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RECENSIONI

WELLS

H.G. WELLS, L’UOMO INVISIBILE – FANUCCI, ROMA 2017

Con un’esaustiva prefazione di Carlo Pagetti, che fornisce al lettore tutte le coordinate culturali, storiche ed interpretative del testo, l’editore Fanucci ha ripubblicato nel 2017 il terzo tra gli scientific romance di H.G.Wells, scritto nel 1897: L’uomo invisibile. Il libro, che l’autore definì “una fantasia umoristica”, racchiude in sé i caratteri della letteratura gotica, arricchiti da una feroce critica al progressivo conformismo spersonalizzante della società e dall’ interesse per le più recenti sperimentazioni della medicina: temi rivisitati con un gusto esplicito del sarcastico, del grottesco, della suspence e della parodia antiborghese.

Ambientato nei sobborghi di Londra e del Sussex, il romanzo ha come protagonista un ambizioso e delirante scienziato, il cui nome allude sinistramente al grifone, torvo animale fantastico. Griffin aspira, nella sua follia anarcoide e vendicatrice, a punire attraverso le sue invenzioni gli individui in cui si imbatte, ritenuti ignoranti, ostili e persecutori. La vicenda ha inizio con il protagonista che, imbozzolato come una mummia per non far distinguere i lineamenti del viso e del corpo, si presenta in una locanda del paesino di Iping, chiedendo di affittare una stanza, e sottolineando fermamente la sua volontà di non essere disturbato in alcuna maniera. Ha con sé molti bagagli, contenenti alambicchi, provette e liquidi misteriosi. Sia il suo aspetto fisico sia i suoi bizzosi e scostanti comportamenti incuriosiscono il personale della taverna e la piccola comunità del posto, persone semplici da subito insospettite e in seguito decisamente avverse alla presenza aliena e perturbante dell’ospite. Su di lui aleggiano ipotesi fantasiose e drammatiche, che si consolidano quando in paese si intensificano apparizioni misteriose, furti, spostamenti di mobili e oggetti vari senza che si possa individuare il responsabile di tali atti. Bambini e donne sono i più ferocemente contrari alla presenza dello sconosciuto, che agli occhi di molti pare voler nascondere dietro il pesante camuffamento l’inesistenza di un corpo materiale.

Nel corso di un’improvvisa colluttazione con i compaesani, Griffin rivela la sua natura di uomo in carne e ossa, ma invisibile, rilevabile dagli altri solo attraverso la voce, gli starnuti e i colpi di tosse, o il rivestimento di indumenti mistificatori. Sotto le bende, sotto i vestiti trafugati qua e là, c’è il niente, il vuoto, in cui H.G. Wells intravede ed evidenzia l’inconsistenza e la fragilità di ogni essere umano. Dopo una serie incredibile di avventure rocambolesche, di violenze esercitate contro gli oggetti e le persone, in un crescendo di furia incontenibile che nel respiro ansante della narrazione assume contorni farseschi, Griffin ferito e affamato si rifugia nella casa di un vecchio compagno di università, il dottor Kemp, stimato professionista ligio al dovere e rispettoso delle istituzioni. Gli racconta di essersi specializzato in fisica molecolare, e di aver ideato esperimenti al limite della liceità, inseguendo l’obiettivo di trasformare la materia, rendendola trasparente e quindi invisibile: “Realizzare un’impresa del genere significava invadere il campo della magia, e mi fu ben chiara l’inebriante visione di ciò che può rappresentare per un uomo l’invisibilità. Mistero, potere, libertà”. Dopo aver conseguito i primi successi sulle cose inanimate e sugli animali, era riuscito nell’abominevole intento di modificare anche la propria natura corporea.

Il suo scopo non era solo il raggiungimento della fama e della ricchezza, e la vittoria sulle umiliazioni subite come ricercatore, ma soprattutto l’instaurazione di un Impero del Terrore che potesse renderlo padrone delle esistenze altrui. Svuotandosi di sé, aveva però ottenuto solamente di crearsi il vuoto intorno, in un parossismo di distruzione e autodistruzione. Braccato dalla polizia, ferito e calpestato dal traffico cittadino, circondato da gente terrorizzata e inferocita, nudo nel gelo dell’inverno, estenuato dalla ricerca infruttuosa di cibo e di soldi, Griffin prende coscienza dell’assurdità del suo progetto delirante, e preda della folla che lo vuole linciare, pronuncia le sue ultime parole “Pietà, pietà!”, prima di morire straziato da colpi di bastone e calci, mentre il suo corpo invisibile riprende lentamente ma inesorabilmente la sua forma umana e cadaverica.

 

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8 ottobre 2019

 

 

 

 

 

 

RECENSIONI

PRETE

ANTONIO PRETE, TUTTO È SEMPRE ORA – EINAUDI, TORINO, 2019

Delle cinque sezioni che compongono il volume einaudiano di Antonio Prete, Tutto è sempre ora, l’ultima presenta tredici passaggi narrativi dedicati al tema dell’apparenza. In queste brevi “prose d’inverno”, come le definisce l’autore (alludendo non solo al periodo stagionale, bensì anche al silenzio, al freddo, al biancore dell’età senile), ciò che si mostra fugacemente al pensiero si oppone alla concretezza del reale rischiarandolo di una luce nuova, incorporea e trascendente. Così, a partire da un contesto fisicamente tangibile (un tavolo, una finestra, una strada), si affacciano visioni leggere e impalpabili (nuvole, visi di donna, stelle, musiche) che conducono chi scrive in uno “stato di sospensione” arioso e armonioso, in cui “tutto quel che appare è come un simulacro di qualcosa che sta altrove, sotto un’altra forma, in un’altra materia, in un altro tempo”.

