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RECENSIONI

NUCCI

MATTEO NUCCI, MAI – PONTE ALLE GRAZIE, FIRENZE 2014

Il racconto che Matteo Nucci (Roma 1970) ha pubblicato in e-book per Ponte alle Grazie, è un inno alla pienezza del vivere: un’esaltazione dell’occhio, dello stomaco, del sesso, del viaggio, della conoscenza. Parla del rapporto che unisce due appassionati di tauromachia, l’innominato narratore e il suo amico Pana, fornaio del Monferrato, noto per aver rielaborato l’antica e gustosa ricetta della torta verde: “morbida, soffice nel riso croccante, umida di erbe e spezie e di tutto il lavoro che c’è dietro”. Proprio grazie alla reciproca frequentazione culinaria, i due si conoscono, scoprendo la comune passione per i tori, e decidono di partire insieme verso un paesino andaluso dove si trova un importante allevamento del selvaggio toro bravo. Atterrati all’aeroporto di Valencia, affittano un’auto per raggiungere la meta prefissa, regalandosi però diverse soste: per assistere a una corrida, per pranzare in ristorantini tipici, per tuffarsi nell’iberico mare blu-nero. “Guidavo felice tra la terra dura di paesini bianchi, fatti di case a un piano solo, baracche di gitani, carrozzoni di bambini scuri e gruppi di suonatori, musiche che accompagnavano lamenti di voci rauche, battiti di mani, caldo asfissiante”. Pana mostra presto di essere “un fiume in piena di orgasmo vitale”, fedele alla sua natura di “uomo grosso e buono”: “Porta capelli cortissimi, occhiali dietro cui brilla uno sguardo curioso e azzurro, una massa di muscoli scomposti nel corpo che tracima desiderio di ogni cosa – che siano donne, cibo, vino, birra, amicizia”. Il viaggio si rivela a tratti una delusione, poiché alcune località offrono di sé un’immagine avvilente a causa del consumismo sfacciato, del turismo pacchiano, della cucina standardizzata: Alicante, San José, Almería. Proprio in quest’ultima città, tuttavia, in una tipica osteria chiamata El Postigo, incontrano di notte una ragazza dal “nome strano e premonitore – Mai”, dall’eloquio irrefrenabile e dal magnetismo elettrizzante. La giovane convince gli amici a passare una “fiesta” di bagordi in spiaggia, tra birre, hashish e musica assordante. “Si stava bene. L’aria era fresca e il profumo di iodio sembrava salire assieme alle onde che rimbalzavano sulla riva in una specie di scroscio spumoso”. I due italiani rimangono storditi e inebriati dalla prorompente vitalità di Mai, dalla sua capacità istintiva di abbandonarsi alla fisicità più elementare, alla festa dei sensi, “la festa di chi crede in sé e doma la paura della morte, accetta di sfidarla, sfida dunque sé stesso e festeggia, festeggia, beve, esulta, grida, vive, vive e vive. Vive contro tutto e contro tutti per far fessa la morte e prendersi gioco di lei”. Mentre loro, pigri e timorosi, finiscono per tornare all’albergo sbronzi e stravolti di stanchezza, addormentandosi cullati da sogni di un tranquillo futuro borghese, da rimpianti di un passato familiare e protettivo: nella rinuncia a qualsiasi tentatrice trasgressione e chissà, forse, anche alla semplice prosecuzione del viaggio in cerca di tori selvaggi.

 

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https://www.sololibri.net/Mai-Nucci.html               10 settembre 2018

 

 

 

RECENSIONI

LAGIOIA

NICOLA LAGIOIA, UN ALTRO NUOTATORE – ZOOM FELTRINELLI, MILANO 2012

La collana Zoom di Feltrinelli offre ai lettori e-book a prezzo ridotto (talvolta, come in questo caso, ridottissimo): racconti leggibili in mezz’ora. Lo spazio di una zoomata, appunto, sfruttabile magari durante un percorso in tram o nella pausa-pranzo. Narrativa, saggistica, inchieste, raramente poesia. Senza evidenti pretese di presentare capolavori letterari, o approfondimenti culturali, piuttosto con un’intenzione di puro intrattenimento. Spesso ci troviamo davanti a estratti di romanzi, a singoli capitoli di lavori più impegnativi: una specie di antipasto o di dessert, che tuttavia rischia di suscitare in chi legge qualche perplessità, la sensazione di un’aspettativa delusa, quasi a dire “Tutto qui?”, “E allora?”. È il caso delle pagine in questione, che il premio Strega 2015 (nonché conduttore radiofonico, Direttore del Salone Internazionale del Libro di Torino e di una collana della casa editrice Minimum Fax) Nicola Lagioia ha pubblicato con il titolo Un altro nuotatore. Contenuto esile per una scrittura scattante, raffinatamente informale, modulata sullo stile dei narratori americani contemporanei, con frasi brevi e incisive, poche subordinate, nessuna metafora. La storia è ambientata in una zona residenziale sull’Appia, tra ville abusive con piscine, terrazze, giardini ornati di orrende statue di gesso, campi da tennis e Ferrari parcheggiate nei vialetti ombrosi. In un afoso pomeriggio estivo, cinque Alfa della polizia circondano silenziosamente l’abitazione della famiglia Candito, provocando la morbosa curiosità di due gemelli sedicenni, vicini di casa piuttosto renitenti a frequentare i coetanei del posto, che considerano con un misto di sospetto, invidia e vago disprezzo. I poliziotti, informati dai due ragazzi riguardo alla presenza nella ricca e pacchiana dimora del figlio adolescente dei Candito, penetrano in casa, abbagliati dallo sfarzo volgare dei tendaggi, delle ceramiche, dei quadri e delle cornici. Saverio, il rampollo accusato di traffico di eroina, viene tratto in arresto insieme a un amico, mentre un terzo complice, Giancarlo, ignaro dell’irruzione militare, continua a nuotare nella lussuosa piscina sotterranea della villa. Su di lui si sofferma la pagina finale della narrazione, che alquanto inspiegabilmente descrive l’esistenza di un altro nuotatore invisibile e vigoroso, che surclassando il compagno di crawl, lo sfida, spronandolo, provocandolo. Sconcertato, il lettore può interrogarsi su questa conclusione limbica e apparentemente incomprensibile: a meno che un’intuizione peregrina arrivi ad illuminargliene la memoria. Non sarà che Nicola Lagioia abbia voluto con questo brano rendere omaggio allo splendido racconto Il nuotatore di John Cheever (anch’esso pubblicato negli Zoom Feltrinelli), suggerendo con sottile ironia il confronto tra due ambienti, due stili, due profondità diverse? La Roma dei palazzinari e la California plutocratica, chi si esibisce in piscine sotterranee e chi nuota sfidando sé stesso e il destino, pur scontrandosi con l’implacabilità di un fallimento, sono metafora del duello assillante di un giovane scrittore italiano con un gigante della letteratura americana? “Erano in contatto perenne. Avvertivano la presenza l’uno dell’altro, si parlavano nel sonno. Ogni azione intrapresa da Giancarlo era una sfida, un ammutinamento e un disperato tentativo di ricevere approvazione da questa presenza… Non hanno steso un trattato di pace ma non si sono mai neanche separati. E nei momenti particolarmente difficili, scendevano da avversari nell’arena e combattendo diventavano una cosa sola”. È un’ipotesi suggestiva, che offre una sfumatura di intelligente e simpatico understatement a questa operazione editoriale.

