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MAESTRI

CORTAZAR

INCARICO 

Non mi dar tregua, non perdonarmi mai.
Fustigami nel sangue, che ogni cosa crudele sia tu che ritorni.
Non mi lasciar dormire, non darmi pace!
Allora conquisterò il mio regno,
nascerò lentamente.
Non mi perdere come una musica facile, non essere carezza né guanto;
intagliami come una selce, disperami.
Conserva il tuo amore umano, il tuo sorriso, i tuoi capelli. Dalli pure.
Vieni da me con la tua collera secca, di fosforo e squame.
Grida. Vomitami arena nella bocca, rompimi le fauci.
Non mi importa ignorarti in pieno giorno,
sapere che tu giochi, faccia al sole e all’uomo.
Dividilo.

Io ti chiedo la crudele cerimonia del taglio,
ciò che nessuno ti chiede: le spine
fino all’osso. Strappami questa faccia infame,
obbligami a gridare finalmente il mio vero nome.

 

Julio Cortazar (1917-1987)

INTERVISTE

AIRAGHI

Versus: Airaghi-Celeste | L’Altrove

Il nostro viaggio attraverso la poesia femminile italiana inizia oggi con due poetesse: Alida Airaghi e Clery Celeste. Ecco l’intervista doppia:

Domanda tanto facile quanto difficile: Che cos’è per voi la poesia?

Airaghi: Da Platone in poi sono state proposte moltissime definizioni della poesia. Una, molto rigorosa, che mi ha particolarmente colpito è quella di Kant: “La poesia è l’arte di dare a un libero gioco dell’immaginazione il carattere di un compito dell’intelletto”. Più pacatamente Bachelard affermava che la poesia ha una funzione di risveglio, e ha il compito di trasformarci. Concordo con entrambi.

Celeste: Per me la poesia è qualcosa di sacro e come tutte le cose sacre non le puoi possedere, non le contieni, ma ti attraversano. Poesia quindi non è un qualcosa di fisso e statico ma è dinamica, arriva e non sai mai quando o per quanto tempo potrà andarsene via da te.

E come definireste la vostra?

Airaghi: Il mio scrivere in versi si è ovviamente modificato in più di quarant’anni di esercizio, che io amo chiamare artigianale piuttosto che artistico. Quando ero giovane intendevo la scrittura poetica come scavo interiore, ricerca emozionale, o addirittura testimonianza civile e denuncia politica. Oggi, più ammorbidita dall’età, e più consapevole della limitatezza dei miei strumenti espressivi, ma anche malinconicamente certa che la poesia non ha grandi margini di presa sul pubblico, e non è utilizzabile pragmaticamente, penso di dover ubbidire soprattutto al richiamo di un lavoro assiduo sulla parola, che dovrebbe riuscire a coniugare insieme pensiero, immagine e musicalità. Una carezza a ciò che esiste, e che è sempre più importante e più alto della nostra persona individuale. “Trasformare le proprie agonie private e personali in qualcosa di ricco e strano, di impersonale e universale” raccomandava Eliot.

Celeste: Quando scrivo cerco e spero che i miei testi possano essere comuni anche agli altri, che anche solo una parola possa appartenere ad altre persone. Cerco di creare una poesia che sia non prettamente personale e individuale ma in cui altre persone con diverse esperienze di vita possano riconoscersi e sentirsi meno sole, parte di qualcosa. Credo comunque che la letteratura in generale serva e debba tendere a questo: ritrovarci simili, meno soli.

Quale eredità vi ha lasciato la poesia femminile italiana?

Airaghi: Ho letto e leggo molta poesia italiana, e credo ci siano state grandi voci di poete nel nostro ’900: Bemporad, Guidacci, Rosselli, Romagnoli, Pozzi. Tra le viventi Anedda, Gualtieri, Calandrone suscitano in me interesse e partecipazione, così come mi entusiasmano le voci maschili di importanti maestri: Montale, Luzi, Caproni, Giudici, Pasolini.

Celeste: Sinceramente ho sempre letto di tutto, senza soffermarmi sulla identità dell’autore, che fosse uomo o donna poco mi importava perché credo che la poesia possa affrontare qualsiasi tema a prescindere dalla sessualità dell’autore. Certo, ci sono molte autrici donne che stimo, che rileggo e che apprezzo per la loro forza poetica e la loro indipendenza di stile.

Ed esiste una poesia prettamente femminile in Italia?

Airaghi: Spesso anche solo leggendo poche righe si riesce a riconoscere il sesso di chi le ha scritte. Ma mi sembra falsante creare categorie distintive tra i poeti. Non so dire perciò se esista una corrente di “poesia femminile”, che avverto come classificazione ghettizzante. Senz’altro esiste ed è esistita una poesia femminista, di rivendicazione e di lotta.

Celeste: Non credo che esista una poesia di genere in Italia, sarebbe secondo me anche anacronistico dividere la poesia in maschile e femminile. L’arte se è arte vera deve essere capace di affrontare anche temi che appartengono a sfere femminili o maschili, il poeta se è tale deve riuscire ad andare in profondità a qualsiasi argomento. La poesia in tal senso quindi deve essere, a mio avviso, universale. Più che poesia femminile si può secondo me ora trovare delle linee comuni tra generazioni simili, non tanto come stile ma come tematiche. Trovo ci sia molta più individualità ora, ognuno cerca di avere una sua voce, un suo ritmo preciso.

Si dice sempre che la poesia salverà il mondo. Ma da cosa?

