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INTERVISTE

IL PONTE DEL SALE

Intervista agli editori de Il Ponte del Sale
  • La vostra non è solo una casa editrice, ma anche – e forse soprattutto – un’associazione culturale. Quando e dove è nata, per iniziativa di chi, e con quali obiettivi?

Il Ponte del Sale – associazione per la poesia nacque nel 2003 a Rovigo per iniziativa mia e di altri poeti e scrittori veneti: Maurizio Casagrande, Luciano Cecchinel, Pasquale Di Palmo, Sergio Fedele e ne entrò subito a far parte mia moglie, Mariacristina Colombo, che cura la veste grafica delle diverse collane. Questi soci fondatori costituirono anche il nucleo redazionale originario poi variato, perché alcuni ne uscirono e altri (Luigi Bressan, Gabriele Codifava e Stefano Strazzabosco) ne entrarono a far parte. Avevo da qualche tempo (dal 1998) stretto una profonda amicizia con Bino Rebellato, editore e promotore di poesia in Cittadella negli anni ’50/’70 del Novecento. Bino era anche poeta (sublime poeta) e grazie a lui maturai l’idea che fosse possibile conciliare l’avventura editoriale con il fare della poesia: da lui compresi che possono essere la stessa cosa.
Promuovere pubblicazioni, incontri, letture, mostre; portare la poesia come presenza viva attraverso le voci poetiche più significative della contemporaneità, senza limitazioni di lingue e cultura; costruire occasioni di ascolto della poesia, in tutta la sua forza di matrice delle arti e custode dei saperi; condividere con gli altri un patrimonio di bellezza che allude ad una forma alta di humanitas: tutto questo poteva essere insieme espressione di dignità letteraria e prova di amicizia.

  • Quante persone coinvolge la vostra attività e con quali ruoli? Quanti volumi avete pubblicato fino ad oggi e quali hanno ottenuto maggiore successo di vendite e di critica?

L’associazione ha raccolto fin da subito l’adesione di un centinaio di soci, ma diciamo che sono una cinquantina a costituire i nodi della nostra rete, ai quali bisogna aggiungere i fabbri (i critici, poeti, musicisti, artisti e traduttori) coinvolti negli anni, ai quali mandiamo regolarmente notizie della nostra attività e i libri pubblicati. Proprio in questi giorni Il Ponte del Sale ha compiuto 100 libri, anzi 101. I libri più fortunati sono stati quelli di Beppe Salvia, le poesie di Benn tradotte da Giuseppe Bevilacqua, le Georgiche di Virgilio nella traduzione di Gianfranco Maretti Tregiardini e tutte le poesie di Simone Cattaneo ma farei torto ai libri forse più belli se tacessi quelli realizzati per Rimbaud, Comenio, Dante, Artaud e i libri della collana straniera: poeti meravigliosi come Šebek, Crnjaski, Arturo, Urzagasti, Duraković e Ryzij erano ancora inediti in Italia e ora grazie a noi e all’opera impagabile dei traduttori (verso i quali nutro una gratitudine immensa) sono accessibili nella nostra lingua. Senza contare Rovigo di Herbert, le poesie di Panero, di Gelman, Paz, la traduzione del libro sesto dell’Eneide di Heaney o il quaderno di scritture e sovrascritture di Giorgio Bernardi Perini.

  • Avete circoscritto la vostra operatività alla poesia, arte poco remunerativa in termini economici e di diffusione. Come mai questa scelta di campo d’azione così selettiva e controcorrente?

Ho almeno in parte già risposto alla domanda, aggiungo che il moto di naturale simpatia che si prova nei confronti di chi scrive poesia ci ha spinto a desiderare di diffonderla, a testimoniarne l’importanza culturale e a fare una casa della poesia, piccola ma adatta ai poeti e ospitale per tutti e specie per quelli meno noti e che meritavano di essere riconosciuti e apprezzati.

 

Pasquale Di Palmo e marco Munaro

(Pasquale Di Palmo e Marco Munaro)

 

  • In che modo promuovete le vostre pubblicazioni? Credete nell’utilità dei festival, delle kermesse, dei social, o vi appoggiate a metodi più tradizionali di comunicazione, quali le recensioni, le presentazioni nelle librerie, il passaparola tra i lettori?

La promozione della poesia avviene principalmente attraverso due canali: la distribuzione in libreria, on line o diretta (per singole librerie indipendenti o lettori) e la lettura col pubblico in festival, presentazioni, oltre che sui giornali (la rete di cui parlavo prima: critici, traduttori, poeti). La partecipazione a festival o rassegne in varie parti d’Italia e anche all’estero non ci ha impedito di costruire proprio in Polesine, per alcuni anni, un festival di poesia musica e arte particolarmente apprezzato (Verso il solstizio d’estate) e a Rovigo numerose occasioni di incontro: ricordo una memorabile Cittàpoesia con la partecipazione di 40 poeti e i nostri libri esposti nelle vetrine del centro. Abbiamo realizzato con giovani artisti alcuni book-trailer e cerchiamo di comunicare attraverso i social le nostre iniziative. Tanto ancora ci resterebbe da fare. La via è lunga e il cammino resta malvagio.

  • Quale aspetto particolare dei vostri prodotti librari vi rende maggiormente riconoscibili al pubblico: la qualità dei testi selezionati, la grafica, i contributi critici?

Abbiamo fin da subito puntato sull’eccellenza, a una bella poesia dare la veste più acconcia, la scena più propria. E non sono mancati anche qui i riconoscimenti. Un libro del Ponte del Sale si riconosce per la cura dei particolari. Abbiamo voluto portare nell’editoria contemporanea la sapienza e la tenacia dell’artigiano che tramanda nella sua bottega l’amore per la cosa ben fatta. Una bottega senza la quale non sarebbe stato possibile l’Umanesimo, il Rinascimento e nessuna opera del Duomo.

  • Come vi muovete in ambito regionale e cittadino? Potete contare su appoggi da parte delle amministrazioni pubbliche, e in che modo riuscite a mantenere attivo il vostro bilancio?

Fin da subito, oltre al fondamentale sostegno dei soci, ci siamo resi conto che non sarebbe stato possibile continuare nella nostra opera senza la collaborazione delle principali istituzioni del nostro territorio (ma anche di altre città), il Comune, la Provincia, la Regione, i Conservatori, le Accademie, le Università, le Fondazioni e le associazioni culturali più dinamiche e attive con le quali di volta in volta siamo venuti in contatto per singoli progetti. Il bilancio resta attivo grazie alla generosa condivisone di tanti che hanno creduto e credono nella bontà della parola di Hölderlin: riportare i poeti in città. E di Petrarca editore di se stesso: Se tu avessi ornamenti quant’ài voglia Poresti arditamente Uscir del boscho, et gir in fra la gente.

 

 

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https://www.sololibri.net/Intervista-editori-Il-Ponte-del-Sale.html      6 agosto 2019

 

 

 

RECENSIONI

FOSSE

JON FOSSE, MATTINO E SERA – LA NAVE DI TESEO, MILANO 2019

Di Jon Fosse, scrittore e drammaturgo norvegese nato nel 1959, sono stati pubblicati in italiano diversi volumi, con buon successo di vendite e di critica. L’ultimo apparso, Mattino e sera, è un racconto lungo, sospeso in un’atmosfera onirica, scritto con uno stile fluido, privo di interruzioni, leggibilissimo nella sua precisa e stringata adesione al corso dei pensieri dei protagonisti.

