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RECENSIONI

DE LUCA

ERRI DE LUCA, ANNI DI RAME – FELTRINELLI, MILANO 2019

Il volume da poco edito da Feltrinelli, Anni di rame, raccoglie quattro saggi politici di Erri De Luca: due inediti (A processo in corso e Sentimenti politici di un cittadino), e due pubblicati nel 2008 e nel 2015 (Senza sapere invece e La parola contraria). Il titolo si contrappone alla definizione negativa comunemente attribuita agli anni ’70, bollati come “anni di piombo” perché contraddistinti dalla lotta armata e dalle violenze di piazza che si protrassero in Italia per un ventennio. L’espressione derivava da un film di Margarethe von Trotta uscito nel 1981, indagante l’estremismo politico tedesco sfociato in attività terroristiche. L’autore conferisce a quel periodo storico una valutazione positiva e dinamica, rivendicandone la capacità di mobilitare energie collettive, di risvegliare coscienze, di costruire opposizione attiva.

Anni di rame, quindi, e non di piombo, poiché il rame è un metallo duttile e malleabile, resistente, protettivo e riciclabile, capace di condurre elettricità e calore: un materiale rosso. Rossi sono anche i quattro interventi di De Luca, a tutti gli effetti qualificabili come un’apologia e una celebrazione, non solo degli anni ’70-’80, ma della sua intera esistenza, vissuta all’insegna della ribellione a un sistema sociale e a una cultura ritenuti antidemocratici, oppressivi, polizieschi, asserviti al capitale. “Ho fatto parte dell’ultima generazione rivoluzionaria in Europa”, afferma fieramente, omaggiando coloro che credevano nel comunismo come “forza di uguaglianza e smentita di ogni privilegio”, “negazione dell’autorità” quando è maschera di truffa e prepotenza. Erano giovani desiderosi di inventare un nuovo modo di stare al mondo, senza sopraffazione, amando, studiando e lavorando in maniera solidale e non competitiva; concependo la politica come impegno e servizio, e non come “schieramenti di concorrenti che vendono la stessa merce e si accapigliano su sfumature”.

Il “The Way We Were” appassionato e nostalgico di De Luca odora senz’altro di rimpianto e di rabbia contro l’arrendevolezza attuale, ma rivela anche una convinta e totale adesione ideologica a chi allora seppe sfidare il fariseismo delle istituzioni, il falso buonismo di una moralità di facciata, il vecchiume accademico, rischiando in prima persona nell’occupare fabbriche e università, nel manifestare in massa, nel difendere i diritti di carcerati e minoranze, e pagando spesso le proprie scelte con processi, intimidazioni ed esclusione sociale. Anche oggi, quasi settantenne, lo scrittore napoletano è animato dalla stessa indignazione civile, che lo ha portato a schierarsi in difesa dei migranti, dei disoccupati, degli attivisti della Val di Susa contrari alla linea di alta velocità. Proprio a causa di quest’ultima sua presa di posizione è stato processato nel 2015 dal Tribunale di Torino, con l’accusa di aver istigato al sabotaggio del cantiere TAV-LTF. Sostenuto dall’appoggio di molti lettori, di artisti e della stampa estera più progressista, De Luca si è difeso legalmente attraverso la tutela di avvocati, ma soprattutto mediaticamente con l’uso sapiente dei social, di interviste e di orgogliose dichiarazioni spontanee in sede processuale: “Svolgo l’attività di scrittore e mi ritengo parte lesa di ogni volontà di censura… La mia parola contraria sussiste e aspetto di sapere se costituisce reato”.

È stato infine assolto, e con lui ha vinto il diritto a esprimere “parole contrarie”. Parole che possano suscitare nelle persone il desiderio di resistenza, di disobbedienza civile, come successe a lui adolescente leggendo Omaggio alla Catalogna di Orwell: “Vorrei essere lo scrittore incontrato per caso, che ha mischiato le sue pagine ai nascenti sentimenti di giustizia che formano il carattere di un giovane cittadino”. L’ultimo capitolo del libro commenta il significato della parola “istigazione”, intesa come dovere di un intellettuale a farsi stimolo di coscienza, instillando domande e dubbi, pungolando i pensieri assopiti, contestando ogni acquiescenza: capace, come fece Pasolini, di “stare solo nella terra di nessuno” pur di testimoniare, e di sostenere diritti illecitamente negati. In particolare, il diritto di parlare quando si deve, e di tacere quando non ci si vuole adeguare.

 

© Riproduzione riservata           «Il Pickwick», 30 gennaio 2019

RECENSIONI

HECHT

ANTHONY HECHT, LE ORE DURE – DONZELLI, ROMA 2018

Di Anthony Hecht (New York, 1923Washington, 2004), la critica ha sempre sottolineato sia l’interesse per le tragiche vicende storiche del ’900 (la seconda guerra mondiale, a cui partecipò combattendo come fante in diversi paesi europei, e l’orrore dell’Olocausto, di cui fu testimone diretto durante la liberazione del campo di concentramento di Flossenbürg, nell’aprile del ’45), sia l’adesione a scelte formali severamente controllate e poco consuete, attraverso l’utilizzazione del pentametro giambico, con cui dava luogo a versi lunghi e complessi, dall’andamento narrativo, prediligendo la forma del poemetto rispetto alle composizioni brevi. Nato da genitori ebrei-tedeschi, studiò letteratura inglese al Bard College di New York, dove ora è sepolto: conobbe e frequentò i più importanti scrittori della sua epoca: da Jack Kerouac a Robert Lowell, Randall Jarrell, Elizabeth Bishop, Wystan Hugh Auden e Allen Tate. Professore universitario alla Rochester di New York e alla St. George di Washington, dagli anni ’50 fino alla morte pubblicò diversi volumi di poesia e vinse significativi premi (tra cui il Pulitzer nel 1968). In Italia sono stati editi solo I vespri veneziani (L’obliquo, Brescia 2012) e Le ore dure (Donzelli, Roma 2018).

