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RECENSIONI

CARRERA

ALESSANDRO CARRERA, SAPERE – IL MULINO, BOLOGNA 2023, p. 152

Alessandro Carrera, professore di Italian Studies e World Cultures and Literatures alla University of Houston, in Texas, è autore di numerosi volumi di critica letteraria, di romanzi e poesie; si interessa da sempre di musica, e per Feltrinelli ha tradotto tutte le canzoni e le prose di Bob Dylan, a cui ha dedicato diversi studi. È pienamente titolato, quindi, a interrogarsi – nel suo volume Sapere, edito da Il Mulino – sul valore della cultura e della sapienza che ad essa si collega nell’origine e nelle finalità: sapere inteso come “bene” non solo intellettuale, ma anche etico, civile, di collante sociale. “Il sapere non è né l’istruzione che ho ricevuto né la somma dei libri che ho letto. Inizia insieme all’umanità, ben prima che si formi la nozione di cultura. È, per prima cosa, il sapere delle origini…”

Quindi, il sapere è originario e collettivo, si differenzia presto dalla cultura, anche se spesso le loro strade si intersecano. Con un’azzeccata intuizione, Carrera definisce il sapere come l’inconscio della cultura, la quale può essere classificata, conservata in biblioteche, commercializzata e addirittura cancellata. Il sapere no, rimane, resiste, è indistruttibile, perché introduce alla visione delle idee, non ha una funzione eminentemente pratica. Il problema da porsi è come tramandarlo alle generazioni future, in maniera non dogmatica né gerarchica.

Il primo capitolo del libro si occupa proprio della gerarchizzazione del sapere, a partire dalle esperienze personali dell’autore: un suo primo impiego come caporedattore in un giornale di medicina e alimentazione alternativa, gli studi di estetica musicale, il trasferimento negli Stati Uniti nel 1987, un viaggio a Kyoto a visitare il parco Ryoanji. Esperienze che l’hanno convinto dell’irrilevanza delle teorie che pretendono di spiegare il reale, catalogandolo, quando invece vengono continuamente superate, modificate da nuovi paradigmi ideologici (hanno stancato molti -ismi idolatrati in passato: strutturalismo, personalismo, esistenzialismo, storicismo, cognitivismo ecc.). Al loro posto si stende un’orizzontalità assoluta, un vuoto che è anche immanenza ma in senso antigerarchico, disegnando una diversa topologia dei campi del sapere, dove non esiste “né sopra né sotto, né destra né sinistra”. Alla verticalità cristallizzata di valori – in scala a seconda della loro rilevanza e del loro prestigio culturale –, si sostituisce la ricchezza della compresenza di posizioni e situazioni non confrontabili tra loro, eppure ugualmente potenti. “I Beatles sono ‘come’ Stockhausen, Bob Dylan è ‘come’ Miles Davis”. Ogni prodotto culturale in futuro sarà letto con criteri interpretativi oggi sconosciuti: bisogna riuscire a considerare artefatti diversissimi tra loro sul piano della compresenza, pur sapendo che

appartengono a momenti temporali diversi e non paragonabili, per approdare a un pensiero non gerarchico, analogico, immediato. Il concetto di diacronia va relativizzato rispetto alla sincronia dei saperi nel momento in cui appaiono, globalmente e in maniera differenziata: la cultura dominante mezzo secolo fa oggi è considerata di nicchia, non più egemonica, e viene di continuo sostituita da nuovi saperi prima ritenuti periferici, di minoranza.

Quale sapere trasmettere, quindi, e come? Nel secondo capitolo Alessandro Carrera riflette sulla sua professione di docente, ora universitario, precedentemente in ogni grado di scuola. Ironicamente si definisce un disc jockey della cultura, dato che oggi i concetti di classicità, bellezza, significanza  sono stati profondamente modificati in senso funzionale: di efficienza, resa economica, produttività. Il tablet, nella sua piattezza unidimensionale, è più comodo del libro; la rapidità è preferibile alla lentezza; il progresso tecnologico è essenziale, mentre le discipline umanistiche non lo sono. Anzi, mancando di utilità pratica, costituiscono un privilegio.

Se il knowing how è più importante del knowing what, l’insegnante dovrà adeguarsi a una nuova metodologia di trasmissione del sapere, tracciando un ambiente di apprendimento non lineare, trasmettendo capacità di discernimento, idee, gusto, stile, e concependo collegamenti attraverso cui le opere confluiscono una nell’altra, in forme contigue che si incastrano tra di loro. Come fa il dj miscelando musiche diverse. Confessa Carraro: “Faccio girare qualunque remix riesco a trovare. Ho imparato a tagliare, mischiare, graffiare, campionare e sequenziare. Imposto le frequenze, passo da una playlist all’altra in dissolvenza incrociata e ci faccio sopra qualche rap. Ma sia chiaro che non sto insegnando nulla, e lo so benissimo. Certamente nulla di come è stato insegnato a me. Sto facendo il dj della cultura”. Insomma, l’interpretazione pare valere di più della comprensione, e la conoscenza non sembra importante quanto la comunicazione.

Ma anche la comunicazione presenta pericoli, equivoci, tranelli: negli ultimissimi anni, più che la pandemia, il cambiamento climatico, le guerre in Europa orientale e in Asia, o il divario economico tra i ceti sociali, l’opinione pubblica si è focalizzata su due problemi messi in luce dal movimento MeToo e dall’uccisione dell’afroamericano George Floyd a Minneapolis: le questioni riguardanti il sesso e la razza “hanno messo in gioco l’intera autopercezione della cultura occidentale, nonché di riflesso planetaria”, più di qualsiasi altro argomento politico internazionale. I gender studies e i race studies monopolizzano tutte le ricerche e discipline nelle facoltà umanistiche, provocando una radicalizzazione estrema delle scelte linguistiche

La political correctness e la cancel culture, pur giustificate negli obiettivi da raggiungere, utilizzano spesso metodi di sorveglianza sulla produzione scritta e orale capaci di creare faglie epistemologiche di difficile ricomposizione, senza riuscire a sanare le lacerazioni che qualsiasi approfondimento culturale e scientifico crea nelle coscienze più fragili. Quale soluzione si può proporre che non sia inibente nei riguardi delle varietà culturali? Forse, senza pretendere di fornire scandagli esaustivi di analisi alle nuove generazioni, basterebbe fornire loro ciò che è sufficiente “per passare all’azione, per vivere”, scendendo dalla cattedra, e ponendosi tutti assieme le stesse domande.

