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RECENSIONI

HEIDEGGER

MARTIN HEIDEGGER, ORMAI SOLO UN DIO CI PUÒ SALVARE – GUANDA, PARMA 2011

«Entra. Sorprende il suo aspetto. Piccolo, piccolissimo, in costume regionale grigioverde dai risvolti ricamati, indossa dei knickers. Mi sconcerta il suo aspetto di contadino un po’ tarchiato, vestito a festa. Capelli d’argento, l’occhio nero, lo sguardo acuto, appare stanco. Una certa tristezza si legge sul viso dalle guance scavate, qualcosa di tragico… Un provinciale curioso che non si sarebbe mai avventurato fuori dalla sua terra natale». Con queste parole lo descrisse il suo discepolo Frèdèric De Towarnicki (1920-2008), incontrando per la prima volta a venticinque anni nel 1945 Martin Heidegger nella sua casa di Zähringen. Il rapporto tra i due durò circa un trentennio, in maniera discontinua e problematica: originale, anticonformista, vulcanico l’allievo; meditativo, austero, criptico il filosofo. Tornato nel periodo della protesta sessantottesca a visitare il Professore ormai vecchio, deluso, isolato, De Towarnicki osò chiedergli il motivo del suo tragico errore del 1933, contestandogli duramente la collaborazione con il nazismo. «Dummheit», rispose allora Heidegger: «Stupidità».

Fu solo stupidità, quindi, leggerezza, grave incomprensione del fenomeno storico, quella che portò il massimo interprete novecentesco della questione dell’Essere, a rispondere positivamente all’invito di Hitler che, con il consenziente accordo del Senato Accademico, gli assegnava il rettorato dell’Università di Friburgo? Un volume pubblicato da Guanda nel 1987, e riedito nel 2011, curato e introdotto con intelligenza e passione da Alfredo Marini, ci offre l’intervista che il filosofo di Messkirch concesse a due animosi inviati dello Spiegel il 23 settembre 1966, uscita per volontà di Heidegger solo dopo la sua morte, nel 1976. Ormai solo un dio ci può salvare fu la risposta data a una domanda sull’inevitabile declino del pensiero umanistico occidentale, prevaricato dalla tecnica e dall’economicismo. Il tramonto della filosofia, sostituita da scienze particolari (psicologia, logica, politologia, cibernetica), sembrava a Heidegger inevitabile, a meno che l’umanità non fosse in grado di risvegliare tradizioni antichissime del «pensare», radicate soprattutto nell’insegnamento dei classici greci, o nella visionarietà dei poeti. Una proposta senz’altro elitaria, conservatrice e insieme utopistica, la sua, che forse oggi trova alleati nei fautori della decrescita e negli ecologisti: «Oggi tutto funziona. Questo è appunto l’inquietante, che funziona e che il funzionare spinge sempre oltre verso un ulteriore funzionare e che la tecnica strappa e sradica l’uomo sempre più dalla terra».

Nelle parole di George Steiner, che dedicò – da ebreo – il libro forse più obiettivo e credibile (oltreché piacevolmente chiarificatore) al pensiero heideggeriano, la figura intellettuale e morale del filosofo tedesco non va ridotta al suo discutibile e comunque marginale ruolo politico negli anni del nazismo, ma rivalutata come insigne autorità in ogni campo della riflessione teorica del ‘900. Attraverso una dialettica tortuosa e irrisolta ma dinamica, sempre in ricerca lungo un «sentiero» che conducesse a una «radura» illuminata nell’oscurità del bosco che ci circonda, Heidegger ha influenzato tutta la filosofia, la teologia, la psicanalisi, l’estetica e la linguistica contemporanea, da Sartre a Derrida, da Bultmann a Rahner, da Gadamer a Lacan (e in Italia, da Severino a Galimberti e a Cacciari). Il suo richiamo a un necessario ritorno alla «dimora dell’Essere», all’autenticità dell’«esserci» nella realtà del mondo, attraverso la «cura», la preoccupazione per gli altri, e la riscoperta della verità, attingibile nell’arte e nella poesia, ha pervicacemente sottolineato il dovere umano di porsi delle domande sul significato dell’esistenza (perché l’essere, cos’è l’essere?) e, secondariamente, quello di provare meraviglia e gratitudine nei confronti del semplice e momentaneo vivere nel tempo.

Proprio indagando il concetto di tempo, Heidegger intuì l’importanza fondamentale della progettualità, di un divenire che sovrasta passato e presente per proiettarsi in un domani di salvezza. Se il passato è irrecuperabile, è un «non più», e il presente è «il cattivo presente della quotidianità… vanità, pretesti, verbosità… brigare, affaccendarsi…», (perdersi, quindi, nel nulla del banale e del superficiale), il «come» autentico del nostro «esserci» si attua solo nel futuro, nel precorrimento. «Il precorrimento (Vorlauf), in quanto mette l’esserci di fronte alla sua possibilità estrema, è l’atto fondamentale dell’interpretazione dell’esserci (…). L’essere futuro dà tempo, forma pienamente il presente e consente di ripetere il passato nel ‘come’ del suo essere stato vissuto». All’esplicita svalutazione del presente – della moda, delle correnti, di ciò che succede – fa da pendant in Heidegger la svalutazione della storia («bisognerebbe arrivare di nuovo… a ciò che sta di sopra della storia; (…) l’esistenza odierna si è perduta nella pseudo-storia presente»), da cui fa conseguire un’indicazione perentoria nella sua inapplicabilità: «per questa via immaginaria che porta alla sovra-storicità si dovrebbe trovare la visione del mondo».

A una tale interpretazione complessa, radicale e utopica del porsi umano nel mondo, si può senz’altro rimproverare una miopia effettiva e gravida di conseguenze riguardo agli avvenimenti catastrofici che portarono l’umanità al delirio delle persecuzioni naziste, della Shoah e della seconda guerra mondiale. Ed è ciò che fecero i giornalisti dello Spiegel nelle loro domande incalzanti, polemiche, a tratti sarcastiche sulla collaborazione di Heidegger con gli apparati dirigenti del Terzo Reich. Il filosofo si difese allora strenuamente, puntualizzando, presentando documenti e testimonianze, contestando sia dicerie popolari sia processi ideologici, appellandosi al diritto-dovere del filosofo di travalicare la contingenza della cronaca per approdare a una verità equidistante da qualunque moderna ideologia di massa (comunismo, nazismo, cristianesimo), nel compito di riconquistare la forma suprema dello spirito. Ma se l’accettazione dell’incarico di rettore a Friburgo nel 1933 fu un errore tattico prontamente espunto, indotto dall’ingenua convinzione di dover consolidare l’autoaffermazione dell’Università tedesca (errore pagato in seguito con una stretta sorveglianza poliziesca, l’emarginazione culturale e l’interdizione da qualsiasi incarico didattico), ben più grave risultò il silenzio di Heidegger sui campi di concentramento e sullo sterminio degli ebrei, che gli meritò l’accusa di antisemitismo, mai del tutto smentita.

La discrepanza tra un grande pensiero e una piccola biografia, tra lo studio dell’Essere in quanto tale e la baita di Todtnauberg in cui il filosofo-contadino si rifugiò («Fumiamo in silenzio le nostre pipe»), continua ad aleggiare come la più grave delle colpe sulla sua figura di intellettuale: pavido, reazionario, antidemocratico, indifferente alle sorti storiche del mondo che banalmente «mondeggia». Così il Maestro, figlio di un bottaio-sacrestano della Foresta Nera, si difendeva in una lettera, riconoscendo come unico tribunale la propria coscienza: «Credo di avere la vocazione interiore alla filosofia e, attuandola nella ricerca e nell’insegnamento, credo di fare ciò che le mie forze mi permettono per la destinazione eterna dell’uomo interiore, e così credo di giustificare da solo dinanzi a Dio la mia esistenza e il mio operare».

 

© Riproduzione riservata               «Il Pickwick», 5 luglio 2018

 

 

 

 

 

 

 

RECENSIONI

CELAN-SACHS

PAUL CELAN, NELLY SACHS, CORRISPONDENZA – GIUNTINA, FIRENZE 2018

Trent’anni di differenza dividevano i due poeti ebrei Nelly Sachs (1891-1970) e Paul Celan (1920-1970), accomunati però da un’uguale tragica sofferenza patita durante le persecuzioni naziste, nell’esilio e nella malattia mentale. L’editrice Giuntina pubblica ora per la prima volta integralmente, (con illustrazioni, un ricco apparato di note e un puntuale confronto biografico), la loro corrispondenza, così come è andata svolgendosi tra il 1954 e il 1969.

Nelly Sachs, premio Nobel per la letteratura nel 1968, si era rifugiata con la madre a Stoccolma, scampando così fortunosamente dal trasferimento in un lager. Nella città svedese aveva trovato una certa solidarietà intellettuale, riuscendo a pubblicare alcuni volumi di versi: la notorietà non l’aveva tuttavia messa al riparo da frequenti crisi psichiche e dagli internamenti in diverse cliniche. Celan, abbandonata la Romania, aveva trovato ospitalità nella capitale francese: “Tra Parigi e Stoccolma passa il meridiano del dolore e della consolazione”, scriveva in un messaggio Nelly, sottolineando con forza il legame affettivo, di reciproca confidenza, ammirazione e sostegno, nato tra i due poeti. Che risulta evidente già dalle intestazioni delle lettere: “Caro poeta, caro essere umano… Caro amico… Caro fratello… Caro poeta dalle profondità meravigliose… Poeta benedetto… Paul caro… Caro Paul Celan, benedetto da Bach e da Hölderlin… Mia amata famiglia…”, esordiva Nelly. “Gentile, stimatissima signora… Cara, sinceramente ammirata… Mia cara, mia buona Nelly!… Cara, buona, felice Nelly…”, le faceva eco Paul.

I due si scambiavano poesie, giudizi critici, incoraggiamenti, confidandosi speranze, paure e delusioni. L’incubo della guerra e della Shoah era ancora per entrambi vivissimo e straziante, così come il timore per l’antisemitismo sempre manifesto e minaccioso: “Questo spettrale e muto non-ancora, questo ancor più spettrale, più muto, non-più, e di-nuovo, e nel frattempo l’imprevedibile, già domani, già oggi… O mondo / Noi ti accusiamo!… Sento che il demone che ti funesta – che funesta anche me… La rete oscura…”, denunciava Celan. “Ma quante morti dobbiamo morire, finché non viene quella giusta… Io sono fuori, inginocchiata sulla soglia, carica di lacrime e di polvere… Ogni giorno la perfidia entra nella mia casa, ogni giorno, mi creda. Cos’altro dovremo affrontare, noi ebrei?… Spero di superare tutta la sofferenza che ancora mi aspetta, oppure di trovare una quieta morte liberatrice, desidero tanto raggiungere i miei cari defunti… questo mio periodo buio… nella mia disperazione, nel pieno di quel viaggio agli inferi…”, rispondeva Nelly Sachs, sprofondando lentamente nell’abisso psicotico.