Tratti da sei raccolte scritte da Hecht tra il 1967 e il 2001, introdotti da Joseph Harrison e resi in una sapiente e ardita versione da Damiano Abeni e da Moira Egan, i versi di quest’ultima antologia schiudono agli occhi del lettore un ventaglio di possibilità interpretative, offrendogli non solo molteplici puntelli culturali di riferimento (dalle Sacre Scritture al teatro elisabettiano, dai tragici greci al cinema, dalla mitologia all’arte figurativa), ma soprattutto una gamma di emozioni contrastanti cui abbandonarsi: ironia e spavento, brutalità e delicatezza, inquietudine e commozione, rabbia e pietà. A cominciare dalla poesia con cui si apre il volume, in cui il senso del paesaggio e dei suoi colori vivifica e riporta alla coscienza un ricordo assopito: “In Italia, dove cose così sanno accadere, / una volta ho avuto una visione – ma, capirete, / in nulla come quelle di Dante, o dei santi, / forse per niente una visione”. Nel paese europeo che più amava, Hecht camminava lentamente “in una piazza calda di sole”, circondato da amici e magnifici panorami, quando improvvisamente allo splendore di Palazzo Farnese si sovrappose l’immagine “di una collina color topo e brulla”.

Con un procedimento da lui spesso adottato, una memoria personale riaffiora dall’inconscio, a turbarlo, oscurando minacciosamente la possibilità di un abbandono sereno alla bellezza e alla positività dell’esistenza. In questo caso, la visione della collina aspra e desolata davanti a cui adolescente trascorreva le giornate invernali, irrompe ostile con un annuncio di negatività. Ma in altre poesie può essere una persona, un oggetto, un gesto o un dettaglio qualsiasi a indicare che il male può avventarsi inatteso, imprevedibile, a inquinare il corso della storia individuale e collettiva. Così, nel “mondo di struggimento” che Hecht ama descrivere, troppo spesso bagnato da “inevitabili lacrime”, in cui anche l’ambiente più banale, tetro o squallido viene riscattato da un’aspirazione alla bontà (“le punte minuscole dei crochi / che si fanno strada nella luce tra cumuli di neve”), e giustificato persino nella sua bruttezza o crudeltà (“Chi avrebbe mai pensato / a un qualsiasi altrove?”), una matura cameriera che cerca conforto per una delusione amorosa nelle riviste patinate offerte ai clienti del suo albergo, solo osservando un grappolo d’uva su un tavolo apparecchiato intuisce “un profondo segreto dell’universo”, cioè la caducità e l’insignificanza di tutto ciò che accade, e a cui è saggio rassegnarsi. Anche una giovane donna malata di leucemia, preferendo non ricevere visite consolatorie dai parenti, si aggrappa al poco bene intravisto intorno all’ospedale: “pare non mi importi molto della fine, / di come tutto si sistemerà, se si sistemerà. / Invece siedo alla finestra, / guardo gli alberi di fronte”. L’ immagine esterna dell’intreccio dei rami, descritta con acuta sensibilità pittorica, le ricorda il giocattolo di un’amichetta, L’uomo trasparente nel cui corpo di plastica erano visibili gli organi interni, e tutto l’apparato circolatorio di vene e arterie rosse e blu. Mondo vegetale e fisico umano nascondono misteri insolubili, è illusorio pretendere “di poter guardare oltre, e comprendere il mondo”.

Incomprensibile rimane soprattutto la malvagità gratuita, con cui le persone si comminano reciprocamente dolori e cattiverie, in tutte le epoche e latitudini: la governante teutonica fornita di “quel gusto particolare per il dolore inflitto” che terrorizza con sadica severità il bambino ebreo in sua custodia, profetizzandogli persecuzioni a venire; o il centurione romano costretto a osservare il suo imperatore mentre viene scuoiato vivo (“la pelle venne affidata a uno dei loro sellai / che la doveva conciare, imbottire e cucire. A che scopo?”). Nella descrizione dei personaggi (specialmente felici sono i ritratti femminili), Anthony Hecht accompagna ai dati concreti e attuali, fisici e caratteriali, le fantasticherie e le elucubrazioni più imprevedibili, i rimpianti del passato e le speranze per il futuro, le delusioni e i desideri di vendetta.

La bellezza è ovunque (negli alberi, nel profumo di rosmarino, nei corvi “becchini” sui rami, nella neve e nelle nuvole, in tutti i colori della tavolozza di un pittore devotamente impegnato a “catturare quanta verità sia possibile”). Ma pure la colpa e lo sfacelo sono dappertutto, e l’elenco è impietoso: nella coppia di sposi che si sta separando con “duro non sentire”, nei malati di Aids (“l’intera / ciurma d’innocenti”), in una vittima torturata da aguzzini (“sorvegliata giorno e / notte da giovani pretoriani muniti di smartphone”), in Giuditta che vendica su Oloferne tutti i soprusi subiti dai maschi (“Anche i più fiacchi, nelle loro fantasticherie, / trionfano come atleti sessuali”), nella fidanzata abbandonata che si punisce con sesso e droga, per poi suicidarsi (“Due anni per lo più felici. / In tutto quel tempo cosa hai imparato di me? // … E quando te ne sei andato ho preso una brutta china”). Ma è innanzitutto il bambino ebreo de Il Libro di Yolek, in una tra le composizioni più drammatiche e commoventi del libro, a impersonare la sofferenza innocente della vittima sacrificata da un carnefice ottuso e spietato: “Yolek che era debole di polmoni, e nemmeno un giorno / oltre i cinque anni, cui si impose di lasciare il pasto / e trascinarsi tra guardie armate”.  Il nazismo, la guerra, i campi di concentramento, essendo stati vissuti e partecipati direttamente dal poeta, tornano con un incubo ricorrente nei suoi versi, emblema del male assoluto e ingiustificabile (“ma per anni continueranno le urla, notte e giorno. // … La sera, Padre, al buio, quando imploro, / io sono là, io sono là”, “Perché tutto ciò mi scuote tanto, come un codice segreto / o un presagio attutito / di intenti ed eventi preordinati?”, “Sto in piedi al freddo sotto un pino / appena prima dell’alba, non so bene dove in Germania, / con un fucile Garand, freddo e bagnato, tra le mani”).