 

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https://www.sololibri.net/Un-altro-nuotatore-Lagioia.html                       5 settembre 2018

 

 

RECENSIONI

ROVELLI

MARCO ROVELLI, L’ASSEDIO – FELTRINELLI, MILANO 2012 (e-book)

La storia raccontata da Marco Rovelli nell’e-book L’assedio si svolge a Pianura, Napoli, nel 2008, ed è “una storia normale di razzismo e cemento”. A Pianura, un losco intreccio di interessi politici, imprenditoriali e camorristici, ha trasformato il paese in un agglomerato di edifici abusivi, alveari in cui vivono stipati in stanze prive di servizi rifugiati, richiedenti asilo e clandestini, provenienti per lo più dall’Africa centrale.

Il protagonista del racconto è originario del Burkina Faso, e abita in uno dei quarantotto appartamenti di un casermone che il Comune aveva destinato ai terremotati dell’80, in una strada che per tragica ironia si chiama Via dell’Avvenire.
I terreni intorno sono adibiti a discariche dei rifiuti industriali e dei fanghi tossici trasportati dal Nord, che hanno contaminato le falde acquifere, producendo radioattività e odori infernali; le corti rurali abbandonate della zona ospitano masserizie marcite, elettrodomestici vecchi e inutilizzabili, rovi, siringhe, rifiuti di ogni genere.
Qui si accampano immigrati irregolari, spesso sfuggiti ai pogrom razzisti che hanno incendiato le loro baracche nelle regioni limitrofe, e a uno scriteriato sfruttamento di lavoro bestiale nelle campagne.
La manovalanza stagionale dei neri lavora nei cantieri edilizi, o alla raccolta di frutta e ortaggi, con i trasferimenti obbligati in Calabria per le arance e in Puglia per i pomodori.

Marco Rovelli cita coraggiosamente nomi e cognomi di famiglie camorriste che si spartiscono i guadagni ricavati sia dagli affitti sia dai traffici di droga, trasporti e bracciantato; nomina anche i consiglieri comunali di Forza Nuova che in continuazione minacciano rappresaglie, alludendo a loro oscure collusioni con le forze dell’ordine. Ricostruisce inoltre la politica migratoria all’interno del Burkina Faso e della Costa d’Avorio, che ha costretto migliaia di africani a valicare confini in cerca di un futuro migliore, spingendoli poi verso l’Europa, sempre e comunque destinati a un’esistenza ai margini, priva di qualsiasi possibilità di riscatto.
Disperazione, violenza, immobilismo politico, pregiudizi, disagio sociale, interessi finanziari delinquenziali: un circolo vizioso che da decenni costringe il sud del mondo a un impoverimento culturale ed economico cui l’occidente evoluto non sa o non vuole porre rimedio. Con i molti milioni promessi per la riqualificazione edilizia, Via dell’Avvenire diventa oggetto del desiderio di costruttori campani senza scrupoli, per cui il problema maggiore sembra essere lo sgombero immediato degli appartamenti occupati dai neri. La soluzione più sbrigativa potrebbe ovviamente essere quella dell’incendio, scoppiato ufficialmente per motivi casuali, in realtà programmato e doloso, come era avvenuto in molte altre località.
Le ultime pagine dell’e-book descrivono la strumentalizzazione politica della destra che cavalca il malcontento e le paure della popolazione locale, il disprezzo sfociante in violenze continue, in danneggiamenti di oggetti, in barricate, pestaggi, ingiurie e addirittura tentativi di linciaggio verso gli immigrati: che a loro volta reagiscono con ribellione e proteste, pretendendo protezione da parte della polizia, circondati dall’odio e dalla manifestazioni di ostilità che travalicano il lecito. La situazione degenera, si aprono inchieste, un assessore di Pianura si suicida, altri vengono arrestati, in un clima di intolleranza e faziosità sempre più pesante. La scrittura di Marco Rovelli, passando dalla narrazione letteraria al resoconto di cronaca, si fa più concitata e impressionistica, rivolta a un “tu” diretto personalmente al protagonista vittima dell’assedio, che alla fine del racconto cede alla pressione, abbandonando il paese senza nessuna garanzia di salvezza.

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https://www.sololibri.net/L-assedio-Rovelli.html                  31 agosto 2018

RECENSIONI

BETTI

RICORDANDO UGO BETTI

Per nostra fortuna, c’è stato chi ha avuto l’intelligente idea di riprodurre su YouTube alcune rappresentazioni teatrali (ormai pressoché introvabili nelle versioni a stampa) di Ugo Betti. Possiamo così fruire non solo di magistrali interpretazioni di attori del calibro di Buazzelli, Randone, Mauri, Salerno, Gassman, ma anche apprezzare testi di elevato spessore etico, e di intenso impegno civile. Nato a Camerino nel 1892, Ugo Betti si trasferì con la famiglia a Parma a nove anni, in seguito alla nomina del padre a direttore dell’ospedale municipale di quella città. Qui si laureò in legge, iniziando contemporaneamente a occuparsi di letteratura. La prima guerra mondiale lo vide arruolarsi come “volontario ciclista”, e in seguito come ufficiale di artiglieria. Venne fatto prigioniero dopo Caporetto e internato a Rastatt, insieme a Carlo Emilio Gadda e a Bonaventura Tecchi, con cui strinse un importante sodalizio affettivo e intellettuale. Tornato in Italia, intraprese la carriera di magistrato a Parma, mentre la passione per il calcio lo portò a giocare nella squadra cittadina, di cui divenne poi dirigente. Dopo il matrimonio, si trasferì a Roma ricoprendo il ruolo di giudice della Corte d’Appello, quindi di archivista al Palazzo di Giustizia e infine di consulente legale per la Siae. Nel 1945 fu cofondatore, insieme a Diego Fabbri, Sem Benelli e Massimo Bontempelli, del Sindacato Nazionale Autori Drammatici (SNAD), impegnandosi nella difesa dei diritti degli scrittori teatrali. Morì per un tumore a 61 anni, nel 1953.

