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RECENSIONI

AAVV – MACELLAI

Giuseppe Calogiuri (Lecce 1978), avvocato, giornalista e musicista, accomunato spesso ad altri giallisti pugliesi (Gianrico Carofiglio, Donato Carrisi e Omar Di Monopoli), in un breve racconto ha evidenziato come la figura del macellaio venga tradizionalmente rappresentata nell’immaginario popolare, e spesso anche nella letteratura, come quella di un uomo truce, amante del macabro, capace di azioni efferate: in grado di sezionare carcasse di animali senza provare emozioni, e addirittura esibendo una sorta di gusto sadico nel maneggiare coltelli, far sgocciolare sangue, appendere a ganci arrugginiti agnellini e vitelli, squartare ventri e disarticolare ossa. Il suo protagonista, Roberto Deruta detto Tino, discendente da una generazione di beccai, gode in paese della meritata fama di gustosofo, gastronomo esperto di alta cucina, generoso dispensatore di consigli culinari ai vari clienti. I quali tuttavia lo osservano con sospetto e diffidenza, alimentando i pettegolezzi più crudeli e fantasiosi da quando sua moglie Fedora è sparita senza lasciare traccia di sé, e cercano indizi del macabro uxoricidio nel negozio, nella cella frigorifera, nei pezzi di scottona in bella mostra sul banco di vendita, timorosi di essersi incautamente e cannibalmente cibati di una vittima incolpevole.

In un romanzo di Alina Reyes (Bruges 1956), considerato un caposaldo della letteratura erotica di consumo, un macellaio sessuomane avvia una morbosa relazione con una giovane studentessa, in una disinibita esaltazione della corporeità: «E il macellaio che mi parlava di sesso per tutto il giorno era fatto della stessa carne…  aveva i suoi pezzi di prima e di seconda scelta, esigenti, avidi di bruciare la loro vita, di trasformarsi in polpa», «Chi ha detto che la carne è triste? La carne non è triste, è sinistra. Sta alla sinistra della nostra anima, ci cattura quando meno ce lo aspettiamo, ci trasporta su mari densi, ci affonda e ci salva; la carne è la nostra guida, la nostra luce nera e spessa, il pozzo d’attrazione in cui la nostra vita scivola a spirale, risucchiata fino alla vertigine…».

Di tutt’altro genere è il macellaio descritto da Anna Momigliano (Milano 1980) nella biografia del presidente siriano Bashar al Assad, figura tormentata che non ha saputo sfuggire al proprio destino di figlio di un patriarca-tiranno. In un volume pubblicato nel 2013, la giornalista ha ricostruito parzialmente e in un’ottica eurocentrica, la vicenda umana e storica di Bashar, dagli studi universitari di oftalmologia a Londra all’elezione presidenziale avvenuta a soli 34 anni; dalle prime e timide aperture democratiche con la “primavera di Damasco” del 2001 a capo di un regime totalitario. Illustrando l’ambivalenza politica di Assad nella sua relazione altalenante con l’Occidente (con cui nei primi anni di guerra ha cercato discusse alleanze e che in seguito ha accusato di ingerenze delittuose, tradimenti e stragi di civili inermi), l’autrice ha descritto e commentato i rapporti del governo siriano con il potere economico più corrotto, le faide di palazzo, l’eliminazione degli avversari, il siluramento di generali, la cancellazione di elementari diritti umani della popolazione, il sostegno al partito libanese dello Ḥezbollāh, la protezione dei palestinesi di Ḥamās, l’inflessibile ostilità mostrata verso Israele. Riguardo alle carneficine perpetrate dal suo esercito, così Assad si giustificava candidamente nel 2012: «Quando un chirurgo si trova in sala operatoria, tagliando, amputando e ripulendo, e la ferita sanguina, gli si dice che le sue mani sono sporche di sangue oppure lo si ringrazia per avere salvato il paziente?»

I macellatori di cui scrive in versi Ivano Ferrari (Mantova 1948) profanano spietatamente la sacralità della vita, animale e umana, all’interno di un mattatoio, «la grande sala dove si esibisce la morte», in cui lo stesso autore ha prestato un umile e umiliante servizio negli anni ’80. Meno di cento brevi poesie compongono il libro, esponendo agli occhi del lettore un universo degradato di sofferenza, sopraffazione, crudele indifferenza, in cui lo squartamento della carne si mescola a sangue, letame, sperma, bava di mucche, tori, vitelli, cavalli, maiali; nel liquame scorrazzano topi, annegano vermi e larve, ronzano mosche. I gesti automatici e impietosi degli addetti alla macellazione (facchini e veterinari, operai e ufficiali sanitari), e dello stesso poeta che si ritrae con perfida sincerità in azioni addirittura brutali e oscene, assumono l’intollerabile e talvolta beffarda concretezza di un imperdonabile massacro: «Sventrate intere famiglie / oggi / lunedì di intensa macellazione. / Una vacca ha partorito un vitello / negli occhi la paura di nascere / il foro in mezzo il nostro contributo / a tranquillizzarlo», «Dalla vasca d’acqua bollente / emerge un enorme maiale / bianco come uno spettro / che oscilla impudico fino a quando / dal finestrone il sole / accende quintali di luce», «Lo stanzino in fondo allo spogliatoio / è detto delle seghe / affisse a tre pareti foto di donne / dalla vagina glabra / nell’altra il manifesto di una vacca / che svela con differenti colori / i suoi tagli prelibati».

Qui potremmo citare il grande quadro dipinto da Annibale Carracci nel 1585, ed esposto ad Oxford nella Christ Church Gallery, Bottega del macellaio, in cui alcuni lavoranti si applicano a operazioni diverse. In basso, un giovane sta per sezionare un capretto, un altro appende mezzo bue a un gancio, un terzo sistema la carne sul bancone, un quarto con un grembiule bianco sorregge la bilancia, mentre carcasse penzolano dall’alto e ritagli di carne danno mostra di sé sul piano inclinato, in un contrasto coloristico di rossi, bianchi, neri. Carracci, che spesso amava riprodurre figure umili di popolani (cfr. Il mangiafagioli) si era ispirato al lavoro di uno zio, il cui negozio gli aveva offerto materiali di studio, e in misura maggiore alla pittura fiamminga di genere, che presentava scene di cucina o di bottega. Inoltre aveva svolto un breve apprendistato presso Bartolomeo Passerotti, il quale, dipingendo frequentemente interni domestici o di lavoro, ritrasse negli stessi anni una Macelleria in cui due omacci ostentano pose grottesche e triviali, con un intento derisorio del tutto assente in Carracci, più interessato invece a rendere con realismo e verosimiglianza documentaristica le attività lavorative svolte.

