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RECENSIONI

CARLUCCI

VANNA CARLUCCI, LA PAROLA ANFIBIA – IL CONVIVIO, CASTIGLIONE DI SICILIA 2024

In un intervento pubblicato il 24 gennaio di quest’anno su La Poesia e lo Spirito, Vanna Carlucci così si esprimeva riguardo al suo rapporto con la parola poetica: “Come è possibile allora, per me, spiegare che esiste un animale selvatico che vive al centro del mio petto. È – come direbbe Milowsz – il daimon della poesia ‘come se fosse balzata fuori una tigre’. L’artiglio della parola è tra le sue zampe e dilania, ferisce e svela un linguaggio che è una forma che sanguina, una ferita. La poesia, quindi, è azione, movimento felino, contatto tra corpi”.

Un rapporto fisico, dunque, feroce e lacerante, un atto di violenza che incide la pelle e squarcia le vene, quello intessuto tra chi scrive in versi e il testo prodotto. Concetto che viene a più riprese ribadito nella recente raccolta dell’autrice pugliese, La parola anfibia, pubblicata dalle edizioni “Il Convivio” lo scorso marzo, e ben evidenziato dall’immagine graffiante della copertina

Parola anfibia, dalla duplice natura, salvifica e punitrice, è la parola della poesia: “La poesia, questa parete di luce /questo impianto di carne nell’universo” diventa “abisso senza protezione” in cui perdersi e dannarsi, che costringe a confessare la propria masochistica dipendenza: “il fremito di me che sono / la cassa sonante di una parola muta / terremotata nel costato / franata di luce”.

Una parola nata nell’oscurità, e dall’oscurità (“la parola nasce dentro il suo liquido nero e / si sparge lungo un campo di terra sterminato”), emersa e insieme minacciata da buio e da silenzio, i due sostantivi più ossessivamente ribaditi nel libro, diciotto e dieci volte ciascuno: “la risacca del buio”, “il buio dei nostri corpi”, “Nel buio dei respiri”, “il buio dietro gli occhi”, “sul mio volto buio”, “un piccolo silenzio pieno di sassi”, “nel silenzio della pelle trapassata, / c’è la violenza dello strappo” …

L’immagine del corpo sgualcito, ferito, sventrato, che macera, che si sgretola, ritorna spesso nelle pagine, ed è carne piagata dall’aggressione brutale inferta a volte proprio dalle parole scritte o pronunciate (“la bestia dimorata nel petto //… aspetto che mi divori e che lasci i miei resti sul cuscino”), a volte da immodificabile autolesionismo, a volte ancora patita in un sofferto rapporto di coppia.

La parola anfibia potrebbe infatti essere letta anche come un piccolo canzoniere amoroso, perché la presenza dell’amante è un “tu” che si rivela prezioso e insostituibile (“Tu, a cui affido il mio tremore”, “Io e tu / mai interamente compiuti / due polmoni affaticati / due occhi da neonati”), eppure velata da una sinistra premonizione, dal timore di un inevitabile allontanamento futuro. I due sembrano entrambi consapevoli della reciproca estraneità caratteriale, che induce lei a confessare l’impossibilità di un raggiungimento: “Tu dici Realtà / Io dico Pietra”, “Tu invece della vita hai fatto inconsistenza / cerchio mobile / soffio”. Tuttavia, la possibilità di una rinascita, di un recupero del rapporto viene affidato, ancora una volta, alla parola che è capacità di incontro e confronto nel canto, nel ritrovarsi di una voce poetica che accomuna e guarisce: “Risorgere, tu ed io, / come cicale”.

Attraverso un dettato aspro e frantumato, i versi di Vanna Carlucci (Bari 1987) trovano la giusta rispondenza alla sperimentazione dolente e ruvida della realtà, interiorizzata nel suo severo offrirsi all’interpretazione di un’acuta sensibilità poetica.

 

© Riproduzione riservata    «La Poesia e lo Spirito», 15 ottobre 2024

 

 

 

RECENSIONI

BASSI

SHAUL BASSI, PIANETA OFELIA: FARE SHAKESPEARE NELL’ANTROPOCENE

BOLLATI BORINGHIERI, TORINO 2024

 

Una bella occasione per rileggere (e rimeditare) le più importanti opere shakespeariane ci viene offerta dall’interessante volume di Shaul Bassi, docente di Letteratura inglese a Ca’ Foscari: Pianeta Ofelia, che audacemente propone un’interpretazione ambientalistica di sei testi chiave del Bardo: Amleto, Sogno di una notte di mezza estate, La tempesta, Re Lear, Il mercante di Venezia e Otello.

Perché offrire un’ipotesi critica tanto attuale e insolita prendendo in esame capolavori scritti più di quattro secoli fa? Ma perché Shakespeare non solo possedeva un’eccezionale potenza immaginativa, in grado di illuminare passato e futuro, ma sapeva penetrare con particolare acutezza nella psicologia dei suoi personaggi, inserendoli in strutture sociali e ambientali puntualmente analizzate. Aveva inoltre una spiccata sensibilità verso il mondo naturale, con profonde conoscenze della botanica e della zoologia, e una giusta diffidenza verso la capacità umana di comprendere, rispettare e sfruttare positivamente la ricchezza del mondo non-umano: “Ma l’uomo, l’uomo superbo, rivestito di una piccola e breve autorità, del tutto ignaro di ciò di cui più dovrebbe essere sicuro – la sua specchiata essenza – si esibisce come una rabbiosa scimmia in tali trucchetti stravaganti davanti all’alto cielo da far piangere gli angeli; i quali, se avessero la nostra milza, morirebbero dal ridere” (Misura per misura III.1.78-80).

Queste caratteristiche del genio di Stratford ce lo rendono contemporaneo, e incoraggiano un dialogo con le sue opere per ripensare noi stessi e le nostre relazioni col mondo, oggi pericolosamente minacciato sia dagli squilibri climatici sia dalla crisi della cultura antropocentrica. Shakespeare infatti

da un lato affronta esplicitamente problemi ambientali del suo tempo (deforestazione ed eventi meteorologici estremi) che nella nostra epoca si sono esacerbati; dall’altro crea situazioni e personaggi che si prestano a nuove e stimolanti interpretazioni ecologiche.