Si era affermato già dalla giovinezza come poeta (Il re pensieroso, Canzonette La morte, Uomodonna), e soprattutto come drammaturgo, tradotto e rappresentato con successo in tutto il mondo: La padrona (1926), La casa sull’acqua (1928) e L’isola meravigliosa (1929) furono tra le sue prime opere di rilievo, ma i drammi che lo resero famoso furono principalmente Frana allo scalo nord (1932), Corruzione al palazzo di giustizia (1944), e Delitto all’isola delle capre (1948). I suoi lavori sono pervasi dalla pessimistica convinzione dell’impossibilità di vincere il male attraverso il perseguimento del bene, ottenendo giustizia durante la vita terrena, e dalla speranza di un riscatto e di un compenso all’infelicità dopo la morte. La sua produzione è spesso stata sottovalutata in Italia, mentre all’estero (soprattutto in Inghilterra) ha trovato accoglienza entusiastica sia tra il pubblico sia da parte della critica, e viene ancora oggi studiata e discussa a livello accademico. Negli anni giovanili lo stile intimista di Betti lo aveva reso inadatto al teatro popolare a cui aspirava il fascismo e successivamente, dopo la liberazione, il suo pensiero e la sua estetica si scontrarono sia con la cultura filo-marxista, sia con il cattolicesimo più retrivo. “Quasi un dimenticato”, lo definì lo scrittore friulano Carlo Sgorlon nel 1984, dopo che il trentennale della sua morte era stato colpevolmente trascurato dalla sua città natale e da tutto il mondo letterario nazionale. E in effetti, oggi Ugo Betti non viene più letto né rappresentato, nemmeno nei drammi giudiziari che meriterebbero invece l’interesse dovuto a questioni vitali e ancora attualissime nel nostro paese. La produzione in versi di Ugo Betti risulta piuttosto datata, e poco accattivante per il lettore contemporaneo, situata com’è tra il fiabesco e il didascalico, risentendo di influssi crepuscolari nello stile, di una ridondanza di sentimentalismo e retorica nei contenuti: le poesie esplorano il paesaggio in toni idilliaci, gli affetti familiari e il mondo del lavoro con un manierismo che può risultare stucchevole, insistito inoltre in una resa musicale che richiama le filastrocche infantili e gli stornelli folkloristici. Tutt’altra corposità hanno i testi teatrali, a partire dal più famoso Corruzione al Palazzo di Giustizia (1944), da cui fu tratto uno sceneggiato Rai nel 1966 e un film con Franco Nero nel 1975. “Il Palazzo poi è la miniera, è il pozzo, è il nido, del malcontento, dei sussurri. Comincia uno a spargere calunnie, l’altro seguita, il giorno dopo sono dieci, venti e poi… È come una cancrena che si allarga”, dice uno dei giudici protagonisti all’inizio del dramma. La scoperta del cadavere di un potente faccendiere all’interno del Palazzo di Giustizia di una innominata “città straniera” scatena una guerra di sospetti e accuse, insinuazioni e colpevoli silenzi che coprono enormi interessi economici, in un’atmosfera che si fa via via nel corso dello spettacolo sempre più angosciosa e allucinata. Alla base del diabolico gioco al massacro sembra esserci la successione al ruolo di Presidente, occupato dal debole e stanco giudice Vanan, stretto tra le ipocrite ambizioni dei colleghi e la consapevolezza di non aver sempre agito con specchiata correttezza. All’interno del Palazzo si consumano tradimenti e suicidi, viscidi asservimenti al potere e al denaro, complicità e ribellioni. Il rapporto esistente tra legalità e arbitrio, tra diritto e umanità, che oscilla tra la descrizione cronachistica e la riflessione metafisica, domina anche in un altro famoso dramma di Betti, risalente addirittura al 1932, al primo decennio fascista, con le sue censure e le persecuzioni, i fanatismi ideologici e l’idealizzazione di un collettivismo rivoluzionario, in realtà intriso di oscurantismo e repressione. In Frana allo Scalo Nord l’autore si rifà ad un’esperienza autobiografica, quando ‒ agli albori della sua professione di magistrato ‒, si era occupato in un saggio giuridico delle responsabilità individuali e collettive negli incidenti ferroviari. Le sequenze teatrali dell’opera, giocate tra interni ed esterni, silenzi improvvisi e urla di dolore e protesta, luce accecante e buio, ricalcano le fasi di un’istruttoria giudiziaria, con interrogatori di testimoni, perizie tecniche, sopralluoghi nei cantieri e dibattiti nelle aule del tribunale: colpe e omissioni, responsabilità personali e politiche, assurgono a metafora dell’intera esistenza umana, nella concatenazione di eventi più o meno prevedibili ma comunque tragici. Nel testo si intrecciano considerazioni sociologiche e analisi psicologica, con un’attenzione molto moderna ai conflitti tra proletariato e classe dominante, e una premonitrice sensibilità verso le istanze ecologiche. La condanna etica del profitto economico privo di scrupoli si esplicita nella coscienza tormentata del giudice Parsc, costretto a emettere un verdetto che alla fine risulterà di assoluzione: la ricerca di colpe individuali nel corso delle indagini e del processo si trasforma in una severa analisi del sistema capitalistico, ciecamente finalizzato al guadagno, e in un sentimento di pietà e comprensione per il destino di tutti gli esseri umani, ugualmente vittime di ingranaggi crudeli di sfruttamento e morte, nella lotta eterna e ineliminabile tra bene e male.

 

© Riproduzione riservata                            «Il Pickwick», 28 agosto 2018

 

RACCONTI

IL NATALE DI MARCO

Avevo già fatto una volta il giro dei giardini, tutt’intorno alle aiuole, lì dove quella mattina stessa ero stato con Marco, a spingerlo per quasi un’ora sull’altalena. Camminavo, sbattevo gli scarponi sulla neve ghiacciata, mi sfregavo le mani dentro e fuori le tasche del cappotto. Camminavo, ma la rabbia non mi sbolliva. Erano passate da un po’ le dieci e la vista mi si era ormai abituata al buio, riuscivo a distinguere le forme dei cespugli, l’ombra degli scivoli, le sagome delle panchine. Decisi di sedermi a fumare una sigaretta. Le punte delle dita erano così intorpidite che non riuscivo a liberare il pacchetto dal cellophane, e i fiammiferi mi si spegnevano subito. Finalmente aspirai la prima boccata, a fondo, con i pugni chiusi nelle tasche, le gambe dritte davanti a me, la schiena inarcata nel tentativo di tendere tutte le ossa, e i nervi.