Il dolore sperimentato da soldato tormentò Hecht per anni, costringendolo addirittura a un lungo ricovero in clinica psichiatrica, e lo investì della missione di farsi testimone indignato di quella terrificante esperienza: “a me sta il compito di trovare parole / per ricordare come si deve // coloro che s’accalcano fitti / con numeri blu tatuati / di traverso sulle arterie, / gli ebrei che bruciano, muti”, “Chi non impara dalla storia / ha come maledizione il compito di ripeterla”.

Nei poemetti di questa antologia ‒ argomentati razionalmente, documentati storicamente, attenti all’introspezione psicologica dei personaggi ‒, Hecht assume con orgogliosa consapevolezza il ruolo di portavoce di un’etica calpestata da recuperare, in nome di una dignità che riguardi non solo il genere umano, ma anche tutto ciò che è vivo e respira, che è passato ma rimane fondamentale nella cultura e nella storia universale. Non rinunciando all’ironia e addirittura al sarcasmo, riesce tuttavia a farsi interprete della resistenza civile a ogni sopruso e ingiustizia, con la religiosità laica di un non credente convinto della necessaria affermazione del bene. Se il suo impegno di poeta si esprime nell’eccellenza di una scrittura complessa, erudita, studiata nella struttura metrica, nell’uso sapiente delle rime, in una sintassi elaborata, l’impegno di uomo lo rende (come scrive nell’importante prefazione Joseph Harrison, sottolineando “il suo interesse per l’analisi, profondamente umana e spesso dolorosa, di chi siamo, di cosa abbiamo fatto gli uni agli altri e a noi stessi”), “il più limpido cronista della disumanità dell’uomo nei confronti dell’uomo, sia che il teatro di tale crudeltà fosse pubblico sia che fosse privato”.

 

© Riproduzione riservata        «Nazione Indiana», 23 gennaio 2019

 

 

 

RECENSIONI

CHAR

RENÉ CHAR, POESIE. TESTO FRANCESE A FRONTE – EINAUDI, TORINO 2018

Di René Char (1907-1988) si sono occupati in molti, in Italia, a partire dal dopoguerra: dalla principessa Marguerite Caetani, che per prima lo fece conoscere su Botteghe Oscure nel 1949, a Carlo Bo, Maria Luisa Spaziani, Giorgio Bassani. Nell’approfondita prefazione al volume einaudiano da poco pubblicato, Elisa Donzelli mette sapientemente in rilievo l’impegno e la passione di due suoi traduttori d’eccellenza, Vittorio Sereni e Giorgio Caproni, quasi in competizione tra di loro nell’affiancare emotivamente e intellettualmente la vita e l’opera del poeta francese. Nell’antologia di Feltrinelli del 1962, Bassani aveva affidato a Sereni la traduzione dei Feuillets d’Hypnos, diario della Resistenza a cui Char aderì con il nome di battaglia di Alexandre, mentre Caproni aveva firmato la prefazione e tradotto l’intero corpo delle altre poesie. Appunto l’impegnativo lavoro di quest’ultimo viene oggi riproposto da Einaudi, corredato da un esaustivo apparato critico-filologico della curatrice sulle varianti concordate tra autore e traduttore («Monsieur Caproni, prenda questo rischio!», «Mi consigli, per cortesia!»), e da alcune notazioni riguardanti l’influenza esercitata da Char sulla scrittura caproniana.

La produzione del poeta francese prese l’avvio negli anni bellici, con un’adesione iniziale al surrealismo, per poi subito rendersi autonoma nei temi (l’ambiente campestre e contadino, gli animali, i ricordi dell’infanzia, la donna, l’impegno politico) e nei toni ‒ concisi e fieramente intensi ‒ dei versi, delle prose, degli aforismi. Poeta non solo civile, ma anche dell’amore («luogo di slanci e d’incontri», come commenta Elisa Donzelli), di cui fu straordinario cantore: «L’estate e la nostra vita eravamo tutt’uno / La campagna mangiava il colore della tua gonna odorosa», «Tu sei il presente che s’accumula. Ci uniremo senza dover accostarci, prevederci, come due papaveri fanno in amore un anemone gigante», «Amor mio, poca importa ch’io sia nato: tu diventi visibile nel posto dov’io sparisco», «Piégati soltanto per amore. Se muori, ami ancora», «Da tanti anni sei l’amore mio, / Il mio capogiro in così lunga attesa, / Che nulla può invecchiare, raffreddare; / Nemmeno ciò che aspettava la nostra morte».

Ma Char era anche poeta che continuamente rifletteva sul fondamento e la missione della poesia: «Sei nell’essenza costantemente poeta, costantemente allo zenit del tuo amore, costantemente avido di verità e di giustizia. Che tu non possa esserlo di continuo nella coscienza, è senza dubbio un male necessario», «Un grande poeta si nota dalla quantità di pagine insignificanti che non scrive», «Poesia, vita futura nell’intimo dell’uomo riqualificato», «La poesia è ad un tempo parola e provocazione silenziosa, disperata, del nostro essere-esigente per l’avvento di una realtà che non avrà rivali». Questa fiducia in un futuro di riscatto, tutto da costruire, era in Char alimento e sprone all’impegno, alla lotta a fianco degli sfruttati e dei perseguitati: «Non c’è che il mio simile, la compagna o il compagno, a potermi svegliare dal torpore, a far scattare la poesia, a lanciarmi contro i limiti del vecchio deserto perch’io ne trionfi», «Il lampo mi dura», «A me basta andare», «Nei giorni di pioggia, fa’ pulizia al fucile. (Conservare in buono stato l’arma, la cosa, la parola? Saper distinguere la libertà dalla menzogna, il fuoco dal fuoco criminale)».