Bassi non individua il teatro shakespeariano come precursore dell’ambientalismo o profeta della fine dei tempi, ma invita ad approfondire tracce e suggerimenti per ripensare alla radice i comportamenti distruttivi dell’umanità, utilizzando riferimenti critici tratti dall’arte, dal cinema, dalla letteratura di tutti i tempi. Troviamo nelle pagine citazioni di filosofi contemporanei (Cacciari, Cavarero, Agamben, Derrida, Braidotti, Coccia) e antichi (Giordano Bruno); di poeti e scrittori come Leopardi, Primo Levi e Cormac McCarthy; di ecologisti come A. Ghosh, B. Latour, S. Iovino, D. Haraway, J.J. Cohen, O. Laing,

Lasciamoci quindi condurre da questo fil rouge che attraversa epoche e luoghi, per sottrarci alla provocatoria ammonizione di Re Lear: “È la piaga dei tempi quando i pazzi guidano i ciechi” (IV.1.46), cercando di aprire gli occhi sul domani che ci aspetta, anche con l’aiuto della letteratura.

Nella tragedia di Amleto, da secoli simbolo della condizione umana, possiamo riscontrare due concetti contrapposti di ecofobia ed ecofilia: il primo incarnato dal protagonista, ossessionato dall’idea di marciume e putrefazione del mondo naturale (l’aria è “una immonda e pestilenziale congregazione di vapori”, “il sole genera vermi in un cane morto”, “la marcia corruzione, che tutto mina dentro, infetta non veduta”). Risponde in controcanto l’ecofilia di Ofelia, immersa in un paesaggio floreale e in visioni acquatiche, capaci di conciliare cielo terso e terra fertilmente produttiva.

Il rapporto tra natura e cultura balza in primo piano soprattutto nel Sogno di una notte di mezza estate, dove la simbiosi tra umano e non umano crea combinazioni impreviste tra luoghi magici e boscosi, ambienti popolari, specie sovrannaturali e ceti aristocratici, in una continua metamorfosi il cui principale interprete è Puck, folletto che varca e intreccia i domini umano, animale e vegetale. L’elogio della biodiversità implicito in questa commedia suggerisce anch

e una celebrazione del polimorfismo sessuale, che ha offerto l’estro a recenti ambientazioni teatrali basate su nuove versioni queer, e riflessioni sulla coesistenza, interdipendenza, ibridazione degli umani e delle creature più-che-umane, aldilà di ogni rigida schematizzazione.

La tempesta, unica opera di Shakespeare che prende il titolo da un fenomeno atmosferico, è la più carica di significati politici, poiché testimonia un momento di passaggio da un oceano mitologico, divino e ostile, a un oceano reale che spiana la strada ai commerci transatlantici e alla conquista di nuove terre. Ambientata tra il mare minaccioso e sconfinato e la misteriosa segregazione di un’isola, si situa in un orizzonte lontano dallo spazio urbano e civile, evidenziando le potenzialità mai del tutto conosciute e dominabili degli elementi naturali, ben presenti nell’immaginario dell’uomo dell’Antropocene, consapevole degli stravolgimenti climatici provocati dalle attività industriali ed economiche prive di controllo.

Re Lear è l’opera di Shakespeare in cui ricorre con maggior frequenza la parola ‘natura’ con i suoi derivati (34 occorrenze), pur in una molteplicità di significati: carattere, destino, vita, età, paesaggio.

Solo in questa tragedia un personaggio shakespeariano si rivolge direttamente a un elemento atmosferico, in termini di incontenibile furore, quasi augurando una sorte di apocalisse vendicativa: “Soffiate, venti, e spaccatevi le guance! Infuriate! Soffiate! Voi, cateratte e trombe marine, sgorgate finché non avrete infradiciato i nostri campanili e annegato i galli segnavento! Voi fuochi sulfurei e rapidi come il pensiero, avanguardie dei fulmini che spaccano le querce, strinate la mia testa bianca! E tu, tuono che tutto scuoti, spiana la spessa rotondità del mondo, schianta gli stampi della natura, distruggi d’un colpo tutti i semi che fanno l’uomo ingrato”.

La Venezia di Shakespeare si ripete due volte, la prima come commedia e la seconda come tragedia, ne Il mercante di Venezia e in Otello, due opere sensibili a tematiche attuali, in quanto mettono in luce il rapporto necessario che intercorre tra ecologia, spazi urbani e comunità. Il capoluogo veneto è città cosmopolita, esattamente come nel 1600: multirazziale e multiculturale, epicentro mondiale del turismo, del commercio, dei trasporti e delle comunicazioni, ricco di esperienze artistiche ma segnato pure da sentimenti xenofobi e dall’ansia per i mutamenti climatici, che lo vedono spesso protagonista in negativo di inondazioni, inquinamento delle acque, abusivismo edilizio.

Ecco dunque che, seguendo i suggerimenti di Shaul Bassi, anche Shakespeare (“prospettiva e rifugio, monito e speranza, angoscia e consolazione”), può essere letto da noi abitanti dell’Antropocene riattualizzandolo con gli occhi del presente, alla luce delle trasformazioni che ci spaventano, per aiutarci a immaginare un futuro migliore.

 

© Riproduzione riservata          «Gli Stati Generali», 12 ottobre 2024

 

 

 

 

 

 

 

RECENSIONI

PRETE

ANTONIO PRETE, CONVITO DELLE STAGIONI – EINAUDI, TORINO 2024

 Come giustamente rileva il commento in quarta di copertina a Convito delle stagioni, ultimo volume di Antonio Prete (Copertino 1939), i due caratteri fondamentali della raccolta sono senza ombra di dubbio la natura e il tempo. La natura contemplata e raccontata in ogni sua espressione, dal cosmo al paesaggio che ci circonda, dal mondo vegetale e animale all’ambiente antropico, sempre riflessi attraverso la lente magica della meditazione metafisica, capace di riassumere in sé sentimenti di stupore, gratitudine, consapevolezza del sublime. Il tempo come mistero che permea l’esistenza degli esseri umani, nello scandire delle ere geologiche, della cronologia storica e della vita privata di ciascuno.

In questo senso, la lezione leopardiana concentrata nei quindici versi dell’Infinito, ha impresso tracce indelebili nella scrittura di Prete, egregio studioso e interprete della poetica del recanatese: il verde del colle e della siepe, il passato e il presente, la lontananza dell’orizzonte, il silenzio e lo spaesamento del pensiero, l’immensità di cielo e mare. Ognuno di questi elementi viene ripreso e amplificato nelle sei sezioni che compongono il libro, vero e proprio convito ricco di emozioni, suoni, colori, memorie.