Vidi uno che si avvicinava. Magro, alto, forse con la barba: ma io ero nel cerchio di luce pallida del lampione, lui era al buio. «Mi dai una sigaretta?» s’era fermato nella zona d’ombra, come se avesse paura. «Ci conosciamo?» gli chiesi di rimando io, sgarbato, un po’ perché ero già incavolato per i fatti miei, un po’ perché non sopporto gli estranei che mi danno del tu.    «Mi dai una sigaretta?» ripeté con la stessa intonazione di prima, strascicata e faticosa, come se non avesse sentito le mie parole. E si fece più avanti, potei vederlo in faccia.

Era una specie di maschera, bianco come uno straccio, livido anzi, con le labbra grigie, le occhiaie profonde. Scheletrico. Mi spaventai, diedi come un balzo. Si avvicinò di più. «Hai qualcosa da darmi?» Pensai dovesse essersi appena fatto, o, al contrario, fosse in crisi di astinenza. «Non ho niente – risposi in fretta – Ho lasciato il portafoglio a casa». Si buttò a sedere nello spazio che istintivamente gli avevo lasciato libero, ritraendomi, sulla panchina. Doveva aver mangiato della neve perché barba e baffi erano tutti bagnati e spruzzati di bianco. Lo guardavo ipnotizzato. Era spettrale, irreale. Portava delle scarpe leggere, da tennis, e dei jeans di velluto, un giaccone nero, un berretto di lana. «Mi dai una sigaretta?» gli tremavano le mani, e anche a me, quando gliene accesi una. «Non c’è gente, eh? Non c’è nessuno stasera. Cercavo i miei amici». «Lo sai che sera è?» gli chiesi, ma pareva non ascoltarmi. «Fra due ore è mezzanotte. È Natale». Alzò il mento dal bavero con un’aria stupita, o forse solo ottusa. «Sai cosa vuol dire Natale?» insistetti. «Per questo ci sono tante luci…» guardava oltre i platani, verso via Mario Pagano, dove le finestre dei palazzi erano quasi tutte illuminate. «La gente mangia. Beve. Fa il cenone di Natale». Cercavo di parlare chiaro e lentamente, mi pareva mezzo idiota e volevo fargli entrare nel cervello un concetto per volta.

Fumava con avidità e tremava tutto. «Ma i miei amici dovrebbero essere qua lo stesso» strizzava gli occhi provando a penetrare il buio, voleva vedere se sbucavano chissà da dove, quei suoi fantasmi di amici. «Forse non sono venuti perché è Natale» tentava di convincersi. «Festeggiano il Natale, i tuoi amici?» sembrava scemo, invece capì la mia ironia e fece una risatina sommessa. «Ma io non sono di qui. Che zona è, questa?» si era perso, poveraccio, imbottito di roba com’era, vagava da chissà quanto tempo. «Lì è via Mario Pagano, là dietro Piazza Buonarroti. Zona Fiera» spiegai. «Zona Fiera – ripeté – Non è San Siro?»  «No. È zona Fiera». Diede un calcio di tacco a un grumo di neve. «Ma qui non è San Siro? Dovevo andare a San Siro». «San Siro non è lontano, però sono sempre un tre quattro chilometri». Lo vidi che si scoraggiava, ricadeva indietro contro lo schienale. Allora cercai di consolarlo. «Ma forse stasera non troveresti nessuno neanche a San Siro. È Natale». «Hai qualcosa da darmi?»  «Me lo hai già chiesto. Ho lasciato il portafoglio a casa». «Balle» rispose, e fece un fischio involontario con le labbra. «No, guarda, è vero. Io abito lì di fronte. La terza finestra da sinistra, al quarto piano. È il mio salotto». Alzò gli occhi a seguire la mia mano. «Ho litigato con mia moglie, e allora sono sceso a prendere un po’ d’aria». «Hai litigato a Natale?» Pensai che era idiota del tutto, a fare domande così. «Be’? Ho litigato a Natale. Be’? – mi innervosiva – Lo sai come sono le donne, no?»

Chissà se lo sapeva, teneva gli occhi bassi e tremava. «Ce l’hai una donna?» «Avevo una ragazza ma adesso sta con un altro». Completamente indifferente a tutto, anche alle parole. «Avrai una madre, almeno… Le madri sono quasi peggio delle mogli. Attento qui attento là, non sporcare qui non sporcare là. E rompono, rompono…» Imprecai, stavo scaldandomi ancora. Lui rideva piano, tra sé, forse pensava a sua mamma. Allora gli raccontai tutta la storia, di quanto ci avevo messo a preparare il presepe per il bambino, quasi una settimana; e che mi ero fatto portare la paglia da un collega che abitava verso Crema, e aveva una cascina; e insomma tutto quanto. Lui mi ascoltava, e intanto col tacco smottava la neve a colpi secchi, con forza, scavava come un buco per terra, e mi diceva «Vai avanti», in continuazione. «Vai avanti…». «Il bambino è stato tutto il giorno con me, sai come fanno i bambini quando hanno il papà solo per loro. Ha sette anni. Eccitatissimo per i regali, per quanto non ci crede più… È un ragazzino sveglio. Comunque è venuto fuori un bel presepe, da far concorrenza a quello della chiesa…» «Vai avanti». «Ci avevamo messo lo specchio per lo stagno, con sopra le ochette, poi il cielo di carta stagnola, il muschio. Tutto, insomma, tutto. Pastori, pecore…»

Gli offrii un’altra sigaretta, restammo un po’ in silenzio. «Vai avanti» disse ancora. «Niente; lei, mia moglie, a raccomandarci, a interromperci continuamente. Secondo me perché è gelosa. È gelosa che io e il bambino andiamo così d’accordo. Mi sembra chiaro, no? Oggi doveva fare le ultime spese, perché loro si riducono sempre all’ultimo momento, le donne. Va be’ che lavora anche lei, comunque io mi sono tenuto il bambino con me per lasciarla libera. L’ho portato qui ai giardini, stamattina». Lui continuava con questo scatto della gamba sulla neve, forse un tic nervoso, ai drogati gli vengono come delle crisi, ho letto. «Insomma, lei doveva fare delle spese, e una sola cosa per noi: comprare il Gesù Bambino. Solo questo. Comprare il Gesù Bambino per il presepe. Perché noi abbiamo questa tradizione di comprarlo nuovo ogni anni, e poi alla Befana lo buttiamo via».