Soprattutto alla statura morale dell’uomo «libero, però con un’arma in mano», del poeta «insorto… ribelle», Giorgio Caproni, che pure aveva combattuto con i partigiani in Val Trebbia, rendeva omaggio nella prefazione, a lui avvicinandosi per affinità, con ammirazione e gratitudine, e definendolo «l’unica voce costruttiva… edificante… voce viva e quasi magica… d’un datore di speranza». Char sapeva che se il momento è buio, è proprio all’oscurità che ci si deve opporre: «Siamo, oggi, più vicini al disastro che non la stessa campana a martello, quindi è più che mai tempo di farci, della calamità, una salute. Dovesse essa aver l’arrogante apparenza del miracolo». Miracolo per antonomasia è la poesia, a cui affidare la propria sopravvivenza eterna: «La poesia mi ruberà la mia morte».

© Riproduzione riservata          «Poesia» n. 344, gennaio 2019

 

 

 

 

 

 

RECENSIONI

PASOLINI

PIER PAOLO PASOLINI, IL FASCISMO DEGLI ANTIFASCISTI – GARZANTI, MILANO 2018

Garzanti ha raccolto nella collana “I piccoli grandi libri” otto interventi che Pier Paolo Pasolini scrisse tra il 1962 e il 1975 sull’evoluzione storica del fascismo, e sulla sua sopravvivenza culturale e politica nell’Italia del dopoguerra. Fascismo inteso come potere massificante e subdolo, capace di modellare i comportamenti delle masse, manipolandone le idee e livellandone aspirazioni e desideri.

Nel primo saggio, pubblicato su Vie Nuove in risposta al quesito di un lettore sull’attrattiva che la destra esercitava sulle nuove generazioni, Pasolini polemizza con un’abitudine diffusa nel giornalismo «che vuole che i suoi personaggi siano come lui crede che siano», e li costruisce artificialmente, blandendo in tal modo la curiosità dei lettori. Alla stessa maniera ai giovani si offre l’immagine di un fascismo falsamente rivoluzionario, antiborghese, incorrotto e giustizialista, in un’Italia che «sta marcendo in un benessere che è egoismo, stupidità, incultura, pettegolezzo, moralismo, coazione, conformismo». Un fascismo rappresentato «come normalità, come codificazione allegra, mondana, socialmente eletta, del fondo brutalmente egoista di una società». Questo scriveva Pasolini nel 1962, con il suo stile diretto, coraggiosamente polemico, ponendosi già allora in decisa opposizione contro il pensiero ammorbidito del neocapitalismo, contro i genitori educatamente antifascisti di ragazzi ingenuamente ribelli. E concludeva l’articolo con un epigramma feroce dedicato a padri e madri ipocritamente progressisti: «Che vi vengano figli fascisti, che vi distruggano con le idee nate dalle vostre idee, l’odio nato dal vostro odio».

Anche nei saggi successivi, pubblicati perlopiù sul Corriere della Sera e inclusi poi in Scritti Corsari, gli strali pasoliniani prendono di mira soprattutto l’ideologia edonistica del consumo e la produzione di beni superflui (“che rendono superflua la vita”), così come era stata imposta negli anni 60-70 dalla stampa e dalla televisione, entrambe portavoce in primis degli interessi industriali, capaci di ammorbare con miraggi di ricchezza milioni di persone nel nostro paese. Un’Italia non più contadina, forse nemmeno operaia e certamente non più cattolica, ma abitata da una borghesia miope, attratta da valori ormai distanti da quelli espressi dalla triade Chiesa-Patria-Famiglia. In quest’Italia omologata culturalmente, non esisteva una reale differenza tra fascisti e antifascisti, simili ormai sia nell’estrazione sociale, sia nella psicologia, nel linguaggio, nell’abbigliamento.

La diversità tra il fascismo storico, espressione di una destra caricaturale, rozza, provinciale, e il nuovo fascismo, camaleontico e illiberale, «americanamente pragmatico», viene a più riprese illustrata nei vari articoli presenti nel volumetto garzantiano, insieme alla definizione ironica delle caratteristiche dell’antifascismo postbellico: un antifascismo di maniera, asservito a un Potere non ben definibile, che non essendo più quello politico-ecclesiastico-militare, si manifesta prevalentemente nell’interesse per il mercato, prono alle sue esigenze. L’antifascismo in questione era sostanzialmente antidemocratico, modaiolo, salottiero, parolaio, incapace di prese di posizione realmente di sinistra. Pasolini, pur riconoscendo la propria attitudine donchisciottesca ed estremistica, rivendica a sé il diritto di dissentire, di restare criticamente fuori dal coro, individuando nel conformismo interclassista che permea la società capitalistica internazionale il maggiore pericolo spersonalizzante del linguaggio, dell’etica, della cultura e della politica.

L’ultimo saggio antologizzato è il famoso articolo sulla scomparsa delle lucciole dalle campagne italiane, che Pasolini pubblicò sul Corriere il 1° febbraio 1975, in una prosa che ci appare dopo quasi cinquant’anni ancora violentemente profetica. Gli insetti minuscoli e innocui che non illuminano più romanticamente campi e periferie nostrani hanno segnato, con il loro sparire, la trasformazione non solo di un ambiente naturale, ma soprattutto di una società e di una cultura politica, che se prima era abbarbicata a valori residuali di patriarcato contadino e cattolico, negli anni ’70 iniziava a rivelare il suo vero volto di inconsistenza, di vuoto, di servilismo ad apparati burocratici senza alcuna presa sulla quotidianità vissuta dai cittadini. Attraverso quali rabbiose e sarcastiche parole Pasolini commenterebbe oggi l’eredità lasciataci dall’ involuzione culturale di allora e la stagnazione civile attuale, possiamo solo immaginare, con malinconica rassegnazione e scarse speranze in un riscatto futuro.