Infine, agghiacciante beccaio-carnefice è quello che Sándor Márai (Košice 1900) descrisse nel racconto che segnò il suo esordio come narratore nel 1924, e che ora Adelphi ripropone nella traduzione di Laura Sgarioto. Il protagonista Otto Schwarz era nato a fine ’800 in una cittadina poco distante da Berlino, figlio di un rude sellaio protestante e di una donnina timorosa e mesta. Concepito nella notte in cui i suoi genitori avevano assistito terrorizzati a un tragico incidente in un circo, nato di dieci mesi, di sei chili e già con i denti, aveva nella violenza del parto ucciso la madre, ipotecando in questo modo il suo futuro destino di massacratore. La vocazione sadica alla macellazione gli era sorta già nella prima infanzia, assistendo all’uccisione di una mucca, poi replicata come un rito nei suoi giochi perversi di bambino: «L’istante in cui vide balenare la scure e subito dopo l’animale stramazzare a terra, senza emettere alcun suono e senza dibattersi, si impresse in lui come il ricordo di una sorta di gioia trionfale… Stava vicino alla carcassa e osservò con occhi ardenti come le si avventavano sul collo con seghe e coltelli: il sangue sgorgò in un fiotto abbondante, le interiora schizzarono fuori dalle costole, e di lì a poco la testa del bovino, tranciata rozzamente via dal corpo, giacque accanto al tronco». Divenuto adulto, Otto riesce a esaudire il suo sogno, e viene assunto nel mattatoio centrale di Berlino. Le due pagine che Márai dedica alla prima visita del giovane in questo edificio, sono di un’esemplare concisione e pacatezza nel loro astenersi da qualsiasi considerazione moraleggiante, consapevoli che la pura descrizione dell’ambiente non necessita di alcun artificioso commento letterario: «In angusti box, da cui provenivano i muggiti terrorizzati delle bestie, sordi schianti e imprecazioni, e il sangue fluiva in rigagnoli densi e neri attraverso scanalature praticate nel pavimento, stavano giovanotti dal volto imbrattato di sangue fino all’attaccatura dei capelli, con lunghi stivali che arrivavano all’inguine come quelli dei pescatori, grembiuli sudici e insanguinati e le maniche rimboccate, alcuni dei quali segavano in due lungo la colonna vertebrale gigantesche carcasse appese al soffitto, mentre altri recidevano con coltelli ricurvi la gola di ovini collocati su cavalletti di legno senza badare al copioso fiotto di sangue che schizzava loro in faccia, o strappavano le pelli dalle carni fumanti nello stesso modo in cui si sbuccia un frutto. Davanti all’ingresso dei box i garzoni lavavano le interiora, e il tanfo asfissiante del sangue, della carne fumigante, delle budella putrescenti e degli escrementi colpiva chi entrava, a meno che non vi fosse avvezzo, come qualcosa di tangibile. Si udiva fragore di ossa spezzate, e ovunque si volgesse lo sguardo si vedevano balenare le scuri e gli animali crollare al suolo con le zampe puntate dritte verso l’alto; di tanto in tanto qualche muggito turbava il ritmo monotono del lavoro. La scena meccanica e ufficiale dell’uccisione era in stridente contrasto con la frotta spaurita di coloro che stavano là a guardare, per lo più vecchi e vecchie che si aggiravano davanti ai box con in mano scodelle e pentole: i derelitti e gli emarginati della metropoli che con l’umile e patetico scintillio della fame negli occhi cercavano di carpire uno sguardo compassionevole dei garzoni macellai, sgomitavano con foga bestiale per afferrare le interiora e gli scarti di carne che cadevano qua e là. Vi erano anche vecchie vestite di stracci che si appostavano nel cortiletto che dai recinti conduceva ai box, e attraverso il quale venivano sospinti i bovini destinati alla macellazione, per poter acciuffare una vacca macilenta che, mentre la bestia percorreva il suo ultimo tragitto, mungevano in tutta fretta con il tacito assenso dei bovari. Si spintonavano strillando per poche gocce di latte, e nei loro gesti c’era qualcosa della furia dei rapaci necrofagi».

Otto non tradisce nessuna emozione di fronte al dolore degli animali e degli uomini, e mantiene la stessa imperturbabile indifferenza in tutti i suoi rapporti con il mondo circostante: con le donne che frequenta, con le rare amicizie, con gli avvenimenti storici che stanno conducendo il suo paese nel baratro della prima guerra mondiale; dimostra un’unica sensibilità nei confronti della figura del Kaiser, che ai suoi occhi incarna l’ideale di autorevole e superiore dominio su tutto l’universo animato. Non appena riesce ad aprire un negozio in proprio, viene richiamato alle armi, e inviato sul fronte serbo.

La maestria narrativa di Sándor Márai si esprime nella geniale invenzione di posticipare gli avvenimenti che condussero il protagonista alla perdizione, annunciandone invece in anticipo la soluzione finale e fatale, in modo che il lettore scopra da solo e lentamente l’abiezione assoluta del personaggio. Sia che tratti con bestie o con esseri umani, Otto Schwarz incarna il prototipo della violenza bruta, illogica e irresponsabile, compiuta con una gratuità quasi fanciullesca, seguendo il richiamo tribale del sangue. In guerra, mentre striscia nel fango delle trincee, scopre il riscatto dallo stato di avvilimento animalesco in cui è ridotto, solo durante gli attacchi corpo a corpo con il nemico: «’Io sono un macellaio», pensò, emozionato per l’improvvisa illuminazione «anche questo accanto a me è un macellaio, siamo tutti macellai, e bisogna aprire la pancia alle bestie con il coltello’. Macellaio-coltello-pancia. In quell’attimo la sua vita acquistò un senso. Aprire la pancia alle bestie, pensò entusiasta, bisogna aprire la pancia a tutti quanti per… e qui si interruppe un istante… per la patria. Poco dopo si corresse: per la patria e per l’imperatore». Sarà proprio l’idolatrato imperatore a decorarlo per i suoi atti di eroismo, promuovendolo di grado («Hai fatto bene il tuo dovere, figliolo»); lo stato di esaltazione che gli deriva da tale riconoscimento ufficiale, lo spinge a guidare spietati assalti in rappresaglie e spedizioni punitive contro innocui abitanti di villaggi sperduti nelle retrovie. Tornato a Berlino, il sergente Otto Schwarz si ritrova svuotato e incapace di riprendere le abitudini di normale cittadino, e viene travolto da un rancore profondo verso la vita imbelle e improduttiva che è costretto a condurre. Le pratiche autodistruttive e i vizi a cui si abbandona lo portano inevitabilmente a sprofondare in un baratro di colpa, follia e morte.

Forse Sándor Márai non si rese conto, scrivendo questo tragico racconto quasi un secolo fa, di aver offerto un fondamentale contributo a due importanti ideali etici: il pacifismo e il vegetarianismo.

 

© Riproduzione riservata      «Il Pickwick», 12 aprile 2019

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

MAESTRI

FERLINGHETTI

IL MONDO È UN GRAN BEL POSTO PER NASCERCI

Il mondo è un gran bel posto per nascerci,
se non date importanza alla felicità
che non è sempre
tutto questo spasso
se non date importanza a una punta d’inferno
qua e là
proprio quando tutto va bene
perchè anche in paradiso
non è che cantino
tutti i momenti.
Il mondo è un gran bel posto
per nascerci
se non date importanza alla gente che muore
continuamente o è soltando affamata
per un pò
che in fondo poi fa male la metà
se non si tratta di voi.
Oh il mondo è un gran bel posto
per nascerci
se non vi state troppo a preoccupare
di qualche cervello morto
su ai posti di comando
o di una bomba o due
di tanto in tanto
contro le vostre facce voltate
o di simili contrattempi
cui va soggetta la nostra
società di Gran Marca
con i suoi uomini che si distinguono
e i suoi uomini che estinguono
e i suoi preti
e altri scherani
e con le varie segregazioni
e congressuali investigazioni
e altre costipazioni
che sono il retaggio
della nostra carne demente.
Si il mondo è il posto piu’ bello del mondo
per un sacco di cose come
fare la pantomima della farsa
e fare la pantomima dell’amore
e fare la pantomima della tristezza
e cantare in sordina d’amore e avere ispirazioni
e andare a zonzo
guardando tutto
e odorando fiori
toccando il culo alle statue
e persino pensando
e baciando la gente e
facendo figli portando pantaloni
e agitando cappelli e
ballando
e andando a bagnarsi nei fiumi
a fare dei pic-nic
in piena estate
o solo genericamente
«godendosi la vita»

ma poi proprio in mezzo a tutto quanto
arriva sorridente il
beccamorto.