Eppure, pur nella comune disperazione e nel delirio persecutorio, tutti e due riuscivano ad aggrapparsi alla certezza salvifica e consolatoria della parola poetica, al “segreto che sommessamente si dischiude… un mezzo per salvare il respiro dal soffocamento… Vive in me con ogni mio respiro la fede in un’attività cui siamo stati chiamati: impregnare di dolore la polvere, darle un’anima… Sento l’energia della luce che fa scaturire la musica dalle pietre… Questi sono i raggi invisibili che ci sostengono…” (Nelly); “C’è chi cerca il tuo sguardo – mandalo, quello sguardo, mandalo ancora all’aperto, consegnagli le tue parole vere, le tue parole liberatrici, affidati a lui, affida a noi, tuoi compagni di vita, della tua vita, questo sguardo, fai in modo che noi, già liberi, diventiamo i più liberi in assoluto, facci stare ritti, con te, nella luce!” (Paul).

I due poeti arrivarono finalmente ad incontrarsi, nel 1960, prima a Zurigo e poi a Parigi, parlando “del troppo, del troppo poco… della luce che offusca, di cose ebraiche, di Dio”. Sopravvissero in qualche modo a se stessi e al dolore per un ulteriore decennio. La morte li colse lontani, lui nella Senna a Parigi, lei in un letto di ospedale a Stoccolma, nel 1970. L’ultimo biglietto di Paul Celan augurava: “Tante cose liete, cara Nelly, tanta luce!”

 

© Riproduzione riservata       

https://www.sololibri.net/Corrispondenza-Celan-Sachs.html         2 luglio 2018

 

 

 

RACCONTI

TANGO DELLA GELOSIA

Ricordo tutto di quella mattina. Già che l’ho dovuto ripetere tante volte, e poi me lo sono rivisto nella mente come fosse stato un film al rallentatore. Mi ricordo anche i miei pensieri, quello che era accaduto prima; tutto, insomma, fino a quando Gelmo è caduto e la musica suonava suonava, e mi sono messa a urlare.

Noi apriamo alle sei e mezzo, perché molti prendono la metro prima delle sette, impiegate, infermieri, chissà che turni fanno.
E allora devono bersi il caffè, gustarsi la brioche fresca. Io ero lì come sempre, più addormentata del solito perché non avevo riposato abbastanza. La notte c’era stato tutto quel fracasso per la partita, i tedeschi avevano spaccato le vetrine in centro e i nostri coi caroselli di macchine, i clacson, le bandiere, proprio una provocazione. Con quel caldo e tutte le birre in corpo. Bestie, sono bestie, i tifosi. Mi ero portata dietro Gelmo perché non stesse in strada, magari scendeva con la metro fino al Duomo; lui non si rende conto dei pericoli, mi dicevo, può capitargli qualcosa di brutto; meglio portarlo con me al bar. Ed ero lì con lo straccio in mano che lucidavo il bancone, ancora non si era visto nessun cliente. Avevo acceso la macchina del caffè, svuotati i portacenere della sera prima.

A Gelmo gli avevo dato la scopa, non che mi aiutasse molto, poverino. Puliva sempre lo stesso punto, ripeteva: “Qui c’è sporco, mamma, qui c’è sporco”. Era ossessionato dalla polvere. E pensare che mio marito gli aveva voluto dare quel nome importante, da re, da generale, perché diceva che nostro figlio sarebbe diventato qualcuno. Guglielmo. Poi, quando l’abbiamo visto che cresceva così, abbiamo cominciato a chiamarlo Gelmo. A volte anche Gelmetto: i clienti, per sfotterlo, perché lui era un omone alto uno e novanta; non ha preso da me, se non la bocca e quei riccioloni castani. Un armadio, pareva, con la scopa in mano e il suo grembiule bianco candido allacciato in cintura. Me lo rivedo davanti così; che faceva “mmm” dietro alle canzoni della radio. Aveva orecchio per la musica, ma non ricordava mai le parole: allora mugolava, tutto contento come un bambino.

Io me lo guardavo mentre lucidavo il banco; è incredibile come sia difficile far sparire il cerchio lasciato dal fondo dei bicchieri sull’alluminio, ci vuole a volte un acido e tanto olio di gomito perché non rimanga l’alone. “Gelmo”, gli faccio, “ce lo beviamo un caffettino?” Lui sorrideva e scuoteva il suo testone, e io lo sapevo già da prima, glielo avevo chiesto tanto per ridere, ma lui il caffè non l’ha mai amato. Diceva che gli amareggiava la lingua. Certe volte era spiritoso senza volerlo, aveva delle trovate, non se l’era mai cavata bene con l’italiano. Le elementari sì, le aveva finite giuste, in cinque anni con l’insegnante di sostegno, una maestra così brava… Ma poi alle medie era stato un disastro, non si capiva coi professori, ha ripetuto ogni classe due volte. E si è andato chiudendo, sentiva l’umiliazione di stare sui banchi coi ragazzini, lui che era già un uomo fatto. Stava zitto per ore, sorrideva al vuoto.

Non è mai stato violento, Gelmo, mai, mai. Chissà, però, cosa aveva dentro quando cercava la polvere nei raggi di sole, e diceva di volere “tutto pulito, tutto pulito”. È successo dopo il giornale radio. Sono sicura perché mi avevano preoccupata le notizie dei disastri a Cordusio, vetrine in pezzi, feriti, cinquanta persone in questura. “Hai sentito, eh, Gelmo? Disgraziati! Era meglio se se ne stavano a casa loro, questi tedeschi…”  E lui aveva ripetuto “Questi tedeschi”. Mi imitava, in quello che dicevo e anche nei gesti.

E’ stato allora che è entrata lei. Io ho capito subito che era straniera, e non solo per quei capelli biondi, lunghi, quegli occhi così chiari… Soprattutto perché era a piedi nudi, e con un prendisole tutto scollato, bianco, che le arrivava a metà polpaccio. Sono calorosi, gli stranieri, appena vengono in Italia pensano al mare, al sole, si mettono quasi in costume.

“Signora un bicchiere d’acqua per favore”, mi dice con un accento molto forte, come parlano loro. Sig-nora, con la g dura. Per fafore. Bella? Non so dire, io, se era bella. Certo era una che faceva colpo, gli occhi grandi, azzurri come l’acqua minerale nelle bottiglie di plastica. Era freschino per andare in giro così mezza nuda, alle sei e mezzo di mattina, a fine giugno di un giugno un po’ freddo. A Gelmo le bionde erano sempre piaciute, il tipo esile e pallido. Non se ne vedono molte, dalle nostre parti. Lei non lo aveva neanche notato. Ma lui si era bloccato con la scopa in mano: come folgorato la fissava mentre beveva a sorsate lunghe, e si spostava la frangia dalla fronte. Secondo me non aveva dormito, dopo la partita era andata in giro coi suoi amici e chissà come era arrivata al nostro bar, tanto lontano dal centro. A Gorla, che è quasi verso Sesto S. Giovanni. Fosse drogata? Forse aveva solo sonno, gli occhi annebbiati; le unghie delle dita orlate di nero, questo me lo ricordo bene. Stava cercando nel borsellino, e io le dicevo: “Lasci perdere, lasci”, che volevo regalarglielo, il bicchiere d’acqua. Avrà avuto diciotto anni.

Anche queste madri tedesche, lasciar andare così lontano ragazze tanto giovani; io non so. Mentre cercava i soldi è cominciata quella canzone, strano, una canzone di tanto tempo fa. Il tango della gelosia”, però lo cantava Celentano, con un arrangiamento moderno e la fisarmonica, e un po’ di atmosfera nostalgica. Si sa come sono i tedeschi, no? Che amano molto la musica. La ragazza butta il borsellino sul banco e fa qualche passo indietro. E poi, leggera sui suoi piedi nudi, si mette a girare tra i tavolini del bar, allarga le braccia, si dondola. Non ballava il tango, no, anche perché il ritmo non era proprio quello.
Maledetta, quella canzone. “Amore vuol dir gelosia… Per chi è innamorato di te…”. Non la voglio più sentire.

E la biondina girava, la gonna le si gonfiava sulle gambe. A me veniva da ridere; guardo Gelmo per fargli segno che quella era ubriaca. Ma lo vedo con una faccia che mi spaventa, gli occhi fissi, il viso teso e arrossato, le mani aggrappate alla scopa. Io e suo padre ci siamo chiesti tante volte chissà se aveva mai avuto una donna, secondo me a ventidue anni suonati non l’aveva mai fatto, era ancora innocente come un bambino. E comunque in quel momento io ho avuto paura di mio figlio, mentre lei gli ballava davanti agli occhi, rovesciava la testa, gli mostrava la pelle tenera e bianca sotto le ascelle.

L’altro è entrato urlando, al collo una sciarpa con i colori della Germania, in mano una bottiglia. L’ha fracassata per terra, vetri dappertutto, schiuma di birra sul pavimento. Chissà Gelmo cos’ha pensato di tutto quello sporco. Poi si è diretto verso la ragazza, urlava in tedesco, non capivo niente ma era una bestia. L’ha afferrata per i capelli, ripeteva sbavando la stessa parola, e lei strillava. La prende per un braccio, fa per tirarsela dietro, le storce una mano, quella grida. Io non so se il cuore mi si era fermato o mi batteva da uscirmi dal petto.

Vedo Gelmo andargli addosso, a lui, con la scopa tesa sulla sua testa. Vedo che quello si scansa e poi gli si butta contro di peso, la ragazza in un angolo, e Gelmo che vacilla, gli cade per terra la scopa. Quello lo picchia; un pugno, una sberla, non so, e mio figlio col dietro della testa che batte proprio sull’orlo del banco, davanti a me, e crolla a terra. Un tonfo, ho sentito, mio Dio, che mi sveglio ogni notte con questo tonfo nelle orecchie.

Loro due scappano, la canzone suona, Gelmo è per terra, non lo vedo. Solo un po’ di sangue sull’orlo del banco, non tanto. Mi sembra che non sia mai venuto via del tutto, è rimasta come una macchia. Provo ancora con l’acido a grattare, “tutto pulito”, mi ripeto, ma l’alone si allarga.

 

In Qualcosa del genere, Italic Pequod, Ancona 2018

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

RACCONTI

LA CALUNNIA

Ci alzavamo di solito verso le sette: io un po’ prima, magari, per gustarmi da solo la sigaretta con il caffè, seduto al tavolo della cucina, apparecchiato con le tovagliette all’americana. Dedicavo a me stesso, così, i primi dieci minuti della giornata, ricapitolavo gli impegni dell’ufficio, gli appuntamenti di lavoro, eventuali compiti di padre (colloqui con i professori, shopping con i ragazzi…). Bevevo il caffè con il dolcificante, tanto per mentirmi sull’attenzione che bisogna porre al proprio aspetto fisico: e invece mi sapevo e mi piacevo sempre più trasandato, poco curato nei vestiti e nelle cravatte, ingrigiti i capelli e rugosa la fronte. La pancia, poi, non più contrabbandabile con gonfiori epatici.