Scandito in due parti, racconta il mattino e la sera di Johannes, figlio del pescatore Olai, nipote del nonno pescatore di cui porta il nome, e lui stesso pescatore, marito di Erna da cui ha avuto sette figli. La narrazione si apre con la sua nascita, atteso figlio maschio arrivato dopo un’unica altra figlia ormai adolescente. Il padre Olai, seduto al tavolo della cucina, segue con trepidazione il parto non facile della moglie Marta, sussultando spaventato a ogni urlo di dolore che arriva dal letto di lei, e perdendosi in riflessioni sul senso e la bellezza della vita:

“E adesso perché c’è questo silenzio dentro la camera? c’è qualcosa che non va? ma non gli sembrava che ci fosse niente di strano quando la vecchia levatrice Anna era venuta in cucina per prendere altra acqua calda, no? non aveva notato nulla nella vecchia levatrice Anna che rivelasse che qualcosa non andava come doveva, no, pensa Olai e di colpo si sente più tranquillo, sì, di colpo riesce pure a sentirsi quasi felice, eh sì come cambia tutto, da non crederci, pensa Olai, adesso un maschietto, il piccolo Johannes, vedrà la luce del mondo perché è cresciuto grande sano e bello nell’oscurità e nel calore della pancia di Marta, dal non esistere assolutamente si è trasformato in un essere umano, un bambino, sì, dentro la pancia di Marta si sono formate le dita delle mani, dei piedi e il viso, lì dentro si sono plasmati anche gli occhi e il cervello e magari ha anche qualche capello, e adesso, mentre la mamma Marta urla di dolore, verrà alla luce in questo mondo freddo dove sarà solo, separato da Marta, separato da tutti gli altri, sarà solo sempre solo e poi, quando verrà il momento, quando sarà la sua ora, si dissolverà e si trasformerà in nulla e ritornerà là da dove viene, dal nulla e al nulla, questo è il corso della vita, per esseri umani, animali, uccelli, pesci, case, recipienti, per tutto quello che esiste, sì, pensa Olai e poi c’è ancora molto di più, pensa, perché anche se si può pensarla così, dal nulla e al nulla, in realtà non è neppure questo, è molto di più, ma che cos’è allora tutto il resto? il cielo blu, gli alberi a cui spuntano le foglie?”.

Questo è dunque il mattino di Johannes, e le meditazioni del padre saranno le stesse che accompagneranno lui per tutto il corso della sua semplice e buona esistenza, fino appunto al buio della notte, raggiunto in tarda età. La seconda parte del racconto ci presenta quindi Johannes ormai vecchio e vedovo, solo nella sua casa in una “giornata plumbea, fatta di pioggia e pioggerellina fine, folate di vento e cielo grigio, freddo umido e mezzo gelo”. Svegliandosi all’alba, si sente stranamente anchilosato e incapace di muoversi, ma subito dopo è preso da una inconsueta leggerezza, fisica e mentale, che lo induce a ripetere con facilità i gesti quotidiani di sempre. Sale quindi in soffitta a ispezionare gli attrezzi da pesca e tutti i vecchi oggetti ammassati confusamente, e li trova diversi dal solito, “diventati dorati e pesanti, come se pesassero molto di più del loro peso reale e allo stesso tempo fossero privi di peso”. Esce poi di casa, dirigendosi verso la costa sassosa del paese di Vågen, per dare un’occhiata alla sua barca a remi lì ormeggiata, quando scorge venirgli incontro l’amico più caro, smagrito e con i capelli lunghi e radi: Peter, morto da molti anni, con cui aveva diviso bevute, confidenze e giornate di pesca. Concreto nei gesti e nella voce, eppure avvolto in un’aria inconsistente. I due si perdono in chiacchiere, rievocando vicende passate e conoscenti del paese, scomparsi da anni. Ogni cosa, intorno, assume sembianze sfocate, “tutto è come cambiato e al tempo stesso è tutto come sempre, tutto è come prima e tutto è diverso”. Il mare, i granchi nei cesti, l’esca gettata in acqua che galleggia in superficie, sembrano a Johannes presagi di qualcosa che non riesce a comprendere.

Con la lievità di un’ombra, torna verso casa, ed è già il crepuscolo: sua moglie Erna lo aspetta per il caffè (ma non era morta? si chiede confuso): parlano un po’, e lui fuma una sigaretta. Poi si stende sul letto aspettando che la figlia minore Signe, affettuosa e amabile, venga a trovarlo come fa di solito. E Signe arriva, infatti, trafelata perché non ha sentito il padre per tutto il giorno, e perché vede le finestre buie, e non ode rumori. “Entra in soggiorno e poi nella camera e lì vede papà Johannes sdraiato sul letto e ha un’aria tranquilla, quasi come se stesse dormendo, pensa Signe e gli prende la mano, quasi come quando ero una bambina, pensa Signe e sente fremere dietro gli occhi e gli occhi si riempiono di lacrime”, rendendosi conto che il vecchio e rude padre ha raggiunto serenamente la sua sera.

 

© Riproduzione riservata              «SoloLibri», 30 luglio 2019

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

RECENSIONI

ANGELI

SIRO ANGELI, POESIE IN FRIULANO

Siro Angeli (Cavazzo Carnico 1913-Tolmezzo 1991) è stato poeta, sceneggiatore cinematografico e radiofonico, drammaturgo, romanziere. Laureato alla Scuola Normale di Pisa, visse a lungo a Roma (con la funzione di dirigente RAI), e a Zurigo, svolgendovi un’intensa e apprezzata attività culturale. La sua produzione poetica in lingua italiana, più volte premiata a livello nazionale, coniugava la rigorosa tradizione classica e umanistica a un profondo interesse per l’ermetismo. I volumi più rilevanti furono L’ultima libertà (Milano, Mondadori, 1962) e Il grillo della Suburra, con prefazione di Alfonso Gatto, pubblicato a più riprese tra il 1975 (Barulli, Roma) e il 1990 (Scheiwiller, Milano). In friulano scrisse L’Âga dal Tajament, (Roma, Tolmezzo, Udine 1970-1976-1986) e Barba Zef e jò (Tolmezzo, 1981). Per il teatro firmò otto rappresentazioni sceniche, dalla trilogia friulana di argomento sociale (La casa, 1937; Mio fratello il ciliegio, 1937; Dentro di noi, 1939), ad altre più intimistiche (Assurdo, 1942; Male di vivere, 1951; Odore di terra, 1957) e spirituali (Grado Zero, 1977). Nel dopoguerra collaborò alla sceneggiatura di una quindicina di film, soprattutto per il regista Vittorio Cottafavi (La fiamma che non si spegne, Una donna ha ucciso, Traviata ’53, Avanzi di galera), fino all’ultimo Maria Zef  (1980), tratto dall’omonimo racconto di Paola Drigo, in cui rivestì anche il ruolo del protagonista. Con le Edizioni Paoline pubblicò nel 1989 il romanzo di argomento teologico Figlio dell’uomo.

I versi in friulano (lingua dell’infanzia, degli affetti familiari e del sogno), ideati e rielaborati da Angeli in diversi momenti, recuperano l’immutato accento della frazione natia, Cesclans, nel comune di Cavazzo Carnico, a cui tornava ogni estate, nel desiderio di disintossicarsi dalle incombenze lavorative e dalle atmosfere romane, ritenute meno autentiche e schiette. Qui è sepolto, e qui è visitabile la casa in cui nacque (figlio di un muratore e di una contadina, in una famiglia di severe radici cristiane), oggi allestita a museo. I ritratti della madre, del padre, dei compaesani, delle acque e delle montagne della sua Carnia, si stagliano nitidi e privi di retorica, appena velati di una nostalgia che comunque mai arriva a essere rimpianto: consapevole di quanto fosse difficile, faticosa e spesso spietata l’esistenza della sua gente, con gli uomini costretti alla guerra o all’emigrazione, e le donne indurite dal lavoro nei campi e nelle stalle, il poeta cercava scampo nel recupero delle parole con cui si era affacciato alla vita e al pensiero: parole bambine (peràulas frutas) che tornarono a trovarlo da adulto (a mi ciàtin massa cressût), fornendogli nuova linfa creativa.