 

Lawrence Ferlinghetti (1919-2021)

RECENSIONI

NOOTEBOOM

CEES NOOTEBOOM, L’OCCHIO DEL MONACO – EINAUDI, TORINO 2019

Nel 2016 Einaudi ha pubblicato un’antologia delle raccolte poetiche di Cees Nooteboom, scrittore olandese (L’Aja, 1933) di cui sono stati tradotti in Italia diversi romanzi, racconti e reportage di viaggio. Quest’anno è uscito un suo nuovo volume di versi, L’occhio del monaco, sempre per l’editore torinese, con l’attenta versione di Fulvio Ferrari. Si tratta di 33 composizioni in forma chiusa, di tre quartine caudate, in cui la coda è costituita da un emistichio reso perlopiù in italiano in settenario o in quinario. Secondo la nota conclusiva dell’autore, le poesie – scritte tra il dicembre 2015 e l’aprile 2016 – traggono ispirazione da esperienze oniriche o visionarie vissute nell’isola frisona di Schiermonnikoog, letteralmente “isola del monaci grigi”, nome derivatole dall’abbazia cistercense lì edificata nel medioevo.

Sono versi sospesi in una fredda atmosfera nordica, pregna di silenzio e solitudine, sullo sfondo di bianche sabbie sottili, correnti marine agitate, venti gelidi, pioggia sferzante. Nelle sere illuminate dalla luce del faro, o nelle albe gelide, uniche presenze di vita sono i gabbiani lamentosi, le funeree cornacchie, le martore zampettanti tra le dune.  Altrimenti, sono i fantasmi del passato che tornano ad assediare, benevoli o minacciosi, la memoria del poeta, rinfocolando rimpianti, sensi di colpa, nostalgie: i genitori, i fratelli, la prima donna amata: «Qui incontro chiunque, demoni di altre / vite, animali d’un blasone dimenticato, / donne in forma di leone, unicorni, / maiali in maschera… // Così tutto ritorna», «lo stridio d’un primo desiderio, / disperso e frantumato contro una quantità / di anni, il cardo del non voler dimenticare, / portami con te, portami con te, // ma dove?», «Perché non ci lasciano in pace, i morti?».

I sogni, confusi con la realtà quotidiana di giornate vuote, nel paesaggio di un’isola concreta che diventa archetipica, conducono con sé messaggeri di un’aldilà irraggiungibile: un «dio faticoso» seduto sul bordo del letto, «sei angeli con ali stanche», un oscuro monaco cechoviano, filosofi greci dialoganti di argomenti etici, Paul Valery che interroga Leonardo da Vinci sull’esistenza dell’anima. Quesiti eterni su cui Nooteboom sembra accanirsi, in un’esplorazione assidua del perché dell’esistere, o nell’indagine tormentante sull’essenza della poesia, sul dovere testimoniale della parola («Quando comincia un mottetto, / una poesia, una luce che appare senza fonte? / Chi pensa un primo verso prima di pensare?»). Incubi e fantasie si alternano a riflessioni meditative, stimolate quasi dall’assenza di suoni e dal vuoto di figure umane dell’ambiente, di cui il poeta sa sottolineare con acuta sensibilità il fascino segreto e impalpabile: «Nubi di zinco, casematte d’acqua, grigie, / vaganti alla luce del pomeriggio, rumore d’onde», «non dune, ma rocce, / nere, piante con uncini e denti, capaci di bere la pietra aggrappate alla sabbia», «Vento, la prima luce, / il mattino pieno di chiacchiere di uccelli, cannaiole, / avocette, // svassi, una lingua che non parlo, che ascolto». Proprio alla quiete secolare dell’isola grigia, Cees Nooteboom pare voler chiedere il velo di nebbia clemente «che tutto nasconde», affinché ogni cosa torni «in ordine», «a posto», offrendo finalmente una risposta a chi da tanto tempo la sta cercando.

 

© Riproduzione riservata
«Il Pickwick», 3 aprile 2019, «L’Indice dei libri del mese» n.5, maggio 2019

 

 

 

 

 

 

RECENSIONI

CAMPANA

NADIA CAMPANA, VISIONE POSTUMA – VERSO LA MENTE, RAFFAELLI EDITORE, RIMINI 2014

Di Nadia Campana (Cesena,1954Milano,1985) l’editore riminese Raffaelli ha pubblicato nel 2014 due volumi: Visione postuma e Verso la mente. Il primo (curato da Milo De Angelis, Emi Rabuffetti e Giovanni Turci) raccoglie testi critici rimasti a lungo inediti, talvolta incompleti o allo stato di abbozzo: registrando gli interessi letterari della poetessa romagnola, essi rivelano la sua ricettiva empatia soprattutto nei riguardi della scrittura femminile. Infatti, se le brevi recensioni finali sono dedicate ad alcune letture, spettacoli teatrali ed esperienze didattiche compiute negli anni ’80, è soprattutto nei saggi iniziali che si esprime la sua straordinaria competenza critica nei riguardi della parola poetica delle donne.

Se per poesia si deve intendere (come afferma nel testo che dà il titolo al libro, Visione postuma) il discrimine “tra mondo interpretato e assenza del mondo”, comprensione del caos da trattenere in “una misura stretta”, conoscenza che aumenta “il dolore come esercizio” con “furibondi attacchi di malinconia”, e infine “sfracellamento contro gli scogli del quotidiano”, è specificamente nella scrittura femminile che Nadia avverte la possibilità originaria di un’autoesclusione, non solo dalla vita concreta, ma addirittura dal proprio corpo, per una sorta di dissoluzione del desiderio quando questo si scontra con la banalità del reale, e produce stanchezza, “voglia di essere inerti… precoce invecchiamento”.

