambement e nella chiusa tombale (“Sento nell’aria delle tue tempeste / il primo soffio della primavera, / turbinaio di grandine e di neve / che scopre le montagne e le foreste // lontane.”), si contrappone la sarcastica Casalinga in terzine (“Eri una rosa sgrètola, / eri la voluttà. / Ma quando la mia mano candida // ti accarezzò la coscia canterina / (giacché anche le cosce / cantano, si sa…) // quando la mia mano energica / ti sbatacchiò la nuca / delucidata a cera // allora tu, eterna casalinga, / mi mostrasti la lingua / me la cacciasti in gola”). Poi compare inatteso il dialetto siculo, graffiante e incisivo, in un presepe ecumenicamente buddista (“«Budda mi chiamo» dissi ’u Bammineddu / aprendo le sue braccia all’universo. / E frastornati ’u boj e l’asineddu / sputacchiarono, lenti e cauti, verso // la faccia di Peppino e di Maria”), mimetizzato tra atmosfere di un’infanzia lontana e rimpianta, senza alcuna retorica, però: un sole malarico, un campanile tronco, mosche e zanzare che imbarazzano l’aria, la Vergine del Tindari spaventata. La memoria è anche quella degli anni poveri di un “dopoguerra di contrasti”, in cui la coscienza politica si confonde con le aspirazioni e le delusioni private. Il pittore e lo scultore che ha sempre lavorato con la materia, anche quando compone versi è attratto soprattutto dalla realtà tangibile dei corpi: le poesie che aprono il volume si focalizzano sull’osservazione e la celebrazione della carne, da quella esposta nelle macellerie a quella che ci portiamo pesantemente addosso.
Cosa c’entra il Dio nominato da Isgrò nel titolo del suo libro? C’entra, nell’amore e nell’odio, nell’ accettazione devota e nel rifiuto: “Solo per questo mio malessere / sottile come un velo / io credo in Dio / padre onnipotente / creatore del cielo / e della terra / oltre che delle cimici. // Ma credo a giorni alterni, / a ore intermittenti”. C’entra perché il suo è un Dio nascosto, e ne resta poco all’interno delle cattedrali e delle mura vaticane, o nell’ “untuosità clericale” di chi costruisce la propria immortalità servendosi del potere: “Io credo in Dio ma non l’ho mai chiamato / per nome. L’ho chiamato amore, / acqua, gloria; e qualche volta storia”.
Osservando il declino di umanità nei vari aspetti del vivere sociale di oggi, l’autore si aggrappa a ciò che rimane di solidale, fraterno e gratuito nella famiglia, nell’amicizia, nella natura e nell’arte. Il suo è uno sguardo indulgente e amaro, lontano da censure e condanne: tuttavia intristito, e quasi sconfortato. L’arte delicata di Beato Angelico, quella più robusta di Caravaggio, riuscirebbe a svincolarsi dalle pretese del mercato, da cui anche Isgrò si sente oppresso? “Sento a me più fraterno un giocatore / di football o un plebeo maleducato // che l’investitore algido che chiama / arte la parte, e la partita vita”.
Cosa resta della Resistenza, dell’impegno, dell’altruismo negli affetti, dell’originalità nella pittura genuflessa alle aste di Sotheby’s e alle allucinazioni di Basquiat? Nell’americanizzazione della cultura mondiale, nella banalizzazione della sessualità, nella divinizzazione della finanza, nello scandaloso dramma dei morti nel Mediterraneo, l’artista (pittore, scultore o poeta che sia) vede il pericolo disumanizzante che incombe sul futuro di tutti: nemmeno il Papa potrebbe dire o fare qualcosa contro la spettacolarizzazione mediatica universale che riduce ogni tragedia a farsa. “Quel che resta”, come recitano i titoli delle varie sezioni di cui si compone il libro di Emilio Isgrò, è davvero poco, ma va comunque lasciato qualche minimo spiraglio alla speranza, soprattutto se radicata nella bellezza, privata dell’avidità di possesso. Una bellezza da riconquistare collettivamente, salvandola dalla sciatteria e dagli egoismi individuali: “Veniamo, forse, dallo stesso salmo / e dalla stessa ansia generata / da vigne stente e da parole oscene. / Forse veniamo dalla stessa Italia / umida, scalza. Per questo ci cerchiamo”.