Airaghi: Dostoevskij scriveva che sarà la bellezza a salvare il mondo, e credo avesse ragione se per bellezza vogliamo intendere non solo tutta l’arte (figurativa, musicale e letteraria), ma anche lo splendore naturale che ci circonda. Penso però che il mondo possa e debba essere salvato dalle brutture e dalla cattiveria non tanto e solo dall’arte, ma da tutti gli uomini e donne di buona volontà. Non sempre i poeti sono corretti, nobili e disinteressati: perché mai dovrebbero essere migliori dei medici, dei contadini, degli operai, delle cuoche?

Celeste: Non so se la poesia salverà il mondo, di sicuro però può salvare singole persone. La poesia mi ha salvato diverse volte, è l’unico luogo in cui ci si può permettere di essere veri e sinceri oltre il dolore e la ferita, forse a volte arriva prima il verso della comprensione razionale di quel che si vive. Dal testo quindi la conoscenza. Dove l’onestà e la coerenza determinano direi la buona riuscita di un testo. Se un autore mente, scrive cose che non ha provato, direttamente o indirettamente, scrive senza una urgenza e una necessità profonda, il testo secondo me potrebbe risentirne, risultando meno vero. I lettori sentono quando c’è coerenza e verità nei testi. L’arte in generale ha prima di tutto una funziona catartica per chi la fa, poi per chi la riceve. Non salverà il mondo, ma salva molti.

Quale poeta non può mancare nella vostra lettura?

Airaghi: Leggo e rileggo Rilke e Eliot.

Celeste: Tirare fuori i nomi: la domanda più difficile, si rischia sempre di dimenticare qualcuno. Vi scrivo quindi qualche nome di autori che leggo e rileggo volentieri senza un ordine preciso. Stefano Simoncelli, poeta e persona che stimo, Mario Benedetti, Gian Mario Villalta che ammiravo già moltissimo e poi ho conosciuto di persona pubblicando il mio primo libro, Milo De Angelis, Cristina Campo, gli autori della tradizione dialettale romagnola come Baldini, alcuni testi di Guerra e Annalisa Teodorani, la Szymborska ovviamente, Cortazar, Magrelli, Francesca Serragnoli ma ce ne sarebbero tanti altri.

Quali sono, invece, gli scrittori che vi hanno segnato?

Airaghi: Come citarli tutti? I classici russi, gli esistenzialisti, Thomas Mann, Garcia Marquez, Marguerite Yourcenar, Isaac Singer, Joseph Roth, Yasunari Kawabata, Virginia Woolf, i grandi filosofi… Amo leggere in generale tutto quello che mi ridesta dentro non solo un sussulto emotivo, ma anche un forte invito alla riflessione, all’approfondimento di temi o pensieri trascurati.

Celeste: Cito nuovamente Milo De Angelis, Magrelli e Benedetti: sono i primi contemporanei che ho letto quando avevo 15 anni e mi stavo avvicinando alla poesia. Mi colpì moltissimo la struttura del verso, i temi affrontati, la musicalità, la cura delle parole. Sicuramente mi hanno segnato i testi di Francesco Tomada per questa sua semplicità del dire anche le cose più dolorose, questa naturalezza che non è incuria ma deriva da un lavoro profondo di sé e dei versi. Nino Iacovella, Christian Tito e Alessandro Silva per un tipo di poesia sociale e civile insieme. Cortazar, già citato, per la sua espressione dei sentimenti potenti, come amore, rabbia e abbandono. Ce ne sarebbero tanti altri, questi i primi a cui ho pensato.

Abbiamo fatto leggere ad Alida Airaghi una poesia di Clery Celeste tratta da “La traccia delle vene” (LietoColle, 2014)

Tutto si riconduce a un cercarsi
di complementari gruppi sanguinei
tra foreste di vetro e provette
siamo uno scambio di liquidi
il nostro baciarsi è solo il gusto
di un semplice trasferirsi di fluidi
e tutto il resto non si sa da dove passi
se dal mio cuore
arriva poi al tuo
o si perde per strada, tra questo traffico
che ci opprime l’asfalto nelle ore di uscita
dalle fabbriche il cemento
e tutte le altre sostanze radioattive
come farfalle le vedo volare.

Ecco il suo commento:

Della poesia di Clery Celeste ho apprezzato la contrapposizione tra il mondo dei sentimenti e delle esperienze private e l’ambiente urbano, inquinatore di anime e corpi, che fa da sfondo all’incontro tra due amanti. La mortificazione dell’atto sessuale in una negatività riduttiva (“siamo uno scambio di liquidi”), amplificata dall’osservazione della realtà soffocante (cemento, asfalto, fabbriche, sostanze radioattive) cerca poeticamente uno spiraglio di luce e positività nell’immagine finale delle farfalle in volo.

Una mia poesia che potrebbe fare da corollario a quella sul bacio di Clery è questa:

Baciarti sulle labbra la parola
che a fatica pronunci, a fatica:
quasi avessi promesso di non dire.
Aspirarla con il fiato appena,
mescolarla al mio respiro, e confonderla.
Che non abbia paura, ascoltandosi,
di restarsene lì, irrimediabile, sola.

(da “Il silenzio e le voci”, Nomos 2012).

A Clery Celeste abbiamo fatto leggere una poesia di Alida Airaghi tratta da “Omaggi” (Einaudi, 2017)

Con il cielo coperto, l’erba ormai alta
(la panchina azzoppata,
e cartacce e lattine). Ero sola
in un’ora di quasi pomeriggio
a tentare nel vuoto un pensiero di bene.
L’amore era lontano o era in ogni cosa?