 

Las scarpas

Cui lu ten, dopo tant / ch’al las spietava, cui / ai las giàvia dai pîs / par puartàlu tal jèt? // Il scriciâ che si sint / a ogni pas pas stradas / tra suèla e pièl, al dîs / a la nèif e a la int // che so pàri compradas / las à propri par lui / chesta volta, nol met / plui chês dal fradi grant.

 Le scarpe (Chi lo tiene, dopo tanto / che le aspettava, chi / gliele cava dai piedi / per portarlo a letto? // Lo scricchiolio che si sente / a ogni passo per le strade / tra suola e pelle, dice / alla neve e alla gente // che suo padre comprate / le ha proprio per lui / questa volta, non mette / più quelle del fratello grande.)

 

Il beciâr

“Chesta volta, da nestra vacia plena, / a osservâla cemût ch’ai ven la panza, / mi samèa ch’a nus nasci una vigela” / a dîs nôna, lavant i plaz da cena. / “Di sigûr a nus cressarà su biela, / l’ûri tant che so mâri sglonf di lat. / No conservâ la razza al è un peciât”. / “Ben, tigninla, se propri a è un câs râr”. “E s’al nasc’ un vigèl?”. Jèi no mi ciala. / “Par lui i decidarìn quant ch’a lu à fat”, / al dîs nôno. A si sint dal cop svuèidât / l’âga scori in ta bûsa dal seglâr. / Mi lu figûri vîf dentri da stala / cul muscìc su la teta, e za mi pâr / si sèi dut scunsumât il timp ch’ai vanza / prima ch’al vegni a ciòlilu il beciâr.

Il macellaio (Questa volta, dalla nostra mucca gravida, a osservarla come le viene la pancia, / mi sembra che ci nasca una vitella”, / dice nonna, lavando i piatti della cena. / “Di sicuro ci crescerà su bella, / le mammelle quanto sua madre gonfie di latte. / Non conservare la razza è un peccato”. / “Bene, teniamola, se proprio è un caso raro”. / “E se nasce un vitello?”. Lei non mi guarda. / “Per lui decideremo quando lo avrà fatto”, / dice nonno. Si sente dal ramaiolo vuotato / l’acqua scorrere nella buca dell’acquaio. / Me lo raffiguro vivo dentro la stalla / con il muso sulla poppa, e già mi pare / si sia tutto consumato il tempo che gli avanza / prima che venga a prenderlo il macellaio.)

 

Ban

Chel che si clama Ban / ancimò al si cunsuma / la bîl cuintra il destin / sassin, cuintra la blava // dai bastàrz che lu àn / scartât da fa l’alpin. / A nol bandona mai / nancia quant ch’al durmisc’ / il ciapièl cu la pluma / ch’al si è rangiàt, e guài / se qualchidun jàl giava: / al cierza il so curtisc’.

Ban (Quello che si chiama Ban / ancora si consuma / la bile contro il destino / assassino, contro la genìa / dei bastardi che lo hanno / scartato dal fare l’alpino. / Non abbandona mai / nemmeno quando dorme / il cappello con la piuma / che si è arrangiato, e guài / se qualcuno glielo toglie; / assaggia il suo coltello.)

 

Tal cûr da Ciargna

Propri culì, s’j’ vess / jò podùt sciegli il puest / dulà nasci, in tal cûr / da Ciargna il gno paîs // al saress, propri chest / como ch’al è, plui pôr / ancia, como ch’al era / una volta, stentàt // a alzàsci su di mûr / in mûr framiez un grîs / di cret e un vert di prât / a fuarza di clap dûr, / malta e sudôr; l’istess che in sort al mi è tociât…

Nel cuore della Carnia (Proprio qui, se avessi / potuto scegliere il posto / dove nascere, nel cuore / della Carnia il mio paese / sarebbe, proprio questo / com’è, più povero / ancora, come era / una volta, stentato / ad alzarsi su di muro / in muro, fra un grigio / di rupe e un verde di prato, / a forza di sasso duro, / calce e sudore lo stesso / che in sorte mi è toccato…)

 

 Il mistîr

Gno pâri muradôr / tâl e quâl che so pâri, / al à doprât madòn, / pièra, malta, ziment, / par alzâ simpri dret / il mûr, al pâr da vita. // Tal gno mistîr da lôr / doi al sarà ch’j’ impari, / se un qualchi alc di bon / al mi ven indiment / in ta fadìa ch’j’ met / su la pagina scrita.

Il mestiere (Mio padre, muratore / tale e quale suo padre, / ha adoperato mattone / pietra, malta, cemento, / per alzare sempre diritto / il muro, al pari della vita. // Nel mio mestiere da loro / due sarà che imparo, / se qualche cosa di buono / mi viene alla mente / nella fatica che metto / sulla pagina scritta.)

 

Un grande amore per la sua terra, quindi, in Siro Angeli, e per il paesaggio scabro sconvolto dal terremoto del 1976, che aveva provocato lutti e sofferenza, svelandone però anche la forza e la fierezza nella volontà di ricostruzione degli abitanti. Un ricordo grato del paese abbandonato dopo il liceo, dapprima per la Toscana degli studi universitari, quindi per la Roma della professione e degli impegni culturali, poi per una Zurigo in cui ricreò, dopo molti anni di vedovanza, una nuova e giovane famiglia. Ma la Carnia rimaneva per lui rifugio affettivo e mentale, come si evince dal commento che il professor Rienzo Pellegrini gli ha dedicato nel Dizionario biografico dei friulani, III vol. (Forum Edizioni, 2011):

“Una Carnia aspra, con i suoi miti (la casa, che trascina con sé la legge della fatica, della parsimonia: con il fascino categorico di una vita disumana nella sua durezza) e il corollario doloroso delle partenze, tra accettazione e gesto ribelle… Negli ultimi versi friulani la chiave della memoria (comunque ruvida, mai placata) evolve ulteriormente, svincolandosi dagli itinerari collaudati, esorcizzando ogni barriera, senza timori per la dimensione cosmica: “Mai fidâsci di quant / che il pinsîr al cunfin / das Galassias si spuarz / fin dulà che las Quasars / a si strenzin al cûr…” (Mai fidarsi di quando / il pensiero al confine / delle Galassie si sporge / fin dove le Quasar / si stringono al cuore…). Il lessico si apre al tecnicismo duro, straniante, in uno schema metrico che non rinuncia alla rima…  ma senza farsi cantabile: big bang, implodere, Quasars, in un tessuto (e in un gioco combinatorio) inedito, a far reagire il perimetro contadino con un universo senza confini”.

 

© Riproduzione riservata                  «La poesia e lo spirito», 28 luglio 2019

POESIE

RICORDANDO SERGIO ENDRIGO

I

Mille cose. Troppe cose
assediano i felici,
senza lasciare loro il tempo
di accorgersi che sono
così felici.

E non lo sono, infatti:
confusi, forse; distratti.
Desiderosi d’altro.
Invece io ti ho avuto.
Ho avuto te,
e mi ricordo di questa sola cosa.
Di questa cosa sola
mi accontento.

II

Non può morire nemmeno
quando muore,
una qualsiasi storia d’amore.
La nostra, poi.
Me la coltivo come un germoglio:
la curo la sorveglio,
nella tiepida
serra
del ricordo.
Mia tenera allegria, se resto sola.
Orgoglio
che taccio in compagnia.

III

Eri con me.
Eri con me d’estate.
Probabilmente luglio, inizio agosto,
e insomma era l’estate
di una non vacanza.
La stanza, chiara; la terrazza.
Il letto, il copriletto a fiori.
Il caldo fuori, non dentro
quella stanza.
Era d’estate, l’autunno
non ci preoccupava.
Un posto senza mare,
senza dopo,
bastava.

IV

“Finirà − hai detto piano −
Come tutto finisce”.
Sembravi angosciato
dal tuo fiato, addirittura.
Perché non crederci
perché non riprovare
− riflettevo guardandoti.
Forse hai paura.
Te lo leggo negli occhi
che hai paura.