 

© Riproduzione riservata           «Gli Stati Generali», 30 marzo 2024

RECENSIONI

NATANGELO

MARIO NATANGELO, CENERE – MONDADORI ELECTA, MILANO 2024

Secondo Erri De Luca, che ha scritto una breve nota introduttiva a Cenere, quando muore la propria madre. “si sradica l’albero della vita e al suo posto si forma un vuoto di voragine”. Cenere è l’ultimo libro pubblicato dal vignettista satirico Mario Natangelo (Napoli 1985), che dal 2009 disegna le sue strisce per Il Fatto Quotidiano, dopo aver esordito su Linus, Samarcanda e L’Unità. Quest’ ultima opera è il resoconto a fumetti del lutto patito con la perdita della mamma, morta nel marzo del 2023 a 62 anni in seguito a una lunga e penosa malattia. Pochi giorni dopo le esequie e la cremazione, strazianti come succede in ogni addio definitivo, Natangelo ha iniziato a pubblicare sul suo quotidiano una trentina di tavole in cui raccontava la sua esperienza del distacco, offrendo insieme un affettuoso omaggio alla persona più cara.

Diario di un dolore intimo, privato, che sa farsi collettivo nel momento in cui riflette l’esperienza sofferta da molte altre persone, senza caricarla di retorica o pietismo, ma alleggerendola con una dose calibrata di ironia rivolta principalmente a chi racconta sé stesso e il mondo che gli ruota intorno.

Cosa fa un figlio adulto quando sua madre viene a mancare? Ripercorre la strada che ha condiviso con lei dall’infanzia, ricorda episodi minuscoli (tenerezze, impazienze, litigi, gite, canzoni), raduna e conserva gli oggetti più significativi, ripesca fotografie, legge testimonianze di autori che hanno patito lo stesso strazio (Barthes, Loewenthal, De Luca, Camon, Murakami), e soprattutto si rimprovera per le disattenzioni e le insofferenze con cui l’aveva ferita.

La prima tavola pubblicata su Il Fatto raffigura l’autore seduto su una barella del Policlinico Gemelli, alle due di notte, un’ora dopo il decesso di lei, mentre i parenti – raccolti intorno al cadavere disteso sul letto e coperto da un lenzuolo -, si tengono per mano, piangendo e recitando il rosario. Il commento irriverente del figlio esplode con sarcasmo: “Che terroni!”. Ma subito dopo vengono cercati proprio nei familiari più prossimi conforto, comprensione e vicinanza: nella sorella Anna, nelle nipotine, negli zii e soprattutto nell’ “amato padre”. Figura, quest’ultima, mal sopportata e bonariamente contestata, perché lontana dalla sensibilità materna e in perpetuo conflitto con l’erede maschio (“Dio dimmi: perché ti sei preso il genitore sbagliato?”), ma infine riscoperta proprio nella comunanza delle memorie e della nostalgia, al punto che gli si regala un cagnolino con l’intento di alleviarne la solitudine vedovile.

Dopo qualche giorno di sbandamento e incredulità, il dovere professionale riprende il sopravvento su chi scrive (“il lavoro è un ottimo posto in cui nascondersi dal dolore”), e l’idea di condividere con i lettori il proprio sconforto trova subito una rispondenza solidale nel pubblico, creando una comunione di reciproche confessioni e consolazioni. Nella ricorrenza del trigesimo dalla scomparsa della madre, Natangelo pubblica una caustica striscia contro la moglie del ministro Lollobrigida che gli procura critiche e querele, facendolo ripiombare nell’atmosfera straniante delle polemiche futili della carta stampata e degli scontri politici, e distraendolo crudamente dalla necessità di raccogliersi ancora nell’intimità del ricordo e del rimpianto. È “il primo passo nel dopo”, nel vuoto della perdita, nella mancanza di un sostegno insostituibile, ma anche nell’accettazione di un destino che accomuna tutti gli esseri viventi. L’ultima tavola firmata dal vignettista si intitola appunto “salvezza”, perché “nel dopo siamo tutti salvi”, quando qualcosa di fondamentale è finito, e altro ricomincia a vivere.

 

© Riproduzione riservata       «Gli Stati Generali», 25 marzo 2024

 

 

 

 

 

 

 

RECENSIONI

SCARUFFI

SILVANO SCARUFFI, ROMANZO DI CRINALE – NEO, CASTEL DI SANGRO 2024, p. 160

Romanzo di crinale è l’ultima originale opera di uno scrittore altrettanto originale, Silvano Scaruffi, che vive a Ligonchio (RE) lavorando come guardiadiga, e ha pubblicato una quindicina di romanzi,

moltissimi racconti e pièce teatrali. Teatrale è in qualche modo anche l’impianto di questo testo, basato su un fitto intreccio di dialoghi diretti, in un linguaggio che mima l’arruffato, inconcludente, ripetitivo, talvolta scurrile e sempre immaginoso, cianciare in un italiano dalle forti cadenze dialettali di un’intera comunità strapaesana. Ambientato in un borgo dell’Appennino tosco-emiliano, località senza nome ai piedi di una minacciosa montagna, animata da fenomeni mostruosi e inspiegabili, la vicenda si snoda tra minime storie di uomini e donne senza storia, personaggi bizzarri legati da una consuetudine esistenziale che li rende fraternamente solidali anche nei dissidi e nei fallimenti.

Il loro paesino è una realtà logistica immobile ed eterna, definita fisicamente dai suoi confini esterni più che dalle caratteristiche interne: “C’è un gruppo di case, ammucchiato su un rivone, streminato lassù dalla mano di un seminatore distratto. E intorno, monti a raggiera. Un ghippo appenninico dove l’aria sa di frontiera, la terra di colonizzazione, le persone di deriva”.

Questo paese è però minacciato da un esproprio territoriale, imposto da una società edilizia chiamata SIO, che intende costruire il Parko, con finalità mai chiaramente definite, ma esposte in incomprensibili dépliant distribuiti periodicamente agli abitanti (“Allora, se ci fate poi caso… fanno ʼsti depliant, quelli lì, della SIO, li stampano e li danno in giro per reclamizzare  il Parko, ma non ci si capisce mica una sega di quello che vogliono  dire”).  Gli indigeni reagiscono compattandosi in una resistenza sfiatata e parolaia, limitandosi a pretendere spiegazioni dal centralino telefonico sulle scosse che provengono dal sottosuolo, scrivendo sui muri Porko Parko, e a cacare provocatoriamente davanti ai cancelli dell’azienda.