Spalancavo le imposte del salotto e della mia camera, con lentezza e attenzione, perché nessun tonfo disturbasse il sonno leggero e isterico della suscettibile vicina di sopra. Poi svegliavo i ragazzi, che nelle loro camere, ancora sprofondati in un sonno privo di scrupoli, dormivano atteggiati secondo i loro rispettivi caratteri: Michele, con il piumino mezzo sul letto e mezzo sul pavimento, attorcigliato tra i polpacci, la testa quasi del tutto coperta dal cuscino, e i capelli lunghi arruffati sulle spalle. Ribelle anche nel sonno, anche con il sonno dei suoi sedici anni. Francesca angelica e composta, supina, con le mani semiaperte vicine alla testa. Questa era la routine, da quasi tre anni, da quando mia moglie Natalia se ne era andata, distrutta in pochi mesi da un tumore al pancreas.

Approfittavo del lento, litigioso, ripetitivo risveglio dei miei figli (colazione in pigiama, riassetto della stanza, musica diversa dai due diversi stereo) per chiudermi in bagno e dedicarmi alle abluzioni quotidiane: e anche lì dovevo tenere a freno i miei nervi se l’acqua non scorreva nel lavandino a causa del groviglio dei capelli attorcigliati al tappo, se il tubetto del dentifricio era strozzato a metà, se lo specchio era sporco di schiuma e goccette varie.

Lo specchio: che immagine di me mi rimandava, impietosa! Che viso stanco di prima mattina, pelle opaca, labbra tirate. Ero ancora un bell’uomo? Un cinquantenne appetibile? Sorridevo strano, ricordandomi le raccomandazioni del mio vecchio dentista: «Ridi, Piero, ridi! Hai i denti belli e forti, una faccia simpatica: ridi! Fai vedere che la vita ti piace, che la gente ti piace, che sei capace di allegrie, di entusiasmi!» Ma io ridevo poco già da ragazzo, e negli ultimi tempi mi ero davvero incupito: in realtà non mi piacevo, non mi piaceva più la vita e trovavo insopportabilmente noiosa la gente.

Quella mattina, entrai nella stanza di Francesca per aprire le finestre ancora chiuse, e lasciare che un po’ della sana nebbia novembrina della nostra umida città veneta raffreddasse l’aria. I venti metri che mi dividevano dalla finestra dei signori Caporali, il velo brumoso che riempiva l’atmosfera non mi impedì di notare l’occhiata severa della moglie caporalessa, in vestaglia rosa e con una coperta in mano, il suo non saluto al mio cortese cenno di testa, la sua rapida ispezione alla camera della ragazzina dove mi trovavo. «Bah!», pensai, avrà litigato col marito e odierà tutti gli uomini; oppure la menopausa, oppure suo figlio avrà avuto da dire con Michele per il posteggio del motorino. Non me ne feci un cruccio, e velocemente mi vestii, urlando ai ragazzi di fare altrettanto, e di sbrigarsi.

Li accompagnavo a scuola, nello stesso istituto semiprivato dove andavano tutti i figlioli bene della città: rampolli di bancari, avvocati, politici, medici. Operai non ce n’erano, impiegati e insegnanti pochi. Michele frequentava con grossi insuccessi e evidente fastidio, suo e dei professori, la quinta ginnasio: sua sorella, bravina e matura, la terza media.

Parcheggiai come al solito la mia Renault in terza fila, feci un rapido ciao al ragazzo, porsi la guancia per il bacio alla bambina, seguendoli con la coda dell’occhio fino all’affollato portone d’ingresso. Mentre giravo la chiavetta per ripartire, scoprii su di me lo sguardo fisso e interrogativo dell’ingegner Berti, l’espressione stupida e ansiosa di sua moglie. Erano rappresentanti dei genitori: fosse successo qualcosa nell’ultimo consiglio di classe? Sapessero di qualche grave mancanza dei miei figli? Cercai di sorridere cordiale, accompagnando il sorriso con un cenno rassicurante della mano. Risposero imbarazzati e serissimi, scambiandosi poi un’occhiata che vagava tra il sospetto e l’incredulità. Mi sentii mortificato, pensai di chiedere bonariamente una qualche spiegazione, ma la loro Audi ripartì sgommando veloce.

Ci mettevo meno di venti minuti a raggiungere la sede dell’Inps, dove da poco più di tre mesi mi avevano promosso capo del personale. Mi ero buttato nel lavoro testa e corpo, cuore e volontà: non per ambizione, e nemmeno per fare le scarpe a qualcuno, ma perché era l’unica cosa in cui riuscivo ad annullarmi totalmente. E i risultati non si erano fatti attendere. Senza vantare alcun padrino, politico o sindacale, o altra influente amicizia, avevo inaspettatamente superato due titolatissimi candidati: alla loro invidia, ai pettegolezzi di corridoio avevo risposto volando alto. E ora godevo, ma senza esibizioni o vanterie, che rimanevano estranee al mio carattere, di un discreto stipendio, della collaborazione fedele di due competenti segretarie, di uno spazioso ufficio fornito di ogni sussidio informatico e vista su uno dei più trafficati viali cittadini.

È incredibile come avvenimenti esteriori, e fondamentalmente estranei all’anima e alla vita vera di una persona, possano apparire alla sensibilità altrui più incisivi e radicali degli sconvolgimenti drammatici che distruggono l’esistenza. Alla morte di mia moglie, avevo subito avvertito intorno a me un sentimento misto di pena e imbarazzo: ma nulla che modificasse sostanzialmente la considerazione che si aveva di me. Con la mia promozione, invece, era subentrata in chi mi avvicinava una meravigliata e accresciuta stima, una deferenza impacciata che mi irritava abbastanza. Così anche quel giorno mi aspettavo, entrando dalla porta a vetri a pianoterra, il saluto rispettoso del portiere: «Buongiorno dottore!», la cordialità timorata delle impiegate, il cenno amichevole dei colleghi. Ma sembravano tutti impegnatissimi, di fretta, presi in chissà quale vortice di scadenze e pressioni.

Salii con l’ascensore al sesto piano, chiudendomi alle spalle la porta dell’ufficio, e mi immersi nello spoglio della corrispondenza. Dopo poco si affacciò Susanna, la più giovane delle segretarie, come al solito ben truccata e in tiro, abbronzata di chissà quante sedute alla lampada, tacchi alti e tailleurino attillato. Doveva farmi firmare un ordine di servizio, e visionare altre carte. Ma mi sembrava un po’ sulle sue, meno propensa del solito allo scambio di battute. La presi vagamente in giro, alludendo con paterna benevolenza a esaltanti strapazzi notturni. Fui gelato dalla sua risposta tagliente: «Farebbe meglio a occuparsi delle sue notti, dottore», e dallo sguardo pesante che mi rivolse. La osservai uscire impettita e offesa: anch’io offeso, e turbato.

Le mie notti? Mi chiesi. Di quali notti parlava, a quali disinvolture alludeva? Ricapitolai mentalmente le mie sere ultime, delle ultime settimane, degli ultimi mesi. Ore passate davanti al computer a giocare a Free Cell o a battaglia navale, libracci gialli divorati e dimenticati in poco tempo, qualche film del palinsesto notturno alla TV: e un sonno leggero, turbato dal minimo rumore e da sogni ansiosi. Donne? Nessuna. E dove e come, poi, avrei potuto? Portarmele in casa, con la gelosia feroce dei ragazzi, che mi spiavano agitati ogni cartolina, ogni telefonata? Uscire, non uscivo. E non sapevo più corteggiare, fare complimenti, sorridere galante.

Con quanto tremore, con quale impaurito imbarazzo osservassi le dita affusolate di una commessa ai grandi magazzini, come potesse turbarmi la dolcezza di una voce femminile al telefono, lo sapeva solo il punto più buio e sensibile della mia anima, il mio corpo trepido tornato adolescente. Ricordavo la tenerezza dei primi incontri con mia moglie, la scoperta affannata e riconoscente della morbidezza del suo seno. Non riuscivo più a guardare nessuna donna senza pensare a quello che suggerivano, nascondendolo, maglioncini attillati, camicioni mimetizzanti: e ogni sguardo mi faceva sentire in colpa, ogni accenno al corpo mi offendeva come uno sputo.

L’avevano finalmente capito parenti e amici intimi, che dopo l’insistente indelicatezza dei primi tempi di vedovanza («Nessun uomo può stare senza una donna», «I tuoi figli hanno bisogno di un’altra mamma», «Devi volerti più bene” …), mi avevano lasciato in pace. Perché mi ribellavo dentro, ad ogni allusione alla mia sessualità, ad ogni intrusione pettegola nel mio privato: mio, mio, e solo mio. Mi capitava di sfiorare con le labbra il cuscino, la notte; o di accarezzare una parete, una sedia, pensando alla pelle di una donna. A chi dovevo rispondere di questo? Ai miei disinvolti colleghi, alle segretarie da discoteca che mi giravano intorno, desiderose di provocarmi, di eccitarmi? Com’erano state premurose e comprensive, negli ultimi anni, le mogli dei miei amici, nelle loro esibite attenzioni: materne, sororali, complici, insistenti come zanzare, nel proporsi vicemadri, zie putative. Alla corte assidua di una di loro avevo ceduto, una sera, rimediando una figura barbina, un tonfo assoluto, che la signora non mancava di sottolineare con un vacuo sorriso di superiorità, le poche volte che mi succedeva di incontrarla.

Quella frase cattiva di Susanna, «Pensi alle sue notti, dottore!», continuò a ronzarmi in testa, enigmatica, per tutta la mattina: ribadita nella sua inspiegabilità dall’imbarazzo timido e sfuggente con cui venni trattato anche dall’altra impiegata, più anziana e esperta, di solito molto energica e spiccia. «Antonietta», finii per chiederle, «È successo qualcosa?» «Non saprei, dottore, non saprei», continuava a negare, e intanto girava gli occhi intorno, supplicando qualsiasi divinità di tirarla fuori dall’impiccio, di fornirle un appiglio cui aggrapparsi. «Mi sembrate tutti così strani… E non solo qui in ufficio. Anche i vicini, e alla scuola dei ragazzi…» «Non saprei. La gente, a volte, ha i suoi problemi. Non so cosa dirle, davvero». Non riuscii a farle aggiungere altro.

Quel giorno, e i giorni successivi, passarono all’insegna del silenzio. Nessuna chiamata al telefono, nessuna visita a casa. Anche i ragazzi venivano evitati dai compagni. Addirittura, alla festa di compleanno di Francesca non si presentò nessuno, accampando le scuse più varie e inverosimili. La ragazzina era stranita, incredula: «Forse perché ho preso due ottimo negli ultimi compiti», cercava di convincere se stessa e noi, «Forse perché non ho suggerito all’Eliana durante l’interrogazione di scienze». Ma non credeva alle proprie giustificazioni. Mi costrinse a un colloquio con la professoressa di lettere, prima delle udienze generali, e dovetti chiedere un permesso in ufficio.

L’insegnante mi accolse gelida, ben diversamente dai precedenti incontri, in cui si era dimostrata simpaticamente solidale con me e con le mie difficoltà di genitore solo. Adesso mi scrutava negli occhi quasi volesse denudarmi l’anima, e parlava a monosillabi, severa, di un improvviso disagio di Francesca, di una sua tenace chiusura a riccio. «La ragazza è distratta, poco concentrata. Sta soffrendo». E mi guardava accusatoria. Mi sentivo sul patibolo, balbettavo che mia figlia pativa l’inspiegabile comportamento dei compagni di classe, che da qualche tempo la escludevano dalla loro compagnia, senza alcuna motivazione logica. Il commiato della professoressa fu lapidario: «Non credo che la scuola abbia responsabilità per quello che vi succede». La mano che le porsi rimase sospesa a mezz’aria, senza ricevere nessuna stretta di risposta.