Espirai forte una nuvoletta di fumo, lui vicino a me fece lo stesso. Tremava di meno, ma muoveva sempre la gamba. Sotto la panchina aveva ammucchiato una montagnetta di neve gelata. «Be’, questa sera, dopo cena, con mia suocera, i regali pronti, il presepe perfetto, eccetera, le dico: “Dov’è il Gesù Bambino?”. Ci credi? Non lo trovava più. A giurarmi spergiurarmi che l’aveva comprato, però non è più riuscita a trovarlo. Il bambino si è messo a piangere. La suocera a dire che era colpa mia e via di seguito». Mi battei le mani sulle cosce. Lui trasalì. «Capacissima che non l’ha comprato apposta, per rovinarci la festa, perché è gelosa. E invece il Natale glielo rovino io, e sto qui fuori».

Lui stava fermo, immobile, sembrava in catalessi. «Mi spiace solo per il bambino, con tutto quello che abbiamo lavorato, è rimasto deluso. Piangeva, ha sette anni». D’un balzo s’accucciò a terra. Pensai gli fosse venuto un attacco: si era piegato in due e raccoglieva la neve con le mani nude. «Stai male?» chiesi. Ma lui zitto. Fece come una palla da rugby, oblunga, poi si mise a grattarla con queste dita intirizzite, che mi faceva ribrezzo. «Come si chiama il bambino?» disse. «Marco» risposi.  Mi guardò senza sorridere. «Anch’io mi chiamo Marco». E mi mise in mano quel pezzo di neve ghiacciata, scolpito con una testa, un tronco, due braccia e due gambe. «Per il Natale di Marco» disse piano. La sigaretta gli si era spenta in bocca. «Forse fino a mezzanotte dura, poi lo metti in frigo». Si alzò, lungo e magro com’era. «Non hai niente da darmi?» «No». «Per San Siro dove si va?» «Prendi la metro, dall’altra parte della strada». Si allontanò tremando.

 

In Fine dicembre, Le Onde, Chianciano Terme 2010, in Inverni e primavere (e-book) 2016 e in La poesia e lo Spirito, 7 dicembre 2021

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

RECENSIONI

LONDON

JACK LONDON, FINIS / LA FINE DELLA STORIA – ALTER EGO, VITERBO 2017

Da qualche tempo, diverse case editrici minori stanno recuperando il repertorio di Jack London, sia estrapolando brani compiuti dai romanzi più famosi, sia pubblicando racconti sparsi o addirittura inediti. Si tratta di un’operazione intelligente, anche se non originalissima, tesa a offrire al pubblico testi che, persino dopo un secolo, mantengono non solo una loro freschezza e appetibilità, ma anche uno stile asciutto ed elegante, che accompagna sempre trame avvincenti, ambientate in mondi lontani nel tempo e nei luoghi. È il caso delle due novelle del 1916 pubblicate da Alterego con un’acuta prefazione di Donato di Stasi, Finis e La fine della storia, illustranti entrambe la conclusione di vicende personali complesse e dolorose.

Nella prima, Finis: una tragedia nel lontano nord-ovest, il protagonista è un uomo solitario, Morganson, divorato dalla fame e dallo scorbuto, che accampato nella distesa artica sulla riva dello Yukon, attende che gli passi accanto una slitta di cercatori d’oro da depredare, mentre l’inverno con i suoi sessanta gradi sotto zero gli va lentamente congelando piedi e mani: “Il suo volto aveva un’espressione assorta, avida. Le guance erano scarne e la pelle sembrava appena appena sufficiente per coprire gli zigomi. I suoi occhi, di un chiaro azzurro, erano torbidi. Vi era in essi un non so che, che indicava l’imminenza di qualcosa di terribile”. Bevendo tè di abete, nutrendosi di biscotti razionati, riesce a uccidere una cerva, ma il bottino gli viene sbranato da un branco di lupi. Deciso a barattare la sua morte con la vita di qualcun’altro, finalmente si imbatte in tre uomini in una slitta carica, trainata da una muta di cani. Spara alle persone, ma sottovaluta la reazione delle bestie. “Non aveva pensato che la morte fosse così facile. Era anche adirato di aver lottato e sofferto per tante settimane estenuanti. Era stato ingannato dal timore della morte. La morte non faceva male. Tutti i tormenti che aveva sopportato erano stati tormenti della vita. La vita aveva diffamato la morte”.

Nel secondo racconto, La fine della storia, un burbero chirurgo, Linday, rinomato per la sua eccezionale perizia nelle operazioni più complicate, viene quasi costretto a un intervento disperato teso a salvare la vita a un cacciatore, squarciato nel ventre da una pantera. Il ferito si trova a cento miglia di distanza dalla residenza del dottore, nel gelido Nord battuto dai venti, oltre fiumi ghiacciati e crepacci: dopo un percorso accidentato tra le montagne, e dopo aver perduto per una bufera i cani e le provviste, Linday arriva finalmente dal moribondo, trovandosi imprevedibilmente davanti Madge, la sua ex moglie, divenuta amante dell’avventuriero. Promette alla donna di salvare la vita all’uomo, solo nel caso lei acconsenta a tornare sotto il tetto coniugale. L’intervento chirurgico ha un esito positivo, ma alla fine l’eroico medico rinuncia alla ricompensa pattuita, esibendo così un’inaspettata sensibilità e nobiltà d’animo.

Maestro nella descrizione degli ambienti esterni, della vegetazione e del mondo animale, Jack London risulta incredibilmente sottile ed empatico anche nella sottolineatura dei sentimenti e degli atteggiamenti dei suoi personaggi, di qualsiasi indole, cultura e ceto sociale essi siano.

 

© Riproduzione riservata       

https://www.sololibri.net/Finis-La-fine-della-storia-London.html         9 agosto 2018

 

RECENSIONI

PLUTARCO

PLUTARCO, L’ARTE DI ASCOLTARE – GARZANTI, MILANO 2018

“Dicono che la natura ci abbia fornito un paio di orecchie, ma una lingua soltanto, per costringerci ad ascoltare di più e parlare di meno”. Così Plutarco (46-127 d.C.) al giovane Nicandro, in una epistola esortativa tratta dai Moralia, miscellanea di interventi vari, a carattere etico-filosofico. Il primo brano, dedicato a L’arte di ascoltare, parte da considerazioni generiche sull’importanza dell’udito, il più discreto e sottovalutato dei sensi: quello che più ci dispone all’attenzione e al rispetto verso gli altri, ma che necessita di essere educato, per filtrare con oculatezza le parole che lo raggiungono, spesso inutili, fuorvianti, dannose. Soprattutto i giovani devono concentrarsi sull’ascolto silenzioso e meditativo dell’insegnamento di interlocutori saggi, evitando la presunzione e la polemica a cui spesso l’impulsività li induce. “Nell’eloquio si annidano inganni tutte quelle volte che lo si applichi ai fatti in maniera abbondante e carezzevole, non scevro di una certa alterigia e affettazione”.