In questo villaggio abbandonato da Dio e dalla civiltà, l’iniziativa dell’impresa immobiliare esprime la violenza di un arrembaggio capitalistico volto a stravolgere suolo e natura, calpestando i diritti di gente incapace di difendersi, che in realtà vorrebbe solo continuare a vivere la propria quotidianità senza essere disturbata da ingerenze esterne: “È inutile star lì a ridire che manca il lavoro, mancano le strade, mancano i servizi, manca questo e quello. Ormai l’abbiamo capita ʼsta fola: qua ci manca tutto. Ma a noi, può poi anche darsi che non ci serva niente”.

Chi sono le “persone di deriva” che animano il racconto, opponendosi a un progresso imposto dall’alto e non condiviso? Poveracci, gente stramba, che vive “di crinale”, raccogliendosi intorno all’unico posto in grado di accoglierli e ascoltarli: il bar, frequentato assiduamente dagli uomini di tutte le età, che bevono-fumano-bestemmiano-giocano a carte-litigano. Lo gestisce Brasco, che serve da bere ai rissosi Romma e Burasca, ascoltando le confidenze di Bunga (proprietario di una gatta, di un canarino e di un verme gelosamente conservato in un vaso di vetro: tutti e tre chiamati Bunga come lui) e le fantasie di Ginasio, allampanato boscaiolo in grado di predire il futuro ogni volta che si addormenta, mentre sua moglie Viola lo tormenta con rimproveri crudeli. C’è poi l’animalesco Bestio, che mangia uccellini vivi e beve olio dei motori, ossessionato da visioni horror scaturite dalla montagna che incombe terrifica, oppure dalle acque turbinose del lago: da lì sembra uscire nottetempo una figura mostruosa, un predatore gigantesco alto o due o venti metri: “Dicono scavi giorno e notte. Scavi e basta, tutto a picco e pala. E terra e pietre di risulta, le ammucchi qua e là, a secchiate”, mentre si susseguono spaventosi fenomeni atmosferici che terrorizzano l’intera comunità: “Qua va tutto a botaccio… Qua si sente crocchiare la terra sotto… Viene giù la casa. Presto o tardi, la casa verrà giù”.

Per esprimere paura e rabbia, la gente del paese conosce colorate imprecazioni e bestemmie (“Maledissa al diavle”, “Diavla impestada schiffa”, “Lurida vacca indemoniata”), intercalate a discorsi confusi e sgomenti, che fanno immaginare l’impossibilità di qualsiasi reazione contro il sopruso dei colonizzatori.  Invece improvvisa e inaspettata scoppia una rivolta contro la Sio e il Parko, che né impiegati e funzionari dell’azienda, né le guardie della sicurezza riescono a sedare. “I rivoltosi scardinarono il cancello della sede del Parko, si ammucchiarono all’ingresso. Spinsero e scancherarono, finché il por tone si incrinò, poi crollò… Invasero corridoi, stanze e uffici, risalendo le scale, ululanti e fitti, come una colonia di formiche legionarie. A un punto, i vetri delle finestre all’ultimo piano esplosero, le fiamme slinguarono fuori soffiando nella notte. Cenere e lapilli rotearono in aria, sospinti dal vento come insetti di fuoco. Piovve roba dal piano di mezzo, volarono fuori anche gli infis si delle finestre, sedie, scrivanie, schedari, computer, uno scroscio d’ufficio, poi il fuoco ghermì tutto”. Feriti, arresti, cala la notte nel silenzio di un incendio a mala pena domato, e il Romanzo di crinale si chiude senza specificare se “el pueblo unido jamás será vencido”, ma il lettore spera sia successo proprio così.

 

© Riproduzione riservata         «Gli Stati Generali», 22 marzo 2024

RECENSIONI

JEDLOWSKI, CERULO

PAOLO JEDLOWSKI, MASSIMO CERULO, SPAESATI – IL MULINO, BOLOGNA 2023

Il volume di Paolo Jedlowski e Massimo Cerulo, Spaesati, si interroga sulle esperienze di dislocamento (e relativo spaesamento) delle persone che, lasciati i luoghi in cui sono cresciute, si muovono abitualmente fra realtà geografiche – e quindi sociali – differenti. Persone che partono, ritornano, viaggiano senza essere costrette a emigrare da condizioni drammatiche di guerre, persecuzioni, povertà, cambiamenti climatici, ma spinte da ragioni più banalmente comuni, “per studio, per lavoro, per amore o per altri motivi”, in una sorta di pendolarità allargata, di mobilità fisica e mentale che talvolta implica il pericolo di una perdita di identità.

I due autori sono legati da una similarità biografica: uno, Jedlowski (Milano 1952), è il docente che si è spostato dal settentrione al meridione per insegnare Sociologia all’Università di Calabria; l’altro, Cerulo (Rossano 1980), è l’allievo che ha percorso il tragitto opposto, occupando diverse cattedre nella nostra penisola fino ad arrivare a quella attuale di Napoli.

Alternandosi, i due professori hanno scritto i dieci capitoli del saggio confrontando il proprio diverso vissuto di sradicati, indagando emozioni e nostalgie, successi e conquiste, smarrimenti e riscatti, scanditi dalle stesse faticose costrizioni: spostamenti in treno, pullman, aereo, automobile, soste in alberghi e bar, orari rispettati o stravolti, incontri arricchenti e dispersivi.

La “vita mobile” raccontata da Paolo Jedlowski prende le mosse dal suo trasferimento da Milano a Cosenza per raggiungere la moglie, l’impiego di entrambi in quella nuova e innovativa università calabrese, la nascita dei due figli, il rapporto con la provincia e la campagna. Con finezza psicologica e una patina di malinconia, la vita di genitori nonni zii viene ripercorsa nei trasferimenti obbligati o volontari, confrontati con gli esili che da sempre hanno costretto generazioni intere, nel corso della storia umana, a tagliare le proprie radici per riambientarsi altrove, patendo pregiudizi razziali, conflittualità caratteriali e linguistiche, stravolgimenti di abitudini consolidate. La pendolarità di docenti, professionisti, studenti, costretti a spostarsi tra varie città e abitazioni, settimanalmente o mensilmente, dividendosi tra impegni, amici, parenti, su e giù per l’Italia o addirittura con puntate regolari all’estero, oggi è diventata prassi comune e pressoché necessaria.

Anche Massimo Cerulo, calabrese formatosi nell’Università in cui insegna Jedlowski, ha imparato presto quanto disagio comporti la “spartenza”, termine che associa il distacco da casa alla lacerazione che tale distacco comporta. Per un giovane meridionale è tuttora giocoforza evadere da un sud atavicamente immobile, pena la disoccupazione, la sotto-occupazione, l’umiliante sensazione di fallimento personale. Doloroso partire, impossibile tornare senza sentirsi in colpa verso sé stessi e l’ambiente familiare che ha sostenuto economicamente e affettivamente il trasferimento altrove di un figlio promettente e dotato.