Ecco, il tempo è forse il leitmotiv principale che deve accompagnare il lettore alla scoperta di questo libro composito, in cui si intrecciano versi in lingua italiana e in dialetto salentino, descrizioni paesaggistiche e meditazioni filosofiche, ricordi personali e letterari, recuperi sottintesi ed eredità palesi di poeti classici e contemporanei: tutto reso eterno e insieme fuggevole dallo scandire le ore di un’impietosa clessidra, cosmica e mentale. Il tempo, già implicito nel titolo eliotiano, riporta passato e futuro a un adesso in cui ogni elemento si fonde e trova una sua giustificazione: “L’inizio, i fuochi e le pietre stellari / dell’inizio, la fiumana di tempo / fatta conchiglia, deserto, montagna, / le voci d’animali nelle selve, / tutto è sempre ora”, “tempo qui raccolto nell’angustia / dell’accaduto // disperso / nei miraggi”, “E camminano i morti lungo le rive / deserte di tempo”, “Il tempo che è cammino e apparizione. / Pulsazione di radice, / vertigine / di millenni. / Il tempo che è solco / di conchiglia e fuga di comete”.

La rarefazione, l’immaterialità, la “perlata trasparenza” in cui cose e persone si trasformano, divenendo quasi evanescenti, è evidente nel riproporsi di alcuni termini: ombra, chimera, piuma, nuvola, sabbia, soffio, profumo. Ma a questa predilezione per l’evanescenza (richiamata dalle figure dei trapassati, dell’angelo, dell’assente, dei fantasmi) si frappone improvvisamente la durezza dell’attualità, dei rumori del mondo, con i suoi soprusi e la sua detestabile ingiustizia. Allora il poeta riscopre una propria voce civile, più vicina comunque alla pietà che all’indignazione, come nei versi dedicati ai migranti morti in mare, alla sofferenza muta degli animali, alle sommosse dei popoli oppressi.

La seduzione della vita brulicante, colorata, vivace persiste nel ricordo dei luoghi abitati o solo visitati: la Puglia amata (Antonio Prete è nato a Copertino nel 1939), la campagna toscana (ha insegnato per molti anni Letteratura comparata all’Università di Siena), o la Milano cosmopolita, la marina ligure, una romantica Venezia vespertina, e altri orizzonti europei o americani: sempre sfondo a qualche profilo umano, talvolta leggiadramente femminile. In questi ritratti geografici ritornano i prediletti elementi naturali e atmosferici (il vento, la luce lunare, il mare, le spiagge, gli ulivi), a testimoniare bellezza e innocenza. Si impone poi la possanza di una visione infantile, la torre sveva del paese natale, cui si accompagnano suoni e danze locali, sorrisi incantatori di ragazze, odori di cibo e di mosto: “E la luce, com’era bianca la luce / fin dentro il cuore della sera”.

Ogni memoria di luoghi e di incontri, di poeti a cui è dovuta gratitudine (John Donne, Eliot, Stevens, Celan, Valente, Jabès…), ogni lampo di ricordo offre rifugio e salva dal nulla cui siamo destinati: “Un esercizio amaro è dare / un nome a quello che è perduto”. Anche il solo nominare regala infatti consistenza a ciò che è esistito, donando un sovrappiù di “grazia, precisione, finezza” alla nostra lingua che si sta stemperando “nell’inerte, nel vago”, e che – come ogni cosa fragile e preziosa – dovrebbe essere preservata con cura e dedizione.

 

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https://www.sololibri.net/Tutto-e-sempre-ora Prete.html          3 ottobre 2019

 

 

 

 

 

RECENSIONI

ORFINI

MARIO ORFINI, AMARTI È COME ENTRARE AL CINEMA ‒ ARCHINTO, MILANO 2019

 Mario Orfini (Lanciano,1936), tra i più importanti fotografi italiani di reportage degli anni Sessanta e Settanta (inviato soprattutto per L’Espresso), è stato anche sceneggiatore, regista, produttore televisivo e cinematografico. Ha prodotto molte pellicole di successo (Il mistero di Bellavista, Il pap’occhio, Così parlò Bellavista, Porci con le ali) e diretto tra gli altri Jackpot, l’ultimo film interpretato da Adriano Celentano nel 1992.  

Il volume di versi edito da Archinto, Amarti è come entrare al cinema, è corredato da alcune sue splendide fotografie, tratte dall’album Anni felici, pubblicato nel 2011: in copertina una suggestiva immagine del molo di Trieste, in conclusione otto ritratti in bianco e nero di famosi poeti e scrittori. Questa raccolta di circa quaranta poesie mantiene la cifra che è stata quella più professionalmente riconosciuta dell’autore, nell’impronta di fulminei flash fotograficoi o di repentine inquadrature di film.

Versi brevi, separati da lunghi spazi bianchi, che ovviamente suggeriscono pause, addirittura silenzi, attribuibili a una sorta di pudore, alla paura di dire troppo. Sono tutte poesie d’amore, nella quasi totalità riferite a figure femminili, verso cui Orfini prova un forte sentimento di nostalgia e rimpianto, talvolta anche di rimorso: “Quanto poco ho apprezzato la tua presenza / che leggera attraversava ogni cosa / non muovendo nulla / ma sfiorando tutto con una lieve carezza / che era un brivido indelebile sulla pelle. // Mai più saprò incontrare il tuo sguardo. / Perché ti ho tolto il sorriso dagli occhi, / ho increspato il tuo viso di piccole malinconie”.

Il senso della caducità della vita, dell’inesorabile trascorrere del tempo e del buio della fine attraversa le pagine, cadenzando anche il ritmo dei versi: “altro / non sono // che // il fuggevole / inganno // di uno specchio”, “Aspetto / la parola fine, / per dimenticare / subito”, Notte fonda, Il sonno sopra ogni cosa, Me ne andai, Caduta libera, Inizio e fine, Scorrono anni, La vita ci lascia, Autunno, Tu non torni, sono alcuni degli emblematici titoli di queste composizioni, in cui il senso del distacco non riguarda solo il momento conclusivo dell’esistenza, ma anche lo schermo che inevitabilmente allontana dagli altri, persino dalle persone più amate.

