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RECENSIONI

SZOCS

GÉZA SZÖCS, NÉ L’ESISTENZA NÉ LA SCALA – JACA BOOK, MILANO 2017

Nella nuova collana di poesia delle edizioni Jaca Book, curata da Vera Minazzi e da Tomaso Kemeny, è uscito – prefato e tradotto da quest’ultimo – un volume di Géza Szöcs, nato in Transilvania nel 1953. Questo autore, conosciuto e premiato anche in Italia, oltre che internazionalmente, è stato un oppositore del regime di Ceausescu, costretto all’esilio nell’88, in seguito impegnato politicamente sia in Romania sia in Ungheria, dove ha rivestito importanti cariche pubbliche, fino all’attuale presidenza del Pen Club. La poesia in apertura, a cui allude il titolo del libro (Né l’esistenza né la scala), contiene in nuce alcuni dei suoi temi fondamentali. In primo luogo la constatazione dell’inspiegabile gratuità della vita, l’interrogativo riguardo al suo nascere e finire, che pare avere come unica giustificazione la pura riproduzione della materia e dell’energia («Bach non ha bisogno di un ascoltatore. / Al tempo non serve una pendola. / … A che serve una scala all’uccello. / … Cos’è la dolcezza / non lo sa il miele. / Forse la bellezza è / quando Dio / contempla in se stesso?»).

Domande che riecheggiano filosoficamente la Grundfrage di Leibniz, e che vengono riprese nella terza e ultima sezione del volume, con un’esplicita sterzata in direzione del sarcasmo e dell’amarezza, quasi a voler dire che certo non sarà la poesia a poter suggerire risposte, e tantomeno a fornire consolazione. Infatti i temi, spesso irridenti e polemici, sfruttano gli stratagemmi linguistici dei calembour, della boutade, dell’invenzione grafica, di stili e forme diverse  –  dalla prosa al dialogo, dall’epigramma alla cantilena –, sbeffeggiando la seriosità delle varie ipotesi scientifiche e teologiche che pretendono di dare un significato al nostro esserci, qui e ora, nel passato testimoniato dall’archeologia e nel futuro proiettato in un’opinabile e pretestuosa fantascienza.

Così commenta Kemeny nell’introduzione: «Alla profondità di pensiero Szöcs unisce una tensione ludica particolare, alla gravità esistenziale la libertà di flusso, alle altezze mitiche trovate linguistiche di difficile traduzione». Possiamo divertirci leggendo una spassosa Conferenza tra quattordici musicisti che si autodefiniscono chi con prosopopea, chi ingenuamente, chi con tremante pudore; oppure assistendo a inseguimenti polizieschi sulle tracce di ladri, spie, amanti fedifraghi; o ancora osservando lo stravolgimento di confini geografici e temporali, sempre con il trionfo finale dell’assurdo, del nonsense, che può ricordarci altri grandi e labirintici autori dell’Europa orientale, come Kafka, o i suoi compatrioti romeni Ionesco e Nina Cassian.

Il corpo centrale della raccolta è costituito da un dramma in versi composto nel 1999, Via Crucis, vera e propria sacra rappresentazione della Passione di Cristo. Qui Szöcs mette in scena sul tradizionale sfondo palestinese (Gerusalemme, il Getsemani, il Calvario), un coro angelico osannante e la folla chiassosa, varie comparse umane e animali, e tutti i protagonisti del racconto evangelico, con irruzioni improvvise di personaggi biblici (Giona, Saul) o di artisti contemporanei (Paul Klee): presenze animate da invenzioni surreali (il dialogo tra Pilato, moglie e figlio), e da conversazioni inverosimili, in un connubio ironico di storia e leggenda, di esegesi e cronaca attuale.

 

© Riproduzione riservata            «Poesia» n.338, giugno 2018

 

 

 

 

 

 

 

RECENSIONI

SERRES

MICHEL SERRES, CONTRO I BEI TEMPI ANDATI – BOLLATI BORINGHIERI, TORINO 2018

Prossimo ormai ai novant’anni, il filosofo francese Michel Serres continua a stupire il mondo con la sua saggistica vivace, piena di entusiasmo e ottimismo, aperta ad ogni rivoluzionaria scoperta scientifica e tecnica, solidale con le giovani generazioni che abitano il virtuale. Decisamente favorevole alla “civiltà dell’accesso”, ama presentarsi come strenuo difensore di Internet e di Wikipedia, e di qualsiasi nuova modalità di espressione nella scrittura, nel linguaggio parlato, nell’arte, per una cultura finalmente accessibile a chiunque, in ogni luogo, senza barriere e pedanteschi paludamenti. Nato ad Agen nel 1930, figlio di un conduttore di chiatte, studiò all’École Navale e  all’École Normale Supérieure, impiegandosi come ufficiale di marina prima di ottenere il dottorato in filosofia nel 1968 e cominciare ad insegnare a Parigi. I suoi studi scientifici e di linguistica furono da subito orientati eticamente verso la critica di ogni bellicismo e potere reazionario, valorizzati da scambi e reciproche influenze tra i diversi saperi e discipline. Membro dell’Académie Française dal 1990, è oggi considerato uno degli intellettuali più rappresentativi e dei teorici più stimolanti nel suo approcciarsi criticamente e in modo divulgativo alla cultura contemporanea. In Italia quasi tutti i suoi lavori, espressi in una lingua lineare e accattivante, sono stati pubblicati da Bollati Boringhieri. Si tratta in genere di pamphlet scritti per un pubblico non specialistico, con l’ambizione di contestare pregiudizi radicati nelle coscienze e nell’immaginario collettivo, e di provocare nei lettori curiosità, domande e contestazioni, sempre da lui considerate proficue e necessarie.