© Riproduzione riservata «Il Pickwick», 14 ottobre 2019
CHIARA FRUGONI, PARADISO VISTA INFERNO – IL MULINO, BOLOGNA 2019
La più nota e importante medievista italiana, Chiara Frugoni ‒ per anni titolare della cattedra di Storia Medievale nelle Università di Pisa e di Roma Tor Vergata ‒ ha sempre applicato alla sua ricerca (il cui fulcro verte intorno alla figura di Francesco d’Assisi) un metodo di lavoro in grado di tenere nello stesso conto testimonianze scritte e figurative, con la convinzione che “l’immagine parli”.
Anche in questo splendido volume edito da Il Mulino, Paradiso vista inferno, che reca come sottotitolo la dicitura Buon governo e tirannide nel Medioevo di Ambrogio Lorenzetti, il repertorio iconografico a colori assume un rilievo preponderante. Gli affreschi di Ambrogio Lorenzetti (Siena, 1290-1348) che decorano la Sala dei Nove nel Palazzo Pubblico di Siena, sono riprodotti nella loro interezza e nei particolari più significativi, e confrontati sia con le opere scultoree classiche da cui hanno tratto ispirazione, sia con l’arte coeva e posteriore (da Giotto a Simone Martini, Niccolò Gerini, Taddeo di Bartolo fino a Johann Ramboux).
Chiara Frugoni li commenta inquadrandoli storicamente e ideologicamente nel periodo in cui sono stati commissionati e dipinti, tra il 1338 e il 1339. Dispiegati su tre pareti, gli affreschi rappresentano le Allegorie del Buono e Cattivo Governo e dei loro Effetti in Città e in Campagna, esibendo una complessa simbologia che l’autrice del volume interpreta non solo dal punto di vista artistico, bensì soprattutto svelandone motivazioni e finalità politiche. Sulla parete più luminosa a nord è illustrata l’Allegoria del Buon Governo, in quella adiacente a est i benefici risultati di una corretta amministrazione nella città e nel contado, a ovest l’Allegoria del Cattivo Governo, con i suoi esiti nefasti. Il senso delle pitture è chiarito da una canzone posta a lato e sotto di esse, scritta in volgare per rendere eloquentemente accessibile ai visitatori il messaggio veicolato. La parete di fondo ritrae gli esponenti del potere saggio e provvidente (cittadini, soldati, funzionari), sui cui vegliano le figure della Sapienza e della Giustizia, le tre Virtù teologali e le quattro cardinali, accompagnate da allusioni mitologiche e bibliche. A destra è raffigurata la vita attiva e serena della città di Siena, con il Duomo e le mura, oltre le quali scorre placida e laboriosa l’esistenza dei contadini nei campi, raccontata con un’attenzione particolare ai minimi dettagli dell’esistenza quotidiana. A sinistra si concentra la visione negativa e demoniaca della Tirannide attorniata da sei Vizi, artefici di violenza, morte, devastazione, anarchia.
Il messaggio che l’artista volle affidare alla sua pittura era evidentemente di propaganda, e Chiara Frugoni lo ribadisce esplicitamente nel prologo: “Nel Medioevo il diritto ad essere rappresentati spettava abitualmente a protagonisti della storia della Chiesa oppure a laici di primo piano di cui conosciamo il nome e i fatti. La grande novità degli affreschi di Ambrogio Lorenzetti è che i rappresentati sono invece tutti anonimi, persone comuni che svolgono occupazioni comuni. Proprio uomini e donne senza storia per la prima volta sono i protagonisti ai quali è affidato il compito di illustrare la ridente vita assicurata dall’ottimo governo dei Nove, l’unico possibile. «Ridente»? Sappiamo, leggendo fonti, cronache, petizioni, trattati e poesie, che la realtà del tempo era ben diversa da quella affrescata: carestie, rivolte, violenza urbana, corruzione”. Le minuziose, estese e dottissime ricerche dell’autrice si sono basate su testimonianze contemporanee o di poco successive alla stesura dei dipinti: documenti di archivio, cronache locali, atti notarili, prediche e sermoni religiosi, trattati di arte.
