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RECENSIONI

GNOLI-VOLPI

ANTONIO GNOLI-FRANCO VOLPI, L’ULTIMO SCIAMANO – BOMPIANI, MILANO 2006

I due autori di questo volume pubblicato nel 2006, il giornalista Antonio Gnoli e il filosofo Franco Volpi, danno questa definizione del termine “sciamano”: un mediatore tra umano e divino, un taumaturgo guaritore dell’anima, un istrione capace di elevare all’estasi. L’ultimo sciamano sarebbe, secondo le loro indicazioni, il più grande, influente, discusso e controverso pensatore del XX secolo, Martin Heidegger. Incantatore di centinaia di studenti, maestro delle menti più illuminate del dopoguerra, dall’eloquio sobrio ma ipnotico, dalla cultura sconfinata, dalla stringente logica argomentativa. Un uomo di bassa statura, pingue, dagli occhi piccoli e furbeschi, dai modi contadini, gran seduttore di cuori femminili. Di Heidegger parlano, in questo libro, cinque personaggi che l’hanno conosciuto da vicino o attraverso gli scritti: il figliastro Hermann (storico, che ne ha curato l’opera omnia), Ernst Jünger, Hans-Georg Gadamer, Ernst Nolte, Armin Mohler: quindi, scrittori, filosofi, storici, tutti quasi centenari all’epoca delle conversazioni. Parlano del maestro con rispetto e ammirazione, ne raccontano la vita familiare, le abitudini domestiche, l’indole meditativa, soffermandosi ovviamente sui percorsi e le mete raggiunte dalla sua ricerca, e in particolare sui tanto contestati rapporti con il nazismo. In genere, tutti e cinque gli intervistati prendono le difese di Heidegger, sostenendo che nel 1933 avesse accettato il ruolo di rettore dell’Università di Friburgo propostogli dal nascente regime (e abbandonato dopo pochi mesi) per ingenuità, timore, o con l’utopia di servirsi del nazionalsocialismo per riformare in favore dell’indipendenza scientifica il farraginoso sistema accademico. Alcuni arrivano a sostenere che il suo elitarismo, il suo conservatorismo, la sua utopia nei destini di una grande Germania fosse determinata dalla volontà di opporsi al dominio delle due superpotenze, americana e sovietica, decise a massificare la società, a sacrificare la cultura in favore della tecnica. Uno studioso puro, quindi, Heidegger, quasi indifferente ai destini della Storia perché immerso nella sua personale ricerca dell’Essere. Ciò che più colpisce nelle affermazioni di questi cinque studiosi è l’assoluta semplicità con cui raccontano l’eccezionalità del periodo storico in cui hanno vissuto, ricco di personalità straordinarie che hanno forgiato la filosofia del ‘900. Erano tutti lì: Husserl, Scheler, Natorp, Hartmann, Jaspers, Hannah Arendt, Edith Stein, Jaeger, Lōwith, Leo Strauss, Horkheimer, Marcuse, Levinas, Jonas, Anders, Benjamin, Habermas, Adorno, Schmitt, Guardini, Otto… Nel bene o nel male, tutti avevano fatto riferimento al figlio del sacrestano di Messkirch, al Professore ateo ma legato alle radici cattoliche, studioso dei greci, amante della poesia, convinto difensore della natura e del ritorno alla terra, ostile al potere tecnocratico destinato a controllare le coscienze e i comportamenti individuali. Arcaico e modernissimo, restauratore e rivoluzionario, profeta e oscurantista. L’ultimo sciamano, insomma.