In un volumetto uscito nel 2013, Non è un mondo per vecchi, si augurava la nascita di una società “nuova, variabile, mobile, fluttuante, variopinta, tigrata, cangiante, intarsiata, musiva, musicale, caleidoscopica…” e soprattutto “connessa”, in grado di occupare spazi orizzontali di vicinanza simultanea e democratica, offrendo risposte adeguate alle aspettative dei giovani in ambito scolastico, professionale e di utilizzo del tempo libero. Se in pochi decenni si è trasformato clamorosamente e irreversibilmente il nostro modo di vivere occidentale (boom demografico ed economico, libertà sessuale, longevità, multiculturalismo, progresso scientifico e tecnologico, aumento dell’istruzione e della ricchezza pro capite, assenza di conflitti bellici), è doveroso ideare nuovi metodi di trasmissione della conoscenza, di fare politica, di lavorare e di comunicare. Bisogna sconvolgere, rendere permeabile e disordinata ogni forma antiquata di pedagogia. “L’era dei decisori è finita… il solo atto intellettuale autentico è l’invenzione”. C’è un rischio in questa rivoluzione culturale che rende ciascuno più libero, indipendente, attivo e creativo? Certo, e Serres ne è ben consapevole: esiste una “presunzione di competenza”, che può illudere chiunque sulle proprie capacità intellettuali o artistiche, rinsaldando alla fine e nuovamente il sapere nelle mani dei soliti, pochi, manovratori. Ma è un rischio che vale la pena di correre, perché il passato va superato e vinto, anche di fronte alla prospettiva di un futuro ancora nebuloso.

Nell’ultimo saggio da poco pubblicato, Contro i bei tempi andati, l’autore sconfessa e ridicolizza senza remissione chiunque deprechi il presente in nome degli anni “di prima, di una volta”, rivisitati ed edulcorati con ipocrita nostalgia. I trentatré paragrafi di cui si compone il testo hanno due referenti immaginari: un Vecchio Brontolone, arcigno denigratore del tempo presente, e Pollicina, ragazza “disoccupata o stagista” che nel suo smartphone, ossessivamente consultato, contiene tutto il sapere del mondo. Serres prende chiaramente posizione a favore di quest’ultima, sottolineando quanto la storia, la civiltà e la cultura dei secoli scorsi, fino a buona parte del ’900, abbia prodotto di negativo e crudele nella vita degli individui (guerre, eccidi, dittature, torture, epidemie infettive, oscurantismo, retorica patriottica, razzismo e sessimo). Lo fa con cognizione di causa, avendo vissuto un’infanzia e una giovinezza tormentata da povertà e fame, da bombardamenti e persecuzioni, da tabù ed emarginazione: si sofferma a descrivere i suoi primi vent’anni, vissuti in una famiglia operaia sulle rive della Garonna, lavorando nei campi o nei cantieri navali per pagarsi gli studi.  Elenca quindi una serie di disagi e difficoltà concrete che le popolazioni a cavallo tra le due guerre mondiali dovevano patire, tra scarsissima igiene, malattie malcurate, sessualità inibita, ignoranza e superstizioni, comunicazioni precarie, lavori domestici faticosi, totale assenza di ammortizzatori sociali. L’ovvia commozione nel ricordare “i bei tempi andati” è corretta da una bonaria ironia e da un sorriso di compatimento, nel ribadire a chi afferma che si stava meglio quando si stava peggio una verità scontata e incontrovertibile: quando si stava peggio, si stava davvero peggio.

© Riproduzione riservata                «Il Pickwick», 14 giugno 2018

 

 

 

 

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LONDON

JACK LONDON, BÂTARD – FELTRINELLI, MILANO 2012 (e-book)

Il breve e magistrale racconto di Jack London che Feltrinelli ha pubblicato in e-book nel 2012, è tratto da Il richiamo della foresta. Narra la storia dell’odio feroce tra un uomo e il suo cane, del loro rapporto di morbosa dipendenza reciproca che finirà per sfociare in tragedia. Già l’avvio del testo prepara il lettore al clima di sfida che si instaura tra i due protagonisti, i quali sembrano scambiarsi a vicenda i caratteri umani e animaleschi: “Bâtard era un diavolo. La cosa era risaputa in tutte le Terre del Nord. Molti lo chiamavano Stirpe d’Inferno ma Black Leclère, il suo padrone, per lui scelse l’infame nome di Bâtard. Dunque, anche Black Leclère era un diavolo e i due erano bene assortiti”.