V

Non hai voluto finire.
Io ti incalzavo, ti incoraggiavo.
“Dimmi!”, dicevo.
Implorando: “Spiegami!”
Pronta a chiedere scusa,
a umiliarmi, a promettere
per l’eternità.
“Se le cose stanno così…”,
ti muravi, alzando le spalle.
Spacciando bugie
(le tue!) per verità.

VI

Giorni grigi più grigi
del cielo, con le nuvole basse
che promettono gelo
e neve. Mi regali
una vita impossibile,
se scompari nel nulla
(se resti e sei nulla).
Chi ci guarda dai vetri
ci vede infreddoliti,
tremanti nell’inverno
non solo per la neve.

VII

Non ci sarò.
E non per cattiveria.
Semplicemente, sarò lontana,
tra gente e strade
che non conosci.
Via, via, lontana da qui.
Non per vendetta.
Adesso lo capisci, finalmente?
Te lo devo ridire? Lo ripeto:
con calma, con pazienza, senza fretta.
Non ci sarò.
Adesso sì, che sono seria.

VIII

Ne ho persi, di giorni:
e sono tanti.
Il fiore della giovinezza,
direbbero gli amici
benpensanti.
È che si paga tutto
stando insieme:
il bene e il male
fatto e ricevuto.
Non tiriamo le somme
da meschini: dato/avuto,
molto/poco.
Siamo stati generosi tra noi
− perlomeno in tenerezza.
Poi, ci siamo tenuti compagnia.

IX

È inverno, nell’aria,
o cos’altro? Bambini silenziosi
spaventati, per strada.
Amici seri, quasi in lutto.
E io, anch’io: aspetto zitta
impaurita che uno
da lontano torni, mi porti
un fiore − gentile nel freddo −
a scaldarmi mani, occhi,
il cuore distrutto.

X

Cosa resta di te? Non saprei.
La tua assenza, di certo.
Un vuoto di gesti
un rosario di sguardi mancati.
Silenzi, silenzi.
Pesanti, ricattanti fantasmi
sulle scale.
Ma è passato tanto tempo.
Il tuo non dire
il tuo non essere,
non mi fa male.

 

Il Pickwick, 28 luglio 2019

In Rime e varianti per i miei musicanti, Marco Saya edizioni, Milano 2020

RECENSIONI

RIGOTTI

FRANCESCA RIGOTTI, UNA VITA DA EXPAT – RAFFAELLO CORTINA, MILANO 2019

Migranti economici, migranti politici, migranti intellettuali, migranti turistici. O Migranti per caso, secondo l’ammiccante titolo dell’ultimo libro della filosofa Francesca Rigotti, che coniuga ‒ con leggerezza e sapienza ‒ riflessione teorica e autobiografia, definendo sé stessa “expat”, con un neologismo risultante dall’abbreviazione dell’inglese expatriate, derivato dal verbo latino ex-patriare: uscire, allontanarsi dalla patria. Il termine, utilizzato soprattutto nei paesi anglofoni, significava originariamente persona in esilio; oggi, persona che vive per scelta in un paese straniero.

Nata e cresciuta a Milano da genitori di origine pugliese, Francesca Rigotti si è laureata in Filosofia all’Università Statale di Milano, ha conseguito il dottorato in Scienze Sociali a all’Istituto Universitario Europeo di Fiesole e la libera docenza in Scienze politiche a Göttingen, in Germania. Dal 1996 insegna alla Facoltà di Scienze della Comunicazione dell’Università della Svizzera Italiana di Lugano. È, quindi, a tutti gli effetti una expat. Ma così si interroga: “Sono un’expat o sono una migrante? Sono europea, bianca e istruita. Ma sono anche evidentemente emigrata e immigrata”.

Utilizziamo diversi vocaboli per indicare chi lascia il paese nativo: “migranti, emigranti, emigrati, immigrati, profughi, rifugiati, esiliati/esuli, nomadi, transumanti, pendolari”. Tutta una varia umanità in movimento, di persone singole o famiglie intere: affamati e semianalfabeti, oppure qualificati e richiestissimi manager, tecnocrati, creativi. Rigotti osserva il fenomeno migratorio dall’esterno, con interesse scientifico e partecipazione di studiosa; ma lo esamina anche dall’interno, con la competenza che le viene dal suo stesso percorso esistenziale. Perciò intercala nel volume pagine descrittive e riflessive di analisi con brani narrativi di stampo diaristico, distinguendo le due diverse esposizioni anche nei caratteri tipografici, e alternando la prima alla terza persona.

Non è detto che espatriare partendo da una condizione privilegiata per arrivare a occupare un ruolo economicamente e professionalmente più redditizio non comporti anche sacrifici, rimorsi, rancori, malinconie o pentimenti. Mogli e figli di professionisti che si trasferiscono all’estero patiscono spesso un senso di esclusione e di disorientamento, costretti come sono a una “emigrazione da matrimonio” in cui il soggetto più debole è tenuto a adeguarsi alle esigenze o alle aspirazioni professionali del capofamiglia maschio, rinunciando a una realizzazione personale. Mogli-Penelope, allontanate dall’ambiente d’origine, dai parenti e dagli amici per un obbligo di fedeltà e dedizione al proprio marito. In parte così è stata la non sempre facile vita dell’autrice, che ha scelto di seguire il suo compagno tedesco a Göttingen, scontrandosi con difficoltà linguistiche e di adattamento locale, con fatiche domestiche e materne (quattro figli in pochi anni), con un’affermazione lavorativa e intellettuale tenacemente perseguita ma irta di ostacoli. Attuando una sorta di resistenza passiva, di “non rinuncia nella rinuncia” è riuscita comunque a conquistare una posizione di rilievo in ambito accademico, firmando numerose e importanti pubblicazioni, e ottenendo riconoscimenti e premi internazionali.

I sacrifici che il suo stato di expat ha comportato sono paragonabili alle sofferenze di un migrante che fugge la povertà o la guerra, che si imbarca su un gommone, che viene imprigionato in un campo profughi, picchiato o violentato, privato dei documenti e della dignità di essere umano? Chiaramente si tratta di condizioni non paragonabili: ma l’uguale destino di allontanamento dalla propria terra (forzato o volontario che sia), di dislocamento in un altrove estraneo, rende la testimonianza di Francesca Rigotti particolarmente preziosa.

“Ho deciso di aggiungere la mia voce al coro che parla di migrazione e anche di filosofia della migrazione, perché questo è un problema urgente, e io sento l’impellenza di farlo. E lo faccio mischiando la storia grande con la piccola, la mia migrazione e quella di tantissime altre persone, in realtà per cercare, più che soluzioni, conforto e senso, per me e per loro. Lo faccio anche applicando al fenomeno della migrazione e dell’espatrio le mie competenze metaforologiche, ovvero di studio delle immagini, delle analogie e delle metafore con le quali descriviamo tali fenomeni”.

Il volume collega infatti i ricordi e le considerazioni personali a riferimenti filosofici, sociologici, linguistici, documentati da opportune citazioni letterarie, che puntualmente avvalorano le intuizioni dell’autrice. Oltremodo interessante risulta per il lettore l’analisi delle metafore associate al fenomeno migratorio: l’acqua (inondazione, fiume, diluvio, corrente, flusso, tsunami, naufragio), il muro (argine, chiusa, diga, barriera), il confine (frontiera, difesa, controllo, sorveglianza, respingimento), le radici (identità, origine, terreno, rizoma). Termini che l’autrice riconduce all’indagine dell’inconscio, utilizzando l’interpretazione psicanalitica di Freud, Bachelard, Blumenberg, Deleuze, Guattari, Jullien. “Il concetto dell’acqua, elemento femminile per eccellenza, è carico di valori e simbologie affini alla valenza negativa della donna: la fluidità corrisponde allora a debolezza, inferiorità, disgregazione. L’elemento cui l’acqua si contrappone in questo schema interpretativo è ovviamente la terra: vediamo quindi nella correlazione solido/fluido, maschile/femminile una ripartizione di attributi e competenze che pone dalla parte del solido e del maschile sovranità, attività, forza, protezione, permanenza, stabilità, e dalla parte del fluido e del femminile debolezza, bisogno di protezione, passività, dipendenza e instabilità”.