Fondamentale è un corretto allenamento all’oratoria e al dibattito, non inteso come un gareggiare nell’abilità espositiva, ma come capacità di arricchire il prossimo attraverso un’argomentazione ponderata ed essenziale, priva sia di adulazione e falsità, sia di provocazione aggressiva. Il giovane che partecipi a un dibattito, dovrebbe evitare di porre troppe domande, di chiedere precisazioni e o di intervenire con petulanza, ma disporsi a un ascolto educato, senza eccedere nell’assenso entusiastico o nella critica malevola. In che atteggiamento, quindi, è opportuno ascoltare? “Schiena dritta e postura composta, occhi rivolti a chi parla e atteggiamento vivamente interessato, viso che abbia un’espressione chiara, da cui non traspaiano soltanto supponenza o fastidio, ma anche pensieri e occupazioni di altra natura”.

Nel secondo intervento, L’arte di tacere, Plutarco mette in guardia dai fanfaroni, dai logorroici, che vanno evitati perché producono noia e perdita di tempo, sono futili, vanesi e irriflessivi. “Il silenzio è qualcosa di profondo e religioso, qualcosa di sobrio… Non c’è parola detta che abbia giovato quanto le molte taciute: c’è sempre modo, infatti, di dire ciò che si è taciuto, ma non di tacere ciò che si è detto e che ormai è già fuoriuscito e va diffondendosi”.

Sono numerosi gli esempi che Plutarco trae dalla storia romana e greca, o dalla vita di uomini celebri, per indicare quanto la chiacchiera e i pettegolezzi possano nuocere a livello personale e politico; altrettanto frequenti le citazioni e gli aforismi riportati, alcuni illuminanti e saggi, altri decisamente comici. Sul valore del silenzio si sono scritte molte pagine, dalla Sacre Scritture (Pr 10,19; Is 30, 15; Mt 12,36…) ai poeti contemporanei. Forse basta ricordare l’epigrafe che Salvator Rosa incise alla base del suo famoso autoritratto: “Aut tace, aut loquere meliora silentio”, lapidaria e ironica nella sua severa ammonizione.

 

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https://www.sololibri.net/L-arte-di-ascoltare-Plutarco.html        6 agosto 2018

RACCONTI

SETTE ANNI

Sette anni! E nel mese in cui ha inizio l’estate. Il sette le era sempre piaciuto, da quando aveva cominciato a scrivere i numeri. Così diverso dagli altri, con una breve testa orizzontale, una gamba obliqua, e quel taglietto a metà che lo rendeva unico. Sette come i giorni dal lunedì alla domenica, sette come le note. E ancora non sapeva nulla della magia filosofica che l’avrebbe affascinata da grande: la perfezione secondo i Pitagorici, il simbolismo dell’Apocalisse, i misteri dell’ebraismo. Era solo molto contenta di compiere, quel giorno, sette anni. E già svegliandosi, la mattina (alle sette!) aveva intuito che la giornata sarebbe stata speciale, diversa anche dai pochi compleanni passati. Qualcosa, insomma, rimaneva sospesa nei suoi pensieri, nelle attese, nell’aria luccicante di fuori. Come una sorpresa inaspettata, rivelatrice, misteriosa. Tutto questo non le era chiaro come sarebbe invece diventato nel ricordo futuro: quando, cresciuta, avesse ripensato a quel giorno. Ma ogni cosa, comunque, assumeva una dimensione inconsueta, un significato particolare. L’abbraccio beneaugurante e affettuoso della mamma, la carezza frettolosa e impacciata del papà severo sui suoi capelli, le tirate ai lobi delle orecchie delle due sorelle: un po’ troppo incisive, a dire la verità, e divertite, nel gesto della minore.

Da subito, comunque, proprio da subito, tutto intorno a lei cominciò ad animarsi di una strana diversità. Perché, ad esempio, lavandosi le mani e la faccia, la saponetta bianca e profumata, scartata dall’involucro il giorno prima, continuava a scivolarle dalle dita, guizzando nel lavandino e sotto il getto d’acqua del rubinetto, e finendo addirittura sul pavimento, in uno slancio imprevedibile di oggetto che decisamente non volesse lasciarsi afferrare, tenere fermo? Perché, durante la colazione, i biscotti preferiti non si scioglievano immediatamente nel latte, come le altre mattine, e rimanevano a galleggiare, pacifici e troneggianti, sulla bianca superficie appena scalfita dalla loro presenza? O ancora perché il grembiulino azzurro che la mamma le porgeva da indossare affinché non si sporcasse nei giochi non voleva assolutamente sbrogliarsi nelle maniche, che si opponevano con testardaggine a lasciarsi penetrare dalle sue braccia? La bambina osservava con meraviglia, e rifletteva. Era lei insolita, quella mattina insolita del suo compleanno, o era inspiegabile il mondo minimo che le si muoveva intorno?

«E i regali?» chiese alla mamma, prima di correre sulla terrazza, a giocare con la sorella più piccola, mentre la grande rimaneva in casa, a leggere, ad ascoltare i suoi dischi: troppo grande per i loro divertimenti infantili. «Quelli a pranzo, con la torta!», e subito indaffarata a mettere ordine, a rifare i letti, a sparecchiare la tavola della colazione. Le sapeva tranquille, le sue bambine, sicura che mai potessero correre pericoli o patire qualche sofferenza pungente. Semmai, le dava qualche apprensione proprio lei, la bambina di mezzo, perché le sembrava sorridesse poco, stesse troppo sola a pensare, con un’immaginazione eccessivamente fervida. Immersa in chissà quali fantasticherie di chissà quali universi lontani. Ne aveva parlato anche con il medico di famiglia, che l’aveva rassicurata: «Crescerà, crescerà… Ne ha di tempo per svegliarsi, per rincorrere la vita di tutti!». Eppure la mamma temeva un po’ che alla sua età la secondogenita stesse per tanto tempo sulla stessa pagina dello stesso libro: a pensare che? a immaginare cosa? E perché turbarsi così per qualsiasi osservazione, velato rimprovero, improvviso alzarsi della voce, anche quando non era diretto a lei? Troppo sensibile, troppo emotiva! Le avevano dovuto addirittura cambiare scuola, mandarla in città, nell’ambiente ovattato di un istituto di suore, e raccomandarla, alla maestra, alla superiora… È che a volte inventava delle storie, vedeva cose che non esistevano, e ne parlava con eccitazione, provocando sorrisini di compatimento o divertiti in chi l’ascoltava, irritazione nel papà, timore nell’animo materno. Ma quella giornata sarebbe trascorsa serena, si augurava la mamma, tra candeline, battimani, visite di zii e cugini. Le due sorelline si spingevano a vicenda sull’imponente altalena di metallo, verniciata di verde smeraldo, che il papà aveva fatto costruire solida in fabbrica: lo stabilimento che si allargava a fianco del loro appartamento, offerto in dotazione al dirigente. Appartamento grande, con una stanza tutta per i giochi, e due terrazze contigue, da percorrere in monopattino o con gli schettini, separate da un cancelletto cigolante: una adornata di enormi vasi colorati di ortensie (ma potevano esistere fiori blu, quasi viola, così diversi nel colore dai fiori dei prati?), e l’altra pressoché proibita perché lì si stendevano le lenzuola, bianche, svolazzanti come le nuvole, gonfie come le vele nel mare. Ma magari, di nascosto, ci si poteva giocare se nessuno vedeva, se nessuno sgridava, e camuffarcisi come fantasmi.