L’ISTAT ha recentemente evidenziato che negli ultimi dieci anni sono stati circa 1.138.000 i movimenti in uscita dal Sud e dalle isole verso il Centro-Nord, e circa 613.000 quelli sulla rotta inversa. Il bilancio tra uscite ed entrate si è tradotto in una perdita netta di 525.000 residenti meridionali. La regione del Mezzogiorno da cui partono più emigrati è la Campania (30%), seguita da Sicilia (23%) e Puglia (18%). Chi parte ha un’età compresa tra i 18 e i 35 anni (53%), è laureato o almeno diplomato, predilige come meta la Lombardia e l’Emilia Romagna.

Ovviamente, il pendolarismo non riguarda solo le categorie culturalmente privilegiate dei docenti e degli studenti: viaggiano in continuazione consulenti aziendali, tecnici, rappresentanti di commercio, camionisti, marinai dei cargo, hostess, piloti d’aereo, ferrovieri… Per tutti loro l’esperienza extra-ordinaria del viaggio si trasforma lentamente in pratica ordinaria, attraverso una strategia di quotidianizzazione messa in atto per sopravvivere all’impressione decontestualizzante di essere sempre fuori luogo, in un altrove che può concedere molta libertà (relazioni diverse, amori non esclusivi,

amicizie influenti, paesaggi sempre nuovi), ma implica anche sofferenza: “tensioni famigliari, stress, fatica”, e soste prolungate, perdite di tempo, snervanti routine, rituali ripetuti, mancanza di intimità, rimpianti su scelte mancate. Il desiderio di trovare casa convive comunque con la spinta a uscirne.

Sono molti i saggi e i romanzi citati da Jedlowski e Cerulo nei loro interventi, insieme a brani di interviste, film, trasmissioni televisive, poesie e soprattutto canzoni, quasi che una colonna sonora li abbia accompagnati nei loro spostamenti ad addolcire i momenti più malinconici di estraneità e disgregazione dell’io. Il sentimento della nostalgia è quello più esplorato, come inevitabile rievocazione di periodi trascorsi più felici di quelli presenti, ma anche come consapevolezza dell’impossibilità di ritrovare nell’oggi o in un ipotetico futuro le condizioni di vita, le persone e i luoghi così com’erano quando sono stati abbandonati. Nostalgia indagata insieme alla speranza, orientata verso il domani per controbilanciare lo sguardo rivolto a ieri: speranza di lasciare una traccia del proprio lavoro, un’eredità culturale ed etica, e forse anche speranza di una stanzialità che ripaghi del girovagare compiuto in tanti anni. Nelle intenzioni dei due autori, questo libro vuole essere un piccolo contributo a una «storia intima» d’Italia, nata dal confronto di tante esperienze diverse; noi lettori ne ricaviamo un riuscito esercizio di empatia verso “chi va e di chi resta” (per citare  Eugenio Montale).

 

 

© Riproduzione riservata      «Gli Stati Generali», 14 marzo 2024

RECENSIONI

DARWISH

MAHMUD DARWISH, NON SCUSARTI PER QUEL CHE HAI FATTO – CROCETTI, MILANO 2024

Con testo arabo a fronte, l’editore Crocetti pubblica Non scusarti per quel che hai fatto, raccolta di versi del poeta palestinese Mahmud Darwish (1941-2008). Darwish, nato in un villaggio dell’alta Galilea, alla costituzione dello stato di Israele dovette rifugiarsi con la famiglia in Libano, tornando successivamente nella sua terra nella condizione di profugo e clandestino. Per il suo attivismo politico fu più volte incarcerato e condannato agli arresti domiciliari, quindi esiliato in vari stati europei e in Egitto, in Libano e a Tunisi. Fece parte del consiglio esecutivo dell’OLP dal 1987 al 1993. Rientrato in Palestina dopo gli accordi di Oslo (1993), visse tra Ramallah, in Cisgiordania, e Amman, in Giordania. I suoi versi, conosciuti e amati in tutto il mondo e tradotti in più di venti lingue, sono stati musicati da alcuni tra i maggiori compositori arabi. Considerato il poeta nazionale della Palestina, alla sua morte, avvenuta a Houston (Texas) dopo un’operazione al cuore, l’Autorità Palestinese proclamò tre giorni di lutto nazionale, e ai funerali di stato, a Ramallah, parteciparono decine di migliaia di persone.

La raccolta da poco edita da Crocetti risale al 2004, e rappresenta una summa dei temi e dei toni di tutta la precedente produzione di Darwish. Nonostante il nome “Palestina” sia citato una sola volta, l’amore per il suo paese viene manifestato costantemente, non solo nell’allusione (più malinconica che indignata) alla sopraffazione politica subita, ma soprattutto nell’accorata nostalgia per le persone e le cose perdute nei lunghi anni di esilio, e nella descrizione dei paesaggi. L’attenzione è rivolta ai colori e ai profumi della vegetazione (ulivi, anemoni, rose, sambuchi), a ciò che si muove nell’aria (uccelli e nuvole, che rievocano immagini impalpabili di sogni, di angeli e cherubini), agli animali sempre simbolo di naturale innocenza (cavalli, colombi, gazzelle, farfalle), agli oggetti che hanno segnato l’attività quotidiana della sua famiglia (“l’eco delle cose parla attraverso la mia bocca”).

Ma anche le città arabe in cui il poeta è arrivato “come un gabbiano” sono presenti con i loro rumori, le musiche e la vivacità dei traffici urbani, le amicizie e gli amori incontrati: Tunisi, Beirut, Baghdad, Damasco, Il Cairo, Gerusalemme: “A Gerusalemme, intendo dentro le antiche mura, / cammino da un tempo all’altro // … Tutta questa luce mi appartiene. / Cammino. Divento più leggero. / Volo e mi trasfiguro”.

Memoria e oblio sono i due poli entro cui ruota la riflessione del poeta: volontà doverosa di ricordare e testimoniare, consapevolezza della caducità del tempo che tutto dissolve. Nella poesia che dà il titolo al libro, il lungo elenco dei ricordi viene riproposto dal soggetto recitante nel presente al mutato “io” che li aveva vissuti nel passato: “Non scusarti per quel che hai fatto, mi dico in segreto. / Al mio altro ‘io’ dico: // eccoli, i tuoi ricordi, tutti visibili: / la noia di mezzogiorno nella sonnolenza di un gatto / la cresta del gallo / la fragranza di salvia / il caffè della madre / la stuoia e i cuscini”.