A chi ritenga i migranti una minaccia (per cui “è meglio per loro e per tutti che se ne stiano sul loro suolo natìo”), Rigotti oppone il convincimento che “viviamo in una società pluralizzata, dalla quale non c’è via di ritorno al passato e alla sua reale o inventata purezza e omogeneità. Nella società pluralizzata… le migrazioni avvenute e in corso modificano, senza particolari intenzioni ma unicamente con la loro presenza, tutti quanti, anche gli aborigeni, i nostri”. Pertanto la contrapposizione noi/loro (“Prima i nostri!”), la discussione che da Cicerone a Kant tenta di dirimere la questione tra diritto di visita e di movimento e obbligo di ospitalità, finisce per non avere più alcun senso, alla luce di quanto sancisce la Carta di Lampedusa del 1° febbraio 2014, riconoscendo che noi tutti esseri umani abitiamo “la terra come spazio condiviso e che tale appartenenza comune debba essere rispettata”.

Sia per i rifugiati sia per gli expat la migrazione è una situazione ambivalente, “dolorosa e creativa”, perdita e insieme guadagno di esperienza, se si ha il coraggio di mettere in discussione i concetti costrittivi e limitanti di identità nazionale, di appartenenza patriottica, di tradizione. L’arricchimento culturale e linguistico che deriva dall’uscire dal guscio protettivo del cerchio familiare e amicale, dall’istituire confronti, dal modificare abitudini e conformismi, può risultare un atto di libertà e di crescita: dando vita all’elaborazione di una terza cultura, diversa da quella originaria e da quella di accoglienza, più personale e senz’altro sofferta, ma orgogliosa di sé e delle proprie conquiste.

© Riproduzione riservata                    «Il Pickwick», 23 luglio 2019

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

RACCONTI

IN CORNICE

Si può pensare così intensamente a qualcuno che non c’è – non perché sia lontano da noi in questo momento, ma perché proprio non c’è più, non esiste da nessuna parte, si è dissolto, sciolto, diventato terra, polvere, umori sparsi – al punto da costringere questo qualcuno a ritornare, diventando ancora presenza materiale, facendosi nuovamente corpo? La voce, che non esiste più, tace per sempre, voce per caso incisa su un registratore, anonima voce da consiglio d’amministrazione, che è fissata su un nastro uguale a se stessa in eterno: si può farla andare avanti indietro falsarla nei toni, e ripete continuamente le sue inflessioni, parole in fila immutabili, voce di fantasma non più viva. Che può tornare a ricomporsi, però, a tremare a urlare a dire cose carine o tremende, indipendentemente dalle sue corde vocali distrutte e sparite, ricomponendo i suoi suoni diffusi nell’aria, svolazzanti perduti nell’universo, sillabe sparse che improvvisamente si riconoscono, perché sono state emesse, sono esistite davvero, una volta: e quindi per sempre. Ci sono, chissà dove, quelle parole dette, continuano a vivere a risuonare, ripetendosi in eterno. E quei tronconi di parole, mozziconi di frasi, si riconoscono, appunto: uno rimasto nell’armadietto del bagno, l’altro infilato nel cruscotto dell’auto, l’altro ancora bloccato nella stanza d’ospedale dove è stato articolato per l’ultima volta: “Ehi, tu” si chiamano l’uno con l’altro, “appartieni anche tu alla mia voce?”  “Ehi, tu! In che occasione sei stato detto?”, “Vieni che ci stiamo radunando tutti!”.

Ed eccole, le parole di suo padre che si mettono tutte in fila, le parole che lui ha pronunciato nella sua vita si chiamano tra di loro negli abissi del cielo e dai burroni della terra dove sono andate a ficcarsi, si ammucchiano tutte insieme per ripetersi, parole numerosissime benché lui fosse poco loquace, dalla prima che probabilmente era stata “mamma” all’ultima “mi gira la testa”. Si contano quante erano, miliardi di parole. E tra queste, quelle che lui ha rivolto a Enrica – saranno state centomila? Trecentomila? Lei vorrebbe ricordarsele tutte. Le poche volte che l’ha chiamata per nome, le altre volte che l’ha rimproverata: ma anche quando si sono intenerite su di lei, incoraggiandola pudiche –, le parole per lei, diventate sue per sempre, e se ne ricorda così poche, adesso si riaggiustano e si ricompongono, magari creano nuove combinazioni, nuove frasi, eccole per lei diventate discorsi. Voce di suo padre così particolare, con un lieve accento dialettale che l’ammorbidiva, e sennò bassa, baritonale, severa. Voce di un morto che le parla, e non è un sogno, anche se non ci crede nessuno, le dice delle cose che non ha mai detto, quello che lei gli vuole far dire. Ubbidisce. La chiama per nome. Le racconta dov’è – Enrica chiede “dove sei?”. Lui risponde “qui” – , come sta, assicurandole che la vede, le conosce i pensieri, sa.

Una volta la stessa voce, una volta sola, le aveva letto una storia dietro a molte insistenze della madre, che vedeva la soggezione della figlia e ne era preoccupata: allora incoraggiava il padre a essere più affettuoso, costringendolo a fare cose che lui di sua iniziativa mai si sarebbe sognato. E questa storia era L’uccello di fuoco, che avrebbe dovuto invogliare la bambina al sonno, avrà avuto sette anni ed era distesa sul suo letto, suo padre seduto su una sedia col libro sulle ginocchia, leggeva monotono mentre lei lo guardava sbarrata. Sbadigliava, stava per addormentarsi lui, e Enrica affascinata non chiudeva gli occhi perché voleva ricordarsi quel momento per sempre. Quante parole avrà pronunciato quella sera, suo padre, parole non sue però dedicate a lei, frasi neutre in cui tuttavia avrà dovuto riconoscersi per un attimo?

Un’altra volta era successo che lui per più tempo avesse parlato della figlia, per la figlia. Era forse al liceo, gli aveva portato a casa un tema con un voto molto alto, e lui, probabilmente perché in maniera indiretta voleva rimproverare la mediocrità del fratello, l’aveva letto. A tavola, l’aveva proprio letto tutto quanto, dal titolo al giudizio della professoressa, tra gli «Ah!» e gli «Oh!» della Rosa, gli sbuffi ironici di Alberto: ma lui imperterrito leggeva, e sembrava così orgoglioso. Ed Enrica del suo orgoglio si sentiva fierissima. Come della domanda finale, ingenua, infantile: «Ma come fanno a venirti in mente tutte queste idee?».  Con ammirazione vera, aveva confessato: «Io non sarei arrivato a finire mezza pagina».

Tutte le parole di suo padre, la favola, il tema, parole sparse durante trentacinque anni della vita di Enrica, si raccolgono qui questa notte, energia diffusa intorno che si fa materia concreta, ridiventa suono, si riveste della sua voce di un tempo per tornare a lei facendosi capire. Quante cose non dette, in una vita. Quanto si poteva raccontare, quanto spiegare e invece si è preferito tacere, far finta di niente. Rimprovero che durerà sempre, il non aver saputo parlare, non aver avuto la sfrontatezza di comporre un numero telefonico, di scrivere una cartolina. Frasi non pronunciate, gesti non fatti che riempiono i giorni. Pentirsi di non aver dato, di non aver preso.

