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RECENSIONI

CANFORA

LUCIANO CANFORA, LA SCOPA DI DON ABBONDIO – LATERZA, BARI 2018

“È stata un gran flagello questa peste; ma è anche stata una scopa; ha spazzato via certi soggetti, che, figliuoli miei, non ce ne liberavamo più”. Luciano Canfora ha scelto la frase pronunciata da don Abbondio nel XXXVIII capitolo dei Promessi Sposi come epigrafe all’ultimo volume edito da Laterza: La scopa di don Abbondio, composto da undici capitoli e da un’appendice di interventi di Togliatti, Nenni e Thomas Mann.

Oggetto del libro è una riflessione, amara ma realistica, sulla crisi sociale e politica delle democrazie occidentali, sulle dinamiche e i rapporti di forza che orientano il “movimento sinuoso” della storia mondiale, sull’arretramento della sinistra nei paesi industrializzati e infine sul dovere di non affossare gli ideali di libertà, fraternità e uguaglianza sanciti dalla Rivoluzione Francese. Impietoso il ritratto che Luciano Canfora (professore emerito all’Università di Bari) fa della situazione politica attuale: dalle considerazioni sull’ideologia di Donald Trump, brutalmente razzista e egocentricamente conservatrice, a quelle sulla subalternità impotente dei paesi europei che vi si adeguano. La Francia di un Macron neoliberista e ondivago, l’Austria paranazista di Kurz, l’Inghilterra della Brexit e delle barriere a Calais, l’Ungheria e la Polonia oscurantiste e discriminatorie, fino alla nostra Italia, vassalla degli Usa e prona al nuovo strisciante fascismo. Analizzando il quale, si constata la straordinaria abilità della nuova destra nel coinvolgere le masse con la combinazione di sciovinismo e promesse di welfare, amor di patria e disprezzo dello straniero. A questa astuta strategia manipolatoria, la sinistra non ha saputo opporsi, avendo perso qualsiasi rapporto di fiducia e rappresentatività con il popolo, e avendo abdicato all’ideale di una maggiore giustizia sociale in nome di una fittizia fedeltà a un’Europa guidata da “burocrazie non elettive”, tese a difendere gli interessi economici delle nazioni più forti e del capitale finanziario internazionale. “La partita appare dunque truccata su entrambi i versanti: l’ex-sinistra si è assunta il ruolo di puntello dell’élite sedicente europeista; il parafascismo leghista e lepenista si propone come paladino del ‘popolo’, mescolando torti e ragioni”.

Nel libro si fanno esplicitamente nomi e cognomi di chi mette in atto o affianca l’operazione antidemocratica in Italia: non solo, ovviamente, degli attuali detentori del potere, ma anche di coloro che hanno spianato la strada alle politiche anti-migratorie (Gentiloni e Minniti), e dei giornalisti e columnist acquiescenti (soprattutto all’interno dei nostri due maggiori quotidiani). L’indignazione diventa vibrante quando si commentano i programmi criminosi e scellerati di un certo capitalismo internazionale: “la delocalizzazione verso luoghi dove la forza-lavoro è trattata e retribuita in modo semi-schiavile; la diffusione di tale rapporto di dipendenza anche in aree dell’Europa meridionale e del Nord Africa; e la complicità di grandi gestori e utenti del narcotraffico e della tratta di esseri umani con il sistema bancario-finanziario”. Fallita ogni utopia egualitaria e rivoluzionaria vagheggiata dalla visione eurocentrica del primo marxismo, al vecchio continente non rimane altra prospettiva che una resistenza etica, basata sul proprio patrimonio culturale e sui valori umanitari affermati nel 1789: “Gli uomini nascono e restano  liberi e uguali”. La spinta all’uguaglianza ribadita da tutte le rivoluzioni succedutesi dall’antichità (anche se ciclicamente i loro esiti risultavano inficiati da nuove risoluzioni reazionarie) ci ha insegnato che la storia non si ferma, ripetendosi in termini diversi ma sempre nella direzione di un progresso ineludibile e irrinunciabile: “Nessun ritorno è davvero un ritorno al punto di partenza”. Ogni cambiamento introduce infatti “modificazioni molecolari nell’esistenza di tutti. Esse penetrano nel costume, nella mentalità e, una volta acquisite, difficilmente si perdono”.

Luciano Canfora (dopo aver bollato come inconcludenti e velleitarie molte posizioni ecologiche, religiose, sociali nate nell’utlimo mezzo secolo) si dice convinto che l’umanità possa evolversi solo favorendo un’alfabetizzazione di massa, che renda consapevole ogni individuo, gradualmente e singolarmente, dei suoi diritti: al lavoro, alla salute, alla casa, alla cultura, a un equo trattamento economico, alla libertà.

 

© Riproduzione riservata                   «Il Pickwick», 29 settembre 2018

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

RACCONTI

GRINZING: L’AUTOBUS ERA IL N.38

All’Universitätsstrasse, raggiungibile in metrò (linea 1, rossa), si doveva cambiare e prendere, appunto, il 38. Ma tardava, oppure (semplicemente) non era tra i più frequenti e frequentati, il 38 che finiva la sua corsa nel sobborgo di Grinzing. Così gironzolavo tra i negozi e le vetrine del sottopasso, in attesa. E mi guardavo intorno, e mi lasciavo guardare. Da un giovanotto che a tutti i costi voleva vendermi un giornale studentesco, da una truce fornaia che non si raddolcì nemmeno quando le comprai un krapfen, da uno spazzino cingalese che come un automa puliva e ripuliva pochi metri quadri del marciapiedi alla mia destra.

Sull’autobus (quando finalmente arrivò) c’erano pochi viaggiatori. Occupai subito un posto in fondo, vicino al finestrino. La giornata era luminosa, non troppo calda: l’avvio di un agosto clemente e solidale. Il traffico intorno al bus ordinato e silenzioso, in quella Vienna ritrovata dopo dieci anni: d’estate e non più a Natale, da sola e non più con la famiglia. Mi sentivo felice: stavo realizzando un desiderio a lungo covato nell’anima.

Grinzing godeva di una leggendaria fama. Era il paese del vino e delle osterie, delle bevute e della musica popolare, delle serate passate al fresco, sotto pergolati di pampini e grappoli violastri. In pochi lo conoscevano per la ragione per cui lo conoscevo io. Seguivo con attenzione sospesa tutte le fermate dell’autobus (chi saliva e chi scendeva, chi prendeva posto e chi preferiva rimanere in piedi): confrontavo sulla mia mappa ogni nome di via, ogni piazza, distratta solo, e per poco tempo, dall’irrompere eccitato e vociante di una classe elementare accompagnata da due maestre. Dovevo scendere prima del capolinea. Non sapevo bene se una o due fermate prima. Mi aiutò a decidere un’indicazione segnaletica: “Grinzinger Friedhof”. E lì scesi.

Percorsi un vialetto alberato in salita. In fondo, un cancello con un’iscrizione severa. Prima di entrare, mi fermai a comperare i fiori: «Tre rose bianche», chiesi alla vecchia fioraia, e poi, quasi scusandomi, quasi timidamente, indicazioni su dove potevo trovarlo. «Der Musiker?», rispose. A sinistra, fila n. 6.

Sul ghiaino i miei sandali scricchiolavano. Come sempre incerta, impacciata, domandai ancora a una donna che camminava energica e sicura tra le tombe. Non sapeva, non lo conosceva. Ma era invece proprio lì, a sinistra. Fila n.6: GUSTAV MAHLER.

Posai le tre rose sul marmo. Grazie per l’andante della sesta, per l’adagio della nona, per Das Lied von der Erde.