Persistente è la memoria di altri celebri poeti – come Neruda e Ritsos, l’iracheno al-Sayyāb, il curdo Salīm Barakāt o il siriano Abū Tammām –, ma altrettanto costante è la consapevolezza della fugacità dell’esistenza, dell’impossibilità di rimanere vivi nella storia privata e collettiva del proprio paese: “Tutto quel che hai intorno è dimenticanza”, “Sarai dimenticato, come se non fossi mai stato. / Sarai dimenticato come la morte violenta di un uccello, / come una chiesa abbandonata, / come un amore passeggero / e come una rosa nella notte… sarai dimenticato”. Lo spaesamento individuale, la dissoluzione dell’io, la stanchezza dell’età che avanza (“Ho la saggezza del condannato a morte”, “voglio una morte in giardino / niente di più e niente di meno!”) sono senz’altro fattori di inquietudine personale, ma riflettono anche i timori e le incertezze di un intero popolo. Il sopruso patito dalla Palestina ha per il poeta valenza universale, diventa il male sofferto da ogni vittima a causa della ferocia del potere, in tutti gli ambiti in cui viene esercitato. Nell’ode Al nostro paese (definito “vicino alla parola di Dio, minuscolo come un seme di sesamo, povero come le ali di un gallo cedrone, bottino di guerra”), si avverte la tragica profezia dello sterminio che oggi sta vivendo Gaza: “Il nostro paese, nella sua notte insanguinata, / è un gioiello che brilla per le distanze più lontane / e illumina ciò che è al di fuori di lui… / Quanto a noi, dentro, / soffochiamo ogni giorno di più!”

Nonostante la sofferenza dell’esiliato, del prigioniero, del testimone di una guerra che insanguina e distrugge da decenni la Palestina, Mahmud Darwish pronuncia ancora parole di speranza, ancora incoraggia la sua gente alla resistenza, e si dice fiducioso in un futuro di pace: “Un altro giorno verrà, un giorno femmineo, / alla metafora trasparente, compiuto, / diamantino, di visita nuziale, soleggiato, / fluido, allegro. Nessuno sentirà / alcun bisogno di suicidio o di migrazione… // Nessuna polvere, nessuna siccità, e nessuna sconfitta”.

La sua poesia, così limpida e corale, rivela i caratteri di molte composizioni mediorientali: la descrittività attenta e partecipe, il tono colloquiale, la modulazione musicale percepibile anche attraverso la traduzione grazie alle formule ripetute come in una litania religiosa, la totale assenza di sperimentalismi linguistici, la non equivocabilità del messaggio, che – a differenza della contemporanea poesia occidentale – non lascia spazio a interpretazioni fuorvianti del lettore. La pacatezza formale delle composizioni di Darwish offre uno spiraglio all’utopia di una conciliazione tra le popolazioni di una terra tormentata.

 

© Riproduzione riservata            «Gli Stati Generali», I marzo 2024

 

 

 

 

 

 

MAESTRI

RABONI

I MANIFESTI

 

Chissà dov’ero, dove m’ero ficcato quando

le tue gambe hanno invaso la città.

Forse non guardo i manifesti.

Adesso paziente, maniaco ti do la caccia

di stazione in stazione

borbottando preghiere. Quello che non sei tu

esce dal fuoco o indietreggia se le tue

magre, livide dita si vede che una calza

tendono con increscioso pudore.

 

                                                                                                                     Giovanni Raboni (1932-2004)

INTERVISTE

GANCITANO

MAURA GANCITANO E LA POESIA

Maura Gancitano (Mazara del Vallo, 1985) è una saggista e opinionista italiana attiva soprattutto nell’ambito della divulgazione, con collaborazioni giornalistiche e partecipazioni a dibattiti politici e televisivi. È co-fondatrice di Tlon (insieme al marito, Andrea Colamedici), un progetto di divulgazione culturale e casa editrice; ideatrice della Festa della Filosofia presso le Triennali di Milano e Roma, organizzate in media-partnership con Rai Scuola, e di Prendiamola con Filosofia, maratona streaming di divulgazione culturale nata su sollecitazione del Ministero della Salute; autrice di vari podcast, tra cui Pensare Europeo, in collaborazione con il Parlamento Europeo, e Scuola di Filosofie, raccolta di monografie sulla storia della filosofia del Novecento, prodotto da Audible. Con il saggio Specchio delle mie brame (Einaudi) ha vinto il Premio Rapallo 2022, ex aequo con Bianca Pitzorno.

Ma chi me lo fa fare?, Milano, HarperCollins 2023; Specchio delle mie brame, Milano, Einaudi, 2022; Il gioco del pensiero, Bologna, Zanichelli, 2022; L’alba dei nuovi dèi, Milano, Mondadori, 2021; Prendila con Filosofia, Milano, Harper Collins, 2021; Liberati della Brava Bambina, Milano, Harper Collins, 2019; La società della Performance, Roma, Tlon, 2019; Lezioni di Meraviglia, Roma, Tlon, 2017; Tu non sei Dio. Fenomenologia della spiritualità contemporanea. Roma, Tlon 2016; Malefica. Trasformare la rabbia femminile, Roma, Tlon 2016.

***

Platone nello Ione, nel Fedro, nel Simposio e nel X libro della Repubblica dava un giudizio poco positivo dei poeti, ritenendoli folli posseduti da sentimenti irrazionali, che lo stato dovrebbe esiliare dai suoi confini in quanti produttori di illusioni, credenze false e pericolose. Oggi prevale l’opinione che la poesia non serva a niente, ma – come disse Montale all’assegnazione del Nobel – perlomeno non sia nociva. Condivide questa posizione?

La visione di Platone era calata nel tempo di profonda trasformazione in cui viveva. A quanto ne sappiamo, aveva l’impressione che le storie e l’atmosfera create dai poeti rendessero gli uomini deboli e fossero diventate nocive per il percorso di conoscenza. Platone era in realtà un grandissimo amante della poesia e dell’opera di Omero in particolare, e per questo ha probabilmente scelto di inventare nuovi miti, che contengono alcune tra le immagini più poetiche che l’essere umano abbia mai prodotto. Credo quindi che il suo rapporto con la poesia fosse molto dinamico, come quello con la scrittura. Al di là di questo, ad ogni modo, io credo che la poesia sia essenziale per creare uno spazio di meraviglia nella vita. Forse anche perché viviamo tempi di grande crisi, ma per ragioni speculari a quelle di Platone: oggi la poesia è necessaria per recuperare una certa distanza da una visione del mondo cinica e estremamente materiale.