Il commento di Clery:

Un testo questo della Airaghi che mi ha lasciata col fiato sospeso fino all’ultimo verso, verso risolutivo e allo stesso tempo aperto. Una domanda che mi attraversa spesso nella quotidianità, soprattutto nel mio lavoro in ospedale quando ho a che fare con i pazienti. Una poesia che parte dalla dimensione naturale e “infinita” come il cielo e l’erba alta per arrivare a un’altra dimensione infinita ma che porta in basso come una voragine, quel vuoto dove si tenta un pensiero di bene. La caduta ce la suggerisce già al secondo verso, la panchina infatti è azzoppata. Sta già nelle cose l’incrinatura esistenziale. Il testo però è aperto, si chiude con una domanda da cui possiamo rientrare ogni volta. Era lontano o in ogni cosa?

 

© Riproduzione riservata                      «L’Altrove. Appunti di poesia», 28 maggio 2019

 

MAESTRI

MENICANTI

TUTTI I GATTI LO CREDONO

Nerofumo e smeraldi, sulla vetta
di una colonna un gatto mi contempla
risibilmente piccolo, ma già
convinto di essere un dio.

**

QUASI

Quasi ce l’ho con lui. Per quel furtivo
andarsene che ha, gliene voglio;
per quel viso già pieno di nebbie.
Non sfuggirmi, lo supplico, gli piango,
non uscire così dalla tua casa,
le mie memorie. Se mi lasci, caro,
vivrai dove?
Chi ti riscalderà?

**

L’ULTIMO MESE D’INVERNO

Con l’ultimo mese d’inverno
si fa delicata una stagione
già tanto mordace. La luna
riporta con gentili esche la sua
trasparente morte.

**

E’ FIORITO L’ALBERO DEL CORTILE

Una sfera
pallida e trasparente è caduta
sopra le braccia aperte
dell’albero in attesa.
Una sfera
di fiori brevi più bianchi dell’alba
s’è posata in cortile
tra vorticose pareti.
La sua presenza aerea
la sua improvvisa grazia da immortale
rende felice e disperato chi
la guarda.

**

QUALE ERO

A mano a mano quale ero ritorno:
una che va vestita come càpita,
contenta del poco, di rari
amici scontrosi,
una dìspari
felice di bere alla brocca
della sua solitudine.

 

Daria Menicanti (1914-1995)

 

 

 

 

MAESTRI

PORTA

TELEFONI DALL’AUTOSTRADA

Telefoni dall’autostrada domenica mattina
per dirmi degli sprazzi di luce
la pioggia battente e passaggi rapidi
di nuvole cariche di blu poi ancora
sprazzi di luce e gli alberi s’infiammano
di nuovo scrosci di pioggia primoautunno
attraversano l’Italia Centrale
ma tu passi tra i bagliori dei temporali
e mi telefoni per dirlo: «non c’è
traffico, l’autostrada è quasi deserta,
sto arrivando non ci sono più ostacoli».

 

Antonio Porta (1935-1989)

MAESTRI

BALESTRINI

BLACKOUT E ALTRO n. 43

sugli spalti si accendono migliaia di fiammelle
tutti ti guardano tutti guardano tutti
la sua musica la sentivamo come nostra una rottura delle regole del gioco
ma forse si rompeva già prima all’interno di ciascuno
la sua voce irriducibile come la tua alla rassegnazione per tutto ciò che di disumano ti circonda
passando tra i corpi inquieti percorrendo quasi di corsa tutto lo spazio tornando indietro
se una nuova vocalità può esistere deve essere vissuta da tutti e non da uno solo
con tanta rabbia
dentro di me sale la rabbia sorda che mi hai svegliato tu un mondo che non ho
alzandomi in piedi mi raggiungevano folate di vento e di musica che sembravano arrivare direttamente dal centro del cielo
noi inadeguati senza armi senza trappole con le candeline accese
ora si sta avvicinando un gran temporale lampi all’orizzonte sul mare e sulla linea del bosco

 

Nanni Balestrini (1935-2019)

MAESTRI

SANGUINETI

OCCHIALI

Mi sono riadattato agli occhiali (che la patente, a me, rende obbligati, ormai,
in un paio solo di giorni: vedo tutto più netto: (ma niente mi è, per questo,
diventato migliore, in verità: un semaforo è sempre un semaforo, un marciapiede
è un marciapiede: e io sono sempre io, così)
(quanto al doloroso senso di capogiro,
vaticinato, con l’emicrania, da un Istituto Ottico di corso Buenos Aires, al quale
mi sono rivolto, questa volta, l’ho sperimentato e l’ho superato): (l’oculista
affermava che, con il tempo, io mi ero costruito una mia rappresentazione arbitraria
della realtà, adesso destinata, con le lenti, a sfasciarsi di colpo):
e ho potuto
sperare, per un attimo, di potermi rifare, a poco prezzo, una vita e una vista)

 

Edoardo Sanguineti (1930-2010)

RECENSIONI

BENNI

STEFANO BENNI, DANCING PARADISO – FELTRINELLI, MILANO 20I9

«Ogni angelo è terribile», scriveva Rilke in apertura della Seconda Elegia. Ma l’Angelo Angelica protagonista e voce narrante dell’ultimo libro di Stefano Benni non è terribile affatto: piuttosto indulgente, comprensivo, empatico, capace di pietas cristiana: proprio come l’Angelo di Dio a cui i bambini prima di dormire chiedono «illumina, custodisci, reggi e governa me». Un angelo custode, appunto.