Ma questa notte è l’ultimo regalo di suo padre, le dice tutto, solo a lei perché nessuno o nessun’altra ci crederà. Le spiega perché non si è mai confidato e perché ha tenuto lontana la confidenza di lei, accontentandosi di forme esteriori, di formule e viatici svuotati. La scusa se è stata uno scrigno, incapace di aprirsi, rancorosa nel vietare agli occhi di lui anche solo uno sguardo più affettuoso, troppo fedele a un silenzio severo che è durato negli anni. E nel silenzio si fraintendevano.

Come una notte di vent’anni prima, che a un saluto veloce, congedo affrettato, superficiale, “ciao ciao” del padre, risposta a un faticoso e pieno di buona volontà “dormi bene” di lei – perché l’aveva visto stanco, e voleva dirgli, appunto, il suo bene –, lui dopo due ore che Enrica era insonne a letto aveva aperto la porta della sua stanza, affacciandosi appena, ma chiaro nella luce del corridoio, altissimo le sembrava, sacerdotale in un gesto che chissà se ripeteva tutte le sere, quasi di benedizione nell’aria, o un vergognoso segno di croce, era venuto a salutarla, a vegliare angelo custode sul sonno della figlia che temeva inquieto. E adesso torna, voce benedicente e cara che finalmente lei può ringraziare.

Dal romanzo In cornice

Ensemble Edizioni, Roma 2019

 

RECENSIONI

BANTI

ALBERTO MARIA BANTI, IL BALCONE DI EDOUARD MANET  – LATERZA, ROMA-BARI 2013

Alberto Mario Banti (Pisa,1957), professore ordinario di Storia Contemporanea all’Università di Pisa, ha pubblicato nel 2017 da Laterza un coinvolgente, polemico e voluminoso saggio sull’industria culturale del ’900 – Wonderland. La cultura di massa da Walt Disney ai Pink Floyd – , che spazia dal cinema e dal fumetto degli anni ’30 (con la loro idea consolatoria e buonista dell’intrattenimento, e l’imperativo del lieto fine) alla controcultura di massa degli anni Sessanta, (attraversata dai nuovi fenomeni del rock, del cinema e del teatro alternativo, dei movimenti per i diritti civili, del femminismo, della protesta afroamericana), fino agli ultimi decenni rifluiti in una produzione più addomesticata, e omogenea agli interessi del capitalismo internazionale. Ma non è di questo volume che qui mi interessa scrivere, bensì di un libro un po’ più datato, dalla prosa elegante e sfumata, acquistabile in un economico e-book.

Il balcone di Edouard Manet propone un percorso interpretativo snodantesi tra l’iconografia, la storia di genere e la storia sociale dell’Ottocento, a partire dal commento di un dipinto-capolavoro del 1868, esposto al Musée d’Orsay di Parigi. Già dal sottotitolo (Sguardi maschili e corpi femminili nell’Ottocento borghese) possiamo tuttavia intuire che non si tratta solamente di un libro di critica d’arte, ma di una vera e propria decodificazione filosofica delle “differenti strategie dell’apparire”, così come si identificano nella descrizione dei diversi ruoli sessuali e sociali. Il quadro di Edouard Manet, definito da Banti “magnifico ed enigmatico”, ritrae in primo piano due donne e un uomo affacciati al terrazzo di una casa, avvolti da “un velo di astratta tristezza”. Le signore indossano abiti candidi, vaporosi, ornati di ricami e di trine; l’uomo, invece, è vestito in modo austero: camicia bianca sotto un completo nero, cravatta blu scuro. I tre personaggi indicano nel loro abbigliamento e nella capigliatura una “sintassi dell’apparenza” profondamente diversificata.

Da questa divaricazione strategica del costume si diparte la riflessione dell’autore sui differenti ruoli sociali tra i sessi imposti all’interno delle famiglie alto-borghesi nel XIX secolo. Uomini e donne erano chiamati a impegni diversi, che richiedevano atteggiamenti interiori ed esteriori antitetici: i vestiti maschili – abbastanza simili a quelli odierni – dovevano assicurare praticità, serietà, comodità, per permettere a chi li indossava di svolgere le proprie mansioni pubbliche. Le fanciulle, mogli e madri, chiuse nello spazio ristretto della domesticità, o tutt’al più limitate alla frequentazione di salotti, caffè eleganti, raffinati negozi (Émile Zola descrisse, nel romanzo Al paradiso delle signore del 1883, le distrazioni alla moda delle dame francesi), erano obbligate a vestirsi e a pettinarsi in modo consono, ricercato e vistoso insieme, decorato da fronzoli e nastri, accessoriato pesantemente, poiché da loro non si pretendeva lo svolgimento di alcuna attività produttiva, ma una funzione puramente di accompagnamento e di esibizione. Ecco quindi lo sfoggio di gonne ampissime, cappellini, parasole, scarpette, boccoli, gioielli che avevano l’unico scopo di mettere in risalto la ricchezza e lo stato sociale dei padri o mariti da cui figlie e spose dipendevano.

Le donne dell’800 erano “marginalizzate non solo dalle pratiche sociali in uso, ma anche dalle leggi”. A loro si chiedeva solo di rispondere al requisito essenziale della rispettabilità, coerente con “l’onore, la castità, la virtù, la costruzione di un matrimonio equilibrato, finalizzato alla riproduzione e all’educazione dei figli”. Alberto Mario Banti mette in luce come i concetti di amore, matrimonio, fedeltà si siano modificati tra il ’700 e l’800, secolo in cui alla leggerezza e volubilità dei costumi precedenti si sostituì una morigeratezza di facciata e una sostanziale misoginia che impediva alle donne qualsiasi indipendenza non solo sessuale, ma anche intellettuale. Tale rigido moralismo regolava anche la visibilità dei corpi femminili, che andavano coperti e addirittura nascosti nelle occasioni pubbliche diurne, e potevano invece mostrarsi nella loro ammiccante sensualità nei ricevimenti e nei balli riservati tra persone dello stesso ambiente sociale, in cui scollature e nudità si prestavano come oggetto al desiderio maschile. Il corpo della donna per l’occhio dell’uomo diventa un attributo fondamentale della pittura ottocentesca: mentre il nudo maschile nei quadri dell’800 sparisce del tutto, trionfa quello femminile, purché senza riferimenti alla contemporaneità. Dominano “il nudo esotico, di prevalente ambientazione orientale; il nudo mitologico; il nudo di ambientazione storica, possibilmente collocato in una indefinita antichità classica. Questa regola serve a creare un effetto di straniamento, che allontana ogni eventuale senso di colpa dalla mente di chi guarda” (cfr. L’Odalisca o Il Bagno Turco di Ingres).

“Mani maschili che dipingono corpi nudi di donne giovani e belle, a esclusivo beneficio di occhi maschili”: la volontà di dominio e possesso virile sull’universo femminile è reso esplicito, secondo l’autore, proprio dall’arte figurativa, che ama ritrarre donzelle in pericolo salvate da eroici cavalieri, o mercati di schiave. Fu proprio Edouard Manet a compiere due clamorosi gesti di ribellione, infrangendo la morale maschilista dei suoi colleghi pittori in due quadri: Colazione sull’erba e Olympia, entrambi del 1863; entrambi criticatissimi perché collocavano una donna senza veli in un contesto contemporaneo, violando così una delle regole fondamentali del nudo pittorico ottocentesco. La provocazione di Monet era decisamente politica, e rivolta agli spettatori uomini, accusati di un voyeurismo farisaico che ammetteva la fisicità di Veneri classiche e odalische arabe, ma rifiutava scandalizzato ogni riferimento alle disinvolture sessuali maschili dell’800.