Secondo Richard Rorty la poesia è creazione del perturbante, “perché il perturbante è il risultato dello sradicamento di una parola dal suo gioco linguistico originario”. Tra i compiti del poeta, quello di porre domande e creare inquietudine è importante quanto quello descrittivo, immaginoso, consolatorio e addirittura ludico?

Sicuramente. C’è una frase di Emily Dickinson che viene spesso usata per esprimere questa sensazione: “Se quando leggo un libro, ho l’impressione che mi si scoperchi il cranio, allora so che quella è poesia. È l’unico modo che io conosca di avvertirne la presenza”. La poesia può avere uno scopo puramente ludico, ma rappresenta comunque un tentativo di manipolare le parole per creare meraviglia, e la meraviglia è sia lo stupore, sia il terrore. È il caso, per esempio, di Wisława Szymborska, autrice di moltissime poesie introspettive e perturbanti, per le quali ha vinto il Nobel nel 1996, ma che insieme al suo amico poeta Stanisław Barańczak componeva dei limerick, delle brevi forme poetiche umoristiche che prendono il nome da Limerick, un paesino irlandese. Che ti faccia ridere, piangere o pensare, la poesia non può comunque lasciarti indifferente.

 

Heidegger ha studiato e commentato Hölderlin non solo dal punto di vista letterario e filosofico, ma anche con una particolare adesione emotiva. Ci sono altri pensatori che hanno letto i poeti arricchendone i testi non solo a livello ermeneutico, ma anche di percezione sensibile?

È sempre accaduto che la filosofia cercasse di spiegare la poesia, di interpretarla, di costruirle intorno delle categorie. Eppure, credo che l’interesse di chi fa filosofia nei confronti della poesia nasca dallo stato di meditazione a cui la sua lettura può condurti, che quando si scrive di filosofia è fondamentale. In ogni caso, un elenco di filosofi e filosofe appassionati di poesia sarebbe infinito. Basti citare l’amore di Walter Benjamin per Baudelaire, che ebbe una grande influenza sulle sue riflessioni filosofiche, o quello di Maria Zambrano per Federico García Lorca e San Giovanni della Croce, di Julia Kristeva per Stéphane Mallarmé. Un altro esempio di connessione tra poesia e filosofia: nel 1948 Sartre scrisse l’introduzione all’Antologia della nuova poesia nera e malgascia di lingua francese curata dal poeta senegalese Léopold Senghor, e il suo interesse per quella poesia assume un preciso significato politico e di condanna nei confronti del colonialismo.

 

Che giudizio dà dei filosofi che scrivono versi? Ne ha letti, le sembrano interessanti? Nietzsche, per esempio, gigante del pensiero, aveva scritto liriche mediocri…

Non credo si possa dare un giudizio unitario: esistono filosofi e filosofe che sono capaci di scrivere con più registri e in cui convivono spinte diverse, come nel caso di Sartre, mentre in molti altri casi la scrittura filosofica è il canale principale di espressione, e altri tentativi possono non riuscire o sembrare forzati. Sono modi diversi di usare le parole, e del resto scrivere poesia può essere un’arte che ha senso in sé e si conclude con il suo gesto, non è necessario che sia esteticamente notevole. È anche la ragione per cui molti filosofi e filosofe scrivono poesia, ma decidono di non pubblicarla. Ci sono stati poi alcuni casi, come quello di Edith Stein, in cui la via poetica e mistica ha accompagnato una conversione totale della propria vita.

Legge poesia? Preferisce gli autori classici o quelli contemporanei, gli italiani o gli stranieri? Si è mai cimentata personalmente nella scrittura in versi?

La leggo, anche se in scarsa misura rispetto a saggi e romanzi. Mi piace moltissimo la lingua italiana, quindi amo quella poesia del Novecento (Spaziani, Montale, Luzi, Sanguineti), ma ci sono stati dei momenti in cui ho cercato di avvicinarmi ad altre atmosfere poetiche, come quella americana. I miei preferiti sono forse Mark Strand, Anne Carson e Frank Bidart. Nella lettura della poesia non amo le costruzioni troppo complicate e rarefatte, ho bisogno di figurarmi nella mente quello che il poeta ha immaginato, quindi ci sono anche poesie che non mi sono accessibili, che non riesco ad apprezzare. Quanto a me, ho scritto molte poesie da giovanissima, ma quella di scrivere poesia non è un’urgenza che sento. Mi godo il privilegio di poter essere una pura lettrice.

 

© Riproduzione riservata               «Gli Stati Generali», 25 febbraio 2024

 

RECENSIONI

MONTANARI

TOMASO MONTANARI, LE STATUE GIUSTE – LATERZA, ROMA-BARI 2024

 

Nel paragrafo conclusivo del suo ultimo libro, Le statue giuste, Tomaso Montanari afferma che bisogna vegliare affinché “la storia, tutta intera, non sia dimenticata, falsificata, strumentalizzata a favore del potere presente”. Perché la “Storia” che ci viene raccontata, oggi, è distorta, parziale, resuscitata perlopiù con finalità repressive, e non in maniera problematica, contestualizzata e coinvolgente, come dovrebbe: studiata poco e male a scuola, è chiusa in asfittiche aree di ricerca nelle università, mentre ogni riflessione culturale rimane circoscritta nell’ambito della contemporaneità.

Storico dell’arte, divulgatore culturale, saggistarettore dell’Università per stranieri di Siena, Montanari (Firenze 1971) ha supportato campagne di opinione orientate alla difesa del patrimonio artistico, museale e architettonico italiano. La sua ultima battaglia civile prende di mira statue, monumenti, affreschi antichi e moderni osservabili in spazi pubblici, dedicati a eventi storici e personaggi responsabili di comportamenti riprovevoli, addirittura di reati penali, e più gravemente ancora di colpe ideologiche e militari.

Nell’arco di millenni la ricezione delle immagini ha creato contrapposizioni tra culto adorante e volontà di distruzione, appellandosi a differenti ideologie e fideismi: dalla costruzione del vitello d’oro nell’Esodo ai culti faraonici in Egitto, dalle damnationes memoriae di epoca romana alla riforma protestante, dalla rivoluzione francese fino alle dittature del ’900.