In qualsiasi modo cercassi di chiarire l’argomento, di ottenere spiegazioni, ricavavo solo silenzi imbarazzati, sguardi ostili, sorrisi sprezzanti. Il comportamento dei miei conoscenti sembrava contagioso: dal nostro condominio a tutta la strada, al quartiere intero; dall’ufficio alle banche agli uffici postali. Un tam-tam misterioso e impalpabile stava facendo di me un paria, un Barbablù infrequentabile.Tentai di affrontare la questione con mio fratello, dapprima al telefono, poi di persona. E lui farfugliava, un po’ negava tutto, un po’ mi dava del visionario e dell’esaurito, un po’ sembrava a conoscenza di accuse indicibili che forse condivideva.

«Mi guardano tutti, per strada. Mi trattano male nei negozi». «Ma quando mai? I commessi ormai sono scortesi sempre, nessuno ha più la pazienza di servire. Sei tu che non sai frequentare le persone, così serio, nemmeno una battuta di spirito, un complimento. Chi ti credi di essere?» «Guarda che una cosa del genere non mi è mai successa in tutta la vita. Dev’esserci un equivoco, uno scambio di persona». «No, il fatto è che non vuoi ammettere le tue debolezze, i tuoi difetti. Pecchiamo tutti. Parlane con qualcuno che ti aiuti, uno psicologo, un confessore».

Pecchiamo tutti? Se sollecitavo un chiarimento, si rimangiava ogni parola, contraddicendosi, sbuffando, o ridacchiava allusivo, ammiccando a chissà chi, nell’aria. Poi, subito dopo, il mio gaudente fratello diventava moralista, catone severo: «I tuoi figli hanno bisogno di un padre da amare, da stimare. Un padre-esempio». Ogni parola che diceva mi squarciava veli dagli occhi e piaghe dentro; non sapevo se leggere nel suo sguardo odio, disprezzo o pena.

Cominciarono presto le telefonate anonime, prima di solo disturbo: riagganciavano al nostro «pronto?», quattro-cinque volte al giorno. Poi gli insulti, le parolacce, soffiate ansimando, o urlate con accento dialettale. Cercavo di rispondere sempre io, al posto dei ragazzi, e di fingere indifferenza, di dire bugie («Hanno sbagliato numero»); ma a volte esplodevo, rabbioso, gridando tutto il mio rancore di bersaglio incolpevole, di vittima impossibilitata a difendersi. E Francesca scoppiava a piangere, terrorizzata.

Una domenica successe qualcosa di ancora più grave. Avevamo rinunciato ad ascoltare la Messa nella nostra parrocchia, perché intorno al nostro banco si era creata una specie di cordone sanitario: nessuno ci sedeva vicino, nessuno si voltava o avvicinava a scambiare il segno di pace. Così da circa un mese frequentavamo la cappella di un convento francescano, un po’ fuori città. Era molto suggestivo, per me, immergermi in un’atmosfera che manteneva nei suoi riti qualcosa di ascetico, il fascino di un misticismo che accondiscendeva a banalizzarsi, nell’ora della Messa, per i profani che mai sarebbero riusciti, da soli, a raggiungere un tale raccoglimento. La sofferenza di quelle settimane mi aveva reso particolarmente sensibile alla Parola delle Scritture, al commento di alcune pagine del Vangelo la cui verità, in passato, avevo solo intuito, senza comprenderla fino in fondo. I ragazzi mi seguivano controvoglia in questo mio entusiasmo, che subivano soprattutto per restarmi vicini.

Quella domenica, appunto, il più giovane dei presbiteri, alto e occhialuto, che ci era stato descritto come plurilaureato e specialista di San Paolo, durante la preghiera dei fedeli scandì, con forte accento lombardo, alcune parole che mi incenerirono, perché le riconobbi senz’ombra di dubbio indirizzate alla mia persona, che non ritenevo lui dovesse conoscere. «C’è qualcuno in questa nostra comunità che ha compiuto un peccato, un peccato grave, di fronte agli uomini e a Dio: e ora vive nella colpa, nella vergogna, evitato e isolato da tutti. Paralizzato dal rimorso, incapace di risollevarsi. Preghiamo perché trovi la forza di chiedere perdono, e di tornare a guardare negli occhi il suo prossimo». Tra i cinquanta fedeli che risposero al suo invito, «Preghiamo», più di uno mi rivolse pesanti sguardi di condanna. E io, non perché fossi o mi sentissi colpevole, ma perché avvertii pesantemente che gli altri mi ritenevano tale, abbassai gli occhi, e le mani mi tremavano.

Da quella notte cominciai a non dormire, a sentirmi spiato e segnato a dito ovunque andassi. Dovetti iniziare una terapia, e chiedere un congedo per motivi di salute in ufficio. Il dottore che mi aveva in cura era assolutamente convinto di trovarsi davanti a una nevrosi grave, e addossava alla mia malattia la causa di tutto ciò che mi accadeva. Io ero molto docile nel seguire le sue indicazioni, nell’assumere con precisione tutti gli psicofarmaci che mi ordinava; recalcitravo però davanti alla sua insistenza nell’esplorarmi sentimenti consci e inconsci, nello sviscerare il mio passato dall’infanzia: come davanti a un’ingerenza indebita, a una violenza che mi si faceva all’anima. Intuivo poi confusamente che anche lui mi nascondeva qualcosa, quasi volesse difendermi da una mia reazione esasperata di fronte a una verità che avrei sentito come sconvolgente, insopportabile.
La cura durò mesi, e non risolse nulla. Vivevo intontito, intorpidito, incapace di una qualsiasi azione: incapace soprattutto di valutare nelle giuste proporzioni ciò che mi succedeva intorno, di difendermene, trovando scampo nelle poche cose che ancora contavano per me.

Lo sguardo degli altri, il loro giudizio, era diventato la cartina di tornasole di ogni mia giornata, come se io non fossi più io, come se dubitassi delle mie azioni, della mia coscienza. Il sospetto degli altri, ormai, mi faceva sospettare di me stesso. Per timore di leggere, in chi frequentavo, un qualsiasi imbarazzo, o anche solo un interrogativo, finii per non frequentare più nessuno. Per strada camminavo veloce, guardando in alto, evitando di salutare chicchessia.

In ufficio mi ero chiuso in un mutismo iroso, permaloso, sottraendomi a ogni innocente scambio di battute che esulasse dal campo lavorativo, rispondendo con durezza e disprezzo alla durezza e al disprezzo altrui. Nessuno arrivava a dirmi in faccia di quale misfatto mi fossi macchiato, di cosa concretamente mi si accusasse: e il silenzio e l’omertà di tutti diventavano più colpevoli, ai miei occhi, della responsabilità attiva di chi avesse voluto farmi del male.

Decisi di provare a difendermi con la legge, anche se combattere una guerra contro un nemico sconosciuto è più difficile che ignorare chi si conosce perfettamente. Così mi presentai alla caserma dei carabinieri più vicina, emozionato, intimidito: a denunciare cosa? Che parlavano male di me, che mi evitavano? Telefonate di disturbo, parolacce per strada? Ma in città rubavano cinque auto al giorno; droga, prostituzione, truffe, violenze venivano considerate banalità quotidiane. Mi avrebbero riso in faccia.

Così fu, circa. Venni introdotto nell’ufficio del maresciallo di servizio, un tipo tarchiato, col viso inciso dalle cicatrici di un’acne giovanile, e con un ridicolo accento meridionale risciacquato in quello veneto. Fece finta di non conoscermi, ma avevo intuito dal suo involontario sobbalzare alla mia presentazione che in realtà mi conosceva benissimo. Con molta titubanza cercai di renderlo partecipe dei miei problemi, ma mi trovai di fronte a un muro di gomma, fatto di battute e di sorrisini allusivi, a mezze frasi del tipo: «E cosa ne so io di che vita fa o ha fatto lei? Cosa mi importa delle sue abitudini sociali o sessuali? Ma si guardi allo specchio: cosa vuole che si pensi di una persona come lei? Sapesse quello che si dice in giro di me! Ma io me ne frego, me ne frego: mica mi ammalo, io, non vado dagli psicanalisti, io!»

Si può prendere a sberle un maresciallo dei carabinieri, si può mandarlo al diavolo? Avrei potuto rispondere che era più facile far ammalare una persona piuttosto che guarire una città dall’idiozia, ma chissà se avrebbe capito. Me ne andai sconvolto e incredulo, rinsaldato nei pregiudizi che per tutta la vita avevo nutrito nei confronti dell’Arma e delle divise in generale.

L’assillo di comprendere, di dare un volto e un nome alla persona o alle persone che mi stavano distruggendo la vita, mi portò nel giro di due settimane a rivolgermi prima a un detective privato, che declinò subito l’incarico, e poi a uno dei migliori avvocati della città.

Ci eravamo conosciuti da giovani, frequentavamo la stessa facoltà in una città vicina: poi le nostre strade si erano divise, ma io l’avevo seguito nei suoi successi professionali e politici, puntualmente riportati dalla stampa locale, sempre provando un’ammirazione critica e sospesa: perché, da ragazzo, non l’avevo mai considerato granché. Aveva uno studio avveniristico, tutto specchi e librerie cubiche, componibili, colorate: e quadri alla Pollock appesi nei pochi spazi liberi. Poltrone e divani in stoffa rossa, facevano pensare più all’anticamera di un dentista postmoderno che a un avvocato. Lui non assomigliava al luogo. Già robusto da giovane, ora strabordava. Calvo, con gli occhiali spessi, un vestito di velluto piuttosto stazzonato; era comunque una persona sussiegosa, ossequiosa, un po’ viscida.

Non sembrò felice di vedermi, e appena gli chiesi se era in grado di assistermi in una denuncia per diffamazione e calunnia, cominciò a parlare parlare parlare, com’era nelle sue abitudini e nei suoi doveri. Che denunce di quel genere erano inutili, facevano sprecare tempo e denaro, terminando nel 98% dei casi con un’archiviazione; che tra maldicenza, diffamazione e calunnia i confini distintivi erano sottili e quasi inafferrabili. E che comunque la cosa avrebbe avuto, da un qualsiasi processo, una risonanza senz’altro controproducente nei riguardi della mia reputazione. Che non aveva nessun bisogno di essere difesa. Che lui mi garantiva non essere stata intaccata minimamente dalle chiacchiere di una cittadina provinciale come la nostra. Che mi conosceva da sempre, e non aveva dubbi sulla mia integrità. Avevo però mai pensato a trasferirmi altrove? Non per niente, ma per la tranquillità dei miei figli, per la mia salute, per il mio futuro di professionista e di uomo.

Mi congedò più affabile di quanto fosse stato all’inizio, ma nell’accompagnarmi alla porta, nel porgermi la destra grassa, ebbe un lampo negli occhi. «Stai tranquillo. Sei una brava persona, un ottimo padre». (Forse. Chissà. Sarà vero o no. Io la mano sul fuoco non ce la metto per nessuno).