Bâtard era figlio di un lupo e di una cagna husky: da entrambi i genitori aveva ereditato l’indole aggressiva, brutale, selvaggia. Fosse stato adottato da un padrone normalmente civile, sarebbe forse cresciuto più docile, ma Black Leclère era lui pure una carogna, ed era riuscito a fare del suo cane, in cinque anni di scambievole guerra infernale, “una grossa bestia irsuta, raffinata canaglia straripante di odio, sinistra, maligna e diabolica”. I due si studiavano a vicenda, torturandosi in maniera differentemente atroce: l’uomo tormentava il cane affamandolo, picchiandolo brutalmente, straziandogli le orecchie con le note lamentose dell’armonica: la bestia ricambiava ribellandosi a ogni comando, aggredendo i compagni di muta, razziando il cibo ovunque potesse arrivare. Sembrava evidente a tutti coloro che li incontravano che i due si fossero promessi di eliminarsi a vicenda, e attendessero solo il momento propizio per farlo nel modo più doloroso possibile. Legati da un astio viscerale, più assoluto di qualsiasi amore, intuivano perfettamente la profondità del loro livore. Black Leclère “era un uomo che viveva all’aperto, oltre il rumore delle lingue, e aveva imparato a conoscere la voce del vento e della tempesta, il sospiro della notte, il mormorare dell’alba, il frastuono del giorno. Riusciva a sentire il crescere impercettibile della vegetazione, lo scorrere della linfa, il germoglio che si schiudeva. E poi conosceva la sottile conversazione delle cose che si muovevano, il coniglio in trappola, il corvo malinconico che batteva l’aria con l’ala muta, il grizzly che si trascinava sotto la luna, il lupo che scivolava tra il crepuscolo e il buio come un’ombra grigia. E a lui Bâtard parlava forte e chiaro”. Leclère animalesco, Bâtard squallidamente umano.

Una notte finalmente Bâtard colse il momento opportuno per attaccare il padrone mentre dormiva, saltandogli addosso e azzannandogli la gola. La lotta furiosa che ne seguì li lasciò entrambi gravemente feriti, il cane con le zampe posteriori spezzate, l’uomo con braccia e laringe lacerate. Trascorsero settimane a sorvegliarsi l’un l’altro nella convalescenza, rinviando la vendetta finale a un’occasione più favorevole. Che puntualmente arrivò, quando Black Leclère, accusato d’omicidio, in piedi sul patibolo con la corda al collo attendeva l’esecuzione. La morte non giunse, tuttavia, dagli uomini che l’avevano condannato. Straordinario Jack London, profondo conoscitore di foreste innevate, di slitte, di bestie, di anime.

 

© Riproduzione riservata       

https://www.sololibri.net/Batard-London.html              12 giugno 2018

 

 

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VIVIANI

CESARE VIVIANI, LA POESIA È FINITA – IL MELANGOLO, GENOVA 2018

Cesare Viviani (Siena 1947) affianca all’attività letteraria quella di psicanalista. Come poeta, è partito da posizioni dadaiste (L’ostrabismo cara, 1973, e Piumana, 1977), ma in seguito il suo perc orso non ha trascurato cadenze dialogiche, narrative e talvolta epigrammatiche (Preghiera del nome, 1990, premio Viareggio; La forma della vita, 2005; Credere nell’invisibile, 2009; Osare dire, 2016). Come saggista, ha esplorato i territori della creazione poetica, dei processi mentali e della convivenza civile (La voce inimitabile. Poesia e poetica del secondo Novecento, 2004; Non date le parole ai porci, 2014).

In questo breve saggio pubblicato da Il Melangolo, Viviani ribadisce considerazioni note e condivisibili  riguardo allo stato piuttosto comatoso in cui si trova la poesia contemporanea: non viene letta (se non dai poeti stessi, e da una cerchia ristretta di loro amici, conoscenti, familiari e rari estimatori); non si vende (le case editrici sono giustamente recalcitranti a pubblicarla, in quanto operazione economicamente in perdita); non assicura più a chi la scrive né fama, né prestigio, né soldi o vantaggi professionali; si è paurosamente omogeneizzata nello stile e banalizzata nei contenuti; non riscuote interesse nemmeno da parte dei critici letterari più influenti. Sulla scia della Nobel lecture montaliana del 1975 intitolata È ancora possibile la poesia?, Viviani più provocatoriamente e perentoriamente afferma che La poesia è finita.

«… la poesia non trova più ascolto. Non c’è più spazio per la poesia. Il troppo pieno, la parola piena, la comunicazione continua hanno sepolto i migliori poeti del secondo Novecento: non si leggono più, non hanno più la considerazione che prima, trenta anni fa, si dava loro. Tra vent’anni nessuno saprà più chi erano Saba, Erba, Giudici, Luzi, Zanzotto, Sereni, Raboni, Porta… Solo qualche solitario ricercatore universitario…».