Ogni incontro si risolve in una separazione dolorosa (“Ho attraversato / più volte / lo spazio / del tuo pensiero // fallendo / ogni volta / l’incontro”), e un’estraneità sostanziale divide anche dalla banalità quotidiana delle esistenze altrui: “voglio capire / perché camminano / avanti e indietro / tutti i giorni. // Tutti i giorni / si guardano / senza mai riconoscersi”, “Quella che eri / è un’altra / che incontro / per strada / e / non riconosco”. La madre morta dopo una lunga malattia, l’animale domestico che torna a casa dopo un’assenza perché sa di non avere più tempo davanti a sé, il figlio a cui si porge una carezza, l’amico edicolante mancato d’improvviso, e anche una bambina appena sbocciata alla vita portano tutti il segno di una fugacità malinconica e rassegnata. Le immagini dell’esistenza di Mario Orfini, così ricca di esperienze e di sentimenti, scorrono veloci nella “parola poetica, per sua natura compressa, rarefatta, da cui sembra essere stato spremuto ogni succo”, come scrive nella prefazione Mario Nicolao. Scorci veloci di un film privato, in cui anche amare – come suggerisce il titolo della raccolta – è come entrare nel buio di un cinema, per rubare attimi di consolazione e di luce.

© Riproduzione riservata      https://www.sololibri.net/Amarti-e-come-entrare-al-cinema-Orfini.html           1 ottobre 2019

 

MAESTRI

THOMAS

QUESTO PANE CHE SPEZZO

Questo pane che spezzo fu un tempo l’avena,
Questo vino su un albero straniero
Era immerso nel suo frutto;
L’uomo di giorno o il vento a notte
Umiliò le messi, spezzò la gioia dell’uva.

Quando in questo vino il sangue dell’estate
Batteva nella polpa che ornava la vite,
Quando in questo pane
L’avena era allegra nel vento;
L’uomo spezzò il sole, demolì il vento.

Questa carne che spezzi, questo sangue a cui lasci
Devastare la vena,
Erano uva e avena
Frutto sensuale di linfa e radice;
Il mio vino tu bevi, il mio pane tu addenti.

 

Dylan Thomas (1914-1953)

RECENSIONI

SCHUETZ

ALFRED SCHÜTZ, DON CHISCIOTTE E IL PROBLEMA DELLA REALTA’ – ARMANDO, ROMA 1996

                                  LO STRANIERO / IL REDUCE ‒ ASTERIOS, TRIESTE 2013

Alonso Quijano non si riconosceva nel suo corpo, nel suo ambiente e nella sua epoca: si inventò quindi una nuova esistenza e un nome diverso, diventando El Ingenioso Hidalgo Don Quijote de la Mancha, intrepido e valoroso combattente, deciso a riparare torti, violenze e soprusi perpetrati contro donzelle indifese e altre vittime innocenti. Si scelse come scudiero un contadinotto tarchiato, che ribattezzò Sancho Panza. Offrì i suoi servigi a una nobile dama, Dulcinea del Toboso, che assomigliava (ma senz’altro non era!) la sua umile vicina di casa Aldonza Lorenzo. Salì in groppa al docile Ronzinante, fiero e veloce come il Bucefalo di Alessandro Magno; imbracciò la sua potente lancia spuntata e partì alla ventura, elettosi da sé “cavaliere errante”, sul modello dei romanzi cavallereschi che tanto ammirava.

Nel suo fantastico viaggio (la vida es sueño…) si imbatté in mirabolanti avventure, in eroiche imprese e strenui duelli. Lottò contro giganti dalle braccia rotanti camuffati da mulini a vento, contro eserciti di arabi mascherati da greggi di pecore, contro pericolosi masnadieri che si fingevano innocui mercanti. Le osterie in cui si fermava erano fastosi castelli, umili frati benedettini maghi incantatori, un teatro di burattini celava in realtà pericolosi anfratti animati da demoni. E l’elmo che indossava, chi mai potrebbe sostenere fosse una bacinella da barbiere? Anche il giovane studente di Salamanca che lo aveva sfidato nascondeva proditoriamente la sua effettiva identità di “Cavaliere della Luna Bianca”. Il nobile Hidalgo scambiava le sue fantasie per verità, l’immaginazione per consistenza. O no? Cos’è vero e cos’è falso, cosa illusione e cosa oggettività?

Alfred Schütz (Vienna,1899New York,1959) nel 1955 rilesse filosoficamente il capolavoro di Cervantes in un saggio, Don Chisciotte e il problema della realtà, affrontandovi la questione della costruzione intersoggettiva del reale. Schütz, nato da famiglia ebraica, è considerato il fondatore della sociologia fenomenologica; le sue teorie sono state influenzate dalle ricerche di Max Weber, Henri Bergson, Edmund Husserl e Max Scheler. Emigrato negli Usa nel 1938 per sfuggire alle persecuzioni naziste, insegnò a New York, dove morì a sessant’anni. L’influenza del pragmatismo americano e del positivismo logico consolidò in lui l”attenzione empirica al mondo concretamente vissuto, nella sfera delle occupazioni quotidiane, minute e abitudinarie, cadenzate dalla routine cui ci si abbandona per comodità, pigrizia o mancanza di alternative, rispondendo in maniera acritica e amorfa ai suggerimenti dell’opinione prevalente.