Appena fuori, mentre aspiravo a fondo per pulirmi i polmoni, con i pugni stretti nelle tasche dell’impermeabile, sentii piano piano che il fango di quello sguardo mi scivolava via, dal cuore e dai vestiti, dalla pelle e dai pensieri: mentre sarebbe continuato a crescere in chi, del male – altrui e proprio – faceva il suo nutrimento quotidiano, fino a imbastirsene le fibre dell’anima, rimanendone invischiato del tutto. Preti, poliziotti, avvocati, e le persone che proiettavano su di me la sporcizia loro: io dal fondo di quella melma che non mi apparteneva, uno spiraglio per guardare in alto, oltre i tetti delle case, l’avrei trovato.

Chiesi aiuto all’aria, che mi pulisse la mente, portandosi via con il respiro che emettevo dalle labbra socchiuse, anche il dolore.

 

In Qualcosa del genere, Italic Pequod, Ancona 2018

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

RACCONTI

LETTERA A UN UOMO DEL FUTURO

L’uomo del futuro sarà una donna, sarà una ragazza, sarà una vecchia: avrà un colore biscotto, color avana, capelli neri e ricci, capelli bianchi e crespi. Si chiamerà Axa, o Niobe, o Bela; si chiamerà Maria. Avrà diciassette anni nel duemilaquarantanove, sarà la nipote di mia nipote, sessantenne nel duemilaottantatré, nonna di bambini sconosciuti.

Come camminerai spavalda e tesa, sicura della tua bellezza tranquilla, mia ragazza del futuro, figlia di mia figlia di mia figlia: come andrai incontro al tuo amore sospeso tra idea e carne, tra timore e desiderio. Con quali parole gli dirai il tuo bene, parole antichissime e nuove di lingua straniera, e come per poco ti tremerà la mano nella sua, come premerai il seno giovane sulla sua giacca. Gli dirai cose belle, lo bacerai sulla bocca come hanno fatto tutte le donne del mondo da sempre, ma voi nuovi e per sempre: unica la tua voce, che si perderà nell’aria altissima, lontana negli spazi; uniche le parole che tu sola avrai inventato con il tuo accento, con il timbro speciale di un suono che cresce.

Le ho dette anch’io le stesse parole, le mie, che rimarranno identiche e diverse: le ha dette la nonna che sarai, uguale e differente da te. Eccola seduta nel parco a leggere un libro, e inforca gli occhiali e li toglie e li rimette. Guarda i bambini intorno, i vecchi come lei; cerca nelle facce segnate le rughe dell’uomo che ha amato di più e lo pensa e lo pensa. I suoi pensieri rincorreranno i tuoi, ragazza del duemilacinquanta, faranno loro compagnia. Si intrecceranno, i pensieri di tutti, i miei passati, i tuoi vivi vivaci, quelli di chi verrà e non lo sa ancora. Godi ogni momento, Bela Niobe Axa, non essere indifferente a nulla, ragazzina dai capelli neri e ricci che avrai già visto tante cose, pensato tante cose. Controlla ogni passo che farai, che si appoggi consapevole al selciato, cosciente del cammino che compie – di qua, di là – e vola, e alzati sempre, in alto in alto; mia cara.

Dai a lui tutte le carezze che puoi perché non saranno sprecate, dagli il bene che sai e non pentirtene: ma poi torna in te, torna a te, recupera il tuo attimo, quello tuo solo tuo, segnalo della tua impronta, non lasciarlo sospeso e anonimo. Vai leggera verso casa, sali al tuo appartamento che non so immaginare, saluta chi ti è vicino e non so immaginare. Poi entra nella tua stanza a ripensarti il giorno che hai vissuto, affacciati al balcone e guarda quello che è sotto ed è di tutti.  Fallo tuo col tuo sguardo; la gente colorata, l’erba verde, le montagne bianche sullo sfondo. Parla ai gerani che innaffi, aiutali a crescere con le tue attenzioni, e poi pàssati una mano tra i capelli, prova a cantare una canzone di moda. Fai ciao con la mano a chi guarda in su, regala la tua bellezza e i tuoi pochi anni a quelli che distratti ti passano accanto, non si accorgono di te o se ne accorgono in ritardo, e gli dispiace. Perché ci sei, per fortuna, esisti, miracolo che potevi non esserci. E invece eccoti qui, ragazza; ci sei perché c’è stata tua madre, tuo nonno, una amore, una scimmia, una violenza. Ci sei e potevi non essere, sarebbe bastato un gesto, un ritardo a un appuntamento, una leggera antipatia. Invece sei la parola benedetta, sesamo che ha schiuso una possibilità: futuro mio, di chi ti ha voluto, e del mondo impassibile. Ci sei Niobe, ci sei Maria coi capelli bianchi e coi denti finti, tutti uguali e perfetti, sorriso che teme il rifiuto dell’universo. Ma spegni il video, nonna, spegni la radio che suggerisce sciocchezze per incantarti, ed esci, vai fuori a trovare la gente, parla a chi non conosci. Diranno di te che sei strana e svampita, diranno che sei matta. Ma tu continua imperterrita, mia nonna del futuro, mia antica Maria dai capelli bianchi e crespi. Racconta a chi ti siede vicino la vita che hai fatto, e come hai lottato contro la stupidità, la paura del giudizio altrui.

Parla di quella volta che ti hanno licenziato dall’ufficio perché te ne eri uscita prima, senza dare una spiegazione, senza chiedere un permesso, e al capo indignato stupefatto avevi risposto serafica: «Così, non so perché l’ho fatto, era una bella giornata, avevo voglia di camminare guardando i negozi…»; oppure di quando hai annunciato a tuo marito che eri incinta, che vi sarebbe nato un figlio, e lui ti ha risposto: «Davvero? Ma dici davvero? Davvero?», e non sapeva dire altro, non sapeva fare altro. Di’ pure che hai amato, che hai patito: non sei stata avara di sentimenti e di saluti, senza occuparti del percento di resto, di quanto ti veniva restituito. Vantati di aver imparato l’ebraico a cinquantadue anni per poter leggere l’Ecclesiaste, racconta che suoni il liuto anche adesso che le mani ti tremano: fai le scale, esercizi, solfeggi. E tutto questo non serve a niente, a nessun altro che a te. «Perché lo fai? – ti chiedono – Perché è bello», rispondi.

Loro, che rimangano nei loro uffici ordinatissimi, che ballino nelle loro discoteche abbagliate, che si vestano firmati dal niente, occupando tronfi cervelli abitati da idee altrui. Sprechino i loro sonni in conticini assurdi, dove investire dove disinvestire; si divertano a comando, tutti insieme, hop! hop! hop!, a facciano l’amore su ricetta, il giovedì e la domenica sera.

Ma tu, antica donna del futuro, matriarca santissima, salvati adesso e ancora, perché ti sei già salvata la vita con tutta la tua vita di prima; sii diversa e libera il mondo dal male, il pezzetto di mondo che conosci, esorcizzalo, guariscilo. Alzati dalla panchina dove sei seduta, metti via il libro che stavi leggendo, rassettati la gonna a pieghe, fai scivolare la mano sui capelli bianchi, che tu sia tutta a posto e bella a vedersi per chi ti passa vicino, cammina dritta guardando negli occhi la gente, antica Maria benedetta, attraversa il parco lentamente e sicura. Poi, quando sarai arrivata sul viale, alza la faccia e osserva che c’è una ragazza al balcone di un palazzo giallino. Vedi com’è color biscotto e che capelli ricci e neri ha, forse si chiama Axe o Niobe o Bela, sta annaffiando gerani rossi che scendono fitti nel verde e allegri, probabilmente canta. Falle un cenno con la mano, a quella ragazza del futuro che adesso ti guarda e ti fa ciao e sorride. È tua nipote, è tua figlia, sei tu quando avevi diciassette anni. Come sei cresciuta e invecchiata, come sei giovane ed eterna.

Salute, donne del futuro, uguali e diverse; vi siete incontrate di nuovo, per caso, per necessità; sarete un’unica cosa quando non ci sarete più, sarete il tutto, sarete il niente che verrà.

 

In Qualcosa del genere, Italic Pequod, Ancona 2018

RACCONTI

SUL PONTILE, NELL’ACQUA

Il ragazzo si sistema la camicia che, sulla schiena, gli esce dalle braghe a quadroni, lunghe al ginocchio, ampie che passi bene l’aria tra tela e pelle. «Mattiniero, eh?» gli urla uno dalla porta di un bar, facendogli un cenno con la mano, e lui non capisce bene se solidale o di quasi rimprovero. «Se voglio prendere qualcosa…» sorride il ragazzo, ma stretto, a disagio per il solo fatto di essere stato interpellato, e continua a camminare, strisciandosi dietro nelle ciabatte di gomma i piedi magri e scuri che chissà quando finiranno di crescere. La sua canna preziosa gli sta a fianco lucida, lunga, elastica. Lui la sa fedele e ubbidiente come un cane lupo, pronta a lanciarsi e a tornare indietro a comando, prolungamento del suo braccio destro; oscilla al suo minimo muoversi, sta immobile al suo bloccarsi.

«Ehi, Mario!», lo saluta un giovane che fa l’animatore in parrocchia: ha gli occhiali, i foruncoli, i capelli già radi e un po’ unti. «Non c’eri, ieri sera? Non ti ho visto…». Non risponde, alza solo una spalla. Le parole lo disturbano. Meglio il silenzio, lo sciacquio discreto del suo lago, che non dà fastidio e si limita a esserci, senza imporsi. «Ciao, Mario!» insiste quello, missionario convinto di dover convertire anche chi sta bene così com’è.

Mario si irrita del suo nome in bocca a chi non gli piace, suo nome tanto comune e fuori moda, ma insieme così suo, di lui, proprio: «Mario sono io», pensa, e in questo modo può chiamarlo solo chi lo conosce bene davvero. Sua madre, per esempio, la sua sorellina. Nemmeno suo padre, che infatti non lo chiama mai.

La banchina del porticciolo è ancora in ombra, e Mario la attraversa senza fretta, gli occhi puntati lontano, alla linea marcata che separa il cielo dal lago, alla sponda opposta, nitidamente visibile nei suoi contorni. Nessuna foschia, quella mattina, si frappone tra lo sguardo e i colori tersi, puliti come al momento della loro creazione, di ciò che lo circonda. L’azzurro che in diverse sfumature riempie di sé l’aria; il verde argentato degli ulivi; il verde più chiaro e allegro dell’erba dei giardini qua e là interrotto dai rossi e rosa e bianchi improvvisi di fiori nelle aiuole; il verde scuro degli abeti sul promontorio che incombe dall’alto. Nel porto, tante barche dondolano una accanto all’altra, urtandosi di quando in quando, appoggiandosi ai loro nomi che rivelano le diverse indoli e ideologie dei loro padroni: a Mario viene da sorridere leggendo “La gazza ladra”, “Marietta monta in gondola”, “Primo maggio” e addirittura “Pensa per te”, proprio in un paese come quello, dove nessuno si fa i fatti suoi.