L’autore ritiene di dover difendere e incoraggiare il movimento di protesta che lotta contro le mentalità coloniali e totalitaristiche tuttora esistenti, per combattere ingiustizie e soprusi veicolati dall’ordine sociale occidentale ereditato dal passato. In questo senso, la sua vibrante indignazione non va considerata come un’adesione pregiudiziale alla cancel culture, definizione vuota e menzognera attraverso cui si condanna, in nome della conservazione della storia, il vandalico abbattimento di testimonianze materiali e la censura di testi letterari, ma intende rimarcare l’esigenza di trovare una terza via tra distruzione e venerazione, tra dissacrazione e adesione acritica.

I sette capitoli che costituiscono questo saggio (accompagnato da un ricco apparato di note) analizzano momenti ed episodi recenti che su questo argomento hanno dato adito a posizioni contrastanti. A partire dall’intervista di Trump del luglio 2020 contro la cancel culture, definita una barbarie distruttiva nei confronti di un passato storico da difendere ostinatamente, in nome della pacifica convivenza contro la violenza di piazza, della tradizione contro l’iconoclastia, dell’amore contro l’odio: messaggio raccolto e rafforzato nelle esternazioni più recenti di Giorgia Meloni e Gennaro Sangiuliano.

Montanari si sofferma sull’abbattimento di monumenti avvenuti in anni recenti in diverse parti del mondo: negli Stati Uniti sono stati oggetto di contestazione e demolizione i marmi raffiguranti i generali sudisti della Guerra di Secessione, nel campus dell’Università di Città del Capo la statua del teorico dell’apartheid Cecil Rhodes, a Bristol nel giugno del 2020 quella bronzea dello schiavista Edward Colston. Episodi sempre accompagnati da contestazioni, processi, proposte alternative di correzione.

Tali “eroi” del passato meritavano davvero l’onore di un monumento, in grado di influenzare positivamente l’immaginario di abitanti, turisti, passanti disinformati, o questo privilegio non andrebbe riservato a coloro che promuovono cambiamenti positivi, lottando per la pace, l’uguaglianza e l’unità sociale? Una statua dovrebbe offrire un modello di comportamento e una bussola va loriale, creare un visibile legame sentimentale tra passato e presente, raccontare il passato per spiegare il presente e proiettarsi in un futuro migliore…

Le piazze e i viali italiani sono ornati da mausolei, sculture, busti, targhe dedicate a sovrani, statisti, condottieri, filosofi e artisti dall’operato poco democratico, dai re di Casa Savoia ai generali risorgimentali, in un pantheon celebrativo spesso imbarazzante, costruito su un’idea di dominio (“dei maschi, dei bianchi, degli occidentali, dei cristiani, della cultura classica”…) L’ omaggio agli anni del fascismo e del colonialismo (1882-1960, con mezzo milione di vittime africane) è ancora recuperabile nella toponomastica nazionale, e negli articoli goliardicamente derisori, orgogliosamente razzisti e misogini di Indro Montanelli.

Montanari porta l’esempio dell’Aula Magna della Sapienza di Roma, affrescata da un dipinto di Mario Sironi celebrativo dei fasti mussoliniani. Italo Balbo, Rodolfo Graziani, Giuseppe Bottai e altri gerarchi fascisti godono tuttora di imperitura e grata memoria in diverse città della penisola, e anche i nomi delle strade non sfuggono a questa genuflessa tradizione. L’universo femminile viene ignorato: solo otto vie su cento sono dedicate a figure di donne, perlopiù rappresentative della classicità, della mitologia, e soprattutto del mondo cattolico (madonne, sante, martiri), della cura e del sacrificio personale.

Non si tratta solo di dare un giudizio estetico sulla qualità spesso scadente di molte opere d’arte, ma di considerare il codice dei significati che vengono trasmessi, generalmente di subordinazione e obbedienza a ideologie che calpestano i diritti delle minoranze, la pluralità delle culture, la differenza di genere, lo sfruttamento della forza lavoro.

Nei monumenti e nelle intitolazioni di strade e scuole, così come nel calendario civile (con un 2 Giugno celebrante la festa della Repubblica attraverso discutibili parate militari), il messaggio trasmesso è inequivocabile: “La scrittura simbolica dello spazio pubblico non è mai neutrale, non è un saggio di storia o una lezione accademica: è invece un atto politico che sceglie un versante della storia, e lo propone alla venerazione di tutta una comunità”.

La proposta suggerita da Tomaso Montanari (già indicata nel libro di Alessandro Portelli Il ginocchio sul collo, recensito in gennaio su Gli stati Generali) non consiste nell’esortare alla cancellazione e all’abbattimento di statue e testimonianze di un passato controverso e non condivisibile, ma in una loro risignificazione, risemantizzazione da affidare a storici e artisti che ne accompagnino l’esposizione con commenti adeguati. Oppure nel loro trasferimento dallo spazio pubblico a uno spazio museale “in cui la loro intera storia venga narrata nel modo più oggettivo, largo e inclusivo”, senza tuttavia eliminare i segni della loro precedente esistenza in luoghi destinati alla visibilità collettiva.

Basta una targa, per inquadrare correttamente le tante cose che una statua può raccontare su ciò che ha davvero raffigurato in passato e rappresenta nell’oggi.

 

© Riproduzione riservata                        «Gli Stati Generali», 16 febbraio 2024

 

 

RECENSIONI

POMPILI

DOMENICO POMPILI, SUL SILENZIO

LETTERA PASTORALE ALLA CHIESA DI VERONA, 2023

 

A un anno dall’investitura, il Vescovo di Verona Domenico Pompili ha inviato una Lettera Pastorale indirizzata alla sua Diocesi, ma rivolta idealmente a quanti – credenti e non – siano interessati a confrontarsi sul valore attribuito alla comunicazione, e al ruolo che all’interno di essa riveste il silenzio. Il testo, intitolato appunto Sul silenzio, è diviso in due sezioni, la prima meditativa ed esplorativa dell’argomento, la seconda dedicata alle indicazioni pastorali da accogliere nelle parrocchie, nei seminari, in tutte le strutture religiose della provincia.

Situato nel solco di una lunga tradizione culturale che, partendo dai classici occidentali e orientali scava nel ricco patrimonio della spiritualità cristiana, lo scritto di Domenico Pompili si richiama esplicitamente alla discrezione che del silenzio è fondamento, attraverso uno stile pacato, non assertivo, espresso con una sensibilità vicina allo spirito della poesia.