Quello volteggiante in Dancing Paradiso riecheggia immagini filmiche, pittoriche, musicali, di un passato prossimo e remoto, e di un presente terribilmente quotidiano. Ha respirato l’atmosfera berlinese di Wim Wenders e quella californiana di Brad Silberling, le creature alate e i saltimbanchi rilkiani, gli affreschi di Beato Angelico e i quadri di Klee, lo swing anni ’30, il rock anni ’50, le discoteche delle periferie italiane anni ’80. Si è ispirato alla cronaca e alla TV più trash, alla musica di Coltrane, Bach e Vecchioni, ma ha letto anche molta poesia contemporanea, per arrivare a modulare una lunga ballata dal carattere di recita teatrale, con attori e voci diverse: la baritonale di un Falstaff pateticamente comico, il falsetto di un castrato monteverdiano, il singhiozzo malato di una Mimì pucciniana. Ballata in simil-versi, perché l’andare a capo della scrittura di Benni non rispetta la metrica tradizionale, zoppica provocatoriamente, strizzando l’occhio al lettore per avvisarlo che qui si è più vicini alla parodia che all’ode, alla farsa giocosa e moraleggiante che al sonetto o all’elegia.

Angelo Angelica dunque scende dal cielo, nel prologo, inviato/a come messaggero alato ad accompagnare le vicende umane più desolate e problematiche, caparbiamente deciso/a a sporcare la sua tunica celestiale col fango terrestre, «in città malate»: apparizione improvvisa e salvifica, maternamente prodiga e vicina ai disperati cui porta conforto «nell’imperfetta passione e nella speranza». Fratello e sorella, padre e madre, amante e amica, «guerriero che non teme gli screzi», creatura demersale che ama i fondali. Incontra una serie di reietti e depressi, li chiama tutti per nome. Il primo è Stan pianista triste, fradicio di droga e alcol, ridotto «all’ultima nota dello spartito». Il secondo è l’obeso Elvis con «folte basette sul muso da maiale», ex cantante di successo che da anni vive barricato in camera ad ascoltare musica ingozzandosi di cibo spazzatura, praticando sesso virtuale in un delirio masochista autodistruttivo: hacker onnivoro e giustiziere, aspirante nazi-stragista, odia se stesso e l’universo intero. La terza e Lady, «una signora perbene», aspirante poetessa che vorrebbe emulare Sylvia Plath o Marina Cvetaeva suicidandosi, e si riempie di psicofarmaci e alcol per riuscire a sopravvivere. Poi c’è Amina, barista in un pub frequentato da vecchi lascivi e nuovi zombie, giovane profuga arrivata dall’Albania per raggiungere un falso eden popolato da lupi e sparvieri. Infine Bill il Bello, vecchio batterista ridotto a scheletro nel letto di un ospedale in cui i sanitari non vedono l’ora che crepi.

Gli spettri umani raccontati da Benni sono accomunati dalle stesse ambizioni e fallimenti, da un’uguale rancorosa sete di vendetta nei riguardi del mondo che non li ha capiti e considerati nel loro preteso valore: «Nullità e mitomani, criminali e artisti / Tutti vogliamo essere visti / Vogliamo inciso sul marciapiede / Il nostro nome dentro una stella». L’arrivo provvidenziale di Angelo Angelica, planante sulla «città ragnatela di luce… trappola velenosa e atroce», agisce come un balsamo sulle ferite del popolo notturno, vizioso e disperato, che si raduna nel Dancing Paradiso. Invita i cinque infelici a esibirsi sul palcoscenico per un ultimo celebrativo riconoscimento pubblico, prima di venire inghiottiti nel buio della notte, in una morte definitiva o nella vaga speranza di un’alba di riscatto. Le performance di Stan, Elvis, Lady, Amina e Bill, livide e angoscianti, sono invocazioni destinate a perdersi nel nulla e nell’indifferenza cosmica. Mentre Angelo Angelica, conclusa la sua missione, riprende il volo, una voce fuori campo scandisce impietosa il suo verdetto: «Lo spettacolo è finito signori / E anche il mondo sta finendo / Fatevi un selfie speciale / Sullo sfondo del diluvio universale».

 

© Riproduzione riservata      

https://www.sololibri.net/Dancing-Paradiso-Benni.html             27 maggio 2019

 

 

 

 

 

RECENSIONI

KATZENELSON

ITZHAK KATZENELSON, CANTO DEL POPOLO YIDDISH MESSO A MORTE – FELTRINELLI, MILANO 2019

Itzhak Katznelson (Karėličy1886-Auschwitz 1944) è stato un poeta polacco di origine ebraica, vittima dell’Olocausto. Nato nel 1886 a Karėličy, vicino a Minsk, si trasferì presto con la famiglia a Łódź, dove crebbe e studiò letteratura. Fu insegnante e drammaturgo: fondò una compagnia teatrale con cui si esibiva in Polonia e Lituania, mettendo in scena suoi testi in yiddish ed ebraico. In seguito all’invasione nazista del 1939, riparò a Varsavia, dove fu recluso con la moglie e i tre figli nel ghetto, riuscendo comunque a crearvi una scuola per l’infanzia. Scampato alla deportazione e all’uccisione dei suoi parenti nel campo di Treblinka, partecipò alla sollevazione del Ghetto di Varsavia il 18 aprile 1943. Gli amici gli procurarono un passaporto falso per l’Honduras, ma prima che potesse mettersi in salvo la Gestapo lo catturò e rinchiuse nel campo di transito francese di Vittel: qui in due mesi compose il suo capolavoro in 900 versi, Canto del popolo yiddish messo a morte, nascondendo il manoscritto in tre bottiglie che sotterrò sotto un albero, da dove venne recuperato nel 1945 grazie alle indicazioni di una compagna di prigionia sopravvissuta, Miriam Novitsch, quindi pubblicato in francese per la prima volta a Parigi nello stesso anno. A fine aprile del 1944, Itzhak Katzenelson e il figlio maggiore Tzyi furono condotti ad Auschwitz e immediatamente inviati alla camera a gas il primo maggio dello stesso anno. Al poeta è stato intitolato il “Museo dei Combattenti dei Ghetti” ad Acri, nel nord di Israele.