In un capitoletto interno, Per un bestiario, sono celebrate presenze animali che hanno la funzione illuminante e fugace di una rivelazione improvvisa, più spirituale che materiale. Apparizioni angeliche, nel loro inaspettato mostrarsi e nei nascondimenti segreti: cani, gatte, istrici, insetti, cervi “vicini al respiro / della terra”, che hanno “in comune gli stellari / silenzi, l’indecifrata distanza”.

Sparse invece in tutte le pagine del volume sono le presenze vegetali, più di trenta specie di alberi e fiori, ascoltati nel canto sommesso dello stormire delle foglie, osservati nei mutamenti stagionali,

compianti nella crudele agonia imposta dalla siccità, dal disboscamento, dalle epidemie batteriche: “C’era nella musica degli alberi / un silenzio che era specchio / del cielo, dei suoi silenzi”.

L’attenzione al paesaggio, essenzialmente quello salentino di nascita, si esplica in una poesia intessuta di immagini che abbracciano in un quadro luminoso (invaso dalla luce, celebrata non solo come elemento fisico, ma come capacità di illuminazione interiore) terre e cieli, minimi figuranti umani e presenze animali, come in questo Notturno: “il tempo dell’infanzia, con il folto / degli ulivi sulla terra rossa, gli spaccapietre / sul ciglio della strada, sotto il sole, / il monaco che sostava nella controra / all’ombra dell’eucalipto, la ragazza / nella casa di calce, vestita di bianco, / la voce del violino che la chiamava al ballo / di san Paolo, i cavalli nel meriggio / con i carri carichi d’uva, // e il mare, il grido / del mare nelle notti di luna, sotto l’alta / torre saracena”.

Il Sud, “lontananza e insieme spina” è “lingua del ricordo”, “vento dei pensieri”, mitizzato nella sua fissità arcaica, non vissuto nelle contraddizioni sociali, ma reso eterno dalla memoria e dal desiderio di Stare: “stare in quella privazione di tempo / dove tutto quello che accade, amori, / erranze, perdite, ardimenti, / non conosce il gelo della sparizione, // stare nell’incantata spera / d’una sempre lucente primavera”.

Appunto al tempo (“che è lampo di presenza e stilla / d’accaduto”) viene demandato il compito di preservare il ricordo, pur nella coscienza della sua labilità: memoria che si affaccia negli anni che si accumulano, visi e voci amate che ritornano a vivere, squarci che si aprono nel buio, riportando alla mente le tante città visitate, i poeti incontrati, le parole pronunciate. Ma anche il tempo della storia collettiva, quella passata e quella violentata, tenebrosa, del presente, con le guerre in atto, tra eroismi e sopraffazioni, ingiustizie e morte. E infine il tempo dell’universo, delle galassie “sul cui confine il tempo non è più tempo”, in cui il pensiero, leopardianamente, si annega.

Compito della parola rimane quello di preservare tutto il vissuto e ciò che rimane da vivere, per salvare un barlume di speranza che aiuti ad andare avanti: “Le parole camminano con noi”. In particolare è la parola poetica, curata e sensibile, che assume su di sé la responsabilità di un’espressione più intensa, matura, sofferta: “la poesia, conoscenza e insieme / angustia per le ferite del mondo”. Antonio Prete celebra nel suo convito verbale l’accadimento dei giorni, sforza lo scrigno della bellezza perché si apra al mondo.

 

© Riproduzione riservata       «Gli Stati Generali», 2 ottobre 2024

 

RECENSIONI

TAGLIAFERRI

CARLA TAGLIAFERRI, L’ARCHITETTURA DI UNA VITA – ARCOLIBRI EDIZIONI, ARCO 2024

 

Con il sottotitolo “Una vita per l’architettura. Una vita…un sogno…una realtà”, è uscito presso le edizioni Arcolibri il corposo volume autobiografico di Carla Tagliaferri L’architettura di una vita”. Architetta, pittrice, progettista, docente universitaria, Carla Tagliaferri (Verona, 8 marzo 1933) ha costruito tutta la sua esistenza con la consapevole solidità, la feroce dedizione e l’ambiziosa utopia di una realizzazione ideale, rispettosa della propria individualità e dell’ambiente in cui si è via via inserita, colorandola con le tinte intense e vivaci che utilizza nei quadri e negli arazzi.

A partire dalla sua data di nascita, un otto marzo di novantuno anni fa (omaggio al proprio dichiarato e convinto femminismo, testimoniato dall’adesione come membro onorario alle associazioni Fidapa e Soroptimist, e dai numerosi riconoscimenti ricevuti per il suo impegno nei riguardi dell’empowerment delle donne), Carla Tagliaferri sembra aver scelto l’architettura come espressione artistica e civile capace di incidere più di altre forme culturali sulla realtà circostante, attraverso la possibilità di edificazione e trasformazione concreta del territorio e dell’habitat umano.

Cresciuta in una famiglia colta della borghesia veronese, laureata a Venezia nel 1960, assistente di Bruno Zevi prima allo IUAV di Venezia e poi alla Sapienza di Roma, in seguito docente in entrambe le università e per la Comunità Europea, ha frequentato e collaborato con nomi di assoluto rilievo internazionale, concentrando i suoi interessi soprattutto nel campo dell’architettura ambientale, dell’arredo urbano, dell’edilizia economica e popolare, della ristrutturazione delle periferie. Si è dedicata con particolare passione alla progettazione di parchi e giardini in Italia, Germania e Africa. Oggi risiede in un piccolo comune del lago di Garda, in una villa disegnata e arredata nei minimi particolari con originalissimo gusto estetico, dedicandosi con passione a sensibilizzare i concittadini alla salvaguardia del paesaggio naturale.

Il volume da poco pubblicato si apre con un’affettuosa rivisitazione del milieu familiare che l’ha cresciuta ed educata, con gli anni e gli studi giovanili vissuti tra Verona e Venezia, la traumatica esperienza della guerra e l’esaltante entusiasmo della ricostruzione post-bellica. L’università a Venezia, il trasferimento a Roma con incarichi professionali sempre più prestigiosi e impegnativi, il matrimonio e la maternità: scelte di vita arricchenti anche nella loro problematicità, nel conciliare la dedizione agli affetti privati con l’applicazione a un lavoro che negli anni ’60-70 non incoraggiava

la presenza delle donne (soprattutto a livelli dirigenziali!), diffidando di chi proponesse un pensiero autonomo, anticonformista e innovativo. Le esperienze vissute negli studi tecnici, nei cantieri, nei rapporti con le maestranze; le difficoltà e le resistenze patite per vincere i pregiudizi sessisti delle commissioni esaminatrici e delle imprese edilizie; la fatica fisica del protrarsi di discussioni e rielaborazioni di progetti già approvati: tutto ha contribuito a forgiare il carattere, sempre più risoluto, della giovane professionista.