Se il clamore suscitato dai due dipinti convinse il pittore francese a evitare per il futuro temi suscettibili di critica morale, il suo insegnamento venne invece riprodotto e sfruttato dai meccanismi pubblicitari dell’epoca, per convincere il pubblico ad acquistare prodotti voluttuari. E le nascenti associazioni femministe fecero proprie la sfida polemica di Monet ai benpensanti servendosi di dimostrazioni eclatanti: come quella dell’attivista venticinquenne Mary Richardson che il 10 marzo del 1914 alla National Gallery di Londra distrusse a colpi di mannaia la Venere allo specchio di Velázquez, perché disturbata da come gli uomini guardavano il corpo di donna lì raffigurato.

 

© Riproduzione riservata        «Il Pickwick», 15 luglio 2019

RECENSIONI

BOCCADORO

CARLO BOCCADORO, ANALFABETI SONORI – EINAUDI, TORINO 2019

Leggendo il pamphlet che il compositore e musicologo Carlo Boccadoro ha dedicato alla ricezione contemporanea della musica, mi sono tornate alla mente alcune riflessioni del grande critico letterario George Steiner, che riteneva il linguaggio musicale non umano, addirittura aldilà dell’umano perché alieno da verità e menzogna, e quindi estraneo all’asse della moralità: “La musica può governare la psiche umana con una forza di penetrazione forse paragonabile soltanto a quella dei narcotici o della trance di cui parlano gli sciamani, i santi e i visionari… ci può far impazzire e può curare la mente ferita… essa si collega all’internet dei nostri recettori in una chimica sottilissima eppure imperiosa”.

In Analfabeti sonori Boccadoro si occupa appunto di questo: quanto la qualità originale di un evento musicale viene rispettata e preservata nell’attuale trasmissione informatica, spasmodica, vastissima, incontrollata, pervadente? All’utente di Spotify viene garantita una fruizione intelligente, meditata, consapevole di ciò che ascolta? E al compositore di adesso, cui si offrono opportunità esplorative prima inesistenti, è assicurata la capacità di mantenere una creatività genuina, non contaminata?

Partendo da premesse generali sui dati sconfortanti che riguardano la promozione e la diffusione della musica classica ‒ in particolare di quella contemporanea ‒, l’autore constata quanto poco spazio le venga riservato dai media, scarsamente propensi a educare e informare il pubblico (brevi righe sono state dedicate dalla stampa alla morte di Pierre Boulez o di Miles Davis, rispetto ai fiumi d’inchiostro versati sulla scomparsa di icone del pop). La musica colta è considerata “un reperto sopravvissuto a un passato certamente illustre ma ormai costoso e inutile”, priva di futuro perché difficile da capire, male insegnata nelle scuole, poco sfruttata come evento culturale, nonostante si realizzino oggi molti nuovi lavori operistici, sinfonici e da camera di alto livello. Il repertorio attuale è ignorato per la diffidenza di sovrintendenti e direttori artistici che ambiscono soprattutto a riempire i teatri, ma anche per la scarsa iniziativa, la pigrizia mentale e il sospetto di direttori d’orchestra, strumentisti e cantanti, i quali temendo fischi e contestazioni non si azzardano a proporre o a riproporre opere ritenute troppo innovative e di difficile collocazione.

Tanti sono i pregiudizi che precludono alla musica classica contemporanea l‘accesso alle sale di concerto: il primo è ovviamente quello della sua complessità, che ridurrebbe il suo bacino d’utenza (ma anche gli spartiti di Mozart o di Beethoven erano strutturati con estrema perizia formale, e non sono tuttora di semplice esecuzione!). Poi l’idea che la musica debba solo intrattenere, divertire, emozionare o consolare, mentre dissonanze e incomprensibili stravaganze finirebbero per urtare e irritare chi ascolta (tuttavia, il compito di chi scrive musica non è quello di rassicurare, bensì di porre interrogativi). Infine, che la musica d’avanguardia non si impegni ad avvicinare un pubblico più vasto, mentre è risaputo che numerosi compositori stanno azzardando nuove contaminazioni con il jazz e il rock, i generi popolari e minimalisti, le realizzazioni al computer o le suggestioni del mondo teatrale.

In realtà “per alcuni esecutori è molto più comodo adagiarsi sul repertorio tradizionale, senza dover studiare lavori che chiedano di estendere le proprie capacità percettive e tecniche… e molti organizzatori pensano unicamente in termini di business e numeri, usando questi ultimi come pretesto per eliminare tutto ciò che non ha un riscontro rapidissimo e di facile digeribilità”.

Carlo Boccadoro, che ha patito sulla sua pelle discriminazioni da parte di discografici e direttori artistici (come molti altri colleghi italiani: Giovanni Sollima, Luca Francesconi, Ivan Fedele, Fabio Vacchi, Giorgio Battistelli) parla delle sue esperienze con pacata amarezza, rilevando come da noi si tenda da sempre a penalizzare ogni novità, e a essere prevenuti per incompetenza. Molti sono invece i contemporanei felicemente e frequentemente eseguiti all’estero: non solo i più noti Arvo Pärt, Philip Glass, Osvaldo Golijov, John Adams, Michael Nyman, (conosciuti e trasmessi anche dalle nostre radio), ma gli altrettanto eccellenti Haas, Rihm, Widmann, Larcher, Glanert, Mazzoli, Abrahamsen, MacMillan, Adès, noti in Italia quasi solo agli addetti ai lavori. Non sono pertanto gli autori, ma i responsabili delle istituzioni culturali che dovrebbero incoraggiare una programmazione moderna costante, consapevole, varia e di qualità, per incrementare l’ascolto di musica classica d’avanguardia.

A questo scopo, un ulteriore stimolo potrebbe venire dalla rete, che ha completamente modificato il modo di produrre musica e di fruirne, permettendo a tutti di ascoltare qualsiasi melodia in diretta streaming, di assistere a concerti e registrazioni collegandosi a YouTube, di mescolare differenti generi musicali su Spotify. L’avvento dell’informatica nella composizione ha fornito nuove possibilità di esecuzione e di diffusione del suono, creando poliritmie ed espandendole spazialmente in luoghi chiusi o all’aperto, e ciò rappresenta indubbiamente una grande opportunità per chi scrive sul pentagramma. Ma quali sono i pericoli in agguato per i consumatori di brani online? Ogni novità viene frammentata in pre-ascolti su iTunes o in compilation offerte da altre piattaforme digitali, per lassi di tempo brevissimi poiché sembra che gli utenti non riescano a concentrare l’attenzione se non per pochi minuti, esaurendo ogni interesse verso qualsiasi tipo di approfondimento. Evidentemente, l’accelerazione della vita quotidiana e le troppe distrazioni imposte dai social e dall’uso del cellulare stanno abituando le persone alla facilità di proposte culturali ovvie, ripetute, veloci e circoscritte. Un’opera lirica o un’intera sinfonia vengono così inserite in internet solo se frazionate, e nei brani più memorizzabili, mai nella versione integrale che risulterebbe indigesta. Ciò produce negli ascoltatori “un vero e proprio analfabetismo sonoro di ritorno rispetto alle capacità di seguire strutture musicali che richiedano un tempo significativo per esistere”.

Così molti compositori, temendo di non riuscire a captare l’attenzione del pubblico, tendono a ripetere formule stereotipate che li rendano immediatamente identificabili e riconoscibili nella peculiarità del loro stile, e a ogni esibizione finiscono per riproporre solo moduli collaudati. Si ottiene in tal modo un azzeramento della qualità musicale, in una uniformità banalizzante e superficiale, come sta avvenendo in altri settori del mercato produttivo (moda, cucina, letteratura). A questo punto, forse solo la musica classica può rappresentare una ribellione all’omologazione preconfezionata che ci propinano i media e la rete, aiutandoci a fare della nostra vita qualcosa di più autentico e arricchente.