Il saggio di Schütz, pubblicato a più riprese dall’editore Armando, è introdotto da una concisa e illuminante prefazione di Paolo Jedlowski, che indica al lettore quale fosse l’intento fondamentale dell’autore nel ripercorrere le pagine dell’opera cervantiana: esistono tante diverse realtà, e non è detto che quello che il senso comune dà per scontato sia “vero”. “Don Chisciotte non partecipa del ‘senso comune’. Per lui, sono plausibili e reali cose che per Sancho Panza (il rappresentante per eccellenza del senso comune) sono solo fantasie”. Le figure dei due protagonisti del romanzo (il visionario e il concreto, ii sognatore e il disincantato) ci mostrano in quale maniera per ciascuno di noi funzioni “il modo in cui attribuiamo un senso di realtà alle cose in cui ci imbattiamo e alle forme con cui ce le rappresentiamo”.

Schütz derivava dalla fenomenologia il concetto antipositivista e antidogmatico che noi sappiamo della realtà solo ciò che appare, ciò che si manifesta nei contenuti delle percezioni e della coscienza. E riteniamo reale ciò che gli altri ci confermano come tale, in un rapporto intersoggettivo che quando viene a cadere insinua in noi il dubbio di essere in torto, di sognare o fantasticare. Se manca l’accordo intersoggettivo su quanto esperiamo, ecco che non siamo più sicuri della nostra stessa esperienza. Nella vita quotidiana ci affidiamo infatti al senso comune, che ritiene le cose essere esattamente come appaiono, secondo quanto ci hanno insegnato i genitori, i maestri, le convenzioni collettive, la verifica sensoriale: così pensava, senza farsi eccessivi scrupoli, Sancho Panza.

Tuttavia, non si vive solo nella realtà quotidiana; esistono infatti anche altre realtà in cui ci immergiamo, per esempio quando andiamo a teatro o al cinema, o quando ci lasciamo assorbire da idee-guida religiose, scientifiche, artistiche. Il filosofo William James le catalogava come sotto-universi: sono molteplici, e ciascuno di noi vive nei suoi, non sempre comunicabili e condivisibili. Don Chisciotte era totalmente immerso nel sotto-universo del suo mondo cavalleresco, e senz’altro non partecipava del senso comune: “Io immagino che tutto ciò che dico, è vero. Niente di più, niente di meno”, affermava perentoriamente. Secondo Alfred Schütz, la fonte della realtà, dal punto di vista assoluto e pratico, è soggettiva: siamo noi che abbiamo la possibilità di pensare in modo diverso a proposito del medesimo oggetto, e scegliere in seguito a quale modo aderire e quale scartare. Quando il trascendente e lo stra-ordinario si insinuano nella vita quotidiana, la nostra ragione può negarli o dissimularli, preferendo aggrapparsi al tran-tran quotidiano, adeguandosi alle regole comuni. Siamo, così decidendo, saggi o folli, e a quale universo generale o sotto-universo personale aderiamo?

La riflessione del sociologo austriaco si era già soffermata sul concetto di estraneità e conformità nella vita collettiva, in due lavori del 1944-45 che oggi assumono un rilievo particolare, in quanto si occupano delle figure dello straniero e del reduce, cioè di chi non appartenendo a una specifica comunità cerca di avvicinarla e introdurcisi, e di chi essendosene allontanato vuole o deve rientrarci. Con parole empatiche e di straordinaria sensibilità, che lasciano trapelare quanto lo stesso Schütz avesse sofferto sulla sua pelle l’abbandono dell’Europa e il trasferimento negli Stati Uniti, la figura dello straniero viene indagata nel rapporto vicendevole instaurato con l’ambiente di accoglienza. Lo straniero trova difficoltà nell’interpretare il modello culturale del gruppo sociale cui si avvicina, teme di non comprenderlo e di non esserne compreso poiché la sua storia personale (lingua, studi, affetti, educazione, gestualità, abitudini) non sono quelli della comunità che deve accoglierlo.
Può forse aspirare a condividere, con grande sforzo e buona volontà, presente e futuro con il gruppo cui si è avvicinato, ma rimarrà escluso dalle esperienze che riguardano il passato suo e degli altri, mai spartibile. Icasticamente Schütz afferma: “Tombe e ricordi non possono venire né trasferiti né conquistati”. Come chi impara una lingua diversa difficilmente riesce ad appropriarsi delle sue implicazioni emotive, della terminologia specifica, di espressioni idiomatiche, degli schemi espressivi e dei vari codici privati, così lo straniero che aspira a inserirsi in una nuova società non riuscirà mai a possederne completamente gli automatismi, le sfumature irrazionali, i segni dell’abitualità. Sarà destinato a rimanere un ibrido culturale, a rivestire un ruolo marginale, soffrendo di un costante disorientamento che lo renderà diffidente e insieme infido, in una distanza che mai potrà sfociare nell’intimità. La stessa cosa vale per chi, allontanatosi dal suo luogo d’origine (“Home is where one starts from”, scriveva Thomas S. Eliot), tornandovi non la troverà come la ricordava, avendo interrotto una comunanza di spazio e tempo con il gruppo primario cui apparteneva, e avendo sperimentato altre dimensioni sociali, altri posti e valori.

Nella mia piuttosto lunga esperienza di insegnante a Zurigo, ricordo che i nostri connazionali emigrati confessavano di non riuscire più a definirsi orgogliosamente italiani (resi critici dal confronto con una collettività economicamente avanzata) e insieme di non aspirare a identificarsi con la popolazione svizzera. Chi poi rientrava al paese dopo una vita spesa all’estero, viveva una penosa incapacità di riadattamento, un doloroso senso di esclusione e auto-esclusione: cosa che è successa anche a me e alla mia famiglia.

“Da principio non è soltanto la patria a mostrare al reduce un volto insolito. Il reduce appare altrettanto estraneo a coloro che lo attendono, e la nebbia intorno a lui lo farà irriconoscibile”. Come Don Chisciotte, lo straniero e il reduce rimangono secondo Alfred Schütz, disadattati, incompresi, chiusi in un loro mondo incomunicabile agli altri, in cui spesso il sogno prevarica la realtà, alterandola nel tentativo di addomesticarla e renderla inoffensiva.