Nei due testi dedicati a Emily Dickinson, di rara perspicacia interpretativa e introspezione psicologica, si mette in luce essenzialmente la rivoluzione linguistica effettuata dalla poetessa americana, la sua invenzione di un nuovo inglese, di una inedita sintassi espressa nell’utilizzo della concisione, di un ritmo musicale rapido, e di elementi linguistici inediti, che Nadia Campana da esperta traduttrice ben sapeva individuare (predilezione del congiuntivo, arcaismi, tecnicismi, voci dialettali, accelerazioni e pause, soppressione di congiunzioni-pronomi-ausiliari, sostantivazione del verbo, scambio soggetto-oggetto, fusione di metri diversi, sostituzione della punteggiatura con la lineetta…). Una rivoluzione linguistica pagata dalla Dickinson con la sua eccentricità rispetto al mondo, con la devianza dai valori comunemente accettati nel puritanesimo ottocentesco del New England. “La sua goffaggine svela l’estraneità al commercio mondano e una sordità a ogni luogo comune. Ella rifiuta di sostenere la funzione di civiltà che alle donne è sempre stata affidata: quella di seguire le inclinazioni emotive, le regole amorose e cosiddette naturali… sceglie di essere un’asceta”. Orgogliosa della propria “posizione di monade, l’unica cosa che la salda alla storia è la parola”, intuita come luogo di indipendenza e di pace, di autonomia differenziante, di consapevole ribellione alla vacuità della chiacchiera invadente. Una poesia, quella dickinsoniana, lontana dalla fisicità dei fatti, dalla fenomenicità, dal fascino dell’incontro partecipato con gli altri, e invece tutta protesa verso la vertigine della riflessione, dell’intelligenza delle cose, nella conquista di significati cruciali capaci di oltrepassare psicologia e morale: “La scrittura al posto del corpo, un pezzo di carta al posto di un’emozione toccabile, mostrata”. Nadia Campana polemizza violentemente contro una critica votata al pettegolezzo, tendente a ridurre Emily Dickinson alla sua biografia, e a descriverla come “una figuretta inerme, schiacciata sotto il peso di una vita vuota, di una nevrosi che la costringeva nella sua cameretta a rimuginare e a rifiutare in contatto col mondo se non attraverso bigliettini fatti passare sotto la porta”. Tale meschinità da rotocalco si intromette nelle vite private in modo ammiccante e indiscreto, insinuando che la verità di un poeta vada cercata al di fuori della sua poesia. “Il mito di un poeta-donna spesso finisce col far passare in secondo piano i valori letterari e l’indagine critica si risolve in una ricerca di disastri emotivi di cui la poesia non sarebbe che una citazione”.

Quale disastro emotivo avrebbe allora portato un’altra grande artista, Marina Cvetaeva, al suicidio? In due saggi Nadia esplora ‒ con un’immedesimazione quasi presaga della propria drammatica scelta finale ‒ il dolore e l’amore che hanno animato e reso eterni i versi della poetessa russa, nella cui morte volontaria sembra iscritto il destino ineluttabile di chi si getta “contro le cose, fuori dall’adeguamento e dalla registrazione, per toccarle con l’incandescenza”. La dedizione generosa e appassionata con cui Marina Cvetaeva interiorizzava ogni altro da sé aveva qualcosa della sacralità del sacrificio, dell’abnegazione di un’offerta che sa annullarsi, non essendo più desiderio o possesso, ma tenerezza, affetto, fratellanza, sym-patheia priva di qualsiasi opacità. “La sua scrittura, come la figura tragica del saltimbanco di Zarathustra, compie un ultimo volteggio nel vuoto, come un ultimo dono, senza richiesta di contraccambio né tantomeno di ammirazione o pietà. È già oltre, nel territorio puro dell’aria che le darà nuovamente la forza di uscire dalla deriva del mondo privato e di abbandonarsi a una forza sorgiva”. Forse non è improprio ricordare che Nadia Campana scelse anche lei, il 6 giugno del 1985, un salto nel vuoto, cercando l’infinito.  E sul tema del suicidio, proprio in questi due testi si sofferma con parole che hanno la durezza e la trasparenza del quarzo: “Il suicidio è l’atto di cancellazione del passato, quando il ricordo non si dà se non sotto le forme del fallimento e della stanchezza. C’è una stanchezza anche dell’essere tristi: allora il racconto della sofferenza non trova più dichiarazioni d’amore, fiabe, immagini, se non quella della migrazione nel più puro territorio dell’anima. L’itinerario della mente alla perfezione si svolge ora nella fuga verso la dimora di ciò che non ha forma, di ciò che è semplicemente schiarito e che non deve più misurare il peso dell’avvilimento. Là tutto può essere perfetto, bello, elevato. L’immaginazione non incontrerà alcun ostacolo e il sogno sarà onnipotente e senza difetto”. Nostalgia di un passato irrecuperabile, malinconia per un futuro che si teme, logoramento del presente, estraneità alla “mascherata” del mondo. Cvetaeva nel suo biglietto di addio scrisse: “Come si dice, / l’incidente è chiuso. //… Con la vita ora sono pari”.

Nadia Campana in una poesia sembra farle eco: “Avendo già avuto a che fare / con la resa, scelgo / le processioni del riposo”. La sua produzione poetica, quantitativamente esigua, è stata raccolta, con un’interessante introduzione di Milo De Angelis, in Verso la mente; qui si ribadiscono sia l’esigenza di un lavoro assiduo di rinnovamento del linguaggio, sia il continuo richiamo alla morte, temi presenti anche nei saggi critici che abbiamo esaminato (“già veduto già rotolato / già rimandato il corpo sospeso / tra le rocce lacerato”, “è il tempo di arrendersi al contagio / covato dalle solitudini / disarmarsi per le ferite”). Stilisticamente, questi versi franti e fortemente caratterizzati da simbologie, possono ricordare lo sperimentalismo di Amelia Rosselli, le invenzioni lessicali di Antonio Porta, l’autobiografismo scomposto di Sylvia Plath o di Anne Sexton: “poesia del contrasto”, la definisce De Angelis, perché nei temi si alternano caldo e freddo, nero e bianco, esuberanza e tristezza, sogno e verità, mito e cronaca familiare. Affiorano qua e là colori vivaci, campi assolati, acque di torrenti e mari, uccelli e altri animali, presenze giovani e vocianti; eppure ogni immagine ritorna quasi strozzata da un’invincibile angoscia, un’implacabile e minacciosa inquietudine.

Sempre ricompare quindi l’aspirazione al tiepido riparo di un approdo, all’affettuosità di un abbraccio protettivo: forse quello del padre, perduto nell’adolescenza per un incidente sul lavoro, o quello di un “eroe mattutino e chiaro”: “Per te, io ti, io te sono / che mi contiene nel tremante ricorso / del tuo silenzio vienimi incontro / orizzonte e allarga esso”, “l’estate occupa tutto lo spazio / come te / e lì io ti chiuderò”, “io vengo a farmi in te / vuoto fedele”, “pregavi le cose che davo / se volevo bere / le gobbe dell’oceano / si rifugiavano sotto le tue braccia / quando il sole se ne andò mi nascondesti”. In una delle ultime composizioni antologizzate, la previsione luttuosa si fa infine scongiuro e preghiera: “il più lento morire dei pulviscoli / capogiro / che occupa molto / mi sento sparire continua / i fianchi trionfano in gara / balzano contro i fondi inermi / nella fretta / neve giovane e sonno resta / dicono scendi mitezza / venissi a temperare la sete”.

I due ritratti fotografici nelle quarte di copertina (entrambi di Giovanni Turci, curatore dei volumi) ci mostrano una Nadia bella e dolce, con i capelli scuri a caschetto e la frangia che le copre la fronte, un pullover a collo alto e una lunga collana bianca. Nella foto più intensa, la giovane donna guarda l’obiettivo con un sorriso sospeso tra timidezza e ironia, quasi rivolgendosi a noi lettori per chiederci: “Avete capito qualcosa del mistero della poesia e della vita? E di me, avete capito qualcosa?”