Cos’è che condanna la scrittura in versi all’irrilevanza, secondo Cesare Viviani? In primo luogo, l’ignoranza della tradizione letteraria da parte di molti giovani e supponenti poeti, che si improvvisano tali senza la necessaria e doverosa preparazione, senza avere letto e meditato i classici e gli autori più importanti dell’ultimo secolo, limitandosi ad affollare i festival, a riunirsi in conventicole di illuminati (spesso al seguito di sedicenti Maestri più anziani, interessati narcisisticamente a crearsi un manipolo di fedelissimi). Altro importante motivo del declino della poesia contemporanea risiede nella sua corruzione, derivata dai linguaggi mediatici e pubblicitari contaminati da internet o dalle canzonette, infiacchiti da una prolissità artefatta e vacua che impoverisce non solo il vocabolario, ma anche le idee. Infine, secondo Viviani (ma perché, se è nato nel ’47, a p. 28 si dichiara sessantenne?) non aiuta a risollevare il livello e la considerazione del testo poetico il commento distratto e talvolta privo di reale competenza di molti critici, poco interessati a vagliare e a selezionare il prodotto di qualità dalla pletora di composizioni carenti di ispirazione e originalità, spudoratamente imitative, stilisticamente disinvolte, incentrate in prevalenza sulla biografia dell’autore.

«La poesia non può essere affabile, accattivante, popolare, attraente l’immediata emotività: perché la scrittura che ha queste caratteristiche è cattivo giornalismo in versi», «…Il matrimonio dell’invadenza del linguaggio mediatico, superficiale e utilitaristico, con l’opportunismo delle relazioni personali (scambio di favori, protezione come segno di potere, bisogno di seguaci) annienta la poesia».

Le posizioni polemiche di Cesare Viviani, espresse aforisticamente, in modo quasi oracolare, senza seguire un’organicità di struttura, con sussultanti ripetizioni, riflettono una sua ideologia di altero elitarismo, nel reiterato sottolineare quale debba essere la natura della vera poesia: inesprimibile e ineffabile, assoluta e sconvolgente, definibile solamente attraverso due termini che vengono ribaditi con la cadenza di un mantra, “limite” e “vertigine”. «Quando si dice che la poesia dice l’indicibile, si intenda non che riesce a dirlo, ma che esprime, rivela l’incapacità, l’impossibilità di dirlo. Dice il limite invalicabile», «Allora l’essenza della poesia sta in quella vertigine che si prova di fronte a un abisso: di fronte all’impossibilità di definizione e di sistemazione, di fronte a un vuoto di comprensione, a un’interruzione di senso».

Convinto della missione profetica e salvifica del verbo poetico, Viviani finisce per trascurare l’attività artigianale della composizione, il lavoro prudente e consapevole sui termini, il confronto e il rispetto dovuto alla produzione altrui. Scrivere poesia non sempre si riduce a un invasamento orfico, a un’illuminazione soprannaturale che non tollera valutazioni. Ignorando l’impegno attento e qualificato di molti stimabilissimi critici (Casadei, Cortellessa, Mazzoni, Belpoliti, Ossola, Brevini, Pedullà, Bertoni, Prete, eccetera…), Viviani non rende un buon servizio a chi voglia avvicinarsi alla poesia come autore o come semplice ma appassionato fruitore di testi. In fondo, proprio nel suo non essere utile e sfruttabile economicamente, quest’arte destinata a finire mantiene ancora uno scampolo di gratuità, sebbene la sua estrema democratizzazione odierna l’abbia in qualche modo resa meno “nobile e pura”.

 

© Riproduzione riservata          «Il Pickwick», 11 giugno 2018

 

 

 

 

MAESTRI

HINDERMANN

DOVE PASSAVO

Dove passavo, la stanza,
o mi fermavo in ascolto
di passi nella memoria, confusi
già con i colpi che lievi
pareva sentissi alla porta sperando:
per un poco ancora,
per giorni o mesi non cambia,
senza di me rimane
uguale con l’ombra, lo sbuffo
della tenda sul davanzale,
il tulle lambisce, ricade svasato
sopra il gatto che lungo
il vetro sonnecchia e cui scuote
un crampo le ganasce e freme
azzannando nel vuoto
voli lontani.

Federico Hindermann (1921-2012)

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NANCY

JEAN-LUC NANCY, M’AMA, NON M’AMA – UTET, TORINO 2009

Va sempre più di moda, anche tra gli editori maggiori, dare alle stampe conferenze o dibattiti tenuti in pubblico da scrittori, filosofi o personaggi di rilievo mediatico. Si pubblicano le trascrizioni della conversazione, praticamente senza nessuna revisione sostanziale da parte dell’autore, in modo che il lettore ricavi dalle pagine un’impressione immediata di spontaneità, di voluta semplificazione dei concetti. Questo ovviamente comporta per le case editrici un impegno meno pressante che la cura attenta richiesta da un saggio scritto, e per chi legge una facilità di apprendimento non sottovalutabile, anche se a scapito della profondità del messaggio.