Carla Tagliaferri si sofferma orgogliosamente sugli incontri e le amicizie importanti intessute negli anni romani con le maggiori personalità dell’arte, della scienza, della politica nazionale e internazionale. La passione civile che l’ha vista militare nelle file del Partito Socialista – esponendosi con veemenza nei comizi, affrontando logoranti riunioni di partito, testimoniando la propria verità riguardo alle morti di Moro e Falcone, conosciuti di persona –, la portò a essere minacciata direttamente negli anni bui del terrorismo, al punto da dover vivere sotto scorta, mettendo a rischio anche l’esistenza dei propri familiari.

Tutto il volume è postillato, quasi a ogni pagina, da citazioni illuminanti tratte da discorsi o testi di poeti, narratori, scienziati, musicisti, cantautori, artisti di ogni epoca e provenienza, con ampia partecipazione femminile, a indicare la vastità delle letture e della preparazione culturale dell’autrice. Ma è nel richiamo forte alla creatività, alla gioia di vivere, al coraggio di fare scelte difficili impegnandosi per il bene della collettività, che trova la propria giustificazione la pubblicazione di questo volume: messaggio di speranza e invito morale ad assumersi fino in fondo le proprie responsabilità nei riguardi del prossimo: “La mia idea è attuare programmi e azioni per aiutare a modellare la società, ridefinendo cosa significa essere uomini e donne nel nostro secolo, dare nuova positività e contenuto alla società civile”.

 

© Riproduzione riservata       «Odissea», 26 settembre 2024

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

RECENSIONI

HUERTA

EFRAÍN HUERTA, POEMINIMI – IL PONTE DEL SALE, ROVIGO 2024

Il messicano Efraín Huerta (1914-1982), è stato l’inventore di un particolare genere letterario, i Poeminimi, composizioni brevissime che hanno come caratteri essenziali condensazione, sintesi, precisione, ironia, memorabilità. La colta ed empatica postfazione di Stefano Strazzabosco mette in luce la particolarità di questi “versicoli virali, insieme fulminanti, passionali e cinici”, capaci di creare un fulminante cortocircuito irriverente e caustico nei riguardi dei vizi pubblici e privati di un’epoca, di una nazione, e dello stesso loro autore.

Ironico e autoironico, Huerta sapeva prendersi in giro, in particolare nel suo ruolo pubblico di intellettuale e scrittore:

Minaccia: “Beati / I poeti / Poveri / Perché / Di essi / Sarà / / Il regno / Dei / Suoli”; Ahi Poeta: “Prima / Di tutto: / Mi compiace / Enormissimamente / Di essere / Un buon / Poeta / Di seconda classe / Del / Terzo / Mondo”; Handicap: “Non posso / Smettere Di / Scrivere / Perché / Se mi fermo / Mi raggiungo”; Maximinima: “Solo / A forza / di poesia / Si smette / Di essere / Poeti / per forza”.

Altrettanto frequente era nei suoi versi l’ammiccamento erotico o la sfrontata dichiarazione d’amore per la bottiglia:

Imprendotoriale: “Il mio amore / Per te / Per lei / Per voi / Per l’(e) altra (e) / È un / Frutto diretto / Della più pura / Iniziativa Privata”; Immenso dramma: “Tutte / Le donne / Che amo / Sono sposate / Persino la mia!”; Miss Himalaya: “È vero / Amore mio / I tuoi seni / Sono il / Petto del / Mondo”; Ordinamento: “Non / Bere / Domani / Quello che / Puoi / Bere / Oggi”; Galileica: “E / Pur / Si / Beve!”

Tutti provvisti di titoli, spesso sarcastici o fuorvianti, i Poeminimi trovano la loro specificità nell’allusività (non sempre subito avvertibile), nella deformazione, sostituzione o nello slittamento morfologico del testo. Secondo una dichiarazione dello stesso autore, il loro segreto è la capacità di “dislocare e alterare”, creando così alternativamente nei lettori attesa, sorpresa, divertimento. Pur attraverso lo scherno e la derisione, un richiamo etico si avverte nella polemica sofferta nei riguardi della politica trasformista e corrotta. Da stalinista mai pentito, negli anni ’60 Efraín Huerta si erge ad accusatore delle violenze antipopolari che provocano stragi nel suo paese, delle pesanti ingerenze degli Stati Uniti, dei regimi dittatoriali che di impongono nel sangue in tutta l’America Latina.

Sterile: “Teorico / Di tutto / Militante / Di niente”; Sconcerto: “I miei / Vecchi / Maestri / Di marxismo / Non li posso / Capire: / Alcuni sono / In prigione / Altri sono / Al / Potere”; Di classi: “Non c’è / Peggior / Lotta / Di quella / Che / Non s’è / Fatta”; Pinochet: “Ah / Maledetto!/ Tutto / Lo pagherai / Con la / Stessa / Moneda”; Sinistra parafrasi: “ Odio / L’odore / Dei marines / Che bombardano / E se ne vanno / Un bombardamento / in ogni porto / I marines / Bombardano / E se ne vanno”.

 

© Riproduzione riservata            «SoloLibri», 22 settembre 2024

 

 

 

 

RECENSIONI

HELD

RICCARDO HELD, MISHKIN – EINAUDI, TORINO 2024

Mi piace iniziare il commento a quest’ultimo, originale libro di versi di Riccardo Held, Mishkin, prendendo in considerazione la toccante prosa finale, che il poeta dedica alla memoria del suo gatto Mishkin, intitolando a lui addirittura l’intera raccolta. Un gatto particolare, appartenente a “un altro ordine dell’essere”, “una concentrazione inspiegabile di bene incondizionato”, “creatura infinitamente più complessa, sorprendente, strana, significativa e più simile a una cosa che non so chiamare in altro modo se non bene assoluto”.