 

© Riproduzione riservata                   «Il Pickwick», 26 settembre 2019

 

 

RECENSIONI

SANTAYANA

GEORGE SANTAYANA, CHE COS’È L’ESTETICA? ‒ MIMESIS, MILANO 2019

Le cinquanta paginette di questo piccolo volume di George Santayana comprendono un’introduzione e una postfazione di Giuseppe Patella, una esaustiva bibliografia, le indispensabili informazioni biografiche e il testo di un breve e singolare saggio, Che cos’è l’estetica?
“Santayana chi?”, ironizza il curatore nel titolo della prefazione: perché di questo prolifico e raffinato filosofo-scrittore (nato a Madrid nel 1863, trasferitosi bambino negli Stati Uniti, stimato professore a Harvard per decenni, poi rientrato in Europa e stabilitosi a Roma, dove morì nel 1952 in un convento di suore, pressoché dimenticato da tutti), non è rimasta che una vaga eco di gravità teorica e morale.
La sua poderosa ed eclettica produzione letteraria (comprendente interventi critici su vari aspetti dello scibile umano, epistolari, poesie, articoli militanti, una biografia, il romanzo bestseller L’ultimo puritano) in Italia è stata tradotta e commentata in misura molto limitata. Secondo Patella, questa indifferenza a uno dei maggiori scrittori americani del XX secolo è dovuta in parte alla difficoltà di inquadrare la sua figura intellettuale in uno schema ben definito: estraneo a ogni scuola, cattolico poco tradizionale, rivoluzionario e conservatore insieme, solitario e bohémien, serenamente rigoroso negli atteggiamenti, era insofferente di ogni mondanità e accademismo.

Anche il saggio ora pubblicato da Mimesis, scritto nel 1904, non è facilmente classificabile come dissertazione filosofica. Infatti, Santayana nega all’estetica la definizione di categoria scientifica, separata da altri specifici rami del sapere. Essa può essere ritenuta un ramo particolare della psicologia, dell’etica, della storia dell’arte, della critica letteraria: eppure travalica tutte queste discipline, pur essendo apparentata a ciascuna di esse. “L’esperienza estetica è così estesa, multiforme e così sottilmente diffusa in ogni aspetto della vita che, come la vita stessa, estende la riflessione in diverse prospettive”.

Poiché riguarda la bellezza, appartiene sia al mondo reale che a quello ideale, agli oggetti concreti come alle loro immagini e al loro valore astratto. Musica e poesia non si possono toccare, un dipinto si può solo guardare: eppure i nostri sensi vengono sollecitati, l’immaginazione è stimolata, la ragione viene coinvolta in un giudizio quando ci rapportiamo ad essi. “I regno del bello non è un recinto scientifico; al pari della religione è un campo di esperienze sublimate che diverse scienze possono parzialmente attraversare, ma nessuna può interamente ricoprire”. Il piacere estetico, sia che nasca dall’ osservazione o invece dalla creazione, perfeziona e nobilita qualsiasi altro valore, anche quello utilitaristico, perché si basa sempre su qualcosa di sostanziale e razionale, e integra ogni attività umana, affermandone con pienezza la vitalità e la spontaneità immaginativa. Pertanto, l’estetica per George Santayana non ha validità e spessore come disciplina autonoma, bensì come esperienza che coinvolge ogni aspetto della vita, rendendola più armoniosa, più giusta, bella e buona, in sintonia con la felicità a cui deve tendere il moto perpetuo dell’esistenza universale.

 

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https://www.sololibri.net/Che-cos-e-estetica-Santayana.html        20 settembre 2019

RECENSIONI

DE ANGELIS

VANONI-PAOLI-DE ANGELIS, NOI DUE, UNA LUNGA STORIA – MONDADORI, MILANO 2004

Nati entrambi nel settembre del 1934, a distanza di poche ore uno dall’altra, lei a Milano (figlia di un industriale farmaceutico), lui a Monfalcone (in una famiglia della buona borghesia, con un padre ingegnere navale), Ornella Vanoni e Gino Paoli si raccontano in questo bel volume curato dal musicologo Enrico De Angelis. La coppia più glamour della nostra canzone ha segnato con le sue alterne vicende sentimentali un lungo periodo della storia italiana, puntellandola con una produzione musicale di grande rilievo e successo, perseguito sia separatamente sia in comune.

De Angelis, giornalista e storico della canzone, a lungo responsabile artistico del Club Tenco, ha saggiamente suddiviso il volume in una sequenza di decenni, dagli anni ’50 (infanzia e giovinezza dei protagonisti) al nuovo millennio, permettendo così al lettore di seguire parallelamente lo sviluppo delle vicende esistenziali dei due, nei loro incontri, collaborazioni, separazioni e ricongiungimenti affettivi e professionali.

Il primo capitolo ci presenta un’Ornella adolescente inquieta, studentessa di lingue in esclusivi college svizzeri e inglesi, quindi ventenne reclutata da Giorgio Strehler come attrice e cantante al Piccolo Teatro di Milano. Alla tormentata e osteggiata storia d’amore con il Maestro, chiusa per decisione di lei (“sono un’abbandonica”), fece seguito la notorietà raggiunta con le canzoni della “mala”, il matrimonio con l’impresario Lucio Ardenzi, l’unica maternità. Negli stessi anni, Gino trascorreva la giovinezza in Liguria, circondato da amici insofferenti di vincoli e conformismi: si chiamavano Tenco, Lauzi, Bindi, Reverberi, Calabrese, ed erano come lui appassionati di jazz, rock’n’roll, chansonnier francesi. Con loro si trasferì a Milano, poi tornò a Genova, si sposò ed ebbe il primo figlio.