È il caso di un volume ottimamente confezionato nel 2009 dalla Utet (copertina accattivante, rilegatura solida, caratteri grandi e spaziati, titolo indovinato), che ha conosciuto una decina di ristampe, e che tuttavia poco aggiunge sia al tema trattato, sia alla fama dell’autore, il notissimo filosofo francese Jean-Luc Nancy. M’ama, non m’ama è una breve conferenza tenuta da Nancy davanti a un pubblico di adolescenti dei due sessi, in cui l’autore si prova a circoscrivere il tema vastissimo dell’amore, attraverso definizioni abbastanza generiche sulla realtà di questo sentimento, decantato da ogni letteratura, arte, musica, di cui tutti abbiamo o abbiamo avuto esperienza: dolorosa o felice, faticosa o gratificante. L’autore lo descrivere nel suo nascere, crescere e spesso finire, tra esaltazioni reciproche e delusioni, rischi e contraddizioni, nella fedeltà e nei tradimenti: scoperta dell’intimità di noi stessi e dell’altro, impossibilità di definirne una misura. Ce ne offre una definizione molto toccante, quando afferma che l’amore è “la mia capacità di ricevere, di percepire e di lasciar venire a me una persona in quanto persona, per ciò che è e indipendentemente da ciò che ha”. Aggiungendo che il gesto in cui si esprime nella sua massima gratuità e tenerezza è la carezza, che “ci insegna che quel che conta nell’amore è la presenza dell’altro, il tocco dell’altro, e in certo modo, nient’altro”.

Il volume si conclude con un dibattito, in cui i giovani del pubblico porgono, quasi con pudore, domande incuriosite sulla reciprocità dei sentimenti, sulla difficoltà di esprimerli, sul tradimento, sul narcisismo: ad essere Jean-Luc Nancy, che abitualmente nei suoi saggi utilizza terminologie e concetti di non facile comprensione, risponde con la semplicità di un nonno affettuosamente complice.

 

© Riproduzione riservata      

https://www.sololibri.net/M-ama-o-non-m-ama-Nancy.html     4 giugno 2017

 

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DEL SOLDA’

PIETRO DEL SOLDÀ, NON SOLO DI COSE D’AMORE – MARSILIO, VENEZIA 2018

Nel suo interessante volume Non solo di cose d’amore, recentemente pubblicato da Marsilio, Piero Del Soldà (Venezia, 1973), autore e conduttore del programma di Rai Radio 3 Tutta la città ne parla, si interroga su come si possa imparare a essere felici, seguendo le indicazioni e le tracce disseminate dalla filosofia antica, e di colui che ne è stato il più conosciuto dei maestri: Socrate. Proprio Socrate, con il suo tenace interrogare i discepoli riguardo a ogni questione etica, politica e logica, nel suo paziente e ironico scavo nelle coscienze degli oppositori, nel ribadito sottolineare le contraddizioni del pensiero e del linguaggio, può forse oggi aiutarci a recuperare l’antico e necessario artificio di ogni indagine filosofica: il porsi domande, il proporre risposte, il continuo dialogare in un confronto stimolante con l’altro da noi.

Del Soldà, forte dei suoi studi classici e del dibattito radiofonico con gli ascoltatori sui diversi argomenti suggeriti dalla cronaca quotidiana, indaga le contraddizioni dell’attualità utilizzando gli strumenti offerti dalla dialettica socratica: e lo fa scandendo il testo in tre sezioni, concernenti i problemi dell’io, la vita collettiva, e l’idea di felicità. Tutt’e tre queste fasi della sua ricerca hanno come perno la consapevolezza che ogni obiettivo, individuale o sociale, che ci proponiamo di raggiungere è ottenibile sulla spinta di una tensione erotica. Socrate nel Simposio affermava di intendersi «solo di cose d’amore», volendo tuttavia indicare con questo termine non tanto il sentimento privato e romantico che noi gli attribuiamo oggi, bensì l’attenzione consapevole e generosa verso ogni aspetto dell’esistenza, dalla politica all’economia, dalla giustizia all’arte, dalla virtù alla verità come fine.

Nel primo capitolo, l’autore esplora le cause che rendono l’individuo contemporaneo infelice, insoddisfatto e insicuro: oltre a motivazioni concrete e cogenti, quali la precarietà lavorativa, la mancanza di prospettive future, il deteriorarsi dei rapporti familiari, l’emergenza abitativa, ne esistono altre più soggettive e indotte culturalmente: la competitività, il conformismo, la diffidenza verso il prossimo, il timore del fallimento sociale, il culto del successo, l’ossessione dell’apparenza, la solitudine. Ostentazione, ipertrofia dell’io, volontà smodata di affermarsi, utilizzo di artifici retorici per sbaragliare l’avversario sono tecniche di sopraffazione che non riguardano solo l’oggi. Ai tempi di Socrate se ne servivano i sofisti, che avevano in Protagora il massimo esponente. Nella descrizione infastidita che ne dà l’autore, confrontandolo con la severa moralità di Socrate, intuiamo il giudizio negativo riservato a tanti figuranti dei nostri giorni che sfruttano la loro vacua e aggressiva eloquenza con l’unico scopo di ottenere popolarità.