 

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https://www.sololibri.net/L-ultimo-sciamano-Gnoli-Volpi.html          26 maggio 2018

 

 

 

 

RECENSIONI

SCHMIDT

ARNO SCHMIDT, ATEO?: ALTROCHÉ! – IPERMEDIUM, 2007

Dello scrittore tedesco Arno Schmidt (1914-1979) in Italia si conosce poco o niente: le tardive traduzioni sono state incoraggiate da piccoli o piccolissimi editori, e perlopiù hanno avuto scarsi riscontri di pubblico e di critica. Forse ciò dipende dalla natura del personaggio (anarchico, polemico, sarcastico), e dallo stile sperimentale, oscillante tra narrazione fantastica e saggio di denuncia sociale, manierismo e allegoria, onirismo e biografia, ma sempre in chiave anti-realistica e di eversiva invenzione linguistica. Schmidt fu il primo scrittore tedesco a parlare dei campi di sterminio e a indagare i rapporti politici e sociali esistenti tra le due Germanie, criticando contemporaneamente con feroce ironia sia l’attualità disumanizzante del neocapitalismo, sia il vecchiume culturale proposto da molte istituzioni, in primis dalla Chiesa.

Il libello Ateo? Altroché! raccoglie le risposte che Arno Schmidt diede nel 1957 a un questionario sul cristianesimo proposto da Karlheinz Deschner a una cinquantina di scrittori tedeschi (molti declinarono diplomaticamente l’invito, solo in diciotto aderirono). Per Schmidt, sempre caustico e violentemente «anticlericale, anticristiano, antireligioso» fu un invito a nozze: proprio alla tredicesima e ultima domanda sull’ateismo rispose infatti con lapidaria irrisione servendosi del punto interrogativo e del punto esclamativo riportati nel titolo di questo breve saggio, che replicano la frase finale di un suo racconto del 1955 (Paesaggio lacustre con Pocahontas), denunciato per blasfemia e pornografia: «Io? Ateo? Altroché! Come ogni uomo che si rispetti!».

All’epoca la Germania viveva sotto la cappa di restaurazione ideologica imposta dal Cancelliere Adenauer. Schmidt si espresse quasi con sprezzo, in uno stile secco e corrosivo, dichiarandosi a favore di una società laica, libera, pacifista e illuminista, contraria a ogni superstizione e fanatismo religioso. Si dichiarò «Uno neutrale. Oggi, di fronte a un ciclorama di sinodi e cercatori di Dio, figuri con la fronte nuvola da scolastici aggrondati, infallibili, censorii, senescenti e mo’ daccapo “Signore degli eserciti!”». Proclamò la sua ostilità al Cristianesimo basandosi su tre punti: la dubbiosità dei documenti d’origine (una Bibbia contraddittoria, oscura, piena di episodi violenti, inficiata da migliaia di varianti testuali), la personalità «insoddisfacente» di Gesù di Nazareth, e gli effetti non propriamente esaltanti o formativi prodotti da duemila anni di messaggio cristiano, tra censure, roghi, massacri, argomentazioni antiscientifiche e oscurantismo culturale. Per cui alla domanda riepigolativa «Lei cosa pensa del Cristianesimo?», rispose sornione: «Non un granché!».

 

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https://www.sololibri.net/Ateo-altroche-Schmidt.html               24 maggio 2018

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STEINER

GEORGE STEINER, HEIDEGGER – GARZANTI, MILANO 2011

Se qualcuno fosse interessato ad avvicinarsi a Martin Heidegger, anche senza una preparazione filosofica specifica, credo che non esista introduzione più esaustiva e chiara del volume che gli ha dedicato nel 1978 George Steiner, pubblicato e più volte ristampato da Garzanti, intitolato semplicemente Heidegger. George Steiner (Parigi, 1929) è uno dei maggiori critici letterari mondiali: si è occupato non solo di narrativa classica e contemporanea, di teatro, di filosofia e di linguistica, ma ha indagato anche il rapporto politico esistente tra cittadini e Stato, soffermandosi sul concetto di libertà e di responsabilità etica nelle scelte individuali e collettive. Forse proprio per la vastità dei suoi interessi culturali, ha trovato in Heidegger l’espressione più compiuta di pensatore del XX secolo, in quanto in ciascuno di questo ambiti il filosofo di Messkirch (1889-1976) ha giocato un ruolo determinante, sebbene molto discusso, di guida e provocatorio maestro.