Di faccia al porto si apre la piazzetta, occupata quasi del tutto dai tavolini e dalle sedie dei bar più eleganti. C’è anche la pedana per l’orchestrina che si esibisce tutte le sere, sottofondo ai pettegolezzi del dopocena e alle sbornie rumorose dei turisti. Una donna svuota i portacenere, scopa per terra trascinandosi sulle gambe gonfie; è bassa, grassa, stufa di vivere. Mario certe volte crede di non essere del tutto normale, perché non gli piacciono le donne: quelle brutte e volgari, per essere più precisi, e quelle svampite. Ce n’è una che gli blocca il respiro, al liceo, perché è diversa da tutte. Ride poco, si morde le dita, e forse nasconde un segreto. Ma non lo guarda mai, e poi fra un anno lascerà la scuola. Però Mario la pensa; di notte la pensa troppo, e anche quando pesca. Infastidito dalla visione della ciabattona, il ragazzo accelera il passo, e supera la piazzetta, dirigendosi deciso al secondo pontile, ormai quasi fuori dal paese.

Non vede nessuno, per fortuna, nel posto che da sempre considera suo, e che a volte pescatori non del luogo gli occupano abusivamente. Percorre il pontile con lentezza: sa quale asse di legno scricchiola, sa dove può inciampare in un chiodo che sporge arrugginito. Si pianta a gambe larghe in cima al ponte, appoggia vicino a sé la cassetta con gli ami e le esche, allunga la canna sbrogliando il filo che si è ingarbugliato. La canna è nuovissima, gliel’hanno regalata per la promozione inattesa i suoi genitori: e Mario la soppesa, la valuta nel prezzo e nelle doti incomparabili che senz’altro possiede. Fa due tre lanci lontani, così, solo per prova o esercizio, poi infilza l’esca nell’amo e lo getta nell’acqua, bocconcino invitante per qualche lavarello ancora assonnato. Mario è capace di starsene immobile per molto tempo, quasi sempre in piedi e assorto in pensieri vaghi, in fantasie allucinate.

È uno sport da uomini questo, gente capace di stare zitta, indifferente a tutto ciò che non sia acqua, e movimenti lenti, e guizzi di pesci improvvisi. Mario è contento di essere maschio e di non avere bisogno di parole. A volte le labbra gli si atteggiano da sole a fischio, o a cantilena modulata su poche note in fila: però lui blocca subito ogni emissione di fiato che possa parergli superflua, irrispettosa del silenzio che ha intorno. Se non fosse tanto insensibile alla dimensione religiosa, gli piacerebbe da grande entrare in un convento, in un eremo: proprio perché lì si tace, e si sta più vicini a colui che Mario immagina il Taciturno per eccellenza. Tra i pochi ricordi che gli sono rimasti del catechismo infantile, due versetti di Matteo gli tornano spesso alla mente: “Sia il vostro parlare sì, sì; no, no; il di più viene dal maligno”, e ancora: “Vi dico che di ogni parola vana gli uomini renderanno conto nel giorno del giudizio”. Giusto. Rendere conto di ogni parola inutile. Giusto.

Anche Gesù amava il lago, e aveva scelto i suoi apostoli soprattutto tra i pescatori. E se gli fosse capitato, a Mario, di nascere in un’altra epoca: duemila anni fa, discepolo di Cristo; o nel medioevo, oppure nel secolo scorso? Tutto gli sarebbe andato bene, purché sulla riva di un lago. Il ragazzo sente di appartenere al panorama, come alcuni particolari appartengono alle cartoline e guai se non ci fossero: quelle cartoline non sarebbero più le stesse. Così Mario è indispensabile al suo lago, che senza di lui sarebbe diverso, guardato pensato amato diversamente.

Ecco che il galleggiante oscilla piano, poi viene strattonato verso il basso. Mario agguanta con più forza la canna, alzandola a strappi brevi e decisi verso di sé; poi afferra il mulinello, arrotola il filo con sicurezza. E il pesce balza fuori dall’acqua, sventola nell’aria come una bandiera, si agita. Venti centimetri di paura e disperazione. Il ragazzo non riesca ad abituarsi all’agonia delle sue prede. Vede che soffrono, e un po’ selvaggiamente ne gode, anche. Sa di essere padrone della loro vita e della loro morte, e sempre decide di lasciarli finire così, per asfissia, che si dibattano pure sulle assi di legno, torcendosi tutti, boccheggiando come fa questo, adesso. Mario lo guarda, si siede vicino a lui per osservarlo meglio.

«Sei finito, amico» gli sussurra, poi beve dalla bottiglia di acqua minerale che si è portato dietro, a sorsate lunghe, calme. E infatti la tinca finisce, dopo qualche altro sussulto rassegnato. Il ragazzo la butta nel suo cestino, primo trofeo di una giornata che si annuncia felice. Rimane seduto ancora un po’, a fare compagnia al morto, e si pone tante domande stupide, per esempio chissà se i pesci si chiamano mentalmente con dei nomi, come noi; o se hanno delle regole sociali da rispettare – orari, doveri, tabù -, e in questo caso come reagirà la madre del pesce in questione, non vedendolo tornare, e quanto andrà in giro a chiamarlo, con quale nomignolo ittico. A Mario piacerebbe possedere un’enciclopedia del pesce, o qualcosa del genere: ne leggerebbe tre pagine ogni sera, e diventerebbe così un esperto, tanto da poter laurearsi in ittiologia senza troppa fatica.

Il sole è già sbucato fuori dalle acque, violento di una luce arancione, ma perfettamente nitido nei suoi contorni, e tranquillamente osservabile senza occhiali scuri, senza farsi schermo agli occhi con le mani. E’ tempo di rimettersi al lavoro. Il ragazzo si alza in piedi, di nuovo sceglie un’esca e la infilza sull’amo, di nuovo lancia il galleggiante il più lontano possibile. Poi si dispone ad aspettare, con pazienza infinita. Questa volta, però, l’attesa è meno lunga, e la sorpresa più gradita. È stato un persico, ad abboccare, e Mario se lo cova con lo sguardo, lo tramortisce sbatacchiandolo sul pontile, dopo avergli quasi strappato l’amo ben conficcato nella bocca. Un fischio d’ammirazione lo coglie alle spalle, e lo fa voltare sorridente. Sa già chi può essere che ammira così la sua pesca: il vecchio Adolfo, che come ogni mattina l’ha raggiunto e gli farà compagnia fino a mezzogiorno. In dialetto, con la sua voce catarrosa da gran fumatore, gli chiede notizie su com’è andata, e Mario lo informa, scarno e preciso. Il vecchio scuote la testa, implora su di sé la stessa fortuna del suo giovane amico, e poi si allontana di una decina di metri, voltandogli le spalle e armeggiando con la sua canna.

Adolfo in settant’anni di vita non è quasi mai uscito dal paese: per il militare, e poi per un viaggio a Roma e uno a Venezia; qualche rara volta è stato in città, ma non gli piace. Invece il paese lo conosce a memoria, storia usi e tradizioni. Segue tutti i funerali, commenta ogni matrimonio: sa degli amori e delle corna di tutti. A cenni brevi, misteriosi, ne rende erudito anche Mario, che ride e alza le spalle, ma poi gli chiede il seguito. E il vecchio racconta; solo nelle pause della merenda, altrimenti sta zitto. È stato lui a insegnare a Mario la bellezza del silenzio. Così adesso tacciono tutti e due, offrendosi la schiena, ma consapevoli della loro reciproca presenza.

«È importante avere un amico», pensa Mario, che vuole bene ad Adolfo e si fida di lui ciecamente, gli domanda degli ami e delle esche, del tempo che farà il giorno dopo. Il vecchio ha una strana faccia, fronte bassa, capelli bianchi e radi, sopracciglia bianche e folte. Ha le gambe storte, e cammina un po’ come una scimmia, riconoscibilissimo già da lontano. Adolfo e Mario pescano, insieme ascoltano lo sciacquio del lago: a volte i loro pensieri si rincorrono. «Guarda che il lago è mio – scherza uno dei due; e l’altro gli ribatte – È mio, invece, è mio».

Improvvisamente poi il sussulto esaltato del vecchio, e il suo grido gioioso: «E questo pesce è mio!», mentre tira su dall’acqua una tinca brunita, lunga e asciutta. Mario sorride, non è invidioso: sono due a uno, e adesso comincia il bello della gara. Di solito vince Adolfo, è una vita che pesca; però è capitato che il ragazzo sia riuscito a surclassarlo. Raramente, ma è successo. Passano due ore così, il vecchio e Mario, e intanto il sole si fa più caldo, il paese si anima, molti curiosi si fermano dietro di loro a commentare la pesca, a tormentarli di battute sempre uguali. I due amici sono scocciati, ce l’hanno col mondo che si permette di esistere e di infastidire loro, i pesci, il lago. Anche quest’ultimo reagisce, si agita, schiumeggia a ogni tuffo, a ogni virata di gommone o motoscafo; non è più lo stesso di prima.

Ecco che arriva una coppia giovane di tedeschi, biondissimi, sbrindellati, e si mette in mezzo a loro. Dieci metri ci sono tra Mario e Adolfo, e questi due si piazzano proprio tra di loro: stendono per terra gli asciugamani, appoggiano un borsone a righe bianche e blu, e due bottiglie di birra già iniziate. All’interno dei dieci metri che dividono Adolfo da Mario. Poi inizia il rito della svestizione: lei sbottona la camicia di lui, lui sfila gli shorts a lei. Si sbaciucchiano. Mario li guarda con la coda dell’occhio, irrigidito. Si volta verso il vecchio, che ricambia lo sguardo sornione. «Proprio qui dovevano venire…», pensa il ragazzo, e stringe con tanta forza la canna che i tendini del polso gli si evidenziano in rilievo.

I due turisti cominciano a spalmarsi di crema abbronzante, e un odore dolciastro rimane sospeso tra aria e acqua, fastidioso. La ragazza squittisce a ogni carezza eccessiva di lui, finge di arrabbiarsi, gli dà schiaffetti leggeri sulle mani. Poi si volta a pancia in giù, e il suo amore le increma la schiena,con movimenti tranquilli e regolari, suggerendole parole dolci, che la fanno sorridere. Le si stende vicino, ogni tanto le accarezza i capelli, e restano a prendere il sole uno accanto all’altra, buoni come due bambini. «Se rimanessero così fino a mezzogiorno», pensa Mario che ha già preso una decina di pesci, e vorrebbe almeno raddoppiare entro sera. Ma lei dopo un po’ si gira supina, e lui la imita; parlottano e ridono fitti, poi lui beve mezza birra, lei sfila dal borsone una radiolina e la sintonizza su un programma di musica da discoteca, a volume non eccessivo, ma sufficientemente alto da disturbare i pensieri dei pescatori, il guizzare in superficie dei pesci. Adolfo bestemmia, a voce bassa, ma Mario intuisce benissimo la sua irritazione: vede che armeggia intorno alla canna, e lo sente avvicinarsi.

«Tientelo, il lago. È tutto tuo, oggi». Ha i lineamenti irritati, il vecchio, la voce stizzita. «Io resto. Si stancheranno prima loro» risponde Mario. «No, caro mio. Si stancheranno prima i pesci…». Adolfo gli allunga una manata sulla spalla e si allontana dondolando sulle sue gambe storte.Mario resiste, radio e abbronzante non sembrandogli un motivo sufficiente per fargli rinunciare al suo impegno, verso se stesso e verso il lago.