 

«I viaggi di Repubblica» n. 403, 2 febbraio 2006

INTERVISTE

CANDIANI

CHANDRA LIVIA CANDIANI: RESPIRO, ASCOLTO, SPAZIO VUOTO

Chandra Livia Candiani (Milano 1952) è poetessa e traduttrice di testi buddhisti; tiene corsi di meditazione e conduce seminari di poesia nelle scuole elementari, nelle case alloggio per malati e per i senza casa. I suoi libri più noti sono «Io con vestito leggero» (Campanotto 2005); La bambina pugile ovvero la precisione dell’amore (Einaudi 2014); «Bevendo il tè con i morti» (Interlinea 2015); «Ma dove sono le parole?» (Effigie, 2015); «Fatti vivo» (Einaudi 2017); Il silenzio è cosa viva (Einaudi 2018).

Ci puoi raccontare brevemente delle tue origini familiari e degli studi che ti hanno plasmato come poeta?

Sono la quarta e ultima figlia di una famiglia dolorosa, genitori difficili da definire senza usare parole gravi e figli segnati dall’abbandono a se stessi e da quella che Herta Muller chiama ‘la sottrazione quotidiana dell’ovvietà delle cose’. Un’infanzia in cui inventarsi la vita e un modo di stare al mondo senza essere troppo scherniti ed esclusi non è stata facile da sostenere ma è stata un buon terreno per la poesia. Mi ha insegnato la solitudine del lavoro, la gratuità del dono, l’attesa della parola vera. Ho fatto con fatica gli studi classici, troppi pesi sulle spalle per andare bene a scuola, troppa estraneità a un sapere che non si collegava alla vita interiore e descriveva un mondo per me difficile da abitare. Mi sono iscritta a filosofia, mi sembrava più adatta per coltivare il pensiero che veglia sotto ogni poesia che non lettere. Ma non ho terminato gli studi. Ci mettevo tantissimo tempo a preparare un esame, avevo bisogno di riflettere su ogni cosa che leggevo, e poi sono andata via di casa giovanissima e lavorare e studiare era troppo faticoso per me. Ho lavorato tanto con i bambini e anche questo ha formato la mia poesia. Raggiungere i bambini senza infantilizzazioni è un traguardo forse irraggiungibile e mi dà tuttora devozione per la parola.
Ho letto tanto fin da piccola, senza un metodo, cercando chi cerca. I poeti russi più di tutti, oltre a Rilke, mi hanno impresso una direzione poetica della trasfigurazione dei fatti della vita privata in segni da decifrare e in parola per rispondere all’esistenza che scorre con noi.

A quando risale il tuo incontro con il buddhismo e come ha nutrito e continua a nutrire il tuo rapporto con la spiritualità?

Verso i trent’anni ho incontrato in India la pratica della meditazione. In India, che pure è il paese della materia per eccellenza, tutto irradia energia dell’anima, anima individuale e anima del mondo, denso silenzio che fa da sfondo al traffico quotidiano. In India, si sta a casa, una casa ancestrale, eppure i disagi fisici sono spesso estremi. Meditare è significato per me nascere nel corpo, prima ero un’astrazione senziente. Mi ha dato un contenitore e una sensibilità non più alla mercé degli altri, ma collegata a un centro di silenzio dentro di me e dentro gli alberi e gli animali, le rocce e le acque, dentro il mondo della vita, quel mondo che in città è quasi sepolto dal mondo dei ruoli e delle personalità, delle prepotenze.
Il Buddhismo non è una religione a cui aderire, non ha dogmi, né verità rivelate. Nella mia scuola, il Theravada, si dice che il Dharma, l’insegnamento, la realtà, è ehipassiko, che alla lettera significa ‘vieni e vedi’, cioè si tratta di esplorare in prima persona, non si eredita alcun sapere che non sia vagliato dall’esperienza individuale. Nessuna visione in cui dover forzatamente entrare ma percorrere un sentiero per risvegliarsi e guardare con i propri occhi ripuliti dalla polvere del pre-giudizio.
Grazie dell’ampiezza di questa domanda che sottintende che la spiritualità è un percorso proprio che può nutrirsi degli affluenti delle religioni e delle visioni ma deve poi sfociare in una vastità senza separazioni, nomi, definizioni, muri.
Praticare l’essere vivi e vulnerabili, incontrare la vita partendo da un cuore pulsante e da una mente e un corpo svegli significa anche sapersi proteggere e agire con giustizia. Non è difficile per me sentire l’unità e la bellezza commovente del cosmo, quello che ho da imparare è lo stare al mondo, avere una vita quieta e attenta, dormire, mangiare, abitare, lavorare.

Secondo te, quali sono le parole che salvano, nel rapporto con sé stessi e con gli altri?

Respiro, silenzio, ascolto, tenera follia, poesia, spazio, mistero, bontà schietta, vero, sogno.

La tua è una poesia gentile, attenta alle cose, ai gesti, agli esseri viventi più umili e in qualche modo indifesi. Ritieni che questa tua disposizione empatica all’ascolto sia più una dote caratteriale o una precisa scelta etica e ideologica?

Penso che ci sia un’attenzione alle creature mute o ammutolite che è nata dalle esplorazioni infantili. Sono stata una bambina e un’adolescente molto silenziosa e vedevo tutto ed è arrivato presto il desiderio di offrire la voce a chi non ce l’ha. Era una simpatia, in senso elementare, una risonanza con gli invisibili e gli inascoltati perché ero un’invisibile e un’inascoltata e non volevo cambiare condizione, volevo ‘parlare’ questa.
Poi, certamente il Buddhismo ha contribuito a farne un atteggiamento consapevole, non rivendicativo o ostile verso chi non è umile o indifeso, ma un essere al fianco di chi lo è, perché tra indifesi ci si può intendere, ogni tanto, e perché è bello fare spazio e imprestare la voce.
E poi mi sembra che la poesia sia la quintessenza dell’ascolto e forse è quindi venuta prima l’attitudine al mettersi in ascolto e dopo la ricezione delle parole.

In una recente intervista hai definito la poesia “un contatto con le ferite, ma anche con la luce che le attraversa”. Più ferite o più luce, nel mondo e nella tua esperienza esistenziale? Da chi o cosa attendere salvezza?

Mi sembra che ferite e luce siano insieme, quando le ferite sono accolte, ospitate con rispetto, allora la luce ci passa attraverso e possiamo vedere e far trasparire qualcosa che va oltre il male, perché una ferita è una crepa nelle certezze, è un varco verso l’insondabile. Forse ci sono state molte più ferite che luce nella prima parte della mia vita, anzi diciamo fino ai cinquant’anni. Poi mi sono affrancata dal farmi male senza saperlo attraverso gli altri e ho percorso la Via che porta a se stessi e all’abbandono alla vastità. Sto camminando e c’è luce, c’è anche tanto buio, ma se lo abito, lo respiro, lo ‘attendo’ , si riempie di lucciole.
L’ho attesa tanto dall’esterno la salvezza, da un incontro, da un libro, da una religione, da un pensiero. Non è arrivata così. Quando ti lasci andare senza alcuna sicurezza, ma solo perché non hai più altra scelta, allora… Non so, c’è un soffio, una mano, quando non pretendi più l’aiuto esterno e ti tuffi, c’è proprio la sensazione di una smisurata mano.

© Riproduzione riservata

https://www.sololibri.net/intervista-Chandra-Livia-Candiani.html            28 settembre 2018

 

RECENSIONI

MARIN

BIAGIO MARIN, POESIE – GARZANTI, MILANO 2017

Il volume che Garzanti ha dedicato a Biagio Marin raccoglie un’ampia scelta delle sue poesie, e una serie di contributi critici dei maggiori letterati italiani del ’900: Carlo Bo, Pier Paolo Pasolini, Andrea Zanzotto, Pier Vincenzo Mengaldo, Massimo Cacciari, e dei curatori Edda Serra e Claudio Magris. Secondo quest’ultimo «Il canzoniere di Marin ha la continuità del diario e il respiro dell’eternità: pervaso da un umanissimo senso del sacro e da un’illuminante percezione del cosmo, tocca con limpida e serena naturalezza apici di profondità metafisica».