La stessa acuta sensibilità ed empatia nei riguardi di ciò che è altro da noi, e pure ci assomiglia, ritroviamo se dalla pagina conclusiva del volume si risale alla prima sezione, “Andata”, in cui un centinaio di brevissime composizioni – giocose, spiazzanti, ironiche e insieme provocatoriamente meditative –, hanno come protagonisti animali, vegetali, oggetti, idee continuamente mutanti e indefinibili.

Ereditando una tradizione minoritaria della nostra letteratura, ma  presente e vivace già nell’antichità e nel medioevo (da Giovenale a Cecco Angiolieri, Lorenzo de’ Medici e Francesco Berni), attraverso l’800 di Giusti e dei grandi dialettali (Porta, Belli, Pascarella, Trilussa), per arrivare al ’900 dei futuristi e di Palazzeschi, fino ai contemporanei Fosco Maraini, Giulia Niccolai, Toti Scialoja e Gianni Rodari, la poesia “che si diverte” e “fa divertire” scardina ogni pretesa rigidità del testo, mettendo in crisi l’orizzonte di attesa del lettore. L’esempio più calzante cui fare riferimento rimane comunque quello del limerick anglosassone, di cui fu rappresentante insigne Edward Lear: cinque versi severamente regolamentati improntati a un umorismo più o meno pungente.

Gli strumenti usati da Riccardo Held nella sua produzione sono i più vari: nonsense, satira, parodia, grottesco, paradosso, contraddizione, lapsus, calembour, incoerenza lessicale, scelti alternativamente per creare situazioni imprevedibili, incarnazioni ibride e fluttuanti, ruoli imposti che si vorrebbero sovvertire. Ecco quindi una candela che non vede l’ora di spegnersi, una coperta stanca di stare sopra il letto anziché sotto le lenzuola, un leggio desideroso di poter osservare dall’alto il libro che sostiene, un quadro astratto occhieggiante con invidia una natura morta cinquecentesca. E poi insetti, pesci, uccelli che involontariamente si trovano a fare coppia con animali molto dissimili. I titoli delle composizioni sembrano ideati a bella posta per depistare il lettore: (New economy) “La cicala non canta / Lavora e si affatica / E quando il freddo avanza / Soccorre la formica”. Troviamo capovolgimenti di situazioni: (Fiaba triste) Un principe bellissimo / Colpito da malocchio / Desidera moltissimo / Trasformarsi in ranocchio”; giochi di parole: (Nuove coppie) Ad Asti all’asta un istrice / Si aggiudica un Vermeer / – Lo appendo – dice all’astice / – Nel nostro pied-à- terre”; sarcasmo ideologico: (Atti del convegno di linguistica): “Se la lasci un po’ in pace / La lingua non si offende / Lo dice pure Chomsky / Che certo se ne intende”.

E poi filosofi, pittori, scienziati, divinità mitologiche, tartarughe parmenidee e libellule rivoluzionarie: un microcosmo di esseri intenti a riflettere le contraddizioni della storia e del pensiero umano, schiudendo “tesori sempre nuovi / di saggezza e virtù e conoscenza!”

Le altre due sezioni che compongono il volume (Pausa e Ritorno) appaiono più intimiste e tradizionali, sia nella strutturata eleganza dei sonetti sia nei ricalchi dai classici. Un ricomporsi non solo formale, recuperando echi gozzaniani e crepuscolari, ma soprattutto esistenziale quello che il poeta si propone di conquistare, dopo tanto tempo e tanto studio trascorso a sporgersi fuori di sé: un recupero di interiorità e di memoria (“Spostarsi appena, mettersi al riparo”), per ritrovare voci e immagini perdute: dell’infanzia, della madre, dell’ispirazione poetica. Alla ricerca delle proprie ombre, da rivalutare nella loro generosità protettiva (“Eccomi qui di nuovo / Nel mio luogo di sempre / Dentro la chiesa scura del mio cuore / Che stupido pensare / Di poterlo lasciare”), vincendo i demoni che oscurano la gioia di vivere, e bloccano in un egoismo smemorato della sofferenza altrui.

Riccardo Held (Venezia 1954) vive tra Venezia e Vienna, occupandosi di teatro, musica, traduzione, critica letteraria.

 

© Riproduzione riservata            «Gli Stati Generali», 14 settembre 2024

RECENSIONI

ANIL

ALESSANDRO ANIL, TERRA DEI RITORNI – SAMUELE EDITORE, FANNA (PN) 2023

 

L’ultimo libro di versi di Alessandro Anil, Terra dei ritorni, incluso nella dozzina finalista del Premio Strega Poesia 2024, segue altre due raccolte del 2019, Versante d’esilio e Come tradurre la neve, in cui l’autore aveva già dato prova della sua maturità espressiva e di una particolare tensione spirituale, non circoscrivibile solo teologicamente.

Anil è nato nel 1990 in India, nel villaggio di Santiniketan, sede della scuola filosofica di Tagore, e lì è vissuto fino ai sedici anni. Trasferitosi in seguito in Europa, dopo la laurea in Inghilterra, risiede oggi in Italia, dove si occupa di teatro, filosofia e traduzione. Della sua origine orientale mantiene tuttora una disposizione naturale alla meditazione ascetica, al superamento delle contingenze quotidiane nella ricerca della verità, prediligendo lo scavo interiore e solidi ancoraggi etici per conquistare la libertà interiore. La sua scrittura si propone quindi come metodo di conoscenza, nel raggiungimento di una consapevolezza non unicamente sensoriale.

Terra dei ritorni si compone di tre sezioni poetiche, sia tipograficamente sia formalmente vicine alla struttura della prosa filosofica, nel ritmo pacato dell’esposizione riflessiva, dell’argomentazione equilibrata, che non conosce scarti linguistici destabilizzanti o sperimentalismi provocatori, ma predilige l’armonia di una narrazione priva di discrepanze.

Già a partire dall’epigrafe, il lettore intuisce nel richiamo al nascondimento e alla rivelazione, all’ombra e alla luce, alla presenza e all’assenza che continuamente si inseguono, l’eco del pensiero classico e l’insegnamento di religioni millenarie sul transeunte che permea la realtà: “Noi siamo uno nell’altro nascosti / e ci apprendiamo quale l’uno il nascosto dell’altro. / Alternando, ci mostriamo quando siamo più nascosti / e ci nascondiamo quando più ci mostriamo”. Nell’intenzione gnomica dell’avvertimento, come non ripensare all’oscurità delle formule eraclitee, al “lathe biôsas” di Epicuro, allo svelamento del tempo di Heidegger, all’elogio dell’ombra di Borges, fino alle teorie più recenti della psicanalisi sulla duttilità delle esperienze umane e l’indefinibilità dell’inconscio?