© Riproduzione riservata       «Il Pickwick», 21 gennaio 2019

 

 

 

 

 

 

 

 

RECENSIONI

SCHMIDT

ARNO SCHMIDT, I PROFUGHI – QUODLIBET, MACERATA 2016

I Profughi, scritto da Arno Schmidt nel 1952 e da lui definito romanzo “svelto”, racconta la tragedia vissuta da due giovani amanti negli anni immediatamente successivi alla seconda guerra mondiale, quando più di dieci milioni di tedeschi vennero espulsi dai territori orientali (ceduti alla Polonia e alla Cecoslovacchia), per essere trasferiti a forza a sud e a ovest, costretti a reinsediarsi tra  abitanti spesso ostili, attraversando zone sfregiate dalla guerra e affrontando fame, malattie, pregiudizi ideologici e politici.

Durante questa diaspora si incontrano, in treno, i due protagonisti: lui è uno scrittore che si mantiene con precarie collaborazioni editoriali, lei una giovane vedova di guerra, Katarina, che ha perso una gamba durante un bombardamento. Nel corso del viaggio condividono forzatamente cibo, difficoltà, pensieri, sentimenti e sesso in una storia che è anche una storia d’amore, ma di un amore trattenuto, scontroso, per nulla edulcorato, con un finale di ipotetica e fiabesca irrealtà: “Così viviamo per il momento insieme; come andrà poi, non lo so ancora”. I due osservano dai finestrini del loro scompartimento una nazione distrutta, paesi “tondi e rannicchiati, con verruche per tetti”, campi abbandonati, gente incattivita e rancorosa, che per sopravvivere lotta anche contro i compagni di sventura.

In uno stile crudamente sperimentale, Schmidt esprime la necessità di conservare vivi e integri barlumi di umanità nello sfacelo morale e materiale della Germania hitleriana.  Lo fa utilizzando gli strumenti della riflessione filosofica, della citazione letteraria, della polemica antireligiosa e antipatriottica, dello scherno. Ma lo fa soprattutto inventando un nuovo modello narrativo, orgogliosamente dichiarato nel sottotitolo della prima edizione de I Profughi, uscita per la Frankfurter Anstalt nel 1953, insieme al romanzo Alessandro o della verità: “due studi di prosa (forme brevi per la resa di uno spostamento spaziale plurimo degli agenti in un’unità di tempo fissa)”. Intenzione di Schmidt era appunto quella di creare una narrazione che non rispettasse tanto l’unità di luogo, quanto invece l’unità di tempo. Il paesaggio di sfondo cambia infatti continuamente, tra osterie e stazioni, trasferimenti e occupazioni di alloggi promiscui, mentre l’arco di tempo viene focalizzato in 24 sezioni collegate unitariamente. L’elemento unificante è rappresentato da una reiterata tecnica fotografica, per cui ogni sezione è introdotta da un piccolo brano incorniciato in un rettangolo dalle dimensioni di una fotografia. Un vero e proprio “album”, in cui “le foto consistono di parole, che dovrebbero trasmettere al lettore un’immagine la più nitida possibile, a fuoco”, secondo quanto specificò l’autore stesso in un’intervista radiofonica. Lo scatto istantaneo iniziale viene poi sviluppato ed espanso in un racconto più disteso e argomentato, che utilizza una prosa magmatica, frantumata sintatticamente, sconvolta semanticamente, provocatoria nelle scelte lessicali, in una continua ricerca di effetti linguistici estranianti, imprevedibili, irriverenti, attraverso un’aggettivazione convulsa e ingegnosa: “greve gracchiante grugnente ghignoso gradasso”, “luna precoce”, “sfottente pendio”, “ruvida voce”, “notte angolosa”, “ventruti re”…

Arno Schmidt (1914-1979), dopo sei anni di guerra e prigionia, due volte reinsediato con la moglie Alice come i profughi di cui narra, vissuto in assoluta povertà, solo nel dopoguerra, e avendo tentato diversi mestieri, riuscì a dedicarsi completamente alla scrittura, divenendo un riferimento osannato e contestato della letteratura tedesca. Pagava nei confronti dei lettori e dell’editoria più tradizionale un estremismo ideologico e sprezzante, una cultura eccedente e anticonformista, uno stile arrogantemente funambolico.

Di lui in Italia si conosce poco: le tardive traduzioni sono state incoraggiate da piccoli editori (Lavieri, Ipermedium, Zandonai, Mimesis, e ora per I Profughi Quodlibet, che ne ha affidato la cura a Dario Borso, massimo interprete schmidtiano in Italia), con scarsi riscontri di pubblico e di critica. Forse ciò è dipeso dalla natura del personaggio (anarchico, polemico, sarcastico), e dalla sua scrittura oscillante tra narrazione fantastica e saggio di denuncia sociale, manierismo e allegoria, onirismo e biografia, ma sempre in chiave anti-realistica e di eversiva invenzione linguistica. Schmidt fu il primo scrittore tedesco a parlare dei campi di sterminio e a indagare i rapporti politici e sociali esistenti tra le due Germanie, criticando contemporaneamente con feroce ironia sia l’attualità disumanizzante del neocapitalismo, sia il vecchiume culturale proposto da molte istituzioni, in primis dalla Chiesa. Messosi in luce nel dopoguerra con un racconto audacemente innovativo (Il Leviatano o il migliore dei mondi, 1949), che oltre a stigmatizzare il nazismo contestava ogni forma di organizzazione sociale, nei volumi successivi (Dalla vita di un fauno, 1953; Paesaggio lacustre con Pocahontas, 1955; La repubblica dei dotti, 1957; Ateo? Altroché!, 1957; Alessandro o Della verità, 1959, fino alla vertiginosa esperienza espressiva delle ultime prove), esibì sempre una tormentata mescolanza di metafore barocche, neologismi futuristi, allegorismo simbolista, razionalità illuminista, immaginario fantascientifico. Erede di Joyce e degli espressionisti, rappresentò un caso estremo di ribellione anti-realistica, ripudiando ogni tradizionale descrittivismo e recuperando memorie personali e collettive venate di grottesco, indulgendo anche a forme di compiaciuto mimetismo che talvolta sfociava nel manieristico, con l’esibita volontà di polemizzare contro l’establishment culturale e l’attualità, da cui amava prendere le distanze, rifugiandosi in un passato di ideale purezza o in un futuro utopistico e improbabile.