Biagio Marin (Grado 1891-1985), figlio di un oste, presto orfano di madre, fu allevato dalla nonna paterna. Studiò a Gorizia nel ginnasio di lingua tedesca, quindi alle Scuole Reali Superiori a Pisino (Istria), allora sotto l’Impero Asburgico. Ventenne si trasferì a Firenze, frequentando l’ambiente letterario della “Voce” di Prezzolini, tra scrittori giuliani come lui (Slataper, Stuparich, Saba, Giotti), e altri importanti intellettuali dell’epoca. Approfondì gli studi filosofici e artistici a Vienna, quindi rientrato a Firenze si sposò con Pina Marini, da cui ebbe quattro figli. Al termine della guerra, che lo aveva visto arruolarsi nonostante fosse malato di tubercolosi, si laureò a Roma in filosofia, e in seguito ottenne vari incarichi scolastici e amministrativi in tutto il Friuli Venezia Giulia. Nel 1968 si stabilì nuovamente a Grado, dove rimase fino alla morte. Dal 1912 pubblicò diverse raccolte di versi, quasi tutte in dialetto gradese: i suoi libri più noti furono Elegie istriane (1963), El mar de l’eterno (1967), I canti de l’isola (1970), La vita xe fiama (1972), In memoria (1978), Nel silenzio più teso (1980), La vose de la sera (1985).

Della poesia di Marin tutti i commentatori hanno sottolineato come prima dote la purezza, una sorta di illuminazione disincarnata, che la rende semplice, umanissima e naturale, costantemente uguale a sé stessa dagli anni giovanili alla vecchiaia. Pasolini scrisse che «le poesie di Biagio Marin sono in definitiva la stessa poesia più o meno vicina alla fonte luminosa (accecante) in cui si forma». L’accusa di monotonia che alcuni hanno rivolto ai suoi versi dipende forse dal fatto che in essi non esistono narrazioni vivaci di eventi, e non c’è traccia di dramma: i personaggi descritti sono poco più che comparse sullo sfondo di una modalità poetica che si nutre esclusivamente di una pulitissima e inalterabile musicalità («solo musica fasso: in ela vivo»). Eppure l’uomo aveva conosciuto tribolazioni, miseria e tragedie, come la morte dell’unico figlio maschio in guerra, e il suicidio di un nipote molto amato: ma era nella dedizione quotidiana alla scrittura, nel «diario sterminato» (C. Bo) in cui ogni giorno appuntava i suoi versi che aveva saputo trovare un’ancora di salvezza: «Màseno versi in ogni ora / comò che fa ’l mulin co’l gran». Non era, la sua, una produzione a-storica, indifferente al rumore del mondo e alle sue sofferenze e ingiustizie, e non era nemmeno un ricorso consolatorio all’idillio: se fedi e ideologie gli rimanevano sostanzialmente estranee, l’unica voce che riteneva doveroso ascoltare era proprio quella, empatica e meravigliata, dell’ispirazione poetica. «Quanto più moro / presenza / al mondo intermitente / e luse che se spenze, de ponente / tanto più de la vita m’inamoro. / E del sol rîe che fa fiurî l’avril / e del miel che l’ha in boca, / la prima neve che za fioca / sia pur lenta e zentil».

Priva di varianti e novità, iterativa in una sua finitezza innocente, anteriore addirittura alla creazione del mondo, la poesia di Marin tende a un continuo slancio verso un altrove, verso un infinito che può essere sia la distesa equorea sia il cielo: tutto azzurro o bianco, tutto limpido, silenziosa e rasserenante promessa di felicità. Utilizzando in maniera reiterata un lessico limitato, sfruttando ossessivamente le rime, fa del microcosmo gradese un universo privo di confini spazio-temporali. E la sua Grado si identifica completamente con il mare, prima fonte di ispirazione e di nutrimento, quasi metafora di madre accogliente e protettiva. Nel 1980, in una sorta di confessione letteraria, affermava: «Il mare è stato per me la più pura parola dell’Alterità e la più immediata incarnazione della Divinità. Il cielo, e soprattutto il firmamento, certo, era anche lui parola divina, ma il mare era qualcosa di più. È come l’aria che permette il respiro. Il mare lo vedevo e non solo lo vedevo, ma in esso mi tuffavo, conoscevo i suoi capricci, le sue bellezze le ore meravigliose di “soio” e le ore di tempesta, alla sua vita partecipavo… Proprio lì, dentro il mio mare ho avuto la prima, più semplice rivelazione della presenza di Dio».

«Mar queto mar calmo / no’ vogie no’ brame / respiro de salmo / tra dossi e tra lame»; «La breve riva / spalanca el mar grando: / de quando in quando / ariva un’ola più viva, co’ ‘nbriva»; «E ‘ndéveno cussì le vele al vento / lassando drìo de noltri una gran ssia, / co’ l’ánema in t’i vogi e ‘l cuor contento / sensa pinsieri de manincunia»; «El vento za se placa / e la risaca / ariva in saca / ma lenta e straca. // El can del cuor nol bagia / e la passion la tase / el mar stesso nol ragia: / dal siel cala la pase. // Pase me vogio granda / via dei travagi de la tera, / lontan da la bufera / che a pico el bastimento manda».

L’ingenuità espressiva di Marin, lontana da ogni sperimentalismo e intellettualismo, non è affettata; deriva da una «adesione dal basso all’ambiente» (A. Zanzotto): «No son sapiente / e sé poche parole: / le sole / che adopera la zente»; «Trasparensa e durata: / questa la gno ilusion, / questa l’aspirassion / che nel cuor se dilata». Così aveva tentato di spiegare la propria vocazione letteraria: «Dove, quando, come queste liriche si formino, non lo so. Io solo le trascrivo e a volte rapidissimamente, e di rado mi avviene di dover apportare modifiche… La poesia non è costruzione intellettuale, fatto di volontà e di disciplina. Io, molte volte tra la veglia e il sonno, vedo in me molte poesie che poi lascio andare perché mi secca svegliarmi, ma altre volte in due minuti fisso nella carta la poesia che ho già trovato in me».

Poesia sorgiva, quindi, mai adulterata da intenzioni o tentazioni extra-testuali, e via via nel tempo sempre depurata da ogni materialità, tesa a un’astrazione capace di far coincidere «trasparenza assoluta e brama di vivere» (C. Magris), come esemplificano questi versi: «Me son contento d’êsse nato / de longo tenpo d’êsse su la tera, / dopo tanto dolor e tanta guera / son incora beato. // Tanto hè godúo la luse, el sol; / le musiche dei vinti in duti i sieli, / el cantusâ su l’alba dei noveli / e perfin el tramonto che me duol». Tale ribadita estraneità a mode e corruttivi attualismi viene attribuita dai due curatori del volume, Edda Serra e Claudio Magris, all’uso particolarissimo che Marin fa del dialetto: lingua di una tradizione reinventata, che non dà voce a un localismo pittoresco, ma dilata e fluidifica il vocabolario italiano in una musicalità morbida e armoniosa, appoggiata al prevalere delle vocali e alla facilità delle rime, in un ritmo cadenzato che volutamente sembra riecheggiare il moto ondoso del mare.