 

© Riproduzione riservata                   «Il Pickwick», 11 luglio 2019

 

 

 

 

 

RECENSIONI

GRUENBEIN

DURS GRÜNBEIN, I BAR DI ATLANTIDE – EINAUDI, TORINO 2018

Dei quindici saggi compresi in questo volume einaudiano, alcuni sono direttamente autobiografici: in essi Durs Grünbein non utilizza pretesti narrativi per parlare di sé e della sua produzione in versi, ma racconta semplicemente come è nata la sua vocazione di scrittore, negli anni «grigio cenere» dell’adolescenza a Dresda, quando si imbatté per caso in Novalis e Hōlderlin. O ancora prima, quando bambino imparava dal nonno, valente enigmista, «l’appetibilità che hanno le parole». Nella conclusiva Postilla su me stesso offre poi ai lettori una lucida decifrazione del senso e della funzione della scrittura poetica. «Scrivere poesie è anzitutto un esercizio di radicale autoesplorazione»: da questo assiduo e severo scandaglio interiore, ogni poeta, «eremita in mezzo alla società», impara «a essere solo, non conforme, senza obblighi verso nessuno, ‒ verso nessun potere esterno, verso nessun principio superiore (religioso o filosofico), neppure verso una corrente letteraria predominante». Purché la poesia non si riveli puramente ornamentale o cerimoniosa, ma sappia mostrare «i propri muscoli, il proprio ghigno irriverente, la dolcezza che si prova nel distruggere le forme», allertandosi nell’osservazione dell’attimo rivelatore, dei dettagli sparsi nelle «piccole cose tragiche come pure nelle grandi cose comiche della vita». Fedele a questa intuizione, descrive allegrie e naufragi, disastri e trionfi della storia e della natura, nel modo in cui la poesia universale ce li ha tramandati. Sia che parli con entusiastica ammirazione delle teorie evoluzionistiche di Darwin, o con turbamento dell’eruzione del Vesuvio nel 79 d.C., o ancora dell’utilità della citazione in grado di ispirare il processo creativo; sia che rappresenti come metafora letteraria il mondo sottomarino da lui esplorato nello sport subacqueo, o commenti in maniera puntuale ed empatica La Giostra di Rilke, o illustri la meraviglia di un diorama zoologico, Grünbein riesce sempre a mettere in collegamento qualsiasi acquisizione culturale (sua personale o dell’umanità intera) con il prodigio dell’invenzione poetica. Il processo mentale che conduce alla composizione di una lirica viene smontato nei suoi labirintici e arcani percorsi, dalla genesi alle scelte formali fino al risultato conclusivo. Particolarmente in un saggio, Il mio cervello bionico, l’autore utilizza gli ultimi risultati della neurobiologia e della fisiologia per approfondire i meccanismi che determinano le opzioni stilistiche di chi scrive in versi. «Il poetare comincia come stratificazione di stadi della coscienza dapprima del tutto senza senso che il singolo deve attraversare a fatica o a passo di danza, senza curarsi di causalità e cronologie». In modo frammentario, a salti, «in balia dei suoi attacchi improvvisi», recuperando memorie, immagini, esperienze, passioni amorose o politiche, il poeta trasforma gli stimoli più vari e confusi in visione, sincronizzando «in un atto di immaginazione fulminea» la sua percezione personale con il pensiero di tutti, al fine di organizzare «nello spazio più esiguo il massimo dei riferimenti». Perché il poeta è, e deve continuare a essere, anche filosofo, in grado di conciliare cielo e terra, l’ideale con il concreto, producendo nei suoi versi «una mescolanza di amore per l’aldiqua e di curiosità per la metafisica»: fenomenologo che lavora per arricchire l’immaginario di ciascuno di noi.

 

© Riproduzione riservata                  

https://www.sololibri.net/I-bar-di-Atlantide-Grunbein.html               10 luglio 2019

RECENSIONI

BORDINI

CARLO BORDINI, EPIDEMIA – KIPPLE OFFICINA LIBRARIA – TORRIGLIA (GE) 2015 (e-book)

Carlo Bordini è poeta anti-istituzionale, poeta-contro e poeta-pro. Contro le élite intellettuali e letterarie (ha sempre pubblicato presso case editrici minori, con tirature limitate) e a favore di ogni marginalità, esistenziale e politica. È stato definito dai critici “poeta narrativo dal passo stilistico crudo e micidiale”, “poeta dell’eccesso e della resistenza… poco rassicurante e forse diseducativo”. Senz’altro è uno scrittore che non si è mai adeguato al pensiero accomodante, maggioritario, conformista di chi cerca il successo. Un ribelle? Un provocatore? Forse, ma portatore di un’etica indulgente e comprensiva, che usa le armi dell’ironia e dello sberleffo per opporsi alle convenzioni mentali, alle modalità di un sentimentalismo banale e consolatorio.

In anni recenti sono uscite presso l’editore bolognese Luca Sossella due antologie che raccolgono versi e prose di Bordini, I costruttori di vulcani e Difesa berlinese. Ma chi nulla conoscesse di questo autore, può iniziare a leggerlo in un e-book a prezzo quasi zero del 2015, Epidemia, che contiene toni e temi propri di tutta la sua produzione: l’indignazione morale e la pietà per chi subisce la violenza della storia, un’orgogliosa estraneità ai compromessi e lo sdegno verso ogni sopraffazione sugli indifesi e gli ultimi.

Il testo contiene due differenti brani poetici, composti nello stile narrativo che ha spesso identificato con originalità la produzione del poeta romano: non i versi cui siamo abituati, che ubbidiscono a precise regole metriche e a figure retoriche o invenzioni fonetiche (rime, allitterazioni, anafore…). Piuttosto una prosa cadenzata da una riflessione interiore, produttrice di una modulazione ritmica. L’epidemia di cui si parla nella sezione di apertura ha evidenze sia materiali e fisiche, sia metaforicamente ideali. Prendendo spunto dal contagio della mucca pazza che interessò gli allevamenti bovini italiani nel 2001, Bordini compie un’operazione linguistica straniante e provocatoria, sostituendo al termine “capo” (usato asetticamente negli articoli giornalistici dell’epoca per definire la bestia malata), la parola “schiavo”, quasi a indicare che animali e esseri umani costretti in cattività e subordinati alle esigenze del mercato, rispondono allo stesso tragico destino di assurda e ingiustificata violenza. Nessuno è innocente, sembra suggerire l’autore: chi si nutre di carne, chi la commercia, chi macella, chi svende corpi umani.

Il secondo capitoletto si intitola La genesi di un pensiero, e segue le tracce delle considerazioni del poeta riguardo alla profezia del Massachussets Institute of Tecnology, tenuta segreta, secondo cui entro cinquant’anni il mondo sarà condannato a un’eclissi definitiva, poiché “ogni civiltà quando raggiunge la capacità tecnica di autodistruggersi, lo fa”. La rabbia, la pena, la frustrazione che il poeta prova all’idea della catastrofe irragionevole e spietata che attende l’umanità, si mescola all’amarezza di altri ragionamenti più immediatamente politici: una finanza capitalistica impazzita, il surriscaldamento climatico, l’utopia pacificamente rivoluzionaria dei giovani manifestanti a Genova contro il G8 repressa nel sangue nel 2001. Tutto appare ingiusto, crudele e incomprensibile, al punto che al poeta sembra preferibile sparire, avendo portato a termine la sua parabola esistenziale: “se fossi morto non avrei perso nulla”.

Alex Tonelli, nella sua empatica prefazione, intuisce nelle parole di Carlo Bordini il senso di un’impotenza disperante, che si interroga sull’assurdità di esserci, qui e ora, per non esserci improvvisamente più subito dopo, in un’epidemia fisica e mentale che conduce “all’inutilità manifesta del nulla”. Nei due giorni successivi alla conclusione della silloge, l’attentato alle Torri Gemelle dell’11 settembre sembrò voler porre un sigillo angoscioso e tombale alle parole del poeta.

 

© Riproduzione riservata     https://www.sololibri.net/Epidemia-Bordini.html          25 giugno 2019