La musica però lo distrae, e anche i movimenti ritmici che la ragazza accenna col busto, muovendo le mani nell’aria, schioccando le dita. È carina, questo Mario deve riconoscerlo. Ha lineamenti fini, occhi e capelli così chiari da sembrare dipinti. Gli pare di aver capito che si chiami Sophie; non che gli interessi, a Mario, ma è un nome che le sta bene. Lui invece, il tedesco, è alquanto volgare, con le sue spalle da bodybuilding, la catena d’oro al collo, il costume attillato. Sicuramente guiderà una moto d’alta cilindrata. Del nome di lui, a Mario non importa proprio niente. Gli sembra che lo stiano guardando, e sorridano. Si irrigidisce ancora di più, appeso alla sua canna come a una scialuppa di salvataggio. Fissa gli occhi sull’orizzonte, all’acqua che manda riflessi dorati, e il cielo sembra il lago, e viceversa: confusi uno nell’altro, fusi.

Alle sue spalle, i due sghignazzano nella loro gutturale lingua, incomprensibili ma chiarissimi nel desiderio di sfottere, e ferire. Poi, come un lampo, Mario li vede alzarsi in piedi, prendere una breve rincorsa e tuffarsi, allegri e rumorosi, proprio vicino al suo galleggiante. Quando riemerge dall’acqua, Sophie gli rivolge un sorriso di sfida, che tuttavia non lo offende perché, mio Dio, è così bella, così bella!

Mario è muto, immobile, incantato, con la sua inutile canna da pesca, monumento di inerzia di fronte alla vivacità. Si sente vecchio, incapace di vivere: e lei, invece, come sembra a suo agio in ogni elemento, come domina l’aria, l’acqua. Ecco che si mette a nuotare, a bracciate eleganti, sicure; poi si volta sul dorso, sbatacchia un po’ i piedi, chiama «Klaus! Klaus!», e il tedesco la raggiunge veloce, le sputa addosso l’acqua di cui si è riempito la bocca, e lei protesta, fa versacci. Tra una nuotata e l’altra si abbracciano, si spruzzano, lei sale sulle spalle di lui e poi si tuffa di lì, e a ogni esibizione controlla se Mario per caso la stia guardando, e Mario allora gira subito gli occhi da un’altra parte.

Ma il lago, il lago non protesta di fronte a tanto spreco di energia, alla goduria esibita di quei due che vengono da lontano, e la fanno da padroni? Certo si sentirà offeso nella sua silenziosa sacralità, violato nella sua nobile serenità, e il ragazzo che pesca gli dà ragione. I due si avvicinano al pontile, si vede che sono stanchi, salgono la scaletta rabbrividendo e si precipitano poi ad asciugarsi con movimenti frenetici.

Mario pensa che ormai sarebbe opportuno per lui rinunciare, mettere via gli attrezzi, perché i pesci, spaventati e resi più cauti da tutto quel  movimento e rumore, certo non abboccheranno più. Tuttavia qualcosa lo trattiene lì, e lui non sa bene cosa. Forse la voce allegra di Sophie, la sue risatine stupide; forse la speranza che lei di nuovo lo guardi. È chiaro che fa l’oca, lo vuole provocare; ma Mario non ci sta a questo gioco, non gli è mai piaciuto. Solo, vorrebbe tanto riuscire a pescare un lavarello, di quelli grossi, e mostrarglielo come un trofeo, a lei e al suo uomo, magari regalarglielo come ricordo del lago.

Fa molto caldo, ormai; decide di togliersi la camicia, anche se si vergogna un po’ della gracilità delle sue spalle. Spogliandosi, osserva i due tedeschi a pochi passi da lui, di nuovo sdraiati bocconi, di nuovo intenti in tenerezze reciproche. Sophie si è tolta il reggiseno e la pelle arrossata rivela i segni delle spalline, il suo compagno è peloso anche sulla schiena. Mario non ama, a differenza dei suoi coetanei, la nudità esibita dei corpi. Neanche quella delle anime, a dire il vero. Preferisce la discrezione nella figura e nei discorsi, e tenersi lontano da ogni volgarità. Per questo guarda il dorso indifeso e scottato della ragazza con una curiosità infastidita di se stessa, ben deciso a non lasciarsene turbare. Però se lei si solleva improvvisa sui gomiti, e lo fissa, così, bionda e sirena, Eva e Beatrice, ecco che Mario non è più lui, e la canna gli scivola via dalle mani, e si volta deciso a cercare salvezza nell’azzurro purissimo del lago: il suo tuffo di testa è perfetto, le sue bracciate vigorose e impazienti.

Battere l’acqua, colpirla, punirla; cancellare dai pensieri Sophie impudica e bellissima; non concedersi tregua, vincersi. Mario nuota, si allontana dalla riva, al largo, via da tutto.

«È mio, il lago. È mio», pensa.

 

Lietocolle, Faloppio 1998 e in Qualcosa del genere, Italic Pequod, Ancona 2018

 

RACCONTI

DIVENTARE CIO’ CHE NON SIAMO

Appoggiata al balcone che si affaccia sul lago, osservo a pochi metri da me la palma che spinge le sue foglie fin quasi a toccarmi: o sono io che le sfioro e mi pungo le dita al tatto con le loro punte aguzze. Riuscire a registrare ogni impressione, visiva, uditiva o tattile: riuscire a rendere colori e profumi, e quello che ai sensi sta dietro, o dentro: questo si vorrebbe raggiungere quando si scrive.    Diventare ciò che non siamo, l’altro da noi: prestare la nostra voce a chi non parla, farsi imbuto ed espressione di qualcosa che ci supera, e ci sconfina.

Ero ragazzina, sdraiata su un prato in pendio, lasciavo che l’erba mi solleticasse le mani e i polpacci nudi, premendomi contro il terreno, di cui individuavo le asperità sotto la schiena. La terra sotto di me, il cielo sopra, un cielo pomeridiano di quasi estate: lo guardavo con l’intenzione decisa di farlo mio, di impossessarmene in ogni sfumatura, in ogni accenno di nuvola. E piano piano questo cielo scendeva, mi veniva addosso, pesava sul mio corpo dodicenne, lo assorbiva in sé. Mi promisi: «Ricorderò questo momento per sempre», e ancora: «Lo racconterò, tutto», pensando all’erba tra le dita, alle zolle sotto la schiena, all’azzurro in cui ero fusa. Più tardi cominciai a interessarmi alle persone, a quelle che mi stavano intorno e alle sconosciute. Arrivavo a seguire i passanti per strada, sperando di vivere così qualche momento, per quanto inessenziale, marginale, della loro vita.

Se scrivo, oggi, mi accorgo di scrivere soprattutto d’altro e non di me: di essere portata addirittura a farmi altro. Rincorro un’empatia con chi non sono, cambio età, sesso e natura: divento due extracomunitari alla ricerca di un sabato sera diverso, o Hans Castorp alle prese col suo amore, oppure un curato di periferia che preferisce la compagnia di Dio a quella dei suoi parrocchiani. Divento anche Gemma Donati, e gli oggetti del mio appartamento, o il lago che adesso mi sta di fronte, senza nemmeno supporre che esisto, e lo sto guardando.

Questo credo debba essere la poesia; un occhio partecipe e distaccato insieme su ciò che non siamo, con una preferenza per «la pietra scartata dai costruttori», perché «diventi testata d’angolo».     Non sopporto il pastiche linguistico, la poesia che scrive di se stessa e che si fa il verso, il gioco da salotto: mi sembra addirittura amorale, nella mia severità calvinista. Penso che scrivere sia un grosso privilegio, in qualche modo da scontare ponendosi al servizio di ciò che deve essere scritto. E che il compito di un poeta sia quello di scrivere bene, affinando quindi la sua abilità artigianale, i suoi strumenti: per diventare lui stesso strumento d’altro. Chi sia che parla attraverso un poeta non lo so, e forse non mi interessa saperlo: se l’inconscio collettivo, o l’angelo rilkiano, o la ruah ebraica. So che mi capita di essere scritta, di essere usata da un’intenzione più forte di me, che si serve della mia sensibilità, del mio sguardo particolare sulle cose (e non è uno sguardo migliore o peggiore di altri, però è il mio): e ciò che mi circonda e di cui parlo patisce e utilizza la mia inquadratura, il mio modo di usare la metrica e le rime, travalicandomi. Sono un puro pretesto, e un pretesto addirittura spaventato, inadeguato, per un’incombenza che sento come una responsabilità.

La prima poesia de La Trilogia Spagnola di Rilke, che in realtà è una preghiera, lo dice mille volte meglio di quanto sto tentando di fare adesso.

 

LA TRILOGIA SPAGNOLAI

Di questa nube che copre improvvisa
la stella poco fa ancora visibile – (e di me),
di questi monti, in fondo, che ora avranno
notte, venti notturni per qualche ora – (e di me),
di questo fiume a valle che riflette il chiarore
di lacerate radure celesti – (e di me);
di me e di tutto questo fare un’unica cosa,
di me, Signore, e di ciò che sente
il gregge quando chiuso a riposare
nel suo stabbio sopporta il grande oscuro
annullarsi del mondo – di me e d’ogni luce
nella folla e nel fosco delle case, Signore:
fare una cosa sola, degli estranei, perché
non uno io conosco, e di me, di me, Signore,
fare una cosa sola; dei dormienti,
dei vecchi estranei nell’ospizio
che nei letti tossiscono gravi, di bambini
ebbri di sonno stretti a un petto estraneo,
di molte incerte forme e di me sempre,
di me solo e di ciò che non conosco
fare la cosa, Signore, la cosa
di terra e mondo che come meteora
nel suo peso non è più che la somma
del volo: e altro non pesa che l’arrivo.

 

Come raccontare la carezza su un volto molto amato, e le dita che tremano; come parlare della risata della mia figlia più piccola, e della maggiore che balla da sola davanti allo stereo; cosa dire di nuovo e necessario sul lago increspato che mi sta di fronte. Ciò che vorrei è diventare «una cosa sola», volo e peso, terra e cielo, fino a ridurre tutto a un unico approdo, all’essenziale «arrivo».

 

In Il Rosso e il Nero n. 16, 1999 e in Qualcosa del genere, Italic Pequod, Ancona 2018

RECENSIONI

LEVI

PRIMO LEVI, AD ORA INCERTA – GARZANTI, MILANO 2004

Di Primo Levi (Torino, 1919-1987) tutti conoscono i capolavori narrativi, testimonianze tragiche dell’esperienza vissuta nel campo di Auschwitz, in cui fu deportato nel 1944 in quanto ebreo: Se questo è un uomo, La tregua, Se non ora quando?, I sommersi e i salvati. In pochi sanno invece che Levi fu anche autore di versi, scritti tra il 1943 e il 1987, anno del suo suicidio, e pubblicati da Garzanti nel 1984, con il titolo Ad ora incerta. Il volume, ristampato più volte, contiene 63 poesie e dieci traduzioni (perlopiù da Heinrich Heine), ed è introdotto da un’epigrafe tratta da Coleridge: “Since then, at an uncertain hour, / That agony returns… (“Dopo di allora, ad ora / incerta, / quella pena ritorna”), utilizzata già come esergo in un romanzo. Il libro, che nel 1985 vinse il Premio Abetone e il Premio Giosuè Carducci, aveva suscitato pareri critici contrastanti: piuttosto negativi quelli di Cases, Fortini e Mengaldo, più positivamente solidale quello di Giovanni Raboni, che così si espresse in una recensione su La Stampa del 17 novembre 1984: “A me sembra che la scrittura poetica di Levi abbia, sin dall’inizio […], lo stesso solenne acume morale, la stessa forza di memoria, ammonimento e pietà, che rendono così sostanziosa, così giusta, così naturalmente memorabile la sua prosa. […]. In Levi lo scatto, l’impulso iniziale di ogni singola poesia […] nasce dalla ragione, dalla lettura morale della realtà, da quella capacità di capire la propria sofferenza e di vivere la propria indignazione come patrimonio comune a tutti gli uomini, che formano la peculiarità e oserei dire l’insostituibilità della sua prosa”.