 

© Riproduzione riservata         «Nazione Indiana», 26 settembre 2018

 

 

 

 

 

 

 

RECENSIONI

LONDON

JACK LONDON, PREPARARE UN FUOCO – FELTRINELLI, MILANO 2013 (ebook)

A meno di un euro, Feltrinelli offre al pubblico uno dei racconti più famosi di Jack London, tratto da Il richiamo della foresta. Leggibile in quindici minuti, non solo per la sua ridotta estensione tipografica, ma perché magistralmente narrato con un crescendo di ansimante e coinvolgente velocità, Preparare un fuoco narra una tragica avventura ambientata tra i ghiacci del Klondike, sul fiume Yukon.  Nell’arco di poche ore, in un “giorno esageratamente freddo e grigio”, quando il gelo percepito si aggira intorno ai sessanta gradi sottozero, un uomo si mette in cammino con la sola compagnia del suo husky per raggiungere il campo base. Mantenendo un passo di sei chilometri all’ora, prevede ottimisticamente di raggiungere i compagni prima dell’imbrunire: ma il freddo si fa sempre più pungente e insidioso, le guance e le dita delle mani e dei piedi iniziano a gelare, e la vista gli si intorbida. Procedono quasi estranei l’uno all’altro, il cacciatore e l’animale, tenendosi d’occhio con sospetto ad ogni imprevisto rallentamento della marcia. “Tra cane e uomo non c’era intimità. Il primo era lo schiavo da fatica dell’altro, e le uniche carezze ricevute erano state quelle della frusta e dei suoni gutturali e minacciosi che annunciavano la minaccia della frustata”. Improvvisamente l’uomo sprofonda nella neve molle, bagnandosi i calzoni fino alle ginocchia. Costretto a fermarsi per accendere il fuoco, prende atto di riuscire a strofinare i fiammiferi con grave difficoltà, la stessa che prova nel masticare le gallette, a causa dei baffi e della barba ghiacciati che gli comprimono le labbra. Quando finalmente la fiamma comincia a crepitare, e lui si accinge a togliersi scarponi e calze con le dita assiderate, inaspettatamente dai rami dell’abete sotto cui ha cercato riparo crolla un ammasso di neve fresca che in un attimo spegne il fuoco. Ripete il tentativo spostandosi lontano dagli alberi, ma ancora senza successo. Il cane fiuta istintivamente il pericolo, e si dimena agitato intorno al padrone. Al cacciatore viene l’idea di uccidere la bestia, per scaldarsi col sangue all’interno delle sue viscere, ma realizza subito dopo di non avere le forze necessaria per portare a termine il proposito. “L’uomo abbassò lo sguardo a cercare le mani, che scorse penzolanti alla fine delle braccia. Trovò curioso il fatto di dover usare gli occhi per capire dove aveva le mani”. Comincia allora a precipitarsi terrorizzato in direzione del campo, intuendo che la fine non è più solo una lontana ipotesi. Stramazza due volte nella neve, mentre il cane lo osserva “incuriosito, intento, impaziente”. Davanti allo sguardo impietoso dell’animale, si vergogna di essersi messo a correre “come una gallina decapitata”, e decide di aspettare la morte con dignità, lasciandosi andare al torpore, rannicchiato sulla neve. Il cane, fiutando l’odore del cadavere, guaisce lamentosamente, ma poi trotterella con indifferenza verso il campo, “dove avrebbe trovato gli altri, procacciatori di cibo e procacciatori di fuoco”.

 

© Riproduzione riservata        

https://www.sololibri.net/Preparare-un-fuoco-London.html           24 settembre 2018

 

INTERVISTE

MANGANARO

PATRIZIA MANGANARO, PENSIERO ED EMPATIA
Patrizia Manganaro è Docente Ordinario di Storia della Filosofia contemporanea e di Filosofia del linguaggio alla Pontificia Università Lateranense di Roma. Ha all’attivo numerose pubblicazioni tra saggi, monografie e volumi collettanei: Empatia (EMP, Padova 2014); Persona-logos. La sintesi filosofico-teologica in Edith Stein (Lup 2015); Narcisismo (EMP, Padova 2016) sono tra i suoi libri più recenti.

 

In quale maniera l’ambiente in cui è nata, cresciuta e in cui si è formata culturalmente ha influenzato le sue scelte intellettuali e professionali?

Ho deciso che “da grande” avrei fatto l’insegnante all’età di otto-nove anni, stimolata dall’ambiente scolastico di Bergamo e poi di Roma, la mia città di adozione. Un giorno, tra i libri di mio padre, ho trovato La nausea di J.-P. Sartre. Avevo dodici anni e, da allora, non mi sono più separata dalla filosofia. Non me ne sono mai pentita, anche quando si diceva che non mi avrebbe dato un futuro. All’Università “La Sapienza” di Roma ho ascoltato maestri autorevoli: Francesco Valentini, ordinario di Filosofia teoretica, che mi ha insegnato a leggere Hegel e con il quale ho discusso una tesi sul razionalismo critico di Antonio Banfi; e poi docenti del calibro di Marco M. Olivetti, Gennaro Sasso, Tullio De Mauro, Gabriele Giannantoni, Tullio Gregory, Manlio Simonetti. Ricordo il primo giorno di lezione universitaria a Villa Mirafiori, sede della Facoltà di Filosofia: rimasi incantata dalle riflessioni del docente sul tema della temporalità in Anassimandro, Platone, Agostino, Tommaso, Kant, Heidegger. Laico, raccomandava a noi studenti la lettura del Prologo del Vangelo di Giovanni. È stato un consiglio intelligente e lungimirante, di cui ancora lo ringrazio. Io ero già credente: credente e interrogante. Dopo la Laurea, ho conseguito il Dottorato in Filosofia all’Università Lateranense, con una ricerca sulla fenomenologia dell’alterità e dell’intersoggettività, poi pubblicata da Città Nuova con il titolo Verso l’Altro. L’esperienza mistica tra interiorità e trascendenza nel 2002. In questa Università ho approfondito la lettura filosofica dell’esperienza mistica e, sotto la guida di Angela Ales Bello, la fenomenologia della religione.

Quali sono i filosofi, classici e contemporanei, che più hanno contribuito alla costruzione del suo pensiero critico?

D’istinto, direi Ludwig Wittgenstein e Edith Stein. L’uno mi ha insegnato l’importanza del logos come linguaggio, come “gioco” condiviso, mentre dall’altra ho appreso la grammatica fenomenologica del “sentire” e l’epistemologia analitica dei vissuti coscienziali di matrice husserliana. Ma in realtà sono molti e, per evitare un arido elenco, direi piuttosto qualcosa su alcuni testi che hanno contribuito alla progressiva stratificazione del mio pensiero, attraverso l’esperienza della lettura, dell’ascolto e della riflessione. In gioventù, i dialoghi di Platone Parmenide e Sofista sono stati formativi da un punto di vista teoretico: il primo concerne la questione dell’uno e dei molti, del tutto e delle parti, con formidabili incursioni sul tema del tempo, del divenire, dell’istante: mi ha insegnato il valore dell’aporia, la capacità di elaborare un tema filosofico, le sue molteplici possibilità di articolazione e di scandaglio, il gusto per il gioco intellettuale e l’esercizio del pensiero; il Sofista, che discute il tema del non-essere come differenza, mi ha aperto nuove strategie di comprensione di quel “non”, che a volte fa paura. I libri X e XI delle Confessioni di Agostino sulla memoria e sul tempo sono uno straordinario documento del quaerere della ragione, del cercare domandando piuttosto che del superbo affirmare. Qui ho imparato l’umiltà del pensiero e, insieme, la sua forza. Insegnando Storia della filosofia contemporanea, segnalerei almeno il criticismo di Kant e gli Scritti teologici giovanili di Hegel, insieme alla Scienza della logica. Tutto Nietzsche, assolutamente geniale, unico, lucido nella sua esaltazione: le sue parole feriscono, tagliano come lame, costringono a pensare, quasi ti inchiodano. E ancora, le Idee di Husserl per l’esplorazione dell’intenzionalità della coscienza e l’elaborazione di un criterio metodologico innovativo, con una serie di potenzialità che ritengo, almeno in parte, inesplorate; e il pensiero di Wittgenstein, dal Tractatus alle Ricerche filosofiche, sino ai suoi diari, così traboccanti di umanità. Edith Stein per lo studio filosofico della persona umana, della coscienza religiosa e mistica; Hannah Arendt, Martin Buber, Hans Jonas, Jacques Maritain, e molti, molti altri. Tra i contemporanei italiani, il Diario fenomenologico di Enzo Paci mi è particolarmente caro, per la squisita sensibilità filosofica.