Così nella lettera iniziale, il cui destinatario rimane ignoto (tutti o nessuno, l’io dell’autore o una presenza amata), il tema – ripreso poi nel corso delle pagine – è quello dell’esilio, dell’allontanamento (da sé stessi e dalle origini, dalla società e da asfissianti legami sentimentali) connesso a quello del ritorno, di un rimpatrio, di un rifugio protettivo nell’alveo materno della natura, del corpo femminile, della casa: “L’inermità del riposo richiede la protezione della tana”. Fuga e rientro, inizio e fine, alba e crepuscolo, primavera e autunno si rincorrono nelle immagini e nelle ostentate ripetizioni di alcuni concetti.

Come un mantra ribadito in una nenia tranquillizzante, troviamo infatti la supplica “lasciami entrare” rivolta alla donna salvezza e rifugio, e la continua affermazione della vanità e inconsistenza dell’essere: “niente resterà qui, niente”, “Niente, niente resterà, solo oscurità”, “Resteranno solo ombre, solo ombre”, “la luce senza oscurità è ombra perpetua, tenebra senza luce”. Ombra e penombra alludono alla quiete della sera, quando un inedito ulisse riapproda alla sua itaca abbandonata, cercando l’abbraccio protettivo e accogliente del corpo dell’amata. “Lasciami entrare” viene ripetuto ventitré volte, è una preghiera e insieme una richiesta perentoria a una presenza erotica immateriale, sfuggente e indefinibile e tuttavia persistente. Roccia àncora culla dimora letto. Concretezza e astrattezza insieme, la donna chiamata “amica mia”, moglie fidanzata madre di figli futuri, è soprattutto colei che aspetta, offrendo fiducia e consolazione a chi è andato via e ritorna trasformato, avendo finalmente trovato risposte alla propria inquietudine. Le dichiarazioni d’amore sono insistenti, come la richiesta di un perdono, di una

generosità immeritata: “se io sono partito è perché sapevo che tu eri qui ad attendermi. / Lasciami entrare. Impossibile non pensare l’amore come a una terra”, “la mia sete appartiene al tuo corpo”, “il corpo può continuare ad appagarci nonostante il dolore”, “Le mie mani sono ossessionate da te”.

Dopo la prima sezione che dà il titolo al volume, le due successive (Note sulla melodia dell’acqua e Cartografia della voce) si accentrano su due tematiche fondamentali nella riflessione teorica di Alessandro Anil: l’elemento liquido e il suono. L’acqua trova ancora importanti riferimenti mitologici e filosofici nella tradizione culturale di ogni tempo e latitudine: il fiume Lete che cancella la memoria, lo scorrere inarrestabile del fiume eracliteo, la purificazione del Gange, il battesimo di Cristo, immagini che tutte si riassumono nei versi del poeta: “il fiume misteriosamente dà forma al tempo”, “il rivolo d’acqua negli anni scava la via del ritorno”. L’acqua canta, trasporta melodie, e secondo l’autore “La musica è la tentazione del linguaggio di tornare nell’origine da cui ha dovuto astrarsi per esistere… Se la misteriosa forma del tempo è la musica, siamo il tentativo della materia di trasformarsi in vibrazione, una melodia, un suono che bussa sulla soglia del niente”.  L’ultima breve sezione del volume, è dedicata appunto al suono, alla magia della voce umana come si era espressa dolorosamente in alcuni ricordi infantili, avvicinando il pensiero al buio ineluttabile della morte, o come più gentilmente ha accompagnato la scoperta vitale della rinascita, della bellezza ritrovata in piccoli fiori spuntati al mattino, nel volo notturno delle falene, che rivelano “il dominio della grazia… vita che si ritrova nel minimo, nel nulla quasi essenziale”.

 

© Riproduzione riservata       «Odissea», 2 settembre 2024

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

RECENSIONI

JOYCE

JAMES JOYCE, NON POSSO SCRIVERE SENZA OFFENDERE LE PERSONE

ERETICA EDIZIONI, BUCCINO (SA) 2024

 