Sollecitati dalle domande di De Angelis, che ne commenta con partecipe simpatia anche i tic verbali e gestuali, i due artisti parlano di sé soffermandosi con ironia sulle proprie paure, vanità e illusioni. Ovviamente chi legge tende a interessarsi soprattutto alle circostanze del loro incontro e innamoramento, avvenuto nel 1960 nelle sale di registrazione della casa discografica Ricordi, a Milano. Allora erano entrambi sposati, ma il reciproco colpo di fulmine produsse immediatamente l’ incantevole frutto creativo di Senza fine, che Gino improvvisò al pianoforte osservando le “mani grandi” di Ornella. Quel primo lampo di seduzione corrisposta sfociò subito in una relazione intensa e impaziente, intessuta di gelosie e di sospetti, ma anche di una profonda intesa artistica, di una sincera stima intellettuale e di una radicata amicizia, destinata a durare negli anni, cementandosi in una fertile collaborazione discografica e teatrale. Nelle interviste intrecciate, De Angelis invita sia Vanoni sia Paoli a illustrare le canzoni più famose, indicandone nascita e diffusione, trionfi e cadute: così il lettore viene a conoscenza di aneddoti riguardanti la realizzazione de La gatta, Il cielo in una stanza, Sapore di sale e Io ti darò di più, L’appuntamento, Tristezza; li esorta a esprimere opinioni sulla politica, sul mondo dello spettacolo, sulle letture preferite, sui grandi amori (Stefania Sandrelli e Paola Penzo per lui, Danilo Sabatini e Oliviero Prunas per lei), i numerosi flirt e la vita sentimentale attuale. I due non si sottraggono ad alcuna provocazione, anzi orgogliosamente sottolineano quanto le loro scelte di vita e ideologiche abbiano sfidato l’ipocrisia dei benpensanti.

Il volume è corredato da una ricca galleria fotografica, che ci offre splendide immagini pubbliche e private di Ornella e Gino, ritratti insieme o individualmente, in varie epoche e atteggiamenti della loro esistenza, circondati da amici e parenti, o in pose artistiche di repertorio: una storia della musica leggera italiana che da cinquant’anni continua a coinvolgerci ed emozionarci.

 

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https://www.sololibri.net/Noi-due-una-lunga-storia-Vanoni-Paoli-De-Angelis. html    17 settembre 2019

 

 

RECENSIONI

NGUYEN CHI TRUNG

NGUYEN CHÍ TRUNG, ELEGIE AL FUTURO POETA  – INTERNO POESIA, LATIANO (BR) 2019

Le tre sezioni di Elegie al futuro poeta sono state composte da Nguyen Chí Trung tra il 1990 e il 1996, e oggi vengono offerte ai lettori italiani dalle edizioni Interno Poesia. L’autore è nato nel 1948 in una città sulla costa del Vietnam del sud: cresciuto a Saigon, si è poi trasferito per motivi di studio in Germania, dove è rimasto lavorando come ingegnere. Attualmente vive a Stoccarda, scrive in tedesco e vietnamita e traduce poesia nelle due lingue. Nel 2013 è uscita a Saigon una raccolta dei suoi versi in sette volumi.

Il libro di cui ci occupiamo presenta una cinquantina di poesie in quartine, tutte rivolte a un “tu” in forma di invito, augurio o preghiera conformemente alla struttura del Sutra, secondo la tradizione vedica indiana. Versi sapienziali, quindi, indicazioni etiche miranti a conseguire la purezza e la pace interiore attraverso una condotta consapevole, e sentimenti di accoglienza nei riguardi di ciò che accade. Ma anche considerazioni malinconiche sulla fugacità del tempo, sulla corruzione della società contemporanea, sulla fragilità di ogni sentimento umano, sulla consolazione offerta dalla bellezza intuita in rare, miracolose epifanie. Ogni quartina si apre con le stesse parole “You come”, che la curatrice Filomena Ciavarella traduce con “Tu che vieni”: un appello che è insieme sollecitazione e consiglio, implorazione e avvertimento, rivolto a una presenza amicale, filiale o fraterna, o al destinatario immaginato nel titolo, il poeta di un domani ipotetico, più minaccioso che benevolo.

Com’è infatti il secolo futuro ipotizzato da Nguyen Chí Trung? Di arroganza, di vagabondaggio, caotico, traboccante di Sesso, senz’Anima, senza Padre, di Niente, degli inganni e dei disastri, abbandonato. “Tu che vieni in un secolo dove non c’è Gioia / Non portare con te tutto ciò che è sepolto / Anche se vecchie voci riecheggiano / Non sono abbastanza per compensare il futuro”; “Tu che vieni in una distesa di cadaveri / La vita in sé contiene la sua fine / Sulla strada dietro di noi i nostri lamenti lasciamo / E quelli che sono stati perduti nei tempi passati”. I “versi dolenti” dello scrittore vietnamita, “tristi per il nulla”, diffidano anche dell’amore (“Amare, che vuol dire? Amare è uccidere / È suicidarsi notte dopo notte / È distrugger di sé l’anima e il corpo”), per cui l’unica raccomandazione da seguire consiste nel vivere il momento presente, senza pretendere risposte ai quesiti eterni e tormentanti: “Parlare del futuro, cosa importa! / Affidare sé stesso a qualcuno? Non consegnarti a nessuno”. Poiché “Vivere è mantenere il proprio cuore”, nemmeno la poesia, oggi praticata da una cricca di versificatori “concentrata solo sulla fama”, e nemmeno la natura, con la luna pietrificata e una vegetazione sconfitta dall’incuria e dall’abuso, possono assicurare salvezza.