La filosofia rimane un ambito di riflessione per pochi, o può ambire a raggiungere e a motivare intellettualmente un pubblico più vasto?

La filosofia è una disciplina tecnica, non c’è dubbio. Ma sarebbe uno sbaglio lasciarla agli “addetti ai lavori”, come se fosse soltanto mera erudizione. Con la filosofia, è possibile costruire la pace. Come? In primo luogo, incarnandola, testimoniandola, perché studiare rende liberi: è un diritto, prima ancora che un dovere. In secondo luogo, imparando ad ascoltare: anche chi è più distante, anche il pensiero che non condividi ti arricchisce e diventa un bagaglio prezioso. Credo nel valore dell’educazione e sono convinta sostenitrice dell’insegnamento della filosofia sin dalle scuole elementari, se non prima, per formare le coscienze dei futuri cittadini al bene comune e affinare la sensibilità di tutti e di ciascuno. Sì, perché logos e pathos non sono contrari, ma complementari. La filosofia, diceva Wittgenstein, è un lavoro su di sé, è una terapia (non nel senso di Freud, per il quale la civiltà genera patologia, ma nel senso squisitamente ellenico della therapeia, che significa “servizio”, “cura”). A scuola, abbinerei l’avviamento alla filosofia alla pratica dello yoga, che estende la coscienza della complessità che siamo, a partire dal corpo. Quando entro in classe, prima di iniziare la lezione invito gli studenti a un momento di riflessione e, per chi lo desidera, di preghiera, in silenzio: in quel momento, ciascuno è con se stesso e tutti sono solidali con tutti, e questa è già comunità, condivisione, documento della propria e dell’altrui umanità. Homo sum: humani nihili a me alienum puto, scriveva Terenzio, e io cerco di combattere l’indifferenza con la filosofia. Inoltre, c’è già uno scopo didattico: gli studenti fanno esperienza concreta del legame tra pensiero e linguaggio, nonostante il silenzio, anzi proprio grazie al silenzio. Che a quel punto non è un limite, ma una potenzialità nuova, e più ampia.

Insegnando all’Università Lateranense di Roma, immagino che lavori in un ambiente vincolato a una precisa ideologia e scelta di campo teorica. Non ritiene ciò un possibile limite alla libera indagine filosofica?

La filosofia è una disciplina autonoma, con un proprio statuto epistemologico, i suoi metodi, i suoi criteri. La Facoltà di Filosofia dell’Università Lateranense è frequentata da studenti e studentesse provenienti da tutti i continenti del mondo, persino dall’Africa, dall’Asia e dal Medio Oriente; i laici e le donne sono ben rappresentati; discutiamo Tesi di Laurea e di Dottorato in inglese, francese, portoghese, spagnolo, superfluo sottolineare come l’ambiente internazionale favorisca lo scambio interculturale e l’apertura a realtà altre. Qui gli studenti non sono meri numeri di matricola, ma persone, e la nostra docenza riflette l’idea e la pratica del personalismo filosofico, la dignità della persona umana. Non mi sembra un limite, ma un valore aggiunto. Direi inoltre che la fede non è un fatto privato, ma interiore. Pensare che sia un ostacolo per la ragione è un pregiudizio smentito dalla storia, un luogo comune. L’esperienza del limite, della finitudine, della sofferenza, la domanda sulla vita e sulla morte aprono la ragione filosofica alle questioni più brucianti, più radicali: l’infinito, la trascendenza, il bene comune, la bellezza, la pace. L’indagine filosofica del filosofo credente è e rimane libera: prendiamo un Pareyson, che ha messo a tema la questione dilaniante del male e della libertà, persino in relazione a Dio. Prendiamo il pensiero ebraico, la spinosa questione del pensare Dio dopo Auschwitz. Insegno storia della filosofia contemporanea e dedico molto tempo allo studio dei “maestri del sospetto” Marx, Nietzsche e Freud, che hanno saputo capovolgere molti luoghi comuni, invitandoci a riflettere, ad approfondire, a ricercare sempre e di nuovo. Il pensiero è sempre arricchente, la filosofia è un invito a pensare lo spazio pubblico, mentre non manca di rivolgersi ad intus.

Nella società attuale, così individualistica e attratta da valori effimeri – quali il successo economico e l’esibizione personale -, un forte richiamo etico e teologico suscita ancora interesse, ha una reale presa sul pubblico, soprattutto tra le giovani generazioni? Non le pare che tutto stia scivolando verso derive di disinteresse e apatia, in qualche modo veicolate da superficiali richiami mediatici?

Insegno da molti anni e non è questa la “fotografia” dei giovani che l’esperienza didattica mi ha offerto. Nella maggioranza dei casi, i giovani hanno chiesto cura, attenzione, impegno, passione, solidarietà, valori, creatività, professionalità. Non hanno perso la capacità di domandare, di interrogare, di porre questioni, di incuriosirsi, di stupirsi, di fare comunità. Hanno anzi mostrato interesse per questioni almeno in parte nuove: le neuroscienze, l’ecologia, gli animali, l’ambiente, la bioetica. Penso siano segnali importanti, da cogliere e ac-cogliere. Non ignoro alcune preoccupanti derive, come lo scollamento tra insegnanti e genitori, o la crisi che logora un sapere ormai frammentato, ma non identificherei le giovani generazioni con “il pubblico”, perché il sapere non è uno “spettacolo”; e i filosofi non sono gli opinionisti o i frequentatori dei salotti mediatici, ma si pongono al servizio del pensiero, cioè dell’umano. Ho affrontato questi temi da due punti di vista diversi, nei volumetti Empatia (2014) e Narcisismo. Tre riflessioni liquide (2016), cercando un linguaggio duttile, fluido, plastico, per dire che l’indifferenza, l’apatia, la visibilità a tutti i costi, l’anestesia del sentire sono i mali del nostro tempo, uniti alla solitudine di massa, ancor più inquietante perché virtuale. La figura di Narciso, in questo senso, è emblematica, perché ama un’ombra, e la prende per corpo. Ma Narciso muore nel momento in cui si rende conto di essere uno, di essere solo. Sta a noi adulti dare per primi l’esempio, prendendoci la responsabilità dei nostri gesti, azioni, comportamenti, parole, relazioni. Sta ai cosiddetti intellettuali suscitare un pensiero critico, maturo, svincolato dai luoghi comuni e dalle tendenze omologanti: questo significa, semplicemente, lavorare sulla qualità. Avere cura. Mettersi al servizio dell’altro e testimoniare, così, la libertà del pensiero.

© Riproduzione riservata    https://www.sololibri.net/Cinque-domande-alla-filosofa-Patrizia-Manganaro. html      21 settembre 2018

RECENSIONI

LORCA

FEDERICO GARCÍA LORCA, SONETTI DELL’AMORE OSCURO. SUITES –  GARZANTI, MILANO 2017

Chi ama la poesia spagnola, e quella di Federico García Lorca in particolare, non dovrebbe lasciarsi sfuggire questo importante volume edito da Garzanti, che raccoglie i sonetti (custoditi segretamente dalla famiglia e pubblicati per la prima volta in Spagna solo nel 1984) ispirati agli amori omosessuali del poeta, e una scelta di Suites risalenti agli anni Venti.