La bambina che compiva quel giorno sette anni non vedeva l’ora che arrivasse il mezzogiorno, che suonasse intrepida la sirena che segnava la pausa agli operai. E allora il papà tornava, saliva le scale saltando i gradini a due a due, con la sua cartella nera sotto il braccio: perché anche a casa e nel tempo libero doveva controllare carte e conti. Eccoli dunque tutti e sei intorno alla tavola apparecchiata, in sei perché della famiglia faceva parte anche una fedele donna di servizio, che rimaneva con loro persino a dormire, e aiutava la mamma sempre, a pulire il pulito, a controllare l’ordine ordinato. «Auguri auguri!», e baci e carezze, la canzone intonata insieme, le pietanze preferite preparate proprio in onore alla festeggiata. Risotto giallo, cotoletta alla milanese, fragole con una spruzzata di panna, e la tanto desiderata torta di mele. Addirittura, per finire, un goccio di vino bianco frizzante. La bambina aveva le guance rosate, e tremava un po’ nello spegnere le candeline. Troppa attenzione a lei, troppi occhi e pensieri per lei. E all’improvviso le passò un’idea, un’ombra nella mente, come un’intuizione malinconica da persona adulta. «Finirà tutto: questo momento, la torta, il compleanno, i sette anni…».  Un attimo, e il sorriso che si spegne, e la mamma che si preoccupa e indaga: «Cos’hai? È successo qualcosa? Non ti senti bene?». «No, no», con la voce turbata, ma desiderosa di non preoccupare. «Mi è venuto da pensare che dopo i sette anni verranno gli otto, i dieci, e poi i venti. Io diventerò vecchia, e anche voi». Intuizione improvvisa e dolorosa di una sovrumana ingiustizia, di un beffardo destino comune a cose e persone, e quindi persino a lei. Perché, perché?

Intorno sorrisi consolatori, frasi canzonatorie: «Che sciocchezze, che discorsi! Apri i regali!», e quindi una nuova emozione e la prima grande sorpresa: un tubetto di maionese Kraft, tutto per lei sola, da succhiare senza essere sgridata, assolutamente suo da far durare nei giorni… Poi il regalo delle sorelle: occhiali da sole con lenti marrone scuro e una montatura di plastica rossa, in un astuccio di finta pelle rossa, con un bottone rosso nel mezzo. La gioia di provarli subito e di metterli sul naso, intuendo all’istante ogni cosa in un’ombra fresca che annullava i contorni: sentirsi grande come i grandi, come i genitori che i loro occhiali da sole li portavano sempre, d’estate, in vacanza, o camminando in città. E il regalo della Maria, un libro illustrato sulla vita in fattoria. Ormai aveva imparato che non tutti i libri iniziavano con la fatidica frase “C’era una volta”, dopo che con stupore e rabbia aveva scoperto in un volume intitolato Il piccolo lord che l’avvio poteva prendere spunto da qualsiasi altra affermazione; avendo cercato inutilmente se le pagine fossero state incollate male, se ne era lamentata seria e stizzita con la mamma, con la maestra. Adesso era grande, aveva sette anni, forse in futuro avrebbe studiato per diventare pittrice, o scrittrice di storie, o insegnante, o missionaria in Africa. Infine, due regali di mamma e papà, da scartare con emozione particolare: perché li sapeva meditati a lungo, pensati proprio per darle gioia. E infatti nel primo trovò una scatola di matite Caran D’Ache, quelle famose e costose, che se le imbevi in un po’ di saliva dipingono come gli acquerelli. Nell’altro un librone da colorare, con disegni iniziati da completare, altri da inventare del tutto, altri ancora già finiti, da ammirare e imitare. «Grazie grazie!». La bambina era confusa, non sapeva cosa dire e fare, se baciare tutti o se nascondersi da qualche parte.

«E non è finita qui! Oggi pomeriggio verranno le zie, i cugini, con altri regali. E mangeremo altre paste!». «Oggi pomeriggio?» ripose la bambina trasognata. «Non posso. Ho un impegno». Loro sorridevano: «Un impegno? Cos’hai da fare? Sei in vacanza! È il tuo compleanno!». La bambina sentiva di essere sul punto di fare una rivelazione, di dire qualcosa di cui era certa e ignara allo stesso tempo, qualcosa che lei sapeva che sarebbe successo, ma senza che nessuno gliel’ avesse predetto: «Viene a trovarmi una mia amica. Una mia compagna di scuola».  La mamma pensierosa e sorpresa la interrogava: «Come mai? L’hai invitata tu? E chi è?»  La bambina tentennava, incerta se spiegare a se stessa e a tutti, o lasciare perdere. «Non so chi è. Abita lontano da qui. Non so bene perché viene, non me lo ha detto. Però so che verrà». «Altre storie! Fantasie! Come fai a sapere una cosa che non esiste se non nella tua testa?» Papà sorrideva, più divertito che impressionato. La bambina rispose piano «Lo so», alzandosi dalla sedia e ripiegando il tovagliolo, e dentro di sé ripeteva «Vedrete, vedrete».