© Riproduzione riservata       «Il Pickwick», 15 gennaio 2018

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

RECENSIONI

FRUGONI

CHIARA FRUGONI, UOMINI E ANIMALI NEL MEDIOEVO – IL MULINO, BOLOGNA 2018

Chiara Frugoni (Pisa 1940), medievista e storica della Chiesa, ha insegnato in diverse università italiane, collaborando attivamente a quotidiani e programmi televisivi e radiofonici. Il suo metodo di ricerca tiene nella stessa considerazione sia i testi sia le immagini, nella convinzione che ogni raffigurazione pittorica apporti importanti elementi documentali all’analisi di un periodo storico. Il principale campo di ricerca della studiosa ruota intorno alla figura di Francesco d’Assisi, e ai difficili rapporti da lui intrecciati con le istituzioni ecclesiastiche. Nel 2011, Chiara Frugoni ha individuato in uno degli affreschi attribuiti a Giotto nella Basilica Superiore di Assisi un profilo di diavolo tracciato tra le nuvole, particolare mai indagato in precedenza: tale scoperta ha rimesso in discussione alcune consolidate teorie di storia dell’arte, riscuotendo interesse da parte della critica internazionale.

Il volume recentemente pubblicato da Il Mulino, Uomini e animali nel Medioevo, ribadisce il convincimento dell’autrice sulla rilevanza e il peso dell’iconografia nell’analisi storica: riccamente illustrato, riproduce affreschi e miniature, mappe e arazzi, mosaici e sculture, miranti a convalidare ogni ipotesi e interpretazione documentaria.

Tantissimo è cambiato dall’anno Mille ad oggi nel rapporto che l’umanità ha instaurato con gli animali, salvo il fatto che loro non hanno bisogno di noi quanto noi ne abbiamo di loro. E se nelle abitudini e nel lessico contemporaneo gli animali patiscono pregiudizi, incomprensioni e crudeltà manifeste, la relazione che avevano col mondo circostante nel Medioevo era senz’altro più intensa e radicata, ancorché spesso associata a ignoranza, paure, superstizioni, efferatezze, fantasticherie. Di ciò si occupa Chiara Frugoni nella sua minuziosa ricerca, nutrita di tutto l’immaginario biblico e cattolico, a partire dal Genesi, in cui Dio modella con la sabbia “tutti gli esseri viventi della terra e tutti gli uccelli del cielo”, incaricando poi Adamo di individuare un nome per ciascuno di loro. Proprio su questa funzione denominatrice e catalogatrice di Adamo, in qualche modo collegata al progetto di creazione divina, si intrattiene a lungo l’autrice del libro, commentando decine di miniature e affreschi che tra l’XI e il XV secolo rappresentano il primo uomo nell’incontro solenne e umanissimo con gli animali: immagini tratte dai bestiari e dai codici più celebri, o esposti in gallerie, cattedrali e musei.

Pur nel suo dichiarato ateismo, Chiara Frugoni dimostra grande competenza teologica e profonda conoscenza dei testi sacri, al punto da dissertare su alcuni dogmi e problemi rilevanti, dibattuti in vari Concili ed encicliche: dal doppio racconto della Creazione in Genesi I e II, alla localizzazione geografica e temporale del paradiso terrestre, alla vexata quaestio del peccato originale, talvolta esibendo qualche dubbiosa puntualizzazione, garbatamente ironica.

Nell’Antico Testamento vengono nominati non solo gli abitanti del suolo, del cielo e delle acque, domestici e selvatici, bensì anche creature leggendarie come draghi, basilischi e unicorni, messaggeri di un regno sovrannaturale, dai connotati minacciosi o dal mandato salvifico e purificatore, talora ambiguamente erotizzanti: generalmente inoffensivi proprio perché esotici e indefinibili. Altri erano gli esemplari da cui gli uomini e le donne del Medioevo dovevano difendersi, servendosi di armi spesso inadeguate: orsi, cinghiali, lupi. Dopo la cacciata dall’Eden, la supremazia umana sul regno animale non sussisteva più, e anche i più santi tra i monaci, i predicatori e i padri del deserto testimoniavano di incontri spaventosi con bestie feroci, personificazioni del demonio tentatore, contro cui capitava si imbattessero, in allucinazioni e incubi generati dalla solitudine e dagli stenti. «Che per certo sappi e credi come cosa vera quello che io ti dirò: un altro converso ce ne fu che andando una mattina presso d’uno fossato vide un drago terribile bere, e disse che gli pareva che fusse tutto pieno di specchi, per la qual cosa tornò a casa e pe lla paura morì, overo per veleno che ’l dragone gli gittasse», scriveva nel 1374 fra’ Giovanni dalle Celle di Vallombrosa a un devoto.
Se non draghi, erano tuttavia numerose le belve feroci che popolavano boschi e foreste medievali, spingendosi fin dentro ai villaggi e alle città, singolarmente o in branchi, depredando ovili stalle e pollai, azzannando o addirittura divorando esseri umani: lupi, soprattutto, ma anche orsi, cinghiali, maiali selvatici contro cui si doveva mettere in campo ogni tipo di difesa, materiale e spirituale (bastoni, lance, pugnali, catene, e poi giaculatorie, immagini sacre, esorcismi, e infine processi, torture e plateali esecuzioni pubbliche). Forse solo la persona di San Francesco seppe incarnare all’epoca un ruolo innovativo nel rapporto con il mondo animale, basato sulla pietà, la comprensione e il rispetto, in sintonia e fratellanza con tutto il creato.