 

© Riproduzione riservata                    «Nazione Indiana», 3 aprile 2019

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

RECENSIONI

TANIZAKI

JUNICHIRO TANIZAKI, LA GATTA – BOMPIANI, MILANO 2018

Junichiro Tanizaki (1886-1965) pubblicò questo lungo e giustamente celebrato racconto nel 1936. Tutto compreso all’interno di una casa e di stretti rapporti familiari, è giocato sulle sottili seduzioni e vendette psicologiche che si scatenano tra i quattro protagonisti umani (il pingue e mellifluo Shōzō, proprietario trentenne di un negozio di casalinghi; sua madre O-Rin, che ancora lo domina e sorveglia; la prima moglie Shinako, rancorosa per essere stata ripudiata e sostituita; la nuova moglie Fukuko, volubile e isterica) e il personaggio principe: la splendida e viziatissima gatta Lily. Shōzō la adora, la coccola, si lascia graffiare e tormentare in ogni modo, le permette di dormire nel suo letto, si toglie dalla bocca i pesciolini cucinati dalla mogliettina per regalarli alla micia. Non sopporta l’idea di separarsi da lei, che invece è quanto gli chiedono, con motivazioni diverse, tutt’e tre le donne della sua vita.

La madre O-Rin utilizza Lily come arma per attaccare le due nuore o per rimproverare al figlio i suoi molti difetti, la prima moglie Shinako dopo il divorzio ne reclama il possesso sperando così che l’ex-marito le si riavvicini per amore dell’animale, Fukuko la odia perché non ne sopporta gli odori, i peli, il vomito, e soprattutto è furiosa per l’interesse e le attenzioni che il suo sposo le dedica. Ma Shōzō, che l’aveva accolta in casa ventenne e dopo dieci anni ne rimane più innamorato che mai, non tollera l’ipotesi di allontanarla da sé, e le permette qualsiasi capriccio, incoraggiandola con eccessive e morbose abitudini confidenziali. Quando Shinako riesce ad avere in custodia la gatta, sottraendola al marito, nasce una specie di guerra tra i due ex-coniugi, fatta di gelosie, appostamenti e dispetti reciproci, quasi si trattasse di contendersi un figlio

Il grande merito di Tanizaki in questo racconto risiede nella sua straordinaria capacità di scrutare e portare alla luce i grovigli e le contraddizioni della psiche dei protagonisti, e ancora di più nel tratteggiare con affettuosa complicità i comportamenti della gatta, sia nell’istinto naturale che la anima, sia negli atteggiamenti quasi umani assunti nel corso della narrazione. Ad esempio, la pagina in cui viene narrato il primo parto di Lily, la sua paura della sofferenza, le mute richieste di aiuto al padrone, meriterebbe di essere inserita in un manuale di etologia felina. Così come la descrizione delle moine ruffianesche con cui la micia tenta di sedurre le persone per ricavarne qualche profitto, in termini di cibo o di carezze. L’attenzione e la cura con cui l’autore descrive sia la fisicità sia la psicologia di Lily, rivela non solo la sua profonda conoscenza e il suo amore personale per i gatti, ma anche la considerazione in cui la cultura giapponese ha tradizionalmente tenuto questi animali, per la loro particolare intelligenza e misteriosa sensibilità.

 

© Riproduzione riservata     

https://www.sololibri.net/La-gatta-Tanizaki.html             25 marzo 2019

 

RECENSIONI

AAVV – ANTOLOGIA DI POESIA FEMMINILE AMERICANA CONTEMPORANEA

AAVV, ANTOLOGIA DI POESIA FEMMINILE AMERICANA CONTEMPORANEA – ENSEMBLE, ROMA 2018

Con la traduzione di Alessandra Bava, è uscita presso l’editore romano Ensemble una interessante Antologia di poesia femminile americana contemporanea, che raccoglie testi di 13 poetesse, alcune delle quali già pubblicate in Italia in riviste e blog letterari, vincitrici di importanti premi e molto presenti online, altre più defilate o dissidenti. La scelta della curatrice ha inteso rappresentare voci e stili provenienti da diverse etnie e zone geografiche degli Usa (dalla costa occidentale alla California), accomunati tuttavia dallo stesso background culturale, fondato sulla poetica di Emily Dickinson, Walt Withman e Sylvia Plath, sulla musica jazz, blues, country e rock del ’900, sulle esperienze di tutta l’arte visiva moderna: pittura, cinema, fotografia, televisione.

Il taglio dell’antologia è ovviamente femminile, nel senso che dà rilievo a contenuti relativi alla fisicità della donna, spesso negata quando non addirittura offesa nella pratica e nell’immaginario maschile, oppure a temi politico-sociali che riguardino direttamente “l’altra metà del cielo”. Il corpo, molto presente nelle composizioni antologizzate, viene raccontato poeticamente nelle sue varie età, e nei momenti topici della nascita e della morte, della maternità e della vecchiaia, del desiderio e del rifiuto sessuale. Sono presenti anche motivi di grande interesse collettivo: dagli scandali di costume, alla violenza sui bambini, al razzismo. Ci sono versi erotici e religiosi, altri che traggono ispirazione dalla storia, dal mito o dalle favole, dalla scienza o dalla fantascienza. Lo sfondo su cui si muovono le immagini poetiche è prevalentemente quello domestico, interno a spazi privilegiati della casa: la cucina, in modo particolare. Ma non mancano richiami alla natura, in genere ritratta in ambienti di rasserenante armonia (laghi, fiumi, campagna).

Nell’introduzione, Maria Adelaide Basile presenta singolarmente le tredici autrici, segnalando i caratteri fondamentali della loro scrittura, e le opere che meglio le definiscono. Così, di Francesca Bell si cita la poesia più scandalosa e provocatoria (I Long to Hold the Poetry Editor’s in my Hand), insieme a quella piena d’affetto per la madre sorda. Maggie Smith è presente con tre testi dedicati alla relazione madre-figli, Alexis Rhone Fancher accenna a rapporti sado-maso o richiama lo sperimentalismo futurista, Diane Seuss recupera ricordi biografici e letterari (commovente il suo ritratto della Plath), Patricia Smith offre ricette culinarie o dichiara riconoscenza alla voce  – corposa e spirituale insieme – di Aretha Franklin, Wendy Xu esprime lo straniamento di chi proviene da una cultura e da una lingua differente, in grado di arricchire con originalità l’esperienza compositiva.

Tutte le tredici poetesse rappresentate (13 come le righe della bandiera americana, fa notare Alessandra Bava) manifestano nella loro produzione una evidente propensione all’utilizzo orale, vocale, recitativo della parola poetica, preferendo all’accademismo la frequentazione dei festival, dei social network, delle gare di slam-poetry, in un confronto diretto e coinvolgente con il pubblico. La specificità di questa antologia, la prima – con testo inglese a fronte – dedicata all’universo poetico femminile contemporaneo, arriva a colmare un vuoto negli studi italiani di americanistica.

 

© Riproduzione riservata   https://www.sololibri.net/Antologia-di-poesia-femminile-americana- contemporanea-vari.html   21 marzo 2019

RECENSIONI

JEAN-PIERRE VERNANT

JEAN-PIERRE VERNANT, LE ORIGINI DEL PENSIERO GRECO ‒ SE, MILANO 2019

Jean-Pierre Vernant (1914-2007), storico della filosofia e delle religioni, si è occupato in modo particolare della mitologia nel mondo antico. Fu autore di un libro-cult quale Mito e pensiero presso i greci (Einaudi, 1978), in cui utilizzava gli strumenti della psicologia e dell’antropologia per esplorare l’evoluzione dell’uomo arcaico da una cultura mitologica-religiosa a una più politica, scientifica e filosofica, nel percorso che condusse il pensiero dei greci dal soprannaturale-magico alla scoperta della razionalità.