Ebreo, orgogliosamente consapevole di quanto la sua origine, la fede dei suoi padri e le sofferenze del suo popolo abbiano contribuito a formare la sua coscienza di uomo e studioso, Steiner non fa dell’adesione di Heidegger al nazismo (pur stigmatizzata in uno dei capitoli del volume) il nucleo centrale e rancoroso della sua critica, rivalutando invece pienamente l’importanza fondamentale del filosofo, che considera il più influente e profondo del ‘900. «Heidegger è stato l’esempio moderno di una vita rivolta alla causa della ricerca intellettuale e morale. Poiché Heidegger è stato tra noi, si è affermato il concetto che porre delle domande è la suprema forma di pietà dello spirito, e la credenza che il pensiero astratto è l’eminente privilegio e il fardello dell’uomo».

I punti centrali e più originali della teorizzazione heideggeriana vengono enucleati da Steiner nella loro primaria rilevanza. In primo luogo, il dovere umano di porsi delle domande sul significato dell’esistenza (perché l’essere, cos’è l’essere); secondariamente, la capacità di provare stupore, meraviglia e gratitudine nei confronti del semplice e momentaneo vivere nel tempo. Accanto a queste due questioni fondamentali, i nodi principali della ricerca di Heidegger sono «la revisione radicale del modello platonico, aristotelico e kantiano di verità e logica, la sua teoria dell’arte, le sue riflessioni sulla tecnologia, il suo modello di linguaggio». La filosofia occidentale si è corrotta nelle sue tradizioni metafisiche (Platone) e scientifiche (Aristotele e Cartesio), che hanno oscurato e obliato il mistero dell’Essere, quale invece era stato intuito dai presocratici, rendendo alienata, estraniata e assoggettata alla tecnologia, al consumismo e alla banalità della chiacchera quotidiana la condizione dell’uomo moderno, che si sta avviando a una deriva nichilista. Nel suo capolavoro incompiuto Essere e tempo (1927) Heidegger auspica quindi un necessario ritorno alla «dimora dell’Essere», all’autenticità dell’”esserci” nella realtà del mondo, attraverso la “cura”, la preoccupazione per gli altri, e la riscoperta della verità, attingibile nell’arte e nella poesia.

Il pensiero di Heidegger, il suo scavo nell’etimologia per recuperare il senso pieno del linguaggio, il suo recupero dei filosofi e tragici greci, la sua dialettica tortuosa e irrisolta ma dinamica, sempre in ricerca lungo un “sentiero” che conduca a una “radura” illuminata nell’oscurità del bosco che ci circonda, ha influenzato tutta la filosofia, la teologia, la psicanalisi, l’estetica e la linguistica contemporanea, da Sartre a Derrida, da Bultmann a Rahner, da Gadamer a Lacan (e in Italia, da Severino a Galimberti e a Cacciari). Imprescindibile, quindi, accostarsi ai testi di Heidegger, accompagnati magari dalle straordinarie pagine di George Steiner.

 

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https://www.sololibri.net/Heiddeger-Steiner.html      22 maggio 2018

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MICHON

PIERRE MICHON, RIMBAUD IL FIGLIO – MAVIDA, REGGIO EMILIA 2005

Pierre Michon, autore molto noto e premiato in Francia, ha dedicato nel 1991 un volume ad Arthur Rimbaud, ripercorrendone non solo la tribolata e breve esistenza, ma anche la genesi della magistrale produzione poetica, incastonata come un gioiello all’interno di un’epoca di febbrile creatività artistica, e di altrettanto vivaci polemiche letterarie. Rimbaud il figlio, quindi: figlio non solo di una famiglia piccolo borghese di Charleville, provinciale e conformista cittadina delle Ardenne; non solo di una mamma ignorante e ossessionata dal culto delle apparenze («Vitalie Rimbaud nata Cuif»); ma di un ambiente culturale rifiutato rabbiosamente, che seppe per antitesi partorire un genio, ribelle e incompreso, sì, ma splendente di luce propria.

La scrittura di Pierre Michon, raffinata e lieve, funambolica e lirica, sospesa tra un barocchismo onirico e il gusto celebrativo, ben si accorda a descrivere l’esistenza del giovane poeta, accompagnandola nelle sue evoluzioni e nei suoi silenzi, e soprattutto nelle sue illuminazioni creative. La casa editrice emiliana Mavida ha riproposto questa estetizzante biografia rimbaudiana nel 2005, con traduzione attenta di Maurizio Ferrara e inquietanti illustrazioni di Isabella Branella.