Il suo Canto (Dos Lid, in yiddish) conobbe numerose traduzioni e ristampe in tutte le lingue del mondo. In Italia fu pubblicato privatamente a Torino nel 1966 (ediz. Amici di Lohamei Haghettaoth) con prefazione di Primo Levi, poi da Giuntina nel 1995, quindi da Mondadori nel 2009, e ora esce da Feltrinelli con traduzione e postfazione di Erri De Luca. Il testo si articola in quindici brani poetici, ciascuno composto da quindici strofe di quattro versi lunghi, che rievocano le tappe dell’annientamento dell’ebraismo polacco, dall’invasione nazista al rogo del ghetto di Varsavia. Primo Levi così ne scrisse, commentandone la tragica testimonianza di morte, disperazione, cieca e imperdonabile violenza: “È la voce di un morituro, uno fra centinaia di migliaia di morituri, atrocemente consapevole del suo destino singolo e del destino del suo popolo. Non del destino lontano, ma di quello imminente: Katzenelson scrive e canta nel mezzo della strage, la morte tedesca si aggira intorno a lui, ha già compiuto il massacro più che a metà ma la misura non è ancora colma, non c’è tregua, non c’è respiro: sta per colpire ancora e ancora, fino all’ultimo vecchio e all’ultimo bambino, fino alla fine di tutto”.

Si può scrivere mentre si assiste a un genocidio, in attesa della propria indifferibile scomparsa, dopo aver osservato inermi la distruzione di un popolo, il martirio delle persone più care? A un poeta non rimane che un unico modo di esprimersi: l’urlo di dolore, di rabbia feroce, di protesta contro il destino e contro il cielo immobile, nella rievocazione commossa di chi ha perduto. Alle vittime innocenti immolate dalla furia tedesca, Katzenelson chiede, prima di sparire a sua volta, di alzare un grido che risuoni in eterno, scuotendo le coscienze dei posteri:

“Come faccio a cantare se per me il mondo è vuoto? / Come posso suonare con le mani spezzate? / Dove sono i miei morti? / Cerco i miei morti, Dio, in ogni letame, / in ogni mucchio di cenere, ditemi dove siete. // Gridate, da ogni sabbia, gridate, da sotto ogni pietra / da tutte le polveri gridate e da tutte le fiamme, da ogni fumo. / C’è il vostro sangue e succo, c’è il midollo delle vostre ossa, / c’è vostra carne e vita. Gridate forte, in alto. // Gridate dalle viscere delle bestie selvatiche del bosco, dal pesce nello stagno. / Vi hanno inghiottito. Gridate dalle fornaci della calce, grandi e piccoli gridate. / Voglio da voi un grido di pericolo, un grido di dolore, una voce, / grida popolo yiddish messo a morte, grida e grida forte. // […] Venite tutti da Treblinka, da Sovibor, da Oshventshim, / da Belgiz venite, venite da Ponari e da altri posti ancora e ancora e ancora. / Con gli occhi fuori dalle orbite, un grido congelato di soccorso ma senza la voce, / dalle paludi, dal fango in cui foste sprofondati, dalle muffe marcite. // Venite, disseccati, tritati, macinati, venite, disponetevi / in cerchio, una ruota gigante intorno a me, un solo girotondo. / Nonni, nonne, padri, madri con i bambini in grembo, / ossa yiddish venite dalla polvere, dai pezzi di sapone. // Apparitemi, mostratevi a me tutti, venite tutti, / voglio vedervi tutti, voglio guardarvi, voglio / sul popolo mio messo a morte posare lo sguardo zitto / ammutolito. / Allora canterò, sì, ecco l’arpa, io suono”.

Canta in versi, Katzenelson, e ricostruisce la storia ebraica, a partire dal profetismo dell’Antico Testamento, cadenzato dalle implorazioni dei Salmi, già premonitore delle sofferenze del popolo eletto, per attraversare poi la diaspora, i pogrom medievali, e arrivare alle persecuzioni novecentesche, alla Shoah, al dolore collettivo dei giudei polacchi e a quello suo individuale: “Dolori voi v’ingrandite in me, crescete di misura / per quale tormento? Per trapanarmi dentro o per strapparvi via? / Non vi strappate via da me, dolori. Crescete dentro di me, state in silenzio, / zitti mentre mi lacerate, dolori miei che diventate grandi”.

Itzhak Katzenelson rivive nelle strofe del suo poema l’invasione nazista del ’39, la fuga disperata di intere popolazioni dalle proprie città, il tentativo di cercare scampo a Varsavia: quindi la reclusione nel ghetto con la paura di una cattura improvvisa, il sospetto nei riguardi dei vicini, le delazioni reciproche. Infine i rastrellamenti, le prime deportazioni, il freddo e la denutrizione degli scampati. Ricompone con nostalgia il ricordo della moglie Hanna e dei due bambini più piccoli che non è riuscito a salvare (“Ti ho chiamato fuori dalla tua pace, / non riposare, Hannele, che mai possa guarire in un dimenticare l’ulcera mia infinita. // Siediti qui con me, ti amo così tanto”), la rabbia contro i collaborazionisti e l’indifferenza degli ignavi, il rimorso per la propria vigliaccheria incapace di ribellarsi (“Guai a me, perché sapevo e i miei vicini pure e ogni e qualunque yid, / noi tutti, grandi e piccoli, dal vecchio al giovane, noi lo sapevamo. / Ma dalla bocca non è uscito niente, sst. / Hanna, se gli sparavo in quel momento, se in quel minuto avevo tra le mani di che farlo, / salvavo tutto il popolo, te, me stesso, pure i nostri bambini”.