Nella parte centrale del volume, Piero Del Soldà analizza i rapporti che il singolo cittadino di un paese democratico instaura con l’ambiente civile in cui è inserito, «il senso e il valore della vita associata e i problemi che affliggono la politica contemporanea». Questioni numerose e difficilmente risolvibili: populismo, disaffezione verso le istituzioni, astensionismo, disuguaglianze economiche, crisi delle identità nazionali, controllo invasivo del potere, abuso o negazione delle libertà personali. In una società ridotta a “teatro indifferente”, per molti «il palco di oggi è composto dallo schermo televisivo, dai social network e dagli algoritmi che rendono ogni giorno più spessa e coriacea la bolla nella quale si trovano riuniti tutti coloro che la pensano allo stesso modo». La felicità personale dei cittadini può concorrere a migliorare l’esistenza collettiva, si può abbattere il muro interiore che deresponsabilizza l’individuo e lo separa dagli altri? Socrate asseriva che «ogni decisione pubblica va ricondotta al reciproco rispecchiarsi di chi conosce se stesso». È ancora l’insegnamento socratico a illuminare le pagine conclusive, forse le più coinvolgenti, del volume. In esse Del Soldà esprime la speranza che una liberazione dalle angosce dell’uomo moderno possa arrivare da un ritorno al pensiero filosofico, da una riscoperta dell’interiorità che anziché chiudere apra agli altri, riconosciuti simili e non solo antagonisti. Sull’esempio di Socrate, dobbiamo riscoprire un sapere che sappia unire «conoscenza e impegno, libertà e cura degli altri, domanda e risposta», in un dialogo intessuto tra intimità e socialità, riflessione e azione concreta, eros e poiesis, che abbia come fine il raggiungimento della verità e della giustizia.

 

https://www.sololibri.net/Non-solo-di-cose-d-amore-Del Solda.html                 31 maggio 2018

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FALCO

GIORGIO FALCO, LA COMPAGNIA DEL CORPO – DUE PUNTI, PALERMO 2011

In questo racconto lungo di Giorgio Falco (1967), La compagnia del corpo, due sembrano i sentimenti che affiorano dal narrato: la crudeltà e l’indifferenza. Ambientato in un paese immaginario della periferia milanese, Cortesforza, già scenario di altri racconti e romanzi dell’autore, vede come protagonisti principali due fidanzati ventenni, Alice e Diego, anonimi e banali a prima vista (simili nelle scelte/non scelte esistenziali, nel carattere apatico e nell’esibita ignoranza): in realtà animati da un rancore feroce e inespresso nei confronti dell’ambiente in cui vivono – genitori, amici, realtà urbana – e di sé stessi. Diego, poco presente e individualizzato fino alle pagine conclusive, lavora come dipendente del padre, proprietario di una ditta metalmeccanica. È frustrato, privo di ambizioni e di interessi che esulino dal sesso con la sua ragazza e dai ritrovi serali con un gruppo di sfigati. Alice è scolpita con maggiore rilievo, e non solo a causa della sua imponenza fisica: ossessionata dai suoi cento chili, soffre di bulimia dall’infanzia, famelica divoratrice delle merendine di cui suo padre è venditore per una grande azienda dolciaria. Vive con la madre in una villetta a schiera di un quartiere nuovo, spopolato e malinconico: i suoi rapporti con i genitori, separatisi subito dopo l’acquisto nella casa, sono freddi e formali. Alice passa le sue giornate a letto, a pesarsi sulla bilancia, a confrontarsi con l’amica Fede detta “Mucchietto” perché pelle e ossa, e a portare fuori la cagnolina Lucy, salvata dal canile comunale. Proprio nella descrizione del canile e del processo produttivo delle merendine di cui si nutre la ragazza, la prosa di Falco si fa particolarmente attenta e perspicace, nel sottolineare i due caratteri distintivi del racconto: la crudeltà nel trattamento degli animali e delle persone, l’indifferenza a qualsiasi scrupolo etico, a qualsiasi sfumatura di solidarietà umana.