La fondamentale introduzione scritta da Carlo Bo nel 1975 risulta alla lettura ancora attuale ed esaustiva, nel suo inquadramento storico e letterario dell’opera lorchiana all’interno dei primi quarant’anni del 900, così gravidi di avvenimenti di rilievo per la poesia e la società iberica. Bo sottolinea le varie fasi della produzione in versi di Lorca, da quella giovanile più ingenua e “provinciale”, a quella surrealista seguita al trasferimento a Madrid, alla maturazione politica del periodo newyorkese: in un crescendo di consapevolezza stilistica e culturale, e in un approfondimento dell’intensità lirica, non istintiva, ma meditata, per quanto sempre infiammata da un temperamento vitalistico e gioioso.  Lorca fu più personaggio degli altri poeti della sua generazione, già prima della sua fucilazione che lo rese un simbolo della lotta contro la dittatura e per la libertà: concependo la poesia come «spettacolo del mondo», fu anticipatore della poesia impegnata, e nei suoi versi come nel suo teatro volle rappresentare il tutto della vita, dalla passione amorosa e civile all’incanto della natura, dalla rappresentazione di figure memorabili stagliate su un paesaggio altrettanto memorabile, fino al malinconico presagio del distacco e della morte.

I sonetti dell’amore oscuro, scritti tra il 1935 e il 1936, sono solo dodici, e sono, secondo una definizione di Pablo Neruda, di «incredibile bellezza». Già nel 1937 Vicente Aleixandre, tra i primi lettori, così ne parlò: «Prodigio de pasión, de entusiasmo, de felicidad, de tormento, puro y ardiente monumento al amor, en que la primera materia es ya la carne, el corazón, el alma del poeta en trance de destrucción». Ben ne descrive genesi e fattura Mario Socrate nella sua puntuale ed esplicativa prefazione: senza entrare nell’approfondita disamina sintattico-morfologica da lui condotta (evidenziazione di enjambement, metafore, metonimie, anastrofi, apostrofi), possiamo ricavare precise informazioni sulla composizione dell’opera, sulla sua effettiva consistenza e sui progetti del suo autore. Riguardo a tali questioni si susseguirono per molti anni testimonianze e affermazioni arbitrarie, censure e depistamenti più o meno tendenziosi, fino alla tardiva ricognizione degli originali (filologicamente rigorosa), affidata a una commissione ufficiale, e alla loro pubblicazione definitiva nel supplemento letterario del giornale madrileno ABC del 17 marzo 1984. Pubblicazione tardiva dovuta non solo alle beghe tra letterati amici e nemici di Lorca, ma anche alla volontà di “neutralizzare, riassorbire lo «scandalo» di quei testi, di difendere il poeta da sé stesso”, garantendone la rassicurante rispettabilità.

D’altronde, lo stesso Federico, nell’ultima intervista rilasciata, si era detto convinto che «los libros de poesía se van haciendo siempre lentamente», suggerendo così il suo desiderio di rimandare l’edizione della raccolta, al fine di assemblare un volume di sonetti più organico e completo, che magari ricalcasse l’esempio illustre dei cento sonetti shakespeariani. Proprio sulla scelta lorchiana della forma sonetto, elaborato nello schema canonico abba abba cdc dcd, Socrate si sofferma indicando l’intenzione esplicita del poeta di frenare l’empito del sentimento in una stringente armatura, collegandosi così alla più antica tradizione ispanica (Lope, Góngora, Quevedo), ripresa nel ’900 da Alberti, Diego, Hernández, Guillén, Darío, Unamuno, Jiménez, Machado.

L’insegnamento di Shakespeare rimane comunque innegabile sia nella stessa  tensione esistente tra un io e un tu che esclude presenze terze, sia nella riproposizione dei «motivi della sudditanza e della prigionia (XXVI, LVII, LVIII, XCII); delle notti desolate (XXVIII, LXI); delle accorate rimostranze (XXXIV, LXXXVIII, LXI, CX); della disparità dell’età, simboleggiata con le stagioni (XXXVIII, LXIII, LXIV, XCVII); della reciproca identificazione, così frequenti; e infine, quelli, anche se su piani differenti, della pericolosità di un tale rapporto». Vediamone alcuni: «Godi il paesaggio della mia ferita, / nuovo, spezza ruscelli esili e giunchi, / e da cosce di miele il sangue a sorsi // bevi, ma presto, ché così congiunti, / bocca rotta d’amore, anima morsa, / ci trovi il tempo te e me consunti»; «Se mai sei tu il mio tesoro occulto, / se la mia croce, la mia intrisa pena, / se il cane sono io del tuo dominio, // fa’ che non perda quello che ho raggiunto, / e le acque del tuo fiume pavesa / con foglie dell’autunno mio in delirio»; «Questo sangue di lacrime che illustra / inerte lira, torcia senza presa. / Questo urto del mare e la sua frusta. / Questo scorpione entro di me in attesa»; «Tu con parole quest’insania cura, / sennò lasciami alla mia serena notte / dell’anima per sempre oscura»; «Così la notte e il giorno il cuore mio / nel buio carcere amoroso piange, / cieco di te, la sua melanconia»; «Su per la notte io e te, la luna piena, / tu che ridevi, io a piangere mi misi. / Un dio era il tuo sprezzo, ed i sospiri / miei colombe e attimi in catene»; «Tu continua il tuo sonno, vita mia. / Senti il mio rotto sangue nei violini? / Ma in agguato ci aspettano per via».

Altro argomento su cui insiste la prefazione di Mario Socrate è la scelta del titolo di questa corona di poesie, con quell’aggettivo che rimanda al nascondimento, al timore, al buio in cui è costretto un eros diverso. In effetti, non possiamo sapere se sia stato voluto da Lorca stesso (per quanto sia presente in alcuni versi dei sonetti: «Ay voz secreta del amor oscuro») e se sarebbe rimasto quello definitivo se non ci fosse stata la tragica fine del poeta nell’agosto del ’36. Sembra comunque un titolo adeguato alla raccolta, poiché allusivo in primo luogo alla sofferenza procurata dall’amore descritto, e introiettata da Federico, e secondariamente all’idea di segretezza e frustrazione in cui tale sentimento sopravviveva ‒ insidiato da pregiudizi e sospetti, offese e persecuzione ‒, pur nell’orgogliosa e quasi oppositiva rivendicazione del proprio diritto a esistere.

Composti alla vigilia di una tragedia collettiva, destinati a una lunga ed enigmatica clandestinità editoriale, i Sonetos, bruscamente interrotti dalla crudele esecuzione di Lorca (il suo cadavere non fu mai ritrovato), sono la testimonianza di una tragedia privata, di una sofferenza sentimentale che si trasmette al mondo «con accenti di sconfitta e di eversione in un momento generale di storica agonia». Il volume garzantiano (corredato da un’attenta ricostruzione biografica e da una ricca bibliografia di Glauco Felici) presenta anche una scelta di Suites, scritte tra il 1920 e il 1923 e mai pubblicate nella loro interezza durante la vita del poeta, che non era del tutto convinto del loro valore. Esse si offrono ai nostri occhi con una fisionomia piuttosto rapsodica, musicalmente oscillante tra un’incantata ingenuità giovanile e un turbamento emotivo che prelude agli esiti della produzione matura.

 

«Il Pickwick», 20 settembre 2018

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

RECENSIONI

MANGANARO

PATRIZIA MANGANARO, NARCISISMO – EMP, PADOVA 2018

Le “riflessioni liquide” che la filosofa Patrizia Manganaro dedica al mito di Narciso, sono in realtà provocazioni rivolte non solo al lettore, ma anche al testo ovidiano e alle sue molteplici letture succedutesi nell’arco di due millenni, con l’intento dichiarato di far affiorare un’interpretazione non sempre negativa del termine Narcisismo.