Tutto ciò viene espresso dal poeta in tono concitato, impetuoso, privo di filtri. L’odio verso i nazisti invasori, capaci di affamare e trucidare infanti e anziani, fuoriesce irrefrenabile, come una maledizione e una condanna senza appello, che si estende a tutto il popolo tedesco, complice di ogni atrocità nel suo silenzio corrivo, e agli ebrei conniventi e corresponsabili dell’orrore: “Sfondavano le porte, irrompevano gridando per ingiuria ‘Aiuto, aiuto’ / dentro le case yiddish barricate, sollevando bastoni tra le mani. / Ci hanno scovati, bastonati e spinti nei vagoni … “.

Dio non c’è, in questi versi acri, esasperati, come fa giustamente notare Erri De Luca nel suo commento: Dio qui è una presenza irrilevante, muta, mai partecipe a ciò che accade: “È solo un bene che non esista un dio, anche se è male, assai, senza di lui. / Ma se ci fosse, pure peggio sarebbe”. La responsabilità degli eventi storici è solamente umana, di chi li provoca e di chi ci si adegua. Non esiste giustificazione per chi ha commesso e permesso la strage: “Per che cosa? Non chiedete, nessuno al mondo, eppure tutto, tutto chiede: per cosa? Per che cosa? / Ascolta, ascolta. // … C’è stato un popolo, c’è stato, e non esiste più. / C’è stato un popolo, c’è stato, e adesso niente”.

 

© Riproduzione riservata                  «La poesia e lo spirito», 24 maggio 2019

 

 

 

 

RECENSIONI

TODOROV

TZVETAN TODOROV, LA LETTERATURA IN PERICOLO – GARZANTI, MILANO 2008-2018

Ci sono libri preziosi, che hanno il grande merito di racchiudere, in poche pagine di scorrevole lettura, i caratteri fondamentali del pensiero di un autore, le scelte che ne hanno determinato la formazione e lo sviluppo, gli snodi essenziali della sua biografia. È il caso di un volumetto di Tzvetan Todorov, pubblicato da Garzanti nel 2008 e riedito nel 2018, intitolato La letteratura in pericolo. Todorov (Sofia 1939-Parigi 2017) è stato un critico letterario, un linguista e un saggista di fama internazionale, che nei primi anni della sua carriera ha contribuito a diffondere in Europa gli studi dei formalisti russi, basilari nell’influenzare la cultura strutturalista degli anni Sessanta.

Nella breve introduzione a questo volume racconta di come, nella Bulgaria comunista del dopoguerra, si fosse sottratto al severo controllo della autorità accademiche sull’ortodossia marxista-leninista degli studi universitari, scegliendo di laurearsi con una tesi asetticamente grammaticale. Trasferitosi a Parigi nel 1963 per il dottorato, divenne allievo di Roland Barthes, che lo indirizzò all’approfondimento delle leggi generali della linguistica e del simbolismo letterario. La scelta di restare in Francia, determinata da motivi sia familiari sia politico-culturali, si rivelò conveniente per la sua notorietà intellettuale già dalla prima celebre pubblicazione del ’65, Théorie de la littérature. Ricercatore, poi direttore presso il Centre national de la recherche scientifique, intorno agli anni ’80 prese le distanze dalla critica scientifica del testo per orientarsi verso interessi storici, antropologici, artistici ed etici, aprendosi al dialogo tra diverse culture e all’incontro con l’«altro». Per un trentennio esplorò eventi di cronaca e storia europea e americana, riflettendo su democrazia e totalitarismo, su civiltà e barbarie, sui destini dell’Europa di fronte al multiculturalismo e alle migrazioni.  Affrontando inoltre temi decisamente inusuali per un linguista, come il ruolo dell’artista nella società, le derive autoritarie nei governi e nelle ideologie contemporanee, la scelta indifferibile tra bene e male: sempre con uno stile curato ed elegante, ma di grande presa comunicativa.

La fedeltà alla letteratura, iniziata nell’infanzia e protrattasi fino alla morte, indusse Todorov a scrivere pagine appassionate, con la volontà di renderne partecipi lettori di ogni provenienza, classe ed età, in un nobile desiderio di proselitismo e contagio amoroso: “La letteratura può molto. Può tenderci la mano quando siamo profondamente depressi, condurci verso gli esseri umani che ci circondano, farci comprendere meglio il mondo e aiutarci a vivere. Non vuole essere un modo per curare lo spirito; tuttavia, come rivelazione del mondo, può anche, cammin facendo, trasformarci nel profondo… Più densa, più eloquente della vita quotidiana ma non radicalmente diversa, amplia il nostro universo, ci stimola a immaginare altri modi di capirlo e organizzarlo… apre all’infinito la possibilità d’interazione con gli altri e ci arricchisce, perciò, infinitamente… permettendo a ciascuno di rispondere meglio alla propria vocazione di essere umano”.

Le considerazioni da cui parte il libro di cui ci occupiamo riguardano l’insegnamento delle lettere ‒ così poco fruibile e stimolante per i giovani ‒ nei licei e nelle università, dove si antepone l’ermeneutica del testo alla comprensione del testo stesso, privilegiando i metodi d’analisi critica al piacere della lettura. La trattazione esclusivamente filologica delle opere finisce per rinchiuderle in un loro limitato e autoreferenziale spazio interno, nell’indagine sugli strumenti formali di cui si servono e sui metodi interpretativi con cui approcciarvisi, escludendo il loro significato ultimo, le finalità che si propongono di raggiungere, il rapporto che hanno col mondo. In tal modo si creano lettori linguisticamente competenti ma annoiati, incapaci di trarre dai classici antichi e moderni la lezione davvero necessaria e illuminante: la riflessione sulle proprie scelte personali, l’apporto di esperienze che provengono dagli altri, l’apertura verso la realtà circostante.