Nel volume scritto nel 1962 e appena riedito dalle edizioni milanesi SE, Le origini del pensiero greco, Vernant indaga settecento anni di storia ellenica, dal dodicesimo al quinto secolo, cioè dal crollo dei regni micenei determinato dall’invasione dei Dori, fino all’apogeo della civiltà ateniese. Nei tre capitoli iniziali del volume ricostruisce il quadro storico della civiltà micenea, fiorita tra il 1500 e il 1100 a. C.. In questo periodo di massima operosità, i micenei apparivano strettamente associati alle genti del Mediterraneo orientale, con vivaci scambi culturali e commerciali con il mondo asiatico. La vita sociale era accentrata attorno al palazzo del re (anax), che praticava un controllo rigoroso sulla popolazione, appoggiato da un’aristocrazia bellicosa, ed esercitava un dominio assoluto, impedendo di fatto qualsiasi autonomia non solo dei sudditi, ma anche dei dignitari e dei funzionari di corte. Tutto il sistema di potere si fondava sulla scrittura e la costituzione di archivi, organizzati da scribi cretesi passati al servizio delle dinastie micenee, che avevano trasformato la scrittura “lineare A” usata nel palazzo di Cnosso, adattandola al dialetto dei nuovi signori (lineare B). Tale grafia, decifrata da due archeologi inglesi solo intorno al 1950, rimase patrimonio di cerchie intellettuali rigidamente chiuse, che fornirono al sistema palazziale le tecniche e i quadri dell’amministrazione e dell’erario.

Con l’invasione dorica, si ruppero i legami con l’Oriente, provocando la conseguente diminuzione degli scambi commerciali e il ritorno a un’economia di sussistenza: scomparvero scrittura e architettura, e dal 1200 all’800 (il cosiddetto Medioevo ellenico o età oscura) la Grecia conobbe un periodo di totale depauperamento culturale, economico e istituzionale. Il graduale passaggio all’epoca dei poemi omerici e delle città-stato (poleis), fu segnato da una progressiva perdita di mistero nel rapporto tra gli uomini e le divinità, da una laicizzazione dell’autorità regale, da un cambiamento nelle usanze funerarie (con la rinuncia all’inumazione in favore della cremazione), da una stilizzazione dell’arte ceramica. Vernant situa proprio a partire dall’VIII secolo la separazione tra il mondo dei mortali e quello degli dei, sancito poi dalla poesia epica, che diede avvio a un effettivo affrancamento dal mito.

Fu soprattutto l’apparizione delle poleis a comportare un reale mutamento nella vita e nella cultura della Grecia, trasformando la vita sociale e le relazioni tra i cittadini. La parola, la discussione libera, il confronto dialettico diventano fondamentale strumento politico di democrazia; la cultura e il possesso di conoscenze specifiche si rendono fruibili per un numero sempre più vasto di uomini, anche grazie alla scrittura con cui si redigono leggi, si divulgano nuove idee e scoperte tecniche, si sottopongono a critica e interpretazioni diverse anche le funzioni religiose. Persino l’organizzazione militare si modifica, celebrando non solo l’eroismo individuale, bensì lo spirito di sacrificio e obbedienza nel combattimento collettivo. In particolare tre innovazioni teoriche, nate nella colonia di Mileto, in Asia Minore, nel VI secolo, segnano il passaggio dal pensiero mitico a quello scientifico: il carattere profano e positivo (non più sacro-rituale) assegnato ai fenomeni naturali, l’idea di un cosmo ordinato che obbedisce a leggi di regolarità, e infine la visione geometrica delle scienze allora conosciute (astronomia, geografia), collegate tra loro da relazioni simmetriche. Tali caratteristiche costituiscono la grande novità che differenzia la nuova cultura della Grecia rispetto a quella passata o del Vicino Oriente. L’analisi di Jean-Pierre Vernant ci conduce progressivamente a individuare i momenti nodali che portarono i greci a modificare la loro condotta morale, il loro universo mentale, i rapporti sociali e le basi dell’economia, dando infine origine al pensiero occidentale moderno.

 

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https://www.sololibri.net/Le-origini-del-pensiero-greco-Vernant.html      18 marzo 2019

 

 

RECENSIONI

DE PISIS

FILIPPO DE PISIS, ADAMO O DELL’ELEGANZA – ABSCONDITA, MILANO 2019

In questo “libretto innocuo e gentile” Filippo De Pisis chiarisce cosa si debba intendere per eleganza, soffermandosi in particolare su quella maschile. Per una estetica nel vestire, recita il sottotitolo: quindi eleganza non solo nella gestualità, nella conversazione, nella maniera di rapportarsi agli altri, ma soprattutto nell’abbigliamento. L’autore non teme la facile critica di chi volesse accusarlo di futilità o frivolezza, e nella premessa difende con forza la propria convinzione che qualunque argomento “sia egualmente leggero e profondo a seconda del modo in cui viene trattato”. L’abito fa il monaco, e “l’esteriore influisce più di quanto qualcuno potrebbe credere sull’interiore”. D’altra parte, già Omero nel VI libro dell’Odissea scriveva che in conseguenza dei bei vestiti “eccellente fama si sparge tra gli uomini”.

“L’eleganza vera (come ogni opera fine dello spirito!) è una cosa profonda e capziosa e perciò non può essere apprezzata che dai giudici competenti, i quali non possono essere che pochi. Il senso del colore (che à gran parte in essa!) non è cosa certo degli spiriti piatti o superficiali e che si acquisti così da un giorno all’altro. Ma non basta: l’eleganza deriva da un complesso di cose, è fatta di sapienza e di grazia, di armonia e di squisitezza, di distinzione e di semplicità, ed è cosa che sopra tutto deriva dalla razza. Difficilmente si regge la raffinatezza esteriore senza quella interiore. Anche dall’esteriore lustrato, con un certo garbo o con una certa astuzia, trapela subito la rozzezza e l’impaccio”. Affermazioni che indicano un’evidente propensione all’elitarismo, all’esclusività del privilegio orgogliosamente rivendicato come diritto degli happy few.

Con palese dispregio vengono bollate le eccentricità e le ostentazioni, la mancanza di gusto negli accostamenti dei colori, la scarsa cura nella scelta degli accessori, la pacchianeria di una ricercatezza esibita. Dallo studio discreto dei particolari si riconosce il vero signore: l’eleganza richiede personalità e dedizione continua, preparazione e non dilettantismo. Eppure, l’amore gratuito per la bellezza lo si può trovare anche nello straccione che infila una rosa appassita all’occhiello della giacca, nella suora di clausura che stira meticolosamente la sua tunica per far sparire le odiose spiegazzature, nell’innamorato indeciso sulla camicia da indossare per conquistare una ragazza… In una trentina di capitoletti, De Pisis, perfetto arbiter elegantiarum (come veniva chiamato Petronio alla corte di Nerone), indica quali siano i capi di vestiario cui gli uomini debbano prestare più attenzione, e la maniera più opportuna di indossarli: dalle cravatte ai cappelli, dalle scarpe ai foulard, dalle spille alle tute da lavoro. E la galleria fotografica offerta al lettore (come in ogni volume intelligentemente curato dalle edizioni Abscondita) ci mostra un De Pisis  “in posa”, dagli anni giovanili alla maturità, in atteggiamento da squisito dandy, oppure con travestimenti seriamente giocosi (da umanista, da gondoliere, da carrettiere romano: a Parigi, a Venezia, a Ferrara, a Cortina, nella capitale): sempre concentrato sull’esposizione all’occhio fotografico, in un’ideale sfilata di moda con sé stesso come unico protagonista. Risulta evidente e mai rinnegata l’aristocraticità della persona, il proprio amor sui, l’impegno costante nella costruzione del personaggio pubblico: “candido reazionario”, come lo definì Paolo Milano, non faceva mistero di ispirarsi a Oscar Wilde, suo modello di vita e di pensiero.