All’epoca in cui i Nove (autorità municipale formata da esponenti dell’alta borghesia) commissionarono gli affreschi del Palazzo Pubblico, Siena viveva un periodo di grande inquietudine sociale, causata dalle lotte fra le famiglie più potenti, dal proliferare dell’usura e della corruzione dei costumi, dallo sfruttamento economico dei banchieri sugli artigiani e i commercianti, dallo stato di abbandono rurale e dalle continue risse tra i cittadini. Lorenzetti si incaricò di mostrare al più vasto pubblico possibile (in un’epoca in cui non esistevano i mezzi di comunicazione odierni) che il governo in carica era il migliore tra tutti, e che qualsiasi differente alternativa avrebbe provocato solo impoverimento e disordine. Il fine della sua opera doveva essere quello di sedare il malcontento e di rassicurare gli animi degli abitanti, esibendo attraverso scene urbane e agricole animate da personaggi operosi e felici, tutta l’opulenza e la produttività di un’intera comunità solidale nel cooperare al benessere collettivo, indicando altresì al pubblico, nell’affresco a ovest della sala, cupo e minaccioso, quali deleteri risultati sarebbero derivati dall’egemonia di un potere tirannico.
Firmando il suo capolavoro, Ambrogio era fieramente consapevole di aver tradotto visivamente le istanze politiche, giuridiche e religiose del ceto dominante in Siena, sulle basi filosofiche e dottrinali espresse da Aristotele e San Tommaso, subordinanti l’interesse privato a quello comunitario. E Chiara Frugoni, nel firmare a sua volta questo denso e autorevole commento all’opera del pittore senese, ha voluto sottolineare quanto sia fondamentale anche nei nostri tormentosi tempi attuali anteporre l’interesse pubblico, la giustizia e la pace al profitto individuale, alla sopraffazione, alla discordia. “Non so dire meglio che con le parole di Jean-Pierre Vernant le ragioni per le quali ho scritto questo libro: «noi poniamo all’oggetto dei nostri studi le domande che il presente pone a noi. È per questo che esiste una storia degli avvenimenti storici: ogni periodo li vede in maniera differente, perché si modifica l’orizzonte di riflessione»”.
© Riproduzione riservata
https://www.sololibri.net/Paradiso-vista-inferno-Frugoni.html 14 ottobre 2019
DONIKA DABISHEVCI, LA TUA ROBINJA – ENSEMBLE EDIZIONI, ROMA 2017 (e-book)
Donika Dabishevci è una poetessa kosovara nata nel 1980 a Pristina. Laureata in letteratura albanese, nel 2013 ha conseguito un dottorato all’Università di Tirana. Autrice di tre raccolte poetiche, lavora oggi come docente universitaria nella sua città natale. La tua robinja, a cura di Gëzim Hajdari, raccoglie 47 poesie erotiche scritte nel dialetto gegë dell’Albania del Nord: la casa editrice romana Ensemble ha pubblicato questo suo primo libro in italiano, con testo a fronte.
Nei suoi versi Donika celebra l’amore fisico vissuto con prepotenza e assoluta veridicità, senza scadere mai in una terminologia volgare, ma assorbendo atmosfere classiche e orientali. C’è, ad esempio, tutta l’eredità di Saffo in questo componimento: “Sento il tuo profumo, il mio corpo trema, la mia anima sussulta, non tardare a venire, la mia anima si spezzerà se non mi raggiungerai, più forte della morte è il mio desiderio per te”, e suggestioni arabeggianti affiorano nella vaghezza di questi altri versi: “Voglio essere un frutto maturo del tuo giardino, un frutto radioso che gioisce di cadere nelle tue mani al volo, il tuo morso brezza e coltello nel cuore”.
Il dono di sé all’amato diventa preghiera e insieme imperativo, voce di donna che non conosce esitazioni o pudori nel darsi, celebrazione di vita e vagheggiamento di morte, in una danza folle di Eros e Thanatos, come suggerisce il prefatore: “Non vedi le mie labbra rosse? Appaga la mia sete”, “Ti donerò respiro, ti donerò anima, ti donerò vita, a te, che tacci come un sasso, io, creatura di luce”.