L’interesse di Michon giustamente si focalizza sulle figure di contorno, che servono da sfondo e contrasto a far meglio risaltare l’eccezionalità del poeta maudit. Il padre assente, capitano di «guarnigioni lontane»; la vampiresca madre Vitalie, donna «sofferente e malvagia… creatura d’imprecazione e di disastro»; il delicato e romantico insegnante di lettere del liceo, Georges Izambard, convinto che la poesia dovesse rappresentare il buono e il bello del vivere. Tutti e tre questi personaggi ottennero con la loro sola presenza all’ombra di Arthur di provocarne l’insubordinazione, il ribollente rigetto di ogni convenzione, di ogni abitudine, di ogni tradizione. Il ragazzo fugge da Charleville che non sopporta, macina chilometri a piedi, arriva in Belgio, forse va a Parigi nei giorni rivoltosi della Comune. Con la protervia e la presunzione dei suoi pochi anni, invia i suoi versi ai poeti parnassiani contemporanei, come Banville o Demeny, onesti ma banali, che li leggono con stupore e spavento: «Là dove è passato vedono un grande solco che taglia in due il campo della poesia, rigettando da un lato il vecchiume, pieno certamente di belle opere, ma vecchiume, e dall’altro il fiero podere devastato del moderno, dove forse non cresce niente, ma è moderno».

Entrano prepotentemente in questa storia «Verlaine con un cappello derby sul marciapiede della Gare de l’est», la passione tormentata con il poeta ventisettenne stilisticamente più tradizionale di lui, i vagabondaggi in giro per l’Europa, gli eccessi e l’assenzio, l’alcol e le provocazioni scandalose, la gelosia folle che esplode nello sparo «all’ala dell’arcangelo atterrito», in una letargica Bruxelles. E ancora inquietudini e solitudini, le Bateau Ivre composto a diciassette anni, Une Saison en enfer scritto di furia e di nascosto nel solaio di una fattoria di Roche, ritorni rancorosi in famiglia e di nuovo fughe a Parigi, dove si lascia fotografare dal famoso ritrattista Carjat, nell’unica immagine giovanile che ci rimane: biondo, spettinato e sfinito, occhi chiari e spaesati. Poi mestieri di ogni genere, l’Italia e l’imbarco per l’Abissinia, la rinuncia alla scrittura. «…andare a crepare in quell’insulso Corno d’ Africa, in mezzo a popolazioni senza corde da toccare, dove gli unici maestri sono il deserto, la sete, la Sorte, tutti i sovrani poco visibili e insabbiati come sfingi, ma sovrani, capitani, che mormorano ineffabili allarmi nel vento sulle dune, con le trombe fantasma del vento». Quindi il tumore alla gamba, l’amputazione con la sega a Marsiglia, la morte a 37 anni.

 

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https://www.sololibri.net/Rimbaud-il-figlio-Michon.html         19 maggio 2018

 

 

 

RECENSIONI

FRANZOSINI

EDGARDO FRANZOSINI, RIMBAUD E LA VEDOVA – SKIRA, MILANO 2018

Nella primavera del 1875 il ventunenne Arthur Rimbaud visse per quasi un mese a Milano, ospite di un’anziana vedova, in un appartamento affacciato su Piazza del Duomo. Proprio in quei giorni prese la decisione di abbandonare la scrittura, dando inizio a una nuova esistenza, sempre avventurosa e anticonvenzionale, ma non più votata al demone dell’arte. Edgardo Franzosini, scrittore lombardo nato nel 1952, ricostruisce minuziosamente quelle fatidiche giornate milanesi in cui il poeta che definiva sé stesso «ladro di fuoco», «fanciullo sfiorato dal dito della Musa», «veggente mediante un lungo, immenso e ragionato sregolamento di tutti i sensi», decise di trasformarsi in «qualcuno che era stato lui, ma che non lo era più, in nessun modo» (secondo le parole di Mallarmé), diventando mercante d’armi in