Ma dove vivevano, da quali zone estreme della terra provenivano gli animali che popolavano le campagne e le città medievali, e le fantasie dei loro abitanti? Secondo Chiara Frugoni «si incaricavano di mostrarlo le mappae mundi in pergamena in grandi carte geografiche esposte nelle chiese o nei monasteri, oppure in formato ridotto nelle pagine dei codici (o perfino distese in mosaici pavimentali). Permettevano viaggi immaginari; lo spazio rappresentato era riempito da disegni fittissimi di dettagli tratti dal repertorio geografico, storico, religioso e della mitologia pagana; edifici, città, animali e piante erano accompagnati da didascalie. Belve reali e animali immaginari, feroci anch’essi, vivevano soprattutto in Asia e in Africa, luoghi lontanissimi». Due di queste enciclopedie illustrate (di Ebstorf e di Hereford) sono riprodotte e commentate puntualmente nel quarto capitolo di questo volume (coloratissime, ricche di informazioni e allegorie, ritratti curiosi e mostruosità), insieme alla descrizione del mosaico pavimentale di Otranto, «immenso tappeto di pietra brulicante di mille figure». Immagini che fanno di questo libro prezioso un poliedrico strumento di consultazione, una tavolozza di tinte, sagome e paesaggi in cui immergersi, recuperando uno sfarzoso patrimonio di tesori trascurati.

 

© Riproduzione riservata              «Il Pickwick», 7 gennaio 2019

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

RECENSIONI

BERENGO GARDIN

GIANNI BERENGO GARDIN, LA PIU’ GIOCONDA VEDUTA DEL MONDO – CONTRASTO, MILANO 2018

Dopo le grandi navi, le perle, gli uccelli e i giardini di Venezia, il maestro Gianni Berengo Gardin pubblica con l’editore Contrasto un altro splendido volume illustrato, con immagini in bianco e nero che inquadrano, secondo le stesse parole dell’autore, “i motoscafi, le gondole, la Regata storica, la Pescheria, il Fontego dei Turchi, i matrimoni. La vita di oggi rispetto a quella di ieri”. Nel nono libro che Berengo Gardin dedica alla città in cui è vissuto dall’infanzia fino al 1965, e che continua ad amare con assoluta fedeltà (pari a quella riservata alla sua Leica e alla pellicola tradizionale rispetto al digitale), sono le finestre ad assumere il ruolo di protagoniste. Una finestra in particolare, quella dell’ultimo piano di Palazzo Erizzo Bollani sul Canal Grande, fra il rio di San Grisostomo e il rio dei Santi Apostoli, dove aveva abitato nella prima metà del Cinquecento Pietro Aretino. In una lettera del 27 ottobre 1537 al suo benefattore Domenico Bollani, proprietario del Palazzo, riportata in questo volume, così si era espresso lo scrittore toscano, riferendosi al Canale a alla città veneta: “E per esser egli il patriarca d’ogni altro rio, e Vinezia la papessa d’ogni altra cittade, posso dir con verità ch’io godo de la più bella strada e de la più gioconda veduta del mondo”. Una veduta gioconda che ha conquistato l’occhio del fotografo, dal 2004 ripetutamente ospite di un amico a Palazzo Bollani,  godendo del privilegio di osservare lo straordinario panorama che aveva affascinato Aretino cinque secoli fa. La bellezza sfida il tempo, la poesia salverà il mondo.

© Riproduzione riservata               IBS, 28 dicembre 2018

 

POESIE

LA FOTOGRAFIA

I

Dovrebbe essere contenta che

la spolvero, la sposto a centimetri,

la porto in giro per la stanza:

lei che non ha piedi, non ha mani.

Dovrebbe fare un cenno col capo,

mostrarmi che gradisce. Invece

chiara nei suoi occhi di vetro

mi rimprovera i passi la voce,

di me che posso.

 

II

 

A volte facciamo che io sto ferma

come un’istantanea appesa alla parete;

lei si muove, lava i pavimenti,

accarezza la mia bambina.

Fa come se fosse me (io che per tanto

ho ripetuto i suoi gesti).

Quando è stanca torna al suo posto,

mi lascia capire che per oggi basta.

 

III

 

Non può difendersi, né sottrarsi

agli occhi severi di chi la esamina,

la prende tra le mani come fosse una cosa,

le controlla i denti i capelli.

Sta immobile, costretta all’autodifesa

di chi si finge morto.

Io la guardo solo quando mi chiama,

appoggiandomi addosso lo sguardo

per dirmi vieni a salutarmi.

 

IV

 

È come se dicesse

non ci sono, invece c’è: è lì, tutti la vedono:

c’è. Si teme assente dopo che

ha riempito ogni atomo della sua presenza.

«Ma di chi parli? ‒ ironizza

tacendo ‒ di una che non esiste».

Però mi guarda come se

fossi io a non esistere.

 

 

In L’appartamento, “Nuovi Poeti Italiani 3”, Einaudi, Torino 1984

 

 

MAESTRI

HECHT

INVESTITURA  DA  CECCONI

(per David Kalston)

Caro, quel sogno (dopo la diagnosi)
mi trovò spazientito davanti alla porta
del “nostro” sarto veneziano. Volevo
un abito da sera per il capodanno.

Poi un lume si accese. La vecchia che cuce
dall’alba al tramonto nel retrobottega, aprì
d’un guardingo centimetro, protestando
vivace per l’ora tarda.

Tessuti? Modelli? Quelli li mostra, non ora,
di giorno il proprietario – ma poi come un lampo
tutto il volto le si accende: Ma! il Signore
è venuto a provarsi la nuova vestaglia!

Vestaglia? Mi fa cenno di entrare. Il trittico
dello specchio evoca tre curve megere
in cui si è diffratta in spazio arcano. Per magia
riconvergono, braccia colme di luna.

Sulle mie braccia infila maniche di luce. Fresca
seta dalle solenni candide pliche – lutto orientale –
mi fascia dal collo ai piedi. Mi rivolgo
a lei, senza capire.

Ringrazi il suo amico, ridacchia, il Professore!
Sbigottito oscillo come un albero di lacrime. Tu –
così lontano, malato, impaurito – hai orchestrato
questo regalo che mi ferma il cuore.

Anthony Hecht (1923-2004)

 

 

 

RECENSIONI

FEOLE

ILARIA FEOLE, C’ERA UNA VOLTA IN AMERICA – GREMESE, ROMA 2018

La giovane critica cinematografica Ilaria Feole (Milano1983), autrice di due monografie su Wes Anderson e Michele Soavi, e collaboratrice delle riviste Film TV e Gli spietati, ha pubblicato quest’anno per Gremese un esaustivo e interessante volume illustrato sul capolavoro di SergioLeone C’era una volta in America.