«Lei ha un’amica immaginaria!», la canzonava la sorella più piccola. «Parla sempre con la sua amica immaginaria!». Era vero, succede a molti piccoli, di inventare presenze ombra, sostegni rinfrancanti. Pochi anni prima, si era creata addirittura una nuova identità, un nuovo nome, e pretendeva di essere chiamata così, di non essere ciò che era. Ma adesso no, non era una stramberia, un’idea balzana, quella che le occupava la mente: era una certezza. Sarebbe venuta una sua amica, portata lì da un caso sconosciuto, da una misteriosa necessità, non per farle gli auguri, ma solo per esserci, e per suggerirle che nella mente di ognuno c’ è spazio per passato e futuro, speranze e sogni, invenzioni e previsioni. Per cui la bambina festeggiata si apprestò a un pomeriggio di attesa, seduta sul muretto davanti all’entrata della fabbrica, appoggiata con la schiena alla rete arrugginita che separava il lungo stradone asfaltato dal deposito delle biciclette e delle moto degli operai. Si era portata giù il libro da dipingere e la scatola dei colori, e tranquillamente colorava le case e gli alberi, i cieli e le sagome umane che riempivano quelle pagine. Ogni tanto lanciava uno sguardo allo stradone deserto, ma senza nessuna apprensione, certa che a un dato momento qualcosa sarebbe apparso, in lontananza, a rassicurarla, a salvare la sua attesa. «È arrivata?» si affacciava la mamma a guardarla dalla finestra in alto, e le faceva ciao con la mano. «Non ancora, non ancora», rispondeva la sorellina. «Ma lei aspetta. Aspetta e spera!».

Il sole si faceva più caldo, erano ormai le quattro. Quasi l’ora della merenda con i cugini. La sorella maggiore venne a sedersi vicino a lei. «Come si chiama questa tua amica che dovrebbe venire?» «Non lo so bene, ma credo sia l’Annalisa. Ma così, è una mia idea». «Un presentimento?» «Sì, un presentimento». «Te l’ha promesso? Di venire per il tuo compleanno?» «No, non lo sa nemmeno. Però io penso che verrà». Nessun altro intorno a lei ci credeva, e lei guardava la strada in fondo, senza nessuna curiosità, senza impazienza, senza esitazioni. Ed ecco che improvviso sbucò da sinistra un camioncino ballonzolante, grigio, grande come quello del fruttivendolo, ma senza nessuna merce a carico. Avanzava piano, come se chi guidava cercasse un indirizzo. Si accostò alla siepe, di fronte al palazzo più vicino alla fabbrica.

La bambina, alzandosi dal muretto, prese a camminare in direzione del veicolo. Con tranquillità, sicura di sé. Si aprì la portiera del conducente, e ne uscì un uomo corpulento, con i baffi neri e un cappello in testa. Si aprì anche la portiera del passeggero, e ne saltò fuori una ragazzina con un vestitino giallo a fiori. Alzò il braccio in un saluto allegro: «Ciao, ciao!». Era Annalisa. La bambina che compiva sette anni le si avvicinò piano. «Lo sapevo», le disse.

 

In Qualcosa del genere, Italic Pequod, Ancona 2018

 

 

 

 

 

 

 

 

 

RECENSIONI

LONDON

JACK LONDON, LA PREROGATIVA DEL PRETE – ENSEMBLE, ROMA 2017

I due racconti che Ensemble riunisce in questo libriccino hanno entrambi il timbro della grande narrativa di Jack London, e ne ripercorrono i temi usuali: la lotta contro i rigori della natura, il mito dell’arricchimento, l’ostinazione testarda di alcuni personaggi, la miseria economica, l’invadenza dei rimorsi e dei sensi di colpa, la beffa di un destino crudele.

La prima novella, intitolata La prerogativa del prete, narra di una coppia maleassortita come ne esistono molte: un marito vanesio e infantile, egoista e untuoso, di nome Edwin Bentham, che aveva immeritatamente sposato una donna forte e generosa, Grazia, pronta a sacrificarsi per lui, pungolandone la scarsa ambizione affinché si facesse strada nella vita. A fine ottocento, i due sposi si erano uniti alla grande massa di cercatori d’oro del Klondike, lungo il fiume Yukon: lei lavorando pesantemente, lui pavoneggiandosi di fatiche e successi non suoi. Inaspettatamente, Grazia si invaghisce, ricambiata, di un altro uomo, e i due si propongono di fuggire, ricostruendosi un futuro insieme. Ma il missionario della zona, un gesuita pacato e severo, interviene proprio quando gli innamorati si incontrano da soli per la prima volta, ed esercitando le mansioni di guida spirituale, ricorda alla donna i suoi doveri di moglie, prospettandole anche le difficoltà cui sarebbe andata incontro in una futura vita da concubina, l’ostracismo della comunità, il dolore dei suoi genitori, la vergogna degli eventuali figli, il peccato di fronte a Dio. La donna, intimidita e perplessa, si lascia convincere dal religioso, e decide di tornare alla sua sacrificata esistenza di vittima accanto a Edwin. Sarà tuttavia il gesuita a confessare a un amico di sentirsi in colpa: “Sapevo che sarebbe stata infelice, eppure l’ho fatta tornare dal marito”.

Il secondo racconto, Le mille dozzine di uova, appare al lettore ancora più tipicamente londoniano del primo, sia nel ritratto magistralmente disegnato del protagonista, sia nel tragico rincorrersi di avvenimenti negativi verso la temuta ma prevedibile conclusione. “David Rasmunsen era un uomo d’azione e, come molti più grandi di lui, un uomo d’una sola idea”. L’idea ossessiva e pazzesca che si impadronisce di David è quella di arricchirsi vendendo mille dozzine di uova agli avventurieri che da tutto il mondo percorrono le distese gelate del Nord in cerca dell’oro. Si prepara minuziosamente all’affare, elencando i pro e i contro dell’operazione, le spese previste e quelle imponderabili, i guadagni economici, i pericoli del viaggio, la concorrenza di altri mercanti, l’ostilità del clima. Quindi decide di ipotecare la casa, di lasciare il suo impiego, di mandare la moglie da lontani parenti. Si rifornisce delle uova, acquista una barca, cerca dei portatori, e parte. Ma le difficoltà si presentano subito, con l’implacabilità del fato avverso. Laghi e fiumi ghiacciati, equipaggiamento perso in acqua, imbarcazione sfasciata. Il viaggio prosegue via terra, nella neve, con la merce issata su una slitta trainata da cani, e le dita congelate e poi amputate. Tuttavia David Rasmunsen non demorde, deciso a portare a termine il progetto su cui aveva investito ogni sua risorsa. Ma quando finalmente arriva alla meta prefissata, e gli viene proposto da alcuni commercianti l’acquisto di tutte le uova a un prezzo strepitoso, una sorpresa amarissima e inattesa – che mi pare giusto non rivelare – pone termine al suo sogno e alla sua vita.

© Riproduzione riservata             https://www.sololibri.net/La-prerogativa-del-prete-London.html        3 agosto 2018