Filippo De Pisis, pittore tra i più noti del nostro Novecento, nacque a Ferrara nel 1896, e morì in provincia di Milano a sessant’anni. Laureatosi in lettere a Bologna, fu scrittore e poeta, critico d’arte e saggista, anche se la sua fama maggiore gli derivò ovviamente dalla pittura, inizialmente di impianto metafisico sulle orme di De Chirico, quindi più originalmente orientata verso una poetica di sottile sensualità, accentuata da un’acuta sensibilità descrittiva: l’amicizia parigina con Julius Evola lo portò ad approfondire interessi esoterici che trasferì nel suo tratto artistico, con un uso più gestuale e spezzato del colore, evidente nella scelta di tutti i soggetti: nature morte e fiori, paesaggi urbani, nudi maschili e figure di ermafroditi.

In Adamo o dell’eleganza (composto frammentariamente a partire dagli anni ’20, uscito postumo e pubblicato per la prima volta nel 1980 con introduzione di Alberto Arbasino, riproposto nell’attuale edizione con il commento conclusivo di Sandro Zanotto), Filippo De Pisis si diffonde generosamente in consigli sulle necessarie “combinaisons” dell’abbigliamento, quali oggi siamo abituati ad ascoltare da diversi pulpiti televisivi attraverso la voce di fashion adviser, consulenti d’immagine, influencer d’opinione, maestri di bon ton: evitare i contrasti stridenti, utilizzare poche tonalità di tinte, scegliere tessuti pregiati e fatture curate, sottrarsi a qualsiasi appariscente preziosismo. E poi badare al taglio dei capelli e della barba, maneggiare ombrelli e bastoni da passeggio con studiata nonchalance, scegliere spille-gemelli-bottoni-ciondoli poco vistosi ma ricercati.

A scanso di accuse da parte di seriosi moralisti, il pittore-esteta ammette candidamente: “Potrà non fare bella impressione a molti dei miei lettori, ma io potrei confessare che in generale i miei simili mi interessano molto di più per l’esteriore che per l’interiore, vale a dire le doti dell’animo e del cuore, della mente, dello spirito, etc… le immagini nella vita sono quelle che infine ànno il maggior valore perché ne ànno uno più pretto e immediato… Per l’eleganza si arriva fino al punto di non andare con l’amico perché à una cravatta che stona con la tua”. In questo, Filippo De Pisis fu eccezionale precorritore dei nostri più celebri blogger e testimonial di marketing, e più di loro in grado di offrire una base teorica alle proprie opinioni estetiche.

 

© Riproduzione riservata              «Il Pickwick», 15 marzo 2019

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

RECENSIONI

NABOKOV

VLADIMIR NABOKOV, L’OCCHIO ‒ ADELPHI, MILANO 2014

Ritenuto uno dei più importanti testi di critica letteraria del ’900, è recentemente uscito da Adelphi in una nuova edizione Lezioni di letteratura, che Vladimir Nabokov aveva dato alle stampe negli Usa a partire dagli anni ’40: sette splendidi ritratti di capolavori delle letterature occidentali, da Mansfield Park di Jane Austen all’Ulisse di Joyce, raccontati esplorando non solo i moduli narrativi, gli artifici stilistici, i tic linguistici dei narratori, ma anche ricostruendo i luoghi interni ed esterni in cui i vari romanzi sono ambientati, con un’appassionata attenzione ai dettagli, e alla magia che si sprigiona dalla descrizione del particolare: sapendo che l’opera d’arte deriva dall’unione di esattezza e incanto,  che collega «la precisione della poesia e l’intuizione della scienza», secondo le parole dello stesso autore.

Nabokov (San Pietroburgo,1899Montreux, 1977) proveniva da un ambiente nobile e benestante, ebbe un’educazione raffinata, oltreché in russo, anche in inglese e francese, e dopo il trasferimento della famiglia in Gran Bretagna per sfuggire alla persecuzione comunista, si laureò a Cambridge in letteratura slava. Spostatosi poi a Berlino (dove suo padre venne assassinato probabilmente da sicari leninisti), quindi a Parigi, si inserì, frequentandola assiduamente, nella cerchia degli emigrati russi. Nel 1940 con la moglie Vera e il figlio Dmitri espatriò negli Usa, ottenendo la cittadinanza americana, e insegnando in diverse università. Visse gli ultimi anni in Svizzera, morendovi nel 1977. La sua ricca produzione letteraria, in russo e in inglese, affrontava temi diversi, dalle problematiche sociali alle ossessioni psichiche, dalla sessualità alla fantascienza, nutrita di stimoli e competenze scientifiche ad alto livello, soprattutto per ciò che riguardava l’entomologia e la teoria scacchistica. La fama internazionale gli arrise soprattutto con la pubblicazione di Lolita ‒ avvenuta negli Usa nel 1955 ‒, che suscitò reazioni sia scandalizzate sia entusiastiche, anche nelle successive trasposizioni cinematografiche (Kubrik 1962, Lyne 1997).

L’occhio, scritto nel 1930 e poi riscritto in inglese nel 1965, è un romanzo breve ambientato tra gli émigrés russi in una vivace Berlino che allora si presentava come un centro culturale di attrazione per l’intera intellettualità europea. Intorno all’enigmatico personaggio principale, Smurov, ruotano infatti una quantità di figure eterogenee, ognuna delle quali conferisce al protagonista doti e caratteristiche particolari, in una singolare proiezione e sovrapposizione di desideri e aspirazioni. Nella prefazione, Nabokov scrive provocatoriamente: «Sono sempre stato indifferente ai problemi sociali, mi sono semplicemente servito del materiale che avevo a portata di mano, così come un commensale spensierato può disegnare a matita un angolo di strada sulla tovaglia o disporre una mollica e due olive in posizione diagrammatica tra menu e saliera». I commentatori più impegnati hanno rimproverato allo scrittore russo «questa indifferenza per la vita di gruppo e per l’irrompere della storia», accusando i suoi libri «di una totale mancanza di rilievo sociale». In realtà, anche in questo «ghirigoro di racconto», come l’autore definisce L’occhio, l’attenzione alla società e ai suoi ruoli codificati esiste, eccome! sebbene l’ottica privilegiata sia quella più strettamente psicologica e della critica di costume, spesso polemica e beffarda.