Risuonano evidenti anche echi catulliani, non solo del celeberrimo Odi et amo (“Ti amo e ti odio”), ma anche dell’emozione divorante che impedisce qualsiasi altro appagamento fisico “ho perso il sonno, inseguo nella notte le rosse orme dei sogni”, “L’anima mi duole, nella mia pelle spine, non dormo”. La fisicità esplicita del desiderio ricorda in alcune espressioni la nostra Alda Merini (“Vieni, prendimi, toccami, amami, fammi impazzire, entra dove sai entrare”, “Sei il mio signore senza le briglia, e io fremo di desiderio, non temo nulla in questa vita vuota, toccami, niente parole”, “Voglio che tu sia maschio, senza veli sul corpo, che mi scavi a fondo, giunco incendiato che si scioglie nelle mie acque”, “Il mio fuoco trasformerà in cenere e fiamme ogni tuo desiderio, sono pronta a incendiarti, come una belva feroce e docile ti donerò segni di ferite”).
Solo dagli anni ’90 in Albania i letterati hanno potuto esprimere più liberamente e senza censure la loro sensualità: durante la dittatura di Enver Hoxha erano vietati i temi più schiettamente biografici e individualisti, o altri di ispirazione metafisica e spirituale, ritenuti espressione della morale e dell’estetica borghese dell’Occidente capitalista; gli autori venivano esortati a essere “l’occhio, l’orecchio e la voce della classe proletaria”, secondo un famoso slogan del Partito Comunista.
Donika descrive se stessa come dispensatrice di luce, di vitalità, di gioia, di fronte al suo uomo spesso irrigidito in un inerte timore o nell’egoistica indifferenza che lo rende insensibile e codardo. Entrambi si salveranno solo lasciandosi trasformare nella bellezza eterna degli elementi naturali, foglie-erba-fiori-nuvole-ruscelli, e fondendosi con il tutto: “Luna e sole diverrò”, “Un giorno, tu e io, non ci saremo in questo verde, ci dissolveremo nel vuoto del tempo. Tu diverrai una palude, io una lava vulcanica, tu, un torrente infuriato, io una scia di luce di arcobaleni e pioggia”. Il titolo stesso della raccolta si riferisce alla leggenda che riteneva Robinia una fanciulla-trofeo per i guerrieri vittoriosi in guerra: (“Sono la tua robinja folle di te mio signore”). Di una tale esaltazione amorosa, anche le divinità saranno gelose, secondo la più classica delle tradizioni mitologiche: “che dio possa vedermi crepando di invidia e morire per la disperazione. Oi, oi, oi…”.
© Riproduzione riservata https://www.sololibri.net/La-tua-robinja-Dabishevci.html 11 ottobre 2019
CARL SCHMITT, TERRA E MARE – ADELPHI, MILANO 2002
In un originale saggio del 1942, redatto con l’accattivante forma e struttura del racconto, il filosofo e giurista tedesco Carl Schmitt riassunse due millenni di storia mondiale, individuando nell’opposizione tra la terra e il mare il motore dell’evolversi dell’intera vicenda umana. Nella dicotomia tra i due elementi della natura, l’autore ravvisava l’antitesi che ha perennemente contrapposto civiltà e sistemi economici, teorie politiche e filosofiche, miti e religioni rivelate.
Schmitt dedicò Land und Meer alla figlia tredicenne Anima, usando uno stile narrativo inedito rispetto alla sua precedente produzione scientifica, proprio perché il fine che si proponeva era principalmente divulgativo e didattico. I venti capitoletti, a metà tra speculazione e immaginazione, spaziano geograficamente e storicamente dall’antica Grecia alla Repubblica marinara di Venezia, dalla scoperta dell’America al colonialismo britannico, fino alla II guerra mondiale e alle prime esplorazioni del cosmo.
Giustamente famoso, nella sua icasticità, è l’avvio del saggio: “L’uomo è un essere terrestre, un essere che calca la terra. Egli sta, cammina e si muove sulla solida terra. Questa è la sua collocazione e il suolo su cui poggia, e ciò determina il suo punto di vista, le sue impressioni e il suo modo di vedere il mondo”. Animale terrestre e pedestre, quindi, l’uomo: ma già il primo dei presocratici, Talete di Mileto, aveva riconosciuto nell’acqua l’origine di ogni vita. Secondo il mito, poi, Afrodite ‒ dea della bellezza ‒ nacque dalle onde del mare, di cui Poseidone era la divinità incontrastata e implacabile.