Nella cultura occidentale (così come oggi si ramifica: narrativa, poesia, arte, musica, filosofia, psicoanalisi, sociologia) si è sedimentata l’idea di un Narciso emblema dell’io autoreferenziale, egoista, indifferente, vanitoso, sordo a ogni richiamo d’amore, chiuso nella sua scelta di solitudine autosufficiente. Nei brevi saggi qui raccolti, Manganaro prende invece in considerazione nuove possibilità esplorative di questo simbolo universale, che può così venir compreso e giustificato anche come meditazione, contemplazione, ricerca intellettuale. La mente che ri-flette, si flette due volte, ripiegandosi e rivolgendosi al desiderio inappagato, nel tentativo di indagare il significato più profondo di identità e alterità, di isolamento e relazione. Recuperando l’accezione poetica del mito, l’autrice lo rilegge attraverso le immagini dell’acqua e della luce, dello specchio e della visione, della superficie e dell’abisso. In un susseguirsi di domande incalzanti, in cui interroga sé stessa e gli approdi teorici più recenti della cultura contemporanea (il libriccino è corredato di una ricca e ponderata bibliografia), Narciso diventa figura rappresentativa del passaggio dal moderno al post-moderno, nella nostra epoca polimorfa e instabile, che ama guardarsi ed essere guardata, esibirsi e insieme nascondersi, «tra attrazione e repulsione, centramento e de-centramento, attività e passività, incanto e disincanto»: quando la persona diviene sosia e antagonista del proprio io, nell’accentramento su di sé che non desidera più alcun oggetto altro. Figlio dell’acqua, Narciso (generato dallo stupro del fiume Cefiso sulla virginale ninfa Liriope) incarna la liquidità senza forma del tempo presente, con la frantumazione del soggetto che non sa più riconoscere e comprendere l’oggettività esterna.

Una seconda ipotesi interpretativa viene individuata da Patrizia Manganaro nell’autoreferenzialità presente in ogni gesto artistico (ogni ritratto è un autoritratto…): l’immagine liquida di Narciso, incapace di toccarsi concretamente e appagato della pura visione, rimanda alla fluidità della scrittura contemporanea che nella sua frammentata episodicità ha sostituito il sistema monolitico e compatto della narrazione letteraria e filosofica (oggi prevalgono i diari, gli aforismi, i dialoghi veloci, i reportage), privilegiando la transitorietà del presente alla riflessione sul passato o alla progettualità del futuro.

Infine nel terzo intervento, si ipotizza che la postmodernità, alienata e mercificata nel dilagare dell’idolatria consumistica, abbia posto come primo santo del suo calendario eretico proprio Narciso, avendo scambiato per autonomia la mancanza di relazioni vere. «Infelice autoreferenzialità, il non poter essere altro da sé». Si diffondono così in maniera incontrollata disagio e sospetto, rapporti impersonali vuoti e inessenziali in luogo di legami autentici. Per Manganaro, i Narcisi per eccellenza di oggi sono gli intellettuali, “infantili, stretti nell’abbraccio tra smania di visibilità e crisi d’identità”, ormai incapaci di utopie, disimpegnati e asserviti al potere.

Eppure, anche l’egocentricità (non l’egoismo!) potrebbe risultare positiva e benefica, se soltanto si imparasse a partire dal sé inteso come scavo e conoscenza interiore, come ritorno al centro dell’io per arrivare a comunicare empaticamente le proprie conquiste intellettuali e morali a chi è altro, e non solo allo specchio riflettente.

 

© Riproduzione riservata      

https://www.sololibri.net/Narcisismo-Manganaro.html    18 settembre 2018

 

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POESIE

NOMINARE GLI DEI

Una riga tremante Hölderlin fammi scrivere

Andrea Zanzotto, La Beltà

1.

Mescolandosi tra noi,

si sono persi.

Gli immortali, da non nominare,

pena la loro dissolvenza

imperdonabile.

Hanno tentato di nascondersi

(nei secoli, in paesi distanti):

mentendo.

Noi, pur riconoscendoli

dai loro parchi gesti

dalle vesti cucite in trasparenza,

abbiamo finto di niente,

come fossero proprio persone

normali.

Dovevamo denunciarli, forse,

chiuderli in qualche gabbia?

Al loro silenzioso anonimato

ci siamo abituati,

dèi clandestini

che volevano salvarci.

 

 

2.

Nei sentieri invecchiati del bosco

in disuso

vagano scorporati fantasmi

in bianco, oppure sono cervi

veloci senza orme, brucanti

foglie secche: si intrecciano

ramosi a scoiattoli inquieti

appesi a scortecciati

rami.

Se intorno danzano libellule

ronzanti appena: ebbene

sono loro! i nostri dei

defunti, signori di foreste

inservibili sfinite.

 

 

3.

Orgoglio del loro innottarsi

invisibili, abissi

di ombre funambole

su scie fosforose di traffico;

e zitti, e leggeri, e traslucidi

stupiscono gli incroci

stordenti, il tanfo

dei gas ammorbanti.

Così santi, innocenti

ambulanze di bene,

così spersi beffati

incompresi, loro

tanto diversi.

 

 

4.

Spaurito il viandante

costretto all’esilio timoroso

da sé, dai suoi folli parenti,

si allontana nei campi, più avanti

cercando un qualsiasi chiarore

un oriente divino

o sponda di lago clemente:

la culla del riparo

a cui grazia supplicare, e perdono.

Ma i celesti non aiutano

l’erba col fiato, i cigni

amorosi si sfidano feroci,

le gemme sui rovi invernali

non sanno sbocciare.

 

 

5.

Come agnelli condotti al macello

come pecore mute

non apriranno bocca.

Nel silenzio è la loro salvezza.

Dèi minorati e zitti

si aggrappano al taciuto

al mistero

perché qui,

non nel verbo corrotto,

c’è una cosa più grande

del tempio.

 

6.

Gloria di assolati meriggi

gioia che nessuno vi può togliere,

voi impalpabili passanti

che sfiorate radure,

le create luminose puramente

guardandole;

ce le rendete vergini

– improvvise nel folto del bosco

consolanti zampillanti

sorgenti, materni approdi:

il molto atteso abbraccio.

 

7.

Chi li manda, e da dove?

Si aggirano incogniti, quasi spiando,

guide beate di non vedenti

di anime imbrunite;

nostre stelle comete

lasciano scie nel cielo,

sassolini per terra,

accendono fanali nella notte.

Ma noi obliosi

erranti

li pensiamo ectoplasmi,

deridendoli:

inciampiamo nella loro

lentezza.

Noi

frettolosi ansanti

verso il traguardo

assente.

 

8.

Oltre Dio,

prima e dopo di lui.

Abitano la terra come ospiti

premurosi, discreti:

velati

sommessi operai

al telaio di millenni futuri

rammendano memorie.

Ce ne fanno dono.

Terribili, rifiutano

qualsiasi gratitudine

pretendendo soltanto

dal cielo l’azzurro,

dai fiori le aperte corolle.

 

9.

Quietamente chiamarli.

Forse risponderanno.

 

10.

Signori dei pianeti

custodi degli abissi,

sempre regali e altissimi

lievi beati e angelici,

nascondono nei sandali le ali

coprendo le aureole

coi baschi con i caschi

e diademi o parrucche o feluche.

Eccoli

che sfrecciano sui pattini

di vetro, volteggiano

svolazzano sorridono,

ci invitano

ci invitano

a diventare loro:

quello che conta

è diventare loro

solamente.

 

 

In CriticaMente, 15 settembre 2018 e in Consacrazione dell’istante, AnimaMundi ed., Otranto 2022

RECENSIONI

GENET

JEAN GENET, POESIE – GUANDA, MILANO 2018

Su Jean Genet si è scritto di tutto. Lui stesso ha scritto di tutto sulla sua vita memorabile, oscena, truffaldina, illegale, blasfema, autodistruttiva, vagabonda, fuori controllo. Nato a Parigi da padre ignoto nel 1910, affidato dapprima all’assistenza pubblica, quindi adottato da una famiglia contadina premurosa e attenta, già dall’infanzia manifestò atteggiamenti antisociali e ribelli, macchiandosi di piccoli furti ed esibendo provocatoriamente la sua attrazione per uomini più adulti, specialmente se violenti o emarginati. I frequenti arresti e la detenzione in diverse prigioni, cristallizzarono in lui sia le inclinazioni omosessuali, sia una morbosa fascinazione verso le manifestazioni di brutalità fisica.  Arruolatosi nella Legione Straniera, furono i paesaggi africani e mediorientali, e l’indigenza dei popoli oppressi dal colonialismo occidentale, ad acuire il suo già risentito disagio verso la civiltà e i costumi francesi. Tornato a Parigi, si avvicinò a posizioni filonaziste e collaborazioniste, diventando l’amante di un SS, e continuando a vivere di stratagemmi e di furti, soprattutto a danni di biblioteche, musei e negozi di antiquariato.