Purtroppo, la concezione riduttiva della letteratura è oggi comune a insegnanti, giornalisti, recensori e scrittori, che sembrano compiacersi della sua autosufficienza e incomunicabilità, spesso tendente a un solipsismo narcisistico e nichilista, espressione di una radicale frattura tra l’io dell’autore e l’esterno. Da queste osservazioni preliminari, Todorov prende lo spunto per delineare una breve e puntuale storia dell’estetica e della critica letteraria, a partire dai greci. Se nella classicità la poesia aveva il compito di imitare la natura, o di piacere, istruire, educare, dal rinascimento in poi le si richiese soprattutto di essere “bella”, formalmente perfetta, quasi fosse una creazione in forma minore di un artista-demiurgo equiparato a Dio. L’opera d’arte non doveva essere sottoposta ad altre finalità o scopi che esulassero dalla sua autonomia e dal suo valore estetico, e lo scrittore andava giudicato solo in base al suo talento. Inizia così uno scollamento tra chi scrive, dipinge, compone musica e la realtà in cui vive, fino ad arrivare agli estremismi dell’epoca romantica, secondo cui ogni forma artistica supera qualsiasi altra espressione della ragione, fornendo “l’accesso a una realtà seconda, vietata ai sensi e all’intelletto, più essenziale o più profonda della prima”. L’arte, insomma, è portatrice di una verità e di un bene superiori a quelli della filosofia, della religione e della scienza: è estasi, rivelazione, assoluto. Nel XX secolo, con le pratiche espressive dell’avanguardia, si è aperto un solco profondo tra letteratura di massa (popolare, a contatto con la vita quotidiana) e letteratura d’élite, fruita da esperti interessati più che altro alla struttura formale dei testi: “da un lato il successo commerciale, dall’altro le autentiche qualità artistiche”. Ci troviamo oggi davanti a un panorama editoriale in cui la relazione tra scrittura e mondo è relegata a produzioni di consumo, ai best seller e a un pubblico di non specialisti, mentre l’intellettualità più raffinata si barrica nell’ermeneutica testuale, inibendo così una ricezione più complessa e arricchente della letteratura.

Tzvetan Todorov aveva intrapreso la carriera accademica (che gli ha valso numerosi premi internazionali e incarichi di prestigio in importanti università) proprio come studioso del formalismo e dello strutturalismo. La sua svolta ideologica verso un differente approccio culturale, che lo portò ad occuparsi della “scoperta che l’io fa dell’altro, l’incontro con il diverso per eccellenza”, fu determinata dal coinvolgimento psicologico nei riguardi della conquista dell’America, descritta nel volume omonimo del 1982. In esso ripercorre le sconvolgenti vicende che dal primo viaggio di Colombo fino al 1600 interessarono le popolazioni dei Caraibi e del Messico, e lo fa utilizzando le cronache e i diari dei conquistadores, testimonianze del più grande genocidio della storia umana, iniziato con la volontà di scoprire popoli e territori ignoti, e passato successivamente al volerli convertire, per poi conquistarli e infine distruggerli.

L’interesse politico e sociale per le sorti dell’umanità si rivelò preminente in tutte le successive pubblicazioni dello studioso bulgaro. Nel volume L’identità europea del 2009, giustamente riproposto da Garzanti in questo anno di elezioni, Todorov indaga le motivazioni che nel dopoguerra hanno spinto alcune nazioni a fondare l’Unione Europea, e i motivi per cui essa dovrebbe rinsaldare i propri principi costituenti, potenziando la sua influenza nel mondo. Sarà forse proprio la cultura a dare un impulso supplementare al ruolo politico del nostro continente: culla della filosofia, della poesia, dell’arte e della musica già dall’antichità, patria di geni universali, cementata da un’uguale spiritualità e sensibilità religiosa, resa incredibilmente unica da capolavori architettonici e plastici, aperta a influenze di pensiero provenienti da realtà lontane nel tempo e nello spazio, crocevia di scambi commerciali. Le nazioni europee sono “sufficientemente simili per dimensioni e potenza perché nessuna di esse possa sottomettere le altre”: ciascuna nella sua indipendenza conserva libertà di giudizio e pensiero, in un equilibrio di unità e pluralità che fa dell’Europa un caso unico tra i continenti. Così un tratto che può sembrare negativo, quale quello dell’eccessiva differenziazione tra i paesi membri, in realtà si trasforma “in qualità positiva assoluta: la differenza diventa identità e la pluralità unità”. L’unione europea si configura dunque nell’accettare le disuguaglianze tra le varie entità nazionali, in un cosmopolitismo capace di integrare “le diverse maniere di vivere l’alterità culturale”. Le spinte sovraniste attuali, nazionaliste sul piano istituzionale ma europeiste nella rivendicazione di radici storiche e religiose comuni, in realtà tendono a legittimare l’esclusione di chi, arrivando da zone povere e conflittuali della terra, preme ai confini, e chiede di essere accettato portando il proprio contributo di lavoro e di sapere.

A questa nuova anima multirazziale e multiculturale delle società occidentali, Todorov dedicò i suoi ultimi anni di studio e di impegno civile, con la convinzione che l’arte e la letteratura possono salvare sé stesse e il mondo solo aprendosi ai contributi più diversi, mettendo a tacere paure e pregiudizi. Da esule bulgaro in Francia aveva sperimentato su di sé la difficoltà dell’integrazione, il peso della diffidenza e del rifiuto: con la sua testimonianza afferma che l’unica soluzione per uscire indenni dalla tagliola discriminante dell’intolleranza consiste nella capacità di conoscere e accogliere la diversità a livello personale e politico, poiché la storia umana è fatta di “una serie di impercettibili modificazioni”, prima individuali e poi collettive.