La contrapposizione evidente tra l’elemento equoreo e quello di superficie non è solo ideologica e caratteriale, bensì anche di dominio militare e di conquista: “La storia del mondo è storia di lotta di potenze marinare contro potenze di terra e di potenze di terra contro potenze marinare”. Atene e Sparta, Roma e Cartagine, Vichinghi e Saraceni: da un lato il possente e lento progredire degli eserciti in marcia, dall’altra l’agilità temeraria di chi affronta l’ignoto solcando i mari. Vari imperi si sono succeduti dominando le acque: si possono distinguere culture fluviali (Assiri, Babilonesi, Egiziani), culture dei bacini interni e del Mediterraneo (Grecia e Venezia), culture oceaniche (in seguito alla scoperta dell’America e alle circumnavigazioni del globo): qualsiasi apertura nello spazio circostante ha sempre comportato un progresso di civiltà, a partire da Alessandro Magno, passando per l’impero romano, le crociate, i commerci intercontinentali, per arrivare alle trasmigrazioni novecentesche: “Ogni volta che, grazie a una nuova avanzata delle forze storiche e alla liberazione di nuove energie, nuove terre e nuovi mari fanno il loro ingresso nell’orizzonte della coscienza collettiva umana, mutano anche gli spazi dell’esistenza storica. Nascono allora nuovi parametri e nuove dimensioni dell’attività storico-politica, nuove scienze, nuovi ordinamenti, una nuova vita di popoli nuovi o rinati”.
Schmitt dedica molta attenzione all’espansione di Venezia nel Mediterraneo, iniziata intorno all’anno 1000 con una timida ricognizione verso la Dalmazia, e proseguita per sei secoli, con grandi risultati economici e diplomatici. Tuttavia, l’ascesa della Repubblica Veneta rimase circoscritta all’epoca medievale, senza riuscire a penetrare nell’epoca moderna, a causa dell’arretratezza nella pratica navigatoria (le sue galee si affidavano solo alla forza dei remi…). Furono gli olandesi a perfezionare metodi e attrezzature nautiche, con una cantieristica avanzata, la costruzione di imbarcazioni veloci, l’invenzione di un sistema di veleggio leggero, lo sviluppo degli strumenti di orientamento: ciò permise alle flotte di bordeggiare lungo le coste, e di affrontare le battaglie navali non più con arrembaggi diretti, ma in duelli di artiglieria anche a grandi distanze. Fu in questo modo che l’Inghilterra riuscì a prendere il sopravvento sulle popolazioni dell’Europa meridionale, diventando il primo impero marittimo (e in seguito militare, mercantile, industriale) della storia dell’umanità: utilizzando una nuova tecnologia nautica, e servendosi anche dell’azione anticipatrice, aggressiva e banditesca, di corsari, masnadieri, filibustieri, “schiumatori del mare”, che tra il 1550 e il 1700 si spingevano dalle coste britanniche a quelle continentali ed extra-continentali. Francis Drake, Richard Hawkins, Sir Walter Raleigh, Sir Henry Morgan e altri meno famosi, con le loro scorrerie assestarono i primi colpi al monopolio commerciale della Spagna. Schmitt esaltava la funzione storica svolta dai predoni anglosassoni, feroce avvisaglia della potenza marinara protestante schierata contro l’egemonia delle nazioni cattoliche, in una serie di conflitti che culminarono nella Guerra dei Trent’anni (1618-1648).
L’originalità del saggio di Carl Schmitt consiste nell’aver interpretato dati storiografici universali con approcci trans-disciplinari, derivati dalla scienza, dal mito, dalle leggende popolari, da nozioni scientifiche e tecniche. Così come aveva riconosciuto i meriti della pirateria inglese, seppe interpretare originalmente anche l’importanza della caccia alle balene, che aveva indotto gli uomini a inoltrarsi in mare aperto, sempre più lontano dai lidi di partenza, verso l’ignoto. Più che alla flotta di Cristoforo Colombo, dobbiamo alle navi baleniere la scoperta di rotte, isole, correnti e approdi sconosciuti, dall’Atlantico al Pacifico. Nell’elogio che Schmitt intesse della balena (e del suo massimo cantore Herman Melville, l’Omero dell’oceano!) si intuisce la volontà di rappresentare metaforicamente la lotta tra il Leviatano e Behemot, mitici mostri biblici del mare e della terra, in cui raffigurava il conflitto esistente tra i due elementi naturali, le corrispondenti forme di potere e gli spazi da loro occupati.