Nella postfazione, Giulia Basile accomuna Chí Trung a Leopardi, per la sua consapevolezza priva di illusioni sulla realtà onnipresente del dolore, della solitudine, della vanità dell’esistenza, destinata a perdersi “nell’infinita notte”. Forse solo nella quartina in esergo si intuisce uno spiraglio di fede: “Apro sinceramente questo cuore, / Le mie mani si alzano, implorando il cielo e la terra. / Lasciatemi continuare a essere un piccolo essere umano, / Non fatemi somigliare ad un altro”; altrimenti rimane solo il rimpianto per essersi spinti troppo oltre, in un territorio di nebbia, lontano da casa.

 

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https://www.sololibri.net/Elegie-al-futuro-poeta-Chi-Trung.html    13 settembre 2019

L’Indice dei libri del mese, n. XI, 2019

RECENSIONI

CAPRIOLO

PAOLA CAPRIOLO, MARIE E IL SIGNOR MAHLER – BOMPIANI, MILANO 2019

“Il signor Mahler e Marie non hanno mai potuto conoscersi, perché appartengono a due diverse sfere dell’essere: rispettivamente, la realtà storica e l’invenzione letteraria”, così Paola Capriolo afferma nella nota finale del suo ultimo libro Marie e il Signor Mahler, pubblicato da Bompiani. Ricostruzione storica e immaginazione si intrecciano nel romanzo, in cui l’autrice ripercorre “con mano lieve e luminosa… la figura immensa e piena di ombre” del musicista boemo (1860-1911). Le vicende biografiche del compositore sono state ricostruite attraverso i suoi scritti, il diario della moglie Alma, le testimonianze della stampa dell’epoca e gli approfonditi studi critici susseguitisi nell’arco dell’ultimo secolo: Paola Capriolo si è concessa qualche minima licenza narrativa, nel comporre il testo che appare subito al lettore come “il frutto di un lungo amore”, un omaggio sentito e riconoscente a Gustav Mahler.

La co-protagonista è Marie, personaggio totalmente inventato: nipote quindicenne dei proprietari del maso dove il Kapellmeister trascorse le ultime tre estati della sua vita, era stata incaricata dagli zii di accudirlo nella casetta di legno in mezzo al bosco in cui il Maestro aveva scelto si rinchiudersi per comporre senza essere disturbato Il canto della terra, la Nona e la Decima Sinfonia. A Toblach, oggi Dobbiaco, in Alto Adige, nel silenzio delle montagne tirolesi, tra gente semplice e priva di inquietudini intellettuali. Gustav Mahler era diverso da tutte le persone che Marie aveva incontrato: non solo per il genio riconosciuto universalmente, o perché risiedeva in eleganti dimore tra Vienna e New York, o per la sua origine ebraica considerata con diffidenza, ma soprattutto perché “era qualcuno che, mentre viveva tra loro, seguitava ad appartenere nel suo intimo a un’altra, sconfinata dimensione”, preclusa a chiunque. Forse non a lei, però, che gli si avvicinava con docile devozione, comprendendo e giustificando i suoi misteriosi silenzi, le improvvise rabbie, le malinconiche meditazioni. Alla ragazza il Maestro confidava la miseria dell’infanzia, i numerosi lutti familiari, le fatiche di un’affermazione pubblica troppo spesso contestata, gli intrighi dell’ambiente musicale austriaco e americano. Le insegnava ad apprezzare la novità delle sue composizioni, con le loro discordanze, gli attriti, i contrasti capaci di urtare e scandalizzare il pubblico più tradizionale, convinto che la musica dovesse esprimere insieme rassegnazione e speranza, morte e resurrezione, dolore profondo e assoluta gioia. Si faceva accompagnare nelle passeggiate che il suo cuore malandato affrontava con passo lento, interrotte da frequenti pause per osservare le nuvole in cielo, i piccoli funghi che spuntavano sui sentieri erbosi, da non calpestare. Marie seguiva le sue parole con una fedeltà stupita e attenta, e un’indulgenza maggiore di quella dimostrata dalla giovane e bellissima moglie di lui, Alma, sinuosa nei movimenti e volitiva nelle azioni, che talvolta non riusciva a celare l’insofferenza per l’esibita nevrastenia del marito. Mahler adorava la sua sposa, e così ne parlava a Marie: “Io sono tutto dubbi, lei, per volontà del destino, tutta certezze. Per me la bellezza è nostalgia, per lei tranquillo possesso”. Il Kapellmeister e la quindicenne, tanto lontani per età ed esperienza, “cercavano rifugio l’uno nell’altra con uno slancio istintivo in grado di superare tutte le differenze di cultura e di ceto”: lei, ingenua adolescente, lui artista tormentato e famoso.

Paola Capriolo ci accompagna nella quotidianità laboriosa della ragazza, tra i lavori domestici e agricoli, nelle feste paesane, nei litigi col cugino Andreas già destinatole come sposo, e insieme ci fa seguire passo dopo passo la composizione del capolavoro mahleriano Das Lied von der Erde (che “deve svanire senza concludersi, finire senza finire… perché anche la morte deve essere eterna, o non potrebbe esserlo la vita”) e delle due ultime sinfonie, in cui grottesco e macabro si confondono con la nostalgia del cielo, e le scomposte dissonanze si addolciscono in un’indicibile armonia.