La casa editrice Eretica propone una selezione di lettere che James Joyce (Dublino1882-Zurigo1941) indirizzò nell’arco di una trentina d’anni ai suoi corrispondenti durante le tormentose vicende editoriali che per motivi di censura ostacolarono la pubblicazione dei suoi libri Dubliners e Ulysses: Non posso scrivere senza offendere le persone.
I racconti dei Dubliners patirono nove anni di continui rifiuti, richieste di revisione, polemiche, prima di venire finalmente pubblicati nel 1914 dall’editore Grant Richards: si temevano accuse di antipatriottismo e di oscenità da parte dei lettori e delle autorità irlandesi.
Per Ulysses, invece, le circostanze assunsero da subito un’altra piega, in quanto Joyce si era nel frattempo fatto conoscere come autore di rilievo, ottenendo il plauso e il sostegno di importanti intellettuali come Ezra Pound, per cui interi brani del romanzo iniziarono a uscire su influenti riviste letterarie, nonostante la continua minaccia di sequestri, finché nel 1921 negli Stati Uniti il testo finì sotto processo e venne condannato per oscenità, e ne fu interrotta la pubblicazione anche in Inghilterra. Soltanto grazie al coraggio della casa editrice parigina Shakespeare & Co., il libro uscì in Francia nel 1922. Tuttavia, bisognò attendere il 1933 perché Ulysses fosse liberato dall’accusa di oscenità e potesse venire diffuso nel resto del mondo. Nella conservatrice Irlanda, il capolavoro joyciano iniziò a circolare liberamente solo negli anni ’60, quando il suo autore era ormai morto da vent’anni.
Le lettere presentate in questa raccolta sono state tradotte dagli originali pubblicati nel 1957, nel 1966 e nel 1975. Ognuna di esse è preceduta da data, luogo di invio e nome del destinatario, ed è accompagnata da notizie sugli eventi, i luoghi, le persone e le opere menzionate.
Inoltre nell’Appendice possiamo leggere le traduzioni con originale a fronte di Gas from a Burner, poemetto satirico del 1912 ispirato alla vicenda della pubblicazione dei Dubliners, e l’episodio di Nausicaa dell’Ulisse, incriminato negli anni ’20.
L’epistolario si apre con una prima lettera, datata 26 aprile 1906 e inviata da Trieste all’editore Grant Richards, e si chiude il 31 luglio 1934, con un biglietto spedito da Anversa al fratello di Joyce, Stanislaus.. Tra i destinatari delle missive leggiamo nomi famosi (Italo Svevo, T.S. Eliot), ma prevalgono comunque gli editori con cui il grande letterato dovette combattere per tutta la sua esistenza. Si difendeva con veemenza, talvolta usando toni sarcastici o irosi, accusando i corrispondenti più retrivi di clericalismo o di mentalità militaresca: “Ho scritto il mio libro con notevole cura, nonostante mille difficoltà e coerentemente con quella che ritengo essere la tradizione classica della mia arte… Non posso fare più di questo… Non posso modificare ciò che ho scritto… Non sono un emissario di un Ministero della Guerra che sperimenta un nuovo esplosivo… Non ho tuttavia detto quale delusione sarebbe per me se non potessi condividere le mie opinioni”.
Succedeva che fossero addirittura i tipografi a rifiutarsi di stampare i testi, ergendosi a censori e difensori della pubblica moralità: in un caso venne rimproverato allo scrittore l’uso del termina “dannato” in quanto violento e disdicevole.
James Joyce era assolutamente fiero della propria produzione, e ne menava vanto: “Ho fatto il primo passo verso la liberazione spirituale del mio paese”, attaccando anche la mediocrità della sua città natale: “La mia intenzione era quella di scrivere un capitolo della storia morale del mio paese e per la scena ho scelto Dublino perché quella città mi sembrava il centro della paralisi”. Arrivò spesso a minacciare azioni legali sia contro gli editori inadempienti del contratto, sia contro le pubblicazioni clandestine e piratesche: altre volte si dichiarò disposto a contribuire alle spese di stampa pur di vedere pubblicati i suoi lavori, in cui giustamente credeva moltissimo. I più noti letterati dell’epoca firmarono per solidarietà la sua denuncia contro i soprusi editoriali di cui era vittima: tra gli altri Benedetto Croce, Albert Einstein, T.S. Eliot, André Gide, Ernest Hemingway, D.H. Lawrence, Thomas Mann, Luigi Pirandello, Bertrand Russell, Italo Svevo, Virginia Woolf, W.B. Yeats.
A proposito di Dubliners, rifiutato da quaranta editori, Joyce scriveva “Il libro mi è costato tra spese legali, di viaggio e postali circa 3000 franchi: mi è costato anche nove anni di vita. Ero in corrispondenza con sette avvocati, centoventi giornali e diversi letterati a riguardo — i quali tutti, tranne il Sig. Ezra Pound, si rifiutarono di aiutarmi… Una persona molto gentile acquistò l’intera edizione e la fece bruciare a Dublino: un autodafé nuovo e privato”. Si vendicò anche in versi contro l’ottusità cattolicamente becera dei suoi connazionali: “O Irlanda mio primo e unico amore / Dove Cristo e Cesare sono culo e camicia!”
L’appassionata postfazione del volume, per firma di Sofia Cavazzoni, ci restituisce l’atmosfera claustrofobica e persecutoria che ha circondato e preso di mira le pubblicazioni dei capolavori joyciani, ricostruendo puntualmente tutte le vicissitudini editoriali che le hanno accompagnate per mezzo secolo.

 

© Riproduzione riservata    «Gli Stati Generali», 25 luglio 2024

RECENSIONI

MALAMUD

BERNARD MALAMUD, PER ME NON ESISTE ALTRO – MINIMUM FAX, ROMA 2015

Minimum Fax ha pubblicato nel 2015 Per me non esiste altro, un omaggio alla letteratura di Bernard Malamud (Brooklyn 1914-New York 1986). Scrittore americano di origine ebraiche, Malamud ottenne importanti riconoscimenti sia per i suoi sette romanzi (il più famoso fu Il commesso, del 1957), sia per i numerosi racconti che gli valsero il National Book Award. Nei suoi lavori utilizzava uno stile asciutto e realistico, descrivendo con intensa partecipazione emotiva e lieve ironia il mondo piccolo borghese di individui e famiglie incapaci di adattarsi alle esigenze della società moderna. In genere perdenti, afflitti da perenne malinconia, perdutamente e infelicemente innamorati, i suoi personaggi riflettono il rigore etico e la rassegnata pazienza dei tanti invisibili Giobbe che si celano nelle pieghe di un mondo sopraffattore e spietato.

Malamud è stato uno scrittore in conflitto con la sua epoca, di cui criticava ingiustizie e disumanità, senza però arrivare mai alla polemica o alla rivendicazione rivoluzionaria. La sua contestazione della contemporaneità si è espressa quasi esclusivamente attraverso la letteratura, e questo volume ne è una efficace testimonianza. Si tratta di una raccolta di riflessioni e suggerimenti per la scrittura, una serie di lezioni sui meccanismi narrativi da seguire per produrre un testo non solo convincente per i lettori, ma anche in grado di proporre un insegnamento morale. Queste indicazioni suggeriscono inoltre una guida di lettura, un libretto d’istruzione per interpretare forme e contenuti dell’opera di Malamud stesso, maestro ed esempio di scrittura raffinata, fondata su un’esigenza etica di interpretazione dell’agire umano.

Il primo suggerimento offerto a chi volesse misurarsi con la pagina bianca, riguarda l’oggetto della scrittura: cosa scrivere, quali argomenti prendere in considerazione, con quali tipologie caratteriali confrontarsi. Senza eccedere nello scandaglio interiore della psicanalisi (secondo l’autore colpevole di non esprimere giudizi di valore sui comportamenti individuali), l’aspirante scrittore deve possedere una conoscenza profonda dell’animo umano, dei suoi sentimenti ed emozioni, delle motivazioni che lo spingono all’azione. Una responsabile esplorazione dell’io rimane alla base di questa ricerca: senza scadere in un eccessivo autobiografismo, si possono opportunamente combinare spunti del proprio vissuto con altre fonti di ispirazione provenienti dall’esterno. Quali temi prediligere, dunque? Non si deve temere di ripercorrere argomenti logori e abusati della letteratura mondiale, inseguendo falsi ideali di novità e originalità assolute. Si possono scegliere temi intimistici, ispirati dalla cronaca, dalla storia mondiale o del tutto fantastici, riorganizzandoli secondo la propria inclinazione ed esperienza personale. Nella costruzione di una storia è importante privilegiare l’idea del conflitto, con sé stessi o con la società, di lotta contro un destino avverso, o con l’inquietudine dell’inconscio. Ciò dà spessore a ogni carattere e a ogni vicenda, anche puramente sentimentale.