I personaggi che animano il romanzo hanno origini e caratteri disparati. A partire dal narratore, che nelle pagine iniziali (di sapore intensamente cechoviano) si presenta in prima persona come un giovane precettore vulnerabile e impacciato, che improvvisamente e per taedium vitae decide di spararsi dopo essere stato selvaggiamente picchiato da uno sconosciuto. Il suo risveglio in ospedale rimane fluttuante in uno stato di semi-veglia, sospeso tra morte apparente e sogno, svincolato dal corpo ma in una condizione di lucido sonnambulismo. E in tale stato di coscienza-incoscienza riprende a vivere in una casa abitata o frequentata saltuariamente da molte altre persone. Tra di loro, due raffinate e sensibili sorelle, Evgenija e Vanja, danno vita a un salotto in cui si incontrano banchieri e industriali, militari vanagloriosi e aspiranti intellettuali, una dottoressa pacifista e sfaccendati dal passato misterioso, come appunto il protagonista Smurov. Il quale si dichiara a volte eroe di guerra, altre volte avventuriero, artista, combattente rivoluzionario: timido, aggressivo, bugiardo, imbroglione, cleptomane, seduttore, delicato, eccitabile, a seconda dell’interlocutore con cui si intrattiene in conversazione. Innamorato della gentile Vanja, si trastulla nottetempo con una cameriera dalle abitudini furfantesche e disinibite, nello stesso tempo rivelandosi sessualmente inibito e volubile.

Il narratore, reduce da un maldestro tentativo di suicidio, definisce sé stesso «freddo, insistente, instancabile occhio», che tutto vede e registra, senza sprecarsi in troppi commenti: il titolo russo del racconto di Nabokov suonava infatti Sogljadataj, termine militaresco per indicare “l’osservatore, la spia”. La vicenda si dipana con tranquilla agilità (tra rivelazioni a sorpresa, scambi di persona, riconoscimenti a incastro) fino all’epilogo, imprevedibile e illuminante, che dovrebbe sperabilmente svelare la reale natura di Smurov. Ma «l’inferno di specchi» in cui si riflettono i vari personaggi in realtà non è che la moltiplicazione del medesimo tipo umano, una proiezione dello stesso occhio narrativo, una fantasia post mortem che già negli anni ’30 presupponeva l’esistenza di avatar ingannevoli. Chi è il narratore e chi il narrato? Il suicidio si è realizzato concretamente, oppure è stata una messinscena, l’illusione di un cervello malato? E infine, l’occhio che guarda sarà quello di Smurov, dell’io narrante, o di Nabakov stesso? Come a dire che la vita è sogno, inganno, miraggio.

«C’è un gusto stuzzichevole nel chiedersi, guardando al passato: ‘Che cosa sarebbe successo se…’, sostituendo un avvenimento fortuito a un altro, osservando come, da un attimo grigio e sterile del proprio tran-tran quotidiano, germogli un evento meravigliosamente roseo, che nella realtà non era riuscito a sbocciare. È un mistero, questo ramificarsi della vita: avvertiamo, a ogni istante trascorso, strade che si dividono, un ‘quindi’ e un ‘altrimenti’, con innumerevoli, vertiginosi zigzag che si biforcano e si triforcano sul fondo oscuro del passato». Da un tempo trascorso e perduto lo sguardo contempla un presente fasullo, che si propaga per inerzia al di là dell’esistenza concreta, addirittura pevalicando la morte individuale, su un palcoscenico in cui si muovono inconsistenti e fragili comparse, «farfallio su uno schermo»: l’unica felicità possibile finché si è al mondo, sapendosi destinati a sparire nel nulla, «sta nell’osservare, spiare, sorvegliare, esaminare sé stessi e gli altri, nel non essere che un grande occhio fisso, un po’ vitreo, leggermente iniettato di sangue».

 

© Riproduzione riservata              «Il Pickwick», 12 marzo 2019

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

RECENSIONI

BALZANO

MARCO BALZANO, LE PAROLE SONO IMPORTANTI – EINAUDI, TORINO 2019

«Le parole sono importanti!», urlava un arrabbiatissimo Nanni Moretti in Palombella Rossa. E Le parole sono importanti intitola Marco Balzano (romanziere, poeta e insegnante, nato a Milano nel 1978) questo suo ultimo volume edito da Einaudi.

Dopo aver vinto nel 2018 il Premio Bagutta con Resto qui, (intenso racconto civile ambientato in Val Venosta), Balzano ci fa scoprire il fascino del linguaggio che usiamo quotidianamente, spesso senza accorgerci di quanto sia carico di storia e di significati molteplici ‒ colpevolmente ignorati o trascurati, nell’uso limitativo e impoverente di una terminologia sempre più abusata. Attraverso il recupero del senso nascosto di una parola, possiamo arrivare a “padroneggiare la lingua nella sua storicità”, creare metafore e similitudini, confrontarci con altri linguaggi (verbali o visivi), scoprire relazioni con luoghi lontani, evitare l’appiattimento e la semplificazione del nostro modo di esprimerci, renderci più attenti a un utilizzo rispettoso del parlato, inteso come strumento etico di vicinanza a chi è altro da noi. A questo serve lo studio dell’etimologia, a individuare l’origine dei vocaboli che adoperiamo distrattamente, chiarendocene l’uso improprio, mistificante, superficiale: “chi parla bene, pensa bene”, e viceversa. Sarebbe opportuno che la scuola dedicasse maggiore spazio a questa disciplina, antica e dimenticata, e non solo nelle materie letterarie: «Quando ci raccontano un’etimologia, qualcuno ci svela cosa c’è dentro la parola e da semplice referente la trasforma in un mondo da esplorare, un mondo pieno di elementi che erano sotto i nostri occhi ma che non avevamo mai notato».

Balzano propone in questo volume dieci scavi etimologici per altrettante parole comuni, che tutti noi pronunciamo abitualmente e senza soffermarci sul loro significato intrinseco: alcuni di questi termini appartengono con più diritto di altri alla vita professionale dell’autore (scuola, social, parola), ma in maggior quantità sono da ritenersi di pubblico e inflazionato dominio.uando ci raccontano un’etimolgi Da ogni termine preso in esame si diffondono a raggiera altri vocaboli ad esso contigui per somiglianza od opposizione, ampliando così la ricerca delle sue origini e dei suoi sviluppi, talvolta imprevedibili e curiosi; l’analisi viene poi suffragata da citazioni testuali di filosofi (Aristotele, Kant, Rousseau, Bergson, Levinas, Gadamer…) o di scrittori celebri (Dante, Leopardi, Montale, Borges, Pasolini, Rushdie…).

Molte etimologie di parole comuni suscitano curiosità o addirittura sconcerto: ribelle da re-bellis (colui che ritorna a fare la guerra), tradire da tràdere (abbandonare qualcuno, consegnarlo altrove), sicuro da sine-cura (senza preoccupazione), desiderio da de-sidus (mancanza della stella), ricordo da re-cor (ritorno al cuore), divertire da de-verto (allontanarsi): Marco Balzano elenca numerosi vocaboli, in una catena che si inanella quasi autonomamente, per spontanea associazione mentale. Forse l’accezione più inattesa è svelata dalla parola “felicità”, cui l’autore attribuisce un valore culturale da manuale di antropologia. Felix infatti «ha la stessa radice di fecundus ed è un termine riferito alla capacità di generare»: è un aggettivo legato alla fertilità, spesso associato agli alberi da frutto. Si tratta di «una parola seminale… che evoca la creazione e il nutrimento, … con un campo semantico non solo femminile, ma più precisamente materno. La felicità è donna e madre»: ben aldilà della funzione puramente edonistica oggi prevalente, nasconde in sé il senso profondo di cura altruistica e di dono.

 

© Riproduzione riservata     

https://www.sololibri.net/Le-parole-sono-importanti-Balzano.html         5 marzo 2019