Gustav Mahler, essendosi votato totalmente alla musica (“dolcissimo e amaro calvario”) si interrogava spesso sulla propria fede e missione di compositore e direttore d’orchestra: “Perché proprio musica, se la musica non è meno effimera dei fiori di campo, del fiato degli animali, di un rintocco di campane la cui eco svanisce a poco a poco nel cielo del mattino? Appunto a queste cose effimere, sin dall’inizio, io mi sono sforzato follemente di dare voce, quasi mi illudessi di sottrarle alla morsa del tempo, mentre in realtà non facevo altro che consentire alla morte, alla caducità, di insinuarsi sempre più nel cuore della mia opera”. Il toccante addio alla vita dell’Adagio della Nona Sinfonia, composta nel capanno di Toblach, era già un presagio della morte del compositore, avvenuta a Vienna nel 1911, un anno dopo aver ottenuto un tributo entusiasta alla Neue Musik-Festhalle di Monaco per l’esecuzione dell’Ottava, interpretata da un organico di mille elementi. In platea, aveva applaudito il Maestro un pubblico d’eccezione: da Henry Ford a Thomas Mann, da Richard Strauss ad Arnold Schönberg, da Stefan Zweig a Max Reinhardt, da Siegfried Wagner alla principessa Thurn und Taxis. Ma Mahler rimaneva ai propri occhi “Uno che è tre volte straniero: come boemo in Austria, come austriaco in America, come ebreo in tutto il mondo…”. Estraneo al mondo, vicino però alla candida sensibilità di una ragazzina tirolese, forse la più sincera nel piangerne la morte, appresa con dolore dai compaesani e dal giornale in cui tenacemente cercava testimonianze dei successi internazionali del suo illustre amico.

Paola Capriolo ha reso omaggio, con questo romanzo, al rapporto inusuale e profondo che si può instaurare tra due anime, esprimendo inoltre un doveroso sentimento di gratitudine alla grandezza di chi con la sua musica ha reso il mondo migliore. Gratitudine che condivido anch’io, quando ogni cinque anni mi reco a Vienna per posare tre rose bianche sulla tomba del cimitero di Grinzing.

 

© Riproduzione riservata            «Il Pickwick», 11 settembre 2019

 

 

 

 

 

 

RECENSIONI

SHELLEY

PERCY BYSSHE SHELLEY, IN DIFESA DELLA POESIA
MIMESIS, MILANO 2013

Percy Bysshe Shelley (1792-1822), uno dei più rappresentativi poeti del romanticismo inglese, ostile al conformismo e al fariseismo della società borghese ottocentesca, scrisse questo polemico pamphlet nel 1821, quando risiedeva in Italia, un anno prima di morire in un naufragio nel mare ligure.
In difesa della poesia è un saggio denso e vibrante, ideato in un periodo di forti contrasti ideologici che animavano il mondo letterario e civile europeo.
In esso Shelley prende decisamente e fieramente le parti della composizione poetica intesa come unico antidoto in grado di opporsi al dominio dell’interesse economico, egoistico e calcolatore, che ottunde con le sue lusinghe la mente e la sensibilità dell’essere umano: “Il corpo è diventato troppo ingombrante per ciò che lo anima”.
Attività per eccellenza nobile e gratuita, la poesia si presta a diventare il mezzo privilegiato capace di alleggerire lo spirito appesantito degli individui e delle collettività, agendo non solo esteticamente attraverso lo stimolo dell’immaginazione, ma anche eticamente con la promozione della solidarietà e del sentire comunitario.
La contrapposizione tra immaginazione e ragione vede Shelley schierarsi apertamente in favore della prima delle due facoltà mentali, che caratterizza l’umanità già dai suoi albori. La ragione è sintetica, stabilisce i rapporti tra i pensieri, individua le differenze; l’immaginazione è analitica, arricchisce i pensieri, coglie le somiglianze tra le cose. È da quest’ultima che la poesia trae linfa per esplorare l’ignoto, avvicinarsi al bello, modulare armonie, creare metafore e associazioni, superando ogni contingenza temporale ed elevandosi alle verità eterne e universali.
“La poesia solleva il velo dalla nascosta bellezza del mondo, facendo sì che le cose familiari appaiano come insolite; essa dà nuova vita a tutto ciò che rappresenta…”
Shelley ripercorre la storia della poesia universale partendo da Omero (i cui eroi spronavano al raggiungimento di un grande ideale etico) per arrivare a Shakespeare, che con il Re Lear toccò la vetta dell’arte drammatica mondiale: ogni vera poesia educa, eleva, ammonisce, commuove e rende migliore chi ne fruisce. Ma nei periodi di decadenza sociale e politica, anche l’arte e la letteratura illanguidiscono, si raffreddano e involgariscono, perché esiste una corrispondenza inevitabile tra gli avvenimenti storici e la loro interpretazione creativa.
La realtà nutre la poesia, ma non la vincola alla sua pura descrizione. Spetta “ai ragionatori e ai meccanicisti”, ai filosofi e agli economisti politici, servirsi della ragione per allontanare “il fastidio dei bisogni dalla nostra natura animale”, assicurare agli uomini un’esistenza più sicura e tranquilla: a loro spetta l’utilità del pensiero e dell’azione. Tuttavia, il loro ruolo è circoscritto e temporaneo, legato a interessi particolari, spesso dipendenti dal potere delle classi dominanti. Scienziati, finanzieri e politici producono “gli effetti inevitabili dello smodato esercizio della facoltà computazionale”.
Ma “quale sarebbe stata la condizione morale del mondo” senza i poeti e gli artisti che con l’immaginazione e la creatività hanno illuminato, esaltato e consolato l’anima universale? Nell’idolatria del calcolo, del denaro, del successo “abbiamo mangiato più di quanto siamo in grado di digerire. L’assenza della facoltà poetica ha fatto sì che il culto di quelle scienze che hanno allargato i confini del dominio dell’uomo sulla realtà esterna, abbia man mano circoscritto quelli del mondo interiore, e l’uomo, pur soggiogando gli elementi, è rimasto schiavo”.
L’esaltato fervore di Percy Bysshe Shelley “in difesa della poesia” lo porta a farne “qualcosa di divino”, “il centro e la circonferenza della conoscenza”, “la radice ed il germoglio di tutti gli altri sistemi di pensiero”.
Essa sola “rende immortale tutto ciò che di più bello e di più buono c’è nel mondo”.

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https://www.sololibri.net/In-difesa-della-poesia-Bysshe Shelley.html          6 settembre 2019