Proprio sul concetto di spazio fa leva la riflessione schmittiana, nel narrare della grande rivoluzione derivata dalla scoperta dell’America, quando gli oceani entrarono a far parte dei percorsi navali dei popoli europei, modificando l’orizzonte geografico planetario e contribuendo alla formazione di una nuova idea di infinito e di vuoto, che da allora permeò ogni scienza e arte umana. Un fondamentale contributo al concetto di una diversa spazialità venne dato dalle scoperte astronomiche di Copernico, Galileo, Keplero, dalla filosofia di Giordano Bruno, dalle tesi dell’illuminismo, grazie a cui l’uomo comprese di non essere più al centro dell’universo, intuendo che davanti a lui si aprivano estensioni sconfinate. Tale consapevolezza trasformò il suo modo di pensare e di agire. Dopo secoli in cui le forze cristiano-europee si erano distinte nella colonizzazione, nello sfruttamento e nella spartizione dei territori aldilà degli oceani con guerre sanguinose e fratricide, il vecchio continente si aprì ad altre decisive esplorazioni, non più terrestri e marittime, ma dei cieli, inaugurando un nuovo stadio della rivoluzione spaziale planetaria. Con un capitolo finale dedicato appunto all’aria, terza sfera vitale dell’esistenza umana, si chiude la riflessione schmittiana sull’ antinomia terra-mare.
Per quale motivo un filosofo e giurista di assoluto livello e rinomanza come Carl Schmitt decise di affrontare nella maturità studi storici e scientifici sulla navigazione, e di scrivere Land und Meer? Lo spiega molto bene nella postfazione il compianto Franco Volpi, adducendo alla strisciante persecuzione patita dallo studioso da parte del partito nazista (che inizialmente lo aveva avuto tra i sostenitori) la dolorosa crisi esistenziale che lo portò a estraniarsi dall’attualità per dedicarsi a una visione più elevata dei destini dell’umanità, approfondendo studi antropologici in un indirizzo escatologico ed esoterico, e non più in base alle limitate categorie nazionali, sociali, economiche. “Era un uomo di scienza, abituato al rigore della definizione e dell’argomentazione, ma al tempo stesso uno sciamano della parola e un mistagogo. Padroneggiava entrambi i registri, quello della logica e quello della seduzione, del concetto e dell’immaginazione, della ragione e del mito”.
Carl Schmitt (Plettenberg, 1888-1985), professore di diritto pubblico all’Università di Berlino, aveva orientato la sua produzione filosofica sui concetti-chiave di decisionismo, sovranità, valore, limite, seguendo le orme di Hobbes e Weber. Il suo pensiero venne condizionato dall’ideologia nazista, cui prestò un fondamento filosofico-giuridico, aderendo in prima persona al partito di Hitler, che lo nominò consigliere di Stato prussiano, considerandolo una sorta di Kronjurist («giurista della Corona») del Terzo Reich. Dopo la guerra, Schmitt fu processato e imprigionato dagli alleati per i suoi rapporti con il nazionalsocialismo; in seguito prosciolto, gli fu vietato l’insegnamento: per tale motivo continuò a ritenersi fino alla morte ingiustamente emarginato, unica vittima a pagare per tutta l’intellighenzia tedesca. Franco Volpi scolpisce con pochi tratti incisivi il ritratto intellettuale dell’autore di Terra e mare: “Schmitt si inoltra qui in un territorio rischioso e affascinante, al confine tra la storia e l’immaginazione, la scienza politica e la visione mitologica, la giurisprudenza e l’evocazione di potenze elementari e demoniache. Cantore degli elementi e del loro ultimo potere, egli ci insegna che la storia del mondo non si decide nel palazzo dei concetti, ma nelle sue segrete: cioè prima di dove pensavamo cominciasse, e oltre dove pensavamo terminasse”.
© Riproduzione riservata «Il Pickwick», 9 ottobre 2019