Negli anni 40-50, iniziò a pubblicare, spesso in forma anonima e clandestina, poesie (Il Condannato a Morte, 1942), romanzi (Il miracolo della rosa, 1944; Nostra Signora dei Fiori, 1946; Querelle de Brest, 1947; Diario di un ladro, 1949), opere teatrali (Le serve, 1947; I negri, 1958): testi ritenuti pornografici e iconoclastici, che gli procurarono successo e pesanti critiche, censure e prestigio. Apprezzati in particolare dall’intellettualità francese più impegnata, vennero celebrati per il loro ingenuo ma eversivo primitivismo da Jean Cocteau, Simone de Beauvoir e Jean-Paul Sartre. Proprio a quest’ultimo Genet dovette la sua consacrazione letteraria, determinata dalla pubblicazione del saggio Santo Genet. Commediante e martire, del 1952. In esso, Sartre innalzava a paradigma l’intera esistenza dello scrittore capace di trovare nella bassezza e nell’abbrutimento un’ascesi verso la libertà del pensiero e della creazione, persino contraffacendo la sua stessa biografia, in un camuffamento trasgressivo del guitto che brama fare di sé una leggenda vivente, un mito, e appunto un santo. Gli ultimi anni di Jean Genet furono votati alla lotta politica in favore dei movimenti progressisti e rivoluzionari: le Pantere Nere negli USA, i Palestinesi dell’Olp, la Rote Armee Fraktion, gli sfruttati e i diseredati. Visse deliberatamente ai margini della società, alloggiando in alberghi di quart’ordine, o facendosi ospitare da compagni di lotta in giro per il mondo: infine, debilitato dall’abuso di droghe e psicofarmaci, morì di cancro in un hotel parigino nel 1986 e fu sepolto per suo volere a Larache, in Marocco.

Il libro di poesie recentemente pubblicato da Guanda, con testo francese a fronte, raccoglie versi che si riallacciano ai temi della produzione narrativa e teatrale, fortemente ideologizzati in senso antiborghese e anarchico. La critica totale al sistema sociale dell’Occidente trova qui una corrispondenza formale sia nel recupero di toni classicheggianti, quasi barocchi, sia nell’approdo all’oniricità fantastica del surrealismo. La tensione provocatoria si esprime nella scelta di un linguaggio crudo, di. termini gergali, di descrizioni che rasentano l’oscenità: i sei poemetti presentati, quasi tutti in quartine regolari, spaziano nei contenuti dalle esperienze carcerarie all’amore, dalle descrizioni dei bassifondi al rifiuto di ogni convenzione sociale. Il primo poemetto, forse il più noto, è Il Condannato a Morte, del 1942, dedicato a un giovane e affascinante compagno di prigione, giustiziato nel ’39 nel carcere di Saint-Brieuc. L’attacco manifesta una luminosa e inquieta visionarietà, che spesso ritorna, con metafore ispirate soprattutto alla natura, nei versi successivi: «Il vento che trascina un cuore sul lastrico delle corti; / Un angelo che singhiozza impigliato su un albero, / La colonna azzurra inquadrata dal marmo, attorcigliata, / Nella mia notte fanno aprire uscite di sicurezza». Ma i momenti idilliaci vengono subito corretti da insistite metafore erotiche, da esplicite esaltazioni di genitali maschili, da descrizioni di amplessi violenti: «Adora in ginocchio, come alla gogna sacra, / Il mio torso tatuato, adora fino alle lacrime / Il mio sesso che urta colpendoti come un’arma, / Adora il mio bastone che adesso ti penetra».

La traduzione meditatamente intensa del curatore Giancarlo Pavanello ha scelto di rendere in maniera sobria ed equilibrata l’alessandrino molto ritmato e rimato dell’originale francese, che invece evidenzia una cadenza quasi ossessiva, come ossessivamente tornano immagini e concetti legati al desiderio sessuale, all’esplorazione dei corpi, alla volontà di possesso, nel dominio e nella sottomissione. Genet, nella costrizione di una cella, esplode in inni panici alla libertà e alla fisicità negate, con una sensualità rabbiosa e irrefrenabile: «Divaga, mia Follia, per la mia gioia partorisci / Un consolante inferno popolato di bei soldati, / Nudi fino alla cintola, in braghe resèda, / Butta i pesanti fiori il cui odore mi folgora. // Strappa da non si sa dove i gesti più folli. / Rapisci giovanetti, inventa torture, / Mutila la Bellezza, sfregia i volti, / E ai ragazzi da’ appuntamento alla Guyana»; «Incolla il corpo estasiato sul mio che muore / D’inculare la più tenera e dolce canaglia. / Palpando incantato i rotondi biondi coglioni, / Il piolo di marmo nero ti entra fino al cuore».

C’è sadismo e terrore, brama e cupio dissolvi, in queste poesie, che mantengono evidenti reminiscenze di Villon, Sade, Rimbaud, Artaud. Muri, passaggi sotterranei, brande, cancellate, sbarre sono gli elementi oggettivi degli interni, insieme al buio, al tanfo, alla nausea: l’esterno è parimenti minaccioso, con i cieli in tempesta, nubi, folate fredde di vento e il richiamo imperioso del mare. Nel terzo poemetto, La Galera, quello di Genet è tuttavia un mare letterario e antico, che ricorda molto Coleridge, popolato da velieri e ciurme, masnadieri e galee, stive e furfanteschi mozzi, nella memoria mai sopita di amplessi giovanili con esuberanti marittimi, già celebrati in Querelle de Brest (1947), mito omoerotico portato sullo schermo da Fassbinder nel 1982: «Un ragazzotto  ben piantato fra onda e vento / Con la bocca scheggiata dove spesso vedevo / Impigliarsi la pipa alle mie femminee sottane / Questo mino passava terribile fra le orifiamme… La testa mi si impantanava fetida, solitaria, / Nel fondo del mare del letto del sogno degli odori / Fino a non so quale assurda profondità».

Il fascino seduttivo dell’acqua torna nell’ultima composizione, Il pescatore del Suquet, dialogo amoroso dedicato all’innocenza impudica di un ragazzo posseduto tra i canneti di una spiaggia: «Intorno a lui il tempo, l’aria, il paesaggio divenivano incerti. Steso sulla sabbia, ciò che scorgevo fra i rami divaricati delle gambe nude tremolava. La sabbia conservava la traccia dei suoi piedi, ma conservava anche la traccia di un sesso commosso dal calore e dal turbamento della sera. Luccicavano i cristalli… Da quella notte amo il fanciullo malizioso, leggero, lunatico e vigoroso il cui corpo fa fremere, avvicinandosi, l’acqua, il cielo, gli scogli, le case, i ragazzi e le ragazze. E la pagina sulla quale scrivo». Poeta del corpo e della fame feroce di corpi, Jean Genet ha trovato la sua santità nella celebrazione del male, come scrisse Sartre, a cui abbandonarsi senza coscienza e senza resistenza. Voluttà di perdersi perfettamente espressa negli ultimi versi di questo libro: «Perché scorro via diventando palude / Dove la notte va a illividire i fuochi fatui / Lingua di fuoco che veglia il mio passaggio».

 

© Riproduzione riservata                        «Il Pickwick», 11 settembre 2018