Leggere moltissimo, trarre insegnamenti dai capolavori della letteratura mondiale è ovviamente indispensabile, evitando però il confronto con i giganti, e il desiderio di emularli: i libri altrui vanno osservati a distanza, attraversati senza fagocitarli. Una volta scelto il tema da raccontare, è opportuno redigere una scaletta, modificabile man mano si procede nel lavoro, perché aiuta a organizzare meglio lo sviluppo della trama, e offre un’idea complessiva dell’opera, dall’ossatura iniziale al perfezionamento dei dettagli.

È utile poi creare combinazioni diverse per testarne la forza drammatica, cercando di ampliare il proprio punto di vista, senza imporre una visione univoca della realtà. Chi scrive non deve aver paura di inventare, di usare l’immaginazione, di fantasticare sul mistero e sull’irreale, di sfruttare l’ironia e la comicità, alleggerendo un contesto troppo serio o appesantito. Nella costruzione dei personaggi, si deve lasciarli liberi di cambiare prospettive, scelte e carattere nel corso della narrazione, scavando nella loro interiorità fatta di dubbi, rimorsi, complessi, sentimenti positivi o negativi, di sogni e incubi.

Lo stile è fondamentale nella produzione di un autore: deve essere sobrio e controllato, e va continuamente corretto, nel corso di molteplici stesure: “riscrivere, riscrivere, riscrivere”, con il coraggio di cestinare i tentativi falliti, ricominciando da capo finche non si trova il giusto ritmo narrativo.

Come uomo e come scrittore, Malamud poneva tra i suoi irrinunciabili valori onestà, disciplina, integrità, orientandosi verso la dimensione etica della vita e della letteratura. Diffidente verso chi nell’arte esalta l’espansione della coscienza attraverso pratiche psichedeliche, l’uso di droghe, o altre esperienze violentemente distruttive, credeva essenzialmente nell’impegno costante e razionale del lavoro sul testo, e nella creazione di un’estetica morale, capace di dare un significato al senso dell’esistenza. Concordava quindi con l’affermazione di Camus secondo cui “compito principale dello scrittore è evitare che il mondo si autodistrugga”.

 

© Riproduzione riservata         «Gli Stati Generali», 21 luglio 2024

 

 

RECENSIONI

SŌDERGRAN

EDITH SŌDERGRAN, NOTTURNO E ALTRE POESIE – MAURO PAGLIAI, FIRENZE 2009

Alla poeta finno-svedese Edith Södergran (San Pietroburgo, 1892Raivola, 1923) l’editore Mauro Pagliai ha dedicato nel 2009 l’antologia Notturno ed altre poesie, con testo a fronte e cura di Bruno Argenziano. Considerata la fondatrice del modernismo finlandese, Södergran ha influenzato la lirica nord-europea fra le due guerre mondiali attraverso la sua delicata ma intensa voce poetica, che raccoglieva le eredità del Simbolismo francese, dall’Espressionismo tedesco e dal Futurismo russo, filtrandole con “raffinata sensibilità e prorompente vitalità”. Esordì nel 1916 con la raccolta Poesie, alla quale seguirono altri quattro volumi di versi, in cui sempre si evidenziava un’acuta percezione visiva e affettiva della natura.

“Di tutto il nostro assolato mondo / desidero soltanto una panchina da giardino / dove un gatto prende il sole…”; “Gli amari garofani allignano lungo la via / dove impenetrabile si fa la penombra dell’abete”; “Me ne sto sola fra gli alberi del lago, vivo in amicizia coi vecchi abeti della riva / e in segreta concordia con tutti i giovani sorbi”.

Nata a San Pietroburgo, Edith visse con la famiglia tra la capitale russa e Raivola (oggi Roshchino), piccolo centro a pochi chilometri dal mare e dal confine con la Finlandia, scelto come meta estiva dalle famiglie borghesi della zona. Educata in prestigiosi collegi, si esprimeva perfettamente in russo, in tedesco, e ovviamente nella lingua materna, lo svedese parlato in Finlandia. Leggeva testi sia nelle lingue classiche, sia in francese, inglese, italiano. Dai temi di ispirazione elegiaca delle prime raccolte, l’interesse della giovane poeta si orientò verso interessi politici e filosofici, frutto di approfondite letture, soprattutto da Freud e Nietzsche, con una precoce e risentita attenzione nei riguardi del ruolo subalterno delle donne nella società. Quindicenne si ammalò di tubercolosi, la stessa malattia che aveva portato alla morte suo padre, e che la costrinse a lunghi periodi di cura in sanatori svizzeri, uccidendola a soli trentun anni. Il presentimento della morte velava i suoi versi di malinconia e pessimismo, insieme al nostalgico desiderio di un amore e di un futuro che sapeva irrealizzabili:

“Il futuro getta su di me la sua ombra beata; / non è altro che fluente sole: / trafitta di luce morirò, una volta calpestato tutto il fortuito, / con un sorriso volgerò le spalle alla vita”; “Tra breve vorrò stendermi sul mio giaciglio, / i folletti mi copriranno di bianchi veli / e rosse rose spargeranno sulla mia bara. / Muoio – perché son troppo felice”; “Amavo una volta un uomo, non credeva in nulla… / Venne un freddo giorno e gli occhi eran vuoti, / se ne andò un plumbeo giorno e c’era oblio sulla fronte”.

Recentemente, non solo nel mondo scandinavo ma anche in Italia, le poesie di Edith sono state lette, recensite e citate con grande interesse dalla critica femminista, che ha trovato nella poeta finno-svedese un’intelligente anticipatrice delle tematiche più cogenti della lotta di liberazione della donna. L’orgoglio della propria femminilità la rendeva erede delle grandi figure del mito, e contemporaneamente proiettata in un mondo di gioiosa indipendenza fisica e intellettuale:

“A piedi / mi toccò attraversare il sistema solare, / prima di trovare il primo filo del mio abito rosso. / Ho già il presagio di me stessa. / In qualche posto nello spazio è appeso il mio cuore, / faville si sprigionano da esso, e l’aria si scuote, / verso altri smisurati cuori”.

 

 

© Riproduzione riservata            «SoloLibri», 6 luglio 2024