Sono i presupposti da cui nasce l’episodio, imprevisto e terrificante, che offre una svolta alla storia. Diego e Alice trascorrono un pomeriggio domenicale nel capannone industriale del padre di lui, sorvegliato da un doberman, portandosi dietro Lucy. Dopo un amplesso svogliato, “sussultorio, amatoriale aritmico, dilettantistico”, per scherno o idiozia tentano di far accoppiare la bastardina con il doberman, quindi irritati dal continuo abbaiare di lei, la ammazzano a sprangate, appendendola a una trave dell’officina, filmandosi a vicenda col cellulare nelle sevizie, per poi gettare il corpo ridotto a poltiglia della cagnetta in un fosso. Fin qui il racconto, esposto con frasi secche e concise, prive di partecipazione emotiva, a indicare il distacco quasi disgustato dell’autore dalla vicenda. Ma ecco che nelle ultime pagine, viene riportato un verbale dei carabinieri in cui i due fidanzati sono accusati del reato di maltrattamento e uccisione di animale, sulla base di una denuncia anonima sporta da qualcuno cui era stato mostrato il video come un trofeo.

Giorgio Falco rivela in conclusione di essersi ispirato a un fatto realmente accaduto in provincia di Pordenone nel 2009: riporta i nomi dei protagonisti citati dai media internazionali e le reazioni del mondo, dapprima scandalizzate, poi disorientate, infine sbadatamente noncuranti. Crudeltà e indifferenza, appunto.

 

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https://www.sololibri.net/La-compagnia-del-corpo Falco.html     29 maggio 2018

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SCHMIDT

ARNO SCHMIDT, LEVIATANO O IL MIGLIORE DEI MONDI – MIMESIS, MILANO 2013

Con traduzione e introduzione di Dario Borso (già curatore di altri due testi schmidtiani), Mimesis ha pubblicato nel 2013, con testo originale a fronte, un racconto di Arno Schmidt uscito in Germania nel 1949. Schmidt, reduce da sei anni di guerra e prigionia, vissuto fino ad allora in assoluta povertà, solo nel dopoguerra, e dopo aver tentato diversi mestieri, riuscì a dedicarsi completamente alla scrittura, divenendo un riferimento osannato e contestato della letteratura tedesca. Pagava nei confronti dei lettori e dell’editoria più tradizionale un estremismo ideologico e sprezzante, una cultura eccedente e anticonformista, uno stile provocatoriamente funambolico, smozzicato, sperimentale. In Leviatano o il migliore dei mondi narra la disperata fuga verso Ovest di un gruppo di slesiani sbandati, affamati, feriti, sporchi (soldati, vecchi, bambini), in cerca di salvezza dai bombardamenti dell’aviazione inglese, in un treno rugginoso e sferragliante, continuamente costretto a fermarsi, bloccato dalla neve e dalle mitragliate dell’artiglieria: «Il gelo, il gelo, Scavammo con mani di marmo vicino all’acciaio corrusco. Mordente polvere di neve fluttuava intorno a naso e bocca. L’avrei guardata da palpebre d’argento. Il vecchio mi cadde sulla spalla; lo tirai con me nel vagone», «I demoni d’acciaio gridavano e gridavano intorno a noi, sopra noi, sotto noi. Ancora numerosi esplosero i colpi dietro, e una volta tremò tutto, come crollasse un monte (e mugghiare di acque gorgoglianti)».

Il protagonista, un sergente della Wehrmacht reduce dallo sbandamento dell’esercito, sale sul convoglio in partenza da Berlino il 20 maggio del ’45, e scandisce con una scrittura sincopata ed ansante una sorta di diario dei giorni e delle ore trascorse nel viaggio infernale, compiuto in compagnia di un pastore luterano retoricamente salmodiante, con la sua numerosa famiglia, di un anziano meditativo e curioso, di soldatacci lascivi, di diverse comparse generiche, della dolcissima Anne («Anne era già accanto a me e il suo profilo da Marlene Dietrich tornò a precipitarmi in beata servitù») e della madre di lei.

Il sergente alter ego dell’autore porta soccorso come può al manipolo terrorizzato degli scampati, scortandoli dentro e fuori dai vagoni ad ogni fermata, scavando a mani nude nella neve, soccorrendo i febbricitanti, ma soprattutto imbarcandosi in discussioni e teorizzazioni filosofiche e scientifiche, sia con il religioso «vile e bizantino», «anima svergognata di lacchè», che reagisce con pio fideismo anche davanti alla morte straziante dei suoi bambini («ma questi qui hanno mai pensato che potrebbe essere Dio il colpevole?»), sia con il vecchio agnostico che gli pone quesiti sulla realtà e sul destino finale del mondo. Lui risponde, didascalico, saccente e polemico. Esemplifica ricorrendo all’astrofisica, alla biologia, alla filosofia, alla matematica, alla storia: cita Einstein e Platone, Budda e Schopenhauer, Cervantes e Mozart, Nietzsche e Spinoza, esibendo un rabbioso nichilismo, un convinto ateismo, un feroce spirito anarchico, già evidente dal titolo e dal sottotitolo del libello: Leviatano o il migliore dei mondi. Ironizza su una divinità crudele e indifferente in un cielo spaventosamente vuoto, in uno spazio-tempo «illimitato ma non infinito», in cui brancola violenta e cieca la stirpe degli uomini illusi e angosciati: «Saluterei con gioia la fine dell’umanità; ho fondata speranza che entro ‒ beh ‒ fra i 500 e gli 800 anni si saranno annientati del tutto; e sarà cosa buona», «Questo mondo è qualcosa che sarebbe meglio non fosse, chi dice il contrario, mente! Pensi ai meccanismi universali: gola e foia. Propagarsi e asfissione». Attacca furiosamente Hitler («un ibrido di Nerone e Savonarola»), il cristianesimo con le sue «ridicole ambizioni gnoseologiche», e tutti i terrorismi ideologici che hanno manovrato le persone come marionette.