Già nell’introduzione, dopo un suggestivo omaggio alla “bellissima terra veronese”, Pompili dichiara quali obiettivi si ponga nella sua Lettera: “più che stilare progetti, elencare priorità o fantasticare di sogni, desidero avviare una riflessione che in questo anno possa alimentare la vita della nostra chiesa e divenire il terreno nel quale radicare la nostra azione pastorale”.

Il silenzio, infatti, si pone come realtà “al fondo, al cuore, all’inizio di ogni avventura cristiana”, poiché risponde a una ricerca di interiorità e di concentrazione sulle cose essenziali. Rientrare, agostiniamente, nell’intimo meo, insegna ad “ascoltare la parte più vera di sé, in mezzo al frastuono frenetico di un mondo inquinato dal rumore: il rumore esterno e quello, ancor più pervasivo, dei vari dispositivi elettronici, che creano una ‘eco’ assordante ed isolante”.

È necessario allontanarsi dalle chiacchere, dal parlare vano, disattento, indifferente e offensivo, come ammoniva Gesù: “Ma io vi dico che di ogni parola infondata gli uomini renderanno conto nel giorno del giudizio” (Mt 12,36). Proprio Gesù sapeva insegnare, non solo a parole, ma anche tacendo (Gv 8,1-11, Mt 7,31-37), e usando un linguaggio che da kerygmatico aveva saputo farsi parabolico, e poi didattico e infine testimoniale, nel sacrificio della croce.

“Il silenzio è recettivo, non impositivo; è comprendere, non prendere; è contemplativo e proattivo insieme”, pur nella sua difficile definizione, e talora nella sua ambiguità. Ci sono infatti silenzi cattivi, quelli dell’omertà che nasconde o difende gli abusi, o i mutismi umilianti che indicano disprezzo dell’altro, ostilità, inimicizia. E altri invece che rivelano angoscia, solitudine, marginalità sociale, depressione, impossibilità di chiedere aiuto, e reclamano il nostro impegno a interpretarli.

La voce del Vescovo diventa essenzialmente quella del Pastore, quando si incrina commossa e solidale raccontando il dolore inascoltato dei più fragili: dei vecchi, desiderosi del calore di un abbraccio; degli adolescenti, auto-isolantisi in mondi paralleli perché esclusi dall’universo adulto; dei migranti in attesa di un riconoscimento umano e sociale; delle donne la cui specificità femminile viene negata e troppo spesso violentata; dei carcerati allontanati dal consorzio civile; delle chiese cristiane che aspirano a un ecumenismo comprensivo.

C’è anche, spesso indecifrabile e scandaloso, il silenzio di Dio, quando non risponde alle invocazioni delle creature. Dio tace perché offeso dalla malvagità umana, o per una esigente volontà educativa, o semplicemente perché “solidale con il grido disperato che nessuna parola potrà mai consolare”. Domenico Pompili si appoggia alle parole sagge dei filosofi (Søren Kierkegaard, Hans Jonas), di chi ha patito la persecuzione nazista (Elie Wiesel, Etty Hillesum), dei poeti (Antonio Machado, Mario Luzi), dei santi, e cita un famoso passo dell’Antico Testamento (1Re 19, 11-13), in cui Dio si rivela a Elia con “la voce di un silenzio sottile”, dopo aver negato la propria presenza nel vento, nel terremoto, nel fuoco.

La seconda parte della Lettera è dedicata alle Indicazioni Pastorali, intese a suggerire alcune piste operative, da integrare con nuove proposte delle comunità cattoliche sparse nel territorio. Partendo dall’affermazione forte e coraggiosa che “la chiesa è solo un ponte necessario per avanzare, non la meta”, e che “la parrocchia resta fondamentale, ma non può non allearsi con realtà più ampie. Nessuno ha in mente di abolire i campanili. Il campanilismo, però, è ormai decisamente anacronistico”, il Vescovo incoraggia a un’azione pastorale diffusa, impegnata a trasformare l’immobilismo esistente. Invita pertanto a “riaprire le chiese, perché diventino scuola in cui reimparare il silenzio, luoghi nei quali chiunque possa non solo trovare uno spazio in cui celebrare il mistero di Dio, ma anche semplicemente sostare nella ricerca di un anelito di umanità. Vivere un tempo di sosta e di silenzio, sottratto alla frenesia della corsa e alla schiavitù dell’utile”.

Il silenzio va incentivato nei luoghi formativi della cattolicità, dalla catechesi alla riflessione teologica. E in che modo? Fare, custodire, insegnare, condividere il silenzio, diventando “sia come persone che come comunità, spa zi di ascolto, laboratori di contemplazione… per entrare in relazione con sé stessi, con gli altri e con Dio”. È opportuno promuovere “centri di ascolto del Vangelo, di scuole della Parola, incontri di cultura biblica”, e “riscoprire il silenzio nelle celebrazioni, talora frettolose e assordanti, preoccupate di riempire spazi e rispettare forme più che di aprire cuori e menti alla realtà che si celebra”, garantendo alcuni momenti di riflessione personale “dopo l’ome lia, come aveva insegnato Benedetto XVI, e dopo la comunione, invece di aprire il profluvio degli avvisi parrocchiali”.

Domenico Pompili conclude la sua Lettera con paterna sollecitudine, nell’esortazione ad accogliere il silenzio allestendo “una ‘tavola comune’ a cui sedersi insieme per condividere la fatica di un mondo che è diventato sordo per il troppo gridare”.

 

© Riproduzione riservata         «Mosaico di pace», 14 febbraio 2024

 

 

 

 

 

 

 

 

POESIE

4 LUGLIO 2012

Scalare, elementare, massivo

nuota in un campo vibrante

per dare principio

al principio

s’immola

decadendo

morendo in meno

di un nano secondo

eppure vivo

brucia di luce

scuce materia danzante

esplode

da non dimensione

si fa dimensione

solamente supposto

pensato sognato

ma poi investigato

scomposto

fortuito modello

ideato braccato

per cinque decenni

infine tracciato

vicino a Ginevra

scoperto arrestato

nel tunnel

profondo

blindato protetto

armato circuito

di ghisa cemento

e dentro magneti

niobio titanio

freddati nell’elio

intorno protoni

neutroni elettroni

l’intero universo

compresso

nel mitico Atlas

fissando

l’inizio del mondo

dannato bosone

sfuggente

alla scienza

sprovvisto di mente

e senza coscienza

si fa creazione

gratuita perfetta

bellezza di stella

di aria di terra

di noi finitezza

o tu particella

tu sia benedetta

se dio

è un’ipotesi

errata esaurita

non più necessaria

bosone

signore del tutto

bosone che muore

inventando

la vita.

 

In Quanto di storia, Marco Saya, Milano 2023