 

© Riproduzione riservata                 «Il Pickwick», 21 maggio 2019

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

RECENSIONI

LAMARQUE

VIVIAN LAMARQUE, LA GENTILÈSSA – STAMPA 2009, BRUNELLO (VA) 2019

La poesia dialettale milanese ha una lunga e celebrata tradizione letteraria, a partire già dal medioevo per arrivare ai giorni nostri. I poeti lombardi che hanno scritto versi in vernacolo si esprimevano preferibilmente in italiano nelle loro composizioni ufficiali, destinate a un pubblico di lettori più vasto (dal seicentesco Carlo Maria Maggi, a Giuseppe Parini, Alessandro Manzoni, Tommaso Grossi, Emilio De Marchi), forse in considerazione del fatto che la poesia dialettale si è sempre scontrata con il pregiudizio di utilizzare temi folkloristici, sentimentali, nostalgici o buffoneschi, prediligendo la descrizione di personaggi stereotipati, ridotti perlopiù a macchiette. Unica eccezione, il grande Carlo Porta (1775-1821), di cui recentemente Einaudi ha ripubblicato tutte le poesie, che ha composto esclusivamente in milanese, assurgendo a livelli di meritata fama nazionale. Nel ’900, due sono stati i poeti più importanti tra i “meneghini”, Delio Tessa (1886-1939) e Franco Loi (1930), la cui produzione si è riscattata dal bozzettismo, affrontando argomenti etici e di costume, di critica sociale e di affetti familiari, per lo più venati di un’inquietudine malinconica e assorta. Negli ultimi trent’anni, la poesia in dialetto ha conosciuto nel nostro paese una rinascita e uno specifico interesse anche da parte della critica più impegnata, che ha visto in essa una superiorità espressiva e un’originalità di contenuti in grado di opporsi all’omologazione culturale, contrapponendosi ideologicamente alle mode livellatrici e inautentiche del linguaggio ufficiale.

Vivian Lamarque, nata a Tesero (Trento) nel 1946, dall’età di nove mesi vive a Milano, dove ha lavorato come insegnante e traduttrice, autrice di testi per l’infanzia e collaboratrice di importanti testate giornalistiche, segnalandosi soprattutto in quanto poetessa tra le maggiori e le più originali del nostro paese. Nel 2009 ha pubblicato La gentilèssa, una raccolta di venti liriche dialettali, ora riproposta dalle edizioni Stampa 2009, con la prefazione di Maurizio Cucchi e un’interessante intervista rilasciata a Mary Barbara Tolusso. La sua scrittura in un milanese urbano, garbato (che magari ci riporta un po’ l’atmosfera e le ambientazioni di alcune canzoni di Gaber, di Jannacci, dei Gufi), ha le stesse tonalità sospese, leggere, delicatamente cantilenanti che troviamo in molte delle sue poesie in lingua:  «Milàn  brütta bèlla / lassem andà / ‘l me amur ‘l m’ama no / ‘l me amur  m’ama no», «adèss l’è grand / ‘l gh’à ‘lso de fa / i lusert de cercà / i bus de scavà / ‘l pustin de baià…».

Sono poesie che Vivian ha scritto molto tempo fa, tra il 1972 e il 1975, «in anni oscuri» in cui ha sofferto e fatto soffrire, come scrive in esergo. Allora il dialetto diventa la lingua che accoglie e accarezza, benché non sia quella nativa della poetessa, nata in Trentino e poi adottata da una coppia milanese: ma è comunque una lingua respirata nell’aria degli anni ’50, tra la gente in strada, nei negozi, nei cortili dei giochi. Come giustamente commenta Cucchi “è un ulteriore tentativo naturale di portarsi a una condizione primaria di innocenza”: lingua del sogno, della fiaba, della memoria e dell’innamoramento.

Le immagini che si rincorrono nelle pagine risultano commoventi nella loro discrezione, mai retoriche o abusate. Sia quando descrivono l’attesa di una lettera con un’intestazione affettuosa («la data / e sott la parola ‘cara’ / cara e ‘l me nom visin»), ma che non si apre temendo un addio, o l’emozione di una telefonata a cui per troppa gioia non si sa rispondere, o la richiesta al papà di poter fare un giro in bici («Sto ferma ferma / moeuvi no i gamb / mèti no i pé in di roeud / parli no / famm fa un gir in bicicletta / gh’oo ses an / pesi minga tant, papà»).

Il libro è omaggio alla virtù ormai tanto trascurata, quando non vilipesa, della gentilezza: nei rapporti con le persone, con gli animali, con la città, il cielo e le nuvole. Gentilezza che è anche comprensione, indulgenza, fine attenzione ai sentimenti altrui, e che fa sorridere il cuore, gli occhi e persino gli occchiali: «Come me pias a mi la gentilèssa / come me pias diventi matta / duu parulitt al moment giust / ‘n attenzion minimissima de nient / ‘l foo parè no ma diventi matta / me riden el coeur i ceucc / e financa i occiaj / come l’è bèlla la gentilèssa / come l’è gentil / la me fa tant ben ma tant / denter de mi / che diventi matta».

Vengono in mente, leggendo queste poesie esili e cortesi di Vivian Lamarque, due bei versi di un altro poeta gentile, Sandro Penna: «La tenerezza tenerezza è detta / se tenerezza cose nuove dètta».

 

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20 maggio 2019