Eppure, quando il treno termina la sua corsa in bilico su un burrone, sospeso su un fiume dopo il crollo di un ponte, tra i cadaveri dei compagni di sventura, sogna la distruzione della Bestia, del famelico Leviatano, e «la rivolta dei buoni», Così le ultime frasi del diario suonano pudicamente utopiche: «Varcheremo la porta color cotto ricoperta di brina. Velato d’oro sarà in agguato il diabolico sole invernale, biancorosa e freddosfera. Lei sporgerà il mento e farà una smorfia villana, solleverà i fianchi per darsi slancio. Contratto la cingerò col braccio. Ecco sventolo via il quaderno: volate, brandelli!».

 

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https://www.sololibri.net/Leviatano-o-il-migliore-dei-mondi-Schmidt.html           29 maggio 2018

 

 

 

 

RECENSIONI

GNOLI-VOLPI

ANTONIO GNOLI-FRANCO VOLPI, L’ULTIMO SCIAMANO – BOMPIANI, MILANO 2006

I due autori di questo volume pubblicato nel 2006, il giornalista Antonio Gnoli e il filosofo Franco Volpi, danno questa definizione del termine “sciamano”: un mediatore tra umano e divino, un taumaturgo guaritore dell’anima, un istrione capace di elevare all’estasi. L’ultimo sciamano sarebbe, secondo le loro indicazioni, il più grande, influente, discusso e controverso pensatore del XX secolo, Martin Heidegger. Incantatore di centinaia di studenti, maestro delle menti più illuminate del dopoguerra, dall’eloquio sobrio ma ipnotico, dalla cultura sconfinata, dalla stringente logica argomentativa. Un uomo di bassa statura, pingue, dagli occhi piccoli e furbeschi, dai modi contadini, gran seduttore di cuori femminili. Di Heidegger parlano, in questo libro, cinque personaggi che l’hanno conosciuto da vicino o attraverso gli scritti: il figliastro Hermann (storico, che ne ha curato l’opera omnia), Ernst Jünger, Hans-Georg Gadamer, Ernst Nolte, Armin Mohler: quindi, scrittori, filosofi, storici, tutti quasi centenari all’epoca delle conversazioni. Parlano del maestro con rispetto e ammirazione, ne raccontano la vita familiare, le abitudini domestiche, l’indole meditativa, soffermandosi ovviamente sui percorsi e le mete raggiunte dalla sua ricerca, e in particolare sui tanto contestati rapporti con il nazismo. In genere, tutti e cinque gli intervistati prendono le difese di Heidegger, sostenendo che nel 1933 avesse accettato il ruolo di rettore dell’Università di Friburgo propostogli dal nascente regime (e abbandonato dopo pochi mesi) per ingenuità, timore, o con l’utopia di servirsi del nazionalsocialismo per riformare in favore dell’indipendenza scientifica il farraginoso sistema accademico. Alcuni arrivano a sostenere che il suo elitarismo, il suo conservatorismo, la sua utopia nei destini di una grande Germania fosse determinata dalla volontà di opporsi al dominio delle due superpotenze, americana e sovietica, decise a massificare la società, a sacrificare la cultura in favore della tecnica. Uno studioso puro, quindi, Heidegger, quasi indifferente ai destini della Storia perché immerso nella sua personale ricerca dell’Essere. Ciò che più colpisce nelle affermazioni di questi cinque studiosi è l’assoluta semplicità con cui raccontano l’eccezionalità del periodo storico in cui hanno vissuto, ricco di personalità straordinarie che hanno forgiato la filosofia del ‘900. Erano tutti lì: Husserl, Scheler, Natorp, Hartmann, Jaspers, Hannah Arendt, Edith Stein, Jaeger, Lōwith, Leo Strauss, Horkheimer, Marcuse, Levinas, Jonas, Anders, Benjamin, Habermas, Adorno, Schmitt, Guardini, Otto… Nel bene o nel male, tutti avevano fatto riferimento al figlio del sacrestano di Messkirch, al Professore ateo ma legato alle radici cattoliche, studioso dei greci, amante della poesia, convinto difensore della natura e del ritorno alla terra, ostile al potere tecnocratico destinato a controllare le coscienze e i comportamenti individuali. Arcaico e modernissimo, restauratore e rivoluzionario, profeta e oscurantista. L’ultimo sciamano, insomma.

 

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https://www.sololibri.net/L-ultimo-sciamano-Gnoli-Volpi.html          26 maggio 2018