Il libro consta di un prologo riguardante le varie fasi dell’ideazione e della lavorazione del film, e di una corposa sezione che illustra e commenta in maniera minuziosa lo sviluppo narrativo, supportandone iconograficamente i momenti clou con immagini e fotogrammi significativi: a queste due parti centrali si affiancano una presentazione autobiografica dell’autrice, e in conclusione una bibliografia e una serie di valutazioni di noti recensori. Uscito nel 1984 dopo quasi vent’anni di laboriosa gestazione, nello stesso anno il film fu presentato a Cannes e a Venezia, riscuotendo tiepidi consensi, molte critiche, e scontrandosi all’inizio con un deludente insuccesso commerciale. Sergio Leone era incappato in numerose difficoltà durante la realizzazione del lavoro, sia nell’acquisizione dei diritti del libro, sia nel trovare un produttore (fu l’israeliano Arnon Milchan che coraggiosamente accettò la sfida), sia nella scelta degli sceneggiatori. Anche lo svolgimento del casting si rivelò problematico, con più di tremila attori sottoposti a provino per centodieci ruoli, e ripensamenti continui riguardo agli interpreti principali. Solo per la colonna sonora la decisione fu convinta e immediata: Ennio Morricone aveva già collaborato con lui, e in questo specifico caso approntò le musiche prima ancora dell’inizio delle riprese.

La trama si basa sul romanzo Mano armata scritto da Harry Grey, ex braccio destro di Frank Costello, mentre era in prigione a SingSing: uscito in Italia nel ’58, narrava le vicende di un gruppo di ragazzini cresciuti nel quartiere ebraico di New York, decisi ad affrancarsi dalla miseria diventando gangster negli anni del proibizionismo americano. Il regista recupera l’atmosfera di un’America scissa tra ferocia e tenerezza, nostalgia e brutalità, creando personaggi che vivono sospesi in un’eterna infanzia,  in cui una frustrante quotidianità  si confonde con la memoria di un passato mitizzato, riproponendo flashback e piani temporali che si sovrappongono indistinti. Il sogno di un riscatto sociale da raggiungere con qualsiasi mezzo, meglio se illecito e violento, esprime un’ideologia crudamente sopraffatrice, volgarmente maschilista, che utilizza omicidi, droga, contrabbando, rapine, stupri, corruzione per riabilitarsi agli occhi della classe dominante, disprezzata ma ambita e invidiata nei suoi successi e nel suo prestigio economico.

Ilaria Feole è attenta esegeta dello spirito e della mentalità dell’epoca, e abile nell’approfondire la psicologia dei personaggi principali, Noodles e Max, legati da un’amicizia morbosamente competitiva (“Cosa faresti senza di me?”, “Ho rubato la tua vita e l’ho vissuta al posto tuo”, sono alcune tra le loro battute più famose). “Due fuorilegge. Uno, Max,è un conformista; l’altro, Noodles, è un anarchico. Uno ha un solo desiderio: rientrare nei ranghi; l’altro, restare libero”, secondo le parole dello stesso regista. In particolare l’autrice esplora la psicologia di Noodles (interpretato da un eccezionale De Niro), che a differenza di Max – criminale asettico e ambizioso, smanioso di entrare nel mondo corrotto dell’alta finanza e della politica –,  rimane sentimentalmente legato alla malavita di strada, rassegnato a tradire e a essere tradito, bloccato nell’illusione di far rivivere il passato. “Noodles non è altro che un voyeur incapace di passare all’azione, un eterno spettatore, che trascorre la sua vita a guardare, aspiare, ad assistere alle altrui messe in scena: Leone sottolinea il concetto a livello tematico ed estetico”. De Niro è infatti ripreso spessissimo all’interno di cornici, gabbie, vetrine, oblò, finestre, porte, feritoie; sempre sulla soglia di qualcosa, di un atto risolutore e liberatorio, si riconosce perdente nell’amore come nella deliquenza, rifugiandosi nella violenza avvilente dello stupro o del massacro sanguinario. L’inquadratura finale, di un Noodles avvolto nei fumi dell’oppio, ambiguamente e vacuamente sorridente, sembra alludere al timore di aver sognato l’intera sua vicenda terrena, o alla consapevolezza di essere stato beffato per tutta l’esistenza, o al desiderio di libertà appagato solo dalla droga. E rimanda alla famosa risposta iniziale data all’amico Moe che gli chiedeva cosa avesse fatto neglicultimi anni, “Sono andato a letto presto”: ammissione di una rinuncia e di una sconfitta.

Numerosissimi sono gli omaggi che Leone porge al cinema americano degli anni ’30 e ’40 (Strada sbarrata, Una pallottola per Roy, Ilgrande caldo, La furia umana, I gangsters, Tempi moderni, La signora di Shangay,Duello al sole) e ad altri celebri registi di periodi successivi (OttoPreminger, Alfred Hitchcock, François Truffaut, Roman Polanski, Stanley Kubrik), citazioni che trovarono poi un opportuno e meritato pendant nelle dichiarazionic– esplicite e no ‒ di filiazione e riconoscenza verso il maestro romano di molti cineasti più giovani: Scorsese, Spielberg. Lucas, Carpenter, Cronenberg, Fincher, Cohen, Linklater, Winter, Tarantino, Wong Kar-wai…

Sergio Leone, che Jean Baudrillard definì “il primo regista post-moderno”, con C’era una volta in America ha creato un film-cult, “un’opera sterminata sul tempo perduto, sulla nostalgia e sulla negazione del sogno americano. Ma anche un teorema sul lavorio dell’immaginario cinematografico e sulla narrazione che l’America ha fatto di sé attraverso la settima arte”, secondo la lettura di Ilaria Feole.


© Riproduzione riservata            «Il Pickwick», 18 dicembre 2018