Primo Levi stesso, tuttavia, aveva dichiarato, con sorniona ironia: “[…] conosco male le teorie della poetica, leggo poca poesia altrui, non credo alla sacertà dell’arte, e neppure credo che questi miei versi siano eccellenti”. Aggiungendo, nella prefazione al volume, di aver ceduto al richiamo della poesia “ad intervalli irregolari, ad ora incerta. […] in rari istanti (in media, non più di una volta all’anno) singoli stimoli hanno assunto naturaliter una certa forma, che la mia metà razionale continua a considerare innaturale”. Come nei romanzi, l’imperativo che sembra guidare la scrittura in versi di Levi è decisamente comunicativo; ciò che preme all’autore è poter raccontare ai lettori le esperienze vissute, i sentimenti e le riflessioni che lo animano. Una sorta di lascito e insegnamento etico, da esprimere con radicale onestà: “È poco redditizio, e poco utile, scrivere e non comunicare… l’importante per essere compreso da coloro a cui si dirige la pagina scritta è di essere chiari”.

Chiarezza che nelle poesie di Ad ora incerta viene perseguita con coerenza, con l’intendimento severo di trasmettere un monito a chi legge, senza raggiri stilistici o adulterazioni letterarie: il tono classicheggiante, biblico-dantesco, sospeso tra l’ironico e il perentorio, non rifugge da arcaismi e formule desuete, ma è sempre e comunque finalizzato a un coinvolgimento ammonitore del pubblico (“Voi che vivete… Considerate… Meditate… Ripetetele”, “O tu che segni, passeggero del colle”, “Dimmi: in cosa differisce / questa sera dalle altre sere?”). Uno stile quasi profetico, dunque, con una palese finalità didascalica, che si riflette anche nei contenuti. I temi ecologici risultano evidenti nell’attenzione rivolta non solo al mondo animale e vegetale spesso antropomorfizzato (gabbiani, corvi, lucciole, formiche, chiocciole, topi, buoi, dromedari; ippocastani, agavi, licheni), ma anche nell’appello indirizzato all’umanità perché non persista nella distruzione cieca e masochista dell’ambiente, convincendosi invece che l’evoluzione della specie dovrebbe perpetuarsi in un perfezionamento materiale e morale, e non in una degradante regressione (Autobiografia).

L’ateo Primo Levi, pur orgogliosamente partecipe del proprio ebraismo (“popolo di altera cervice, / Tenace povero seme umano”), non crede a una divinità provvidenziale e benevola. Crede invece nell’indifferenza del cielo verso il destino degli uomini, condannati all’infelicità, inghiottiti in una notte senza riscatto che accomuna tutte le creature nella sofferenza: “Forse è questa l’eternità che ci attende: / Non il grembo del Padre, ma frizione, / Freno, frizione, ingranare la prima. / Forse l’eternità sono i semafori”, “E tutti noi seme umano viviamo e moriamo per nulla, / E i cieli si convolgono perpetuamente invano”, “Signore, a fare data dal mese prossimo / Voglia accettare le mie dimissioni. / E provvedere, se crede, a sostituirmi”.

Si salvano i rapporti affettivi con i familiari, con i compagni di una vita, con gli amici: “Cari amici, qui dico amici / Nel senso vasto della parola: / Moglie, sorella, sodali, parenti, / Compagne e compagni di scuola // … A voi tutti l’augurio sommesso / Che l’autunno sia lungo e mite”. All’amata moglie Lucia, cui è dedicato il libro intero, sono riservate parole commosse e grate, dall’epoca del fidanzamento fino all’età più avanzata: “Abbi pazienza, mia donna affaticata //… Accetta, dopo tanti anni, pochi versi scorbutici / Per questo tuo compleanno rotondo //… Sono il mio modo ispido di dirti cara, / E che non starei al mondo senza te”.

Il mito, la Bibbia, la storia universale e la scienza sono presenti in tutta la raccolta, che cita Aracne e Lilit, Plinio il vecchio e Galileo, la lotta partigiana cui Levi prese parte attivamente in gioventù e i cui ideali teme siano stati abbandonati o traditi. Ma ovviamente è la tragedia della Shoah, rivissuta nella memoria lacerata e mai più ricomposta, a risuonare come un basso continuo in questi versi, insieme al dovere morale di rendere testimonianza di quell’orrore. Ecco quindi il ricordo dei milioni di vittime innocenti, dalla bambina incenerita a Pompei fino ad Anna Frank, “Poiché l’angoscia di ciascuno è la nostra”, quando “Ognuno è nemico di ognuno”: sempre con il terrore che l’abominio possa ripetersi, e di dover riascoltare “Il percuotere di passi ferrati” o “Il comando dell’alba: / «Wstawać»”. Per questo la notissima esortazione civile di Shemà, anteposta a Se questo è un uomo, rimarrà valida in eterno: “Voi che vivete sicuri / Nelle vostre tiepide case, / Voi che trovate ritornando a sera / Il cibo caldo e visi amici // Considerate se questo è un uomo, / Che lavora nel fango / Che non conosce pace / Che lotta per mezzo pane / Che muore per un sì o per un no”. Nella stessa maniera rimangono legittimi anatemi e maledizioni, rivolte sia ai torturatori nazisti come Adolf Eichmann (“Tu creatura deserta, uomo cerchiato di morte //… O figlio di morte, non ti auguriamo la morte. /… Possa tu vivere insonne cinque milioni di notti”), sia ai pavidi che non si sono opposti: “Vi si sfaccia la casa, / La malattia vi impedisca, / I vostri nati torcano il viso da voi”.

Demoni e “fantasmi immondi”, incubi e paure incontrollabili continueranno a tormentare Primo Levi, nonostante il desiderio più volte espresso di trovare sollievo dall’angoscia e dal tormentoso senso di colpa per essere scampato all’Olocausto. La voglia giovanile di tornare a cantare, “di camminare liberi sotto il sole”, di recuperare un impegno di lotta contro ogni sopruso, lentamente si ammorbidisce in una più docile e rassegnata aspirazione alla pace: “Felice l’uomo che ha raggiunto il porto, / Che lascia dietro sé mari e tempeste, / I cui sogni sono morti o mai nati…”. Ma nell’ultima composizione del volume (Almanacco) torna desolata la constatazione che di fronte all’eternarsi indifferente degli elementi naturali, solo l’uomo è capace di intestardirsi nello scempio e nella devastazione: “Noi propaggine ribelle / Di molto ingegno e poco senno, / Distruggeremo e corromperemo / Sempre più in fretta; / Presto presto, dilatiamo il deserto / Nelle selve dell’Amazzonia, / Nel cuore vivo delle nostre città, / Nei nostri stessi cuori”.

 

© Riproduzione riservata          «Nazione Indiana», 21 giugno 2018

RECENSIONI

SZOCS

GÉZA SZÖCS, NÉ L’ESISTENZA NÉ LA SCALA – JACA BOOK, MILANO 2017

Nella nuova collana di poesia delle edizioni Jaca Book, curata da Vera Minazzi e da Tomaso Kemeny, è uscito – prefato e tradotto da quest’ultimo – un volume di Géza Szöcs, nato in Transilvania nel 1953. Questo autore, conosciuto e premiato anche in Italia, oltre che internazionalmente, è stato un oppositore del regime di Ceausescu, costretto all’esilio nell’88, in seguito impegnato politicamente sia in Romania sia in Ungheria, dove ha rivestito importanti cariche pubbliche, fino all’attuale presidenza del Pen Club. La poesia in apertura, a cui allude il titolo del libro (Né l’esistenza né la scala), contiene in nuce alcuni dei suoi temi fondamentali. In primo luogo la constatazione dell’inspiegabile gratuità della vita, l’interrogativo riguardo al suo nascere e finire, che pare avere come unica giustificazione la pura riproduzione della materia e dell’energia («Bach non ha bisogno di un ascoltatore. / Al tempo non serve una pendola. / … A che serve una scala all’uccello. / … Cos’è la dolcezza / non lo sa il miele. / Forse la bellezza è / quando Dio / contempla in se stesso?»).

Domande che riecheggiano filosoficamente la Grundfrage di Leibniz, e che vengono riprese nella terza e ultima sezione del volume, con un’esplicita sterzata in direzione del sarcasmo e dell’amarezza, quasi a voler dire che certo non sarà la poesia a poter suggerire risposte, e tantomeno a fornire consolazione. Infatti i temi, spesso irridenti e polemici, sfruttano gli stratagemmi linguistici dei calembour, della boutade, dell’invenzione grafica, di stili e forme diverse  –  dalla prosa al dialogo, dall’epigramma alla cantilena –, sbeffeggiando la seriosità delle varie ipotesi scientifiche e teologiche che pretendono di dare un significato al nostro esserci, qui e ora, nel passato testimoniato dall’archeologia e nel futuro proiettato in un’opinabile e pretestuosa fantascienza.

Così commenta Kemeny nell’introduzione: «Alla profondità di pensiero Szöcs unisce una tensione ludica particolare, alla gravità esistenziale la libertà di flusso, alle altezze mitiche trovate linguistiche di difficile traduzione». Possiamo divertirci leggendo una spassosa Conferenza tra quattordici musicisti che si autodefiniscono chi con prosopopea, chi ingenuamente, chi con tremante pudore; oppure assistendo a inseguimenti polizieschi sulle tracce di ladri, spie, amanti fedifraghi; o ancora osservando lo stravolgimento di confini geografici e temporali, sempre con il trionfo finale dell’assurdo, del nonsense, che può ricordarci altri grandi e labirintici autori dell’Europa orientale, come Kafka, o i suoi compatrioti romeni Ionesco e Nina Cassian.

Il corpo centrale della raccolta è costituito da un dramma in versi composto nel 1999, Via Crucis, vera e propria sacra rappresentazione della Passione di Cristo. Qui Szöcs mette in scena sul tradizionale sfondo palestinese (Gerusalemme, il Getsemani, il Calvario), un coro angelico osannante e la folla chiassosa, varie comparse umane e animali, e tutti i protagonisti del racconto evangelico, con irruzioni improvvise di personaggi biblici (Giona, Saul) o di artisti contemporanei (Paul Klee): presenze animate da invenzioni surreali (il dialogo tra Pilato, moglie e figlio), e da conversazioni inverosimili, in un connubio ironico di storia e leggenda, di esegesi e cronaca attuale.

 

© Riproduzione riservata            «Poesia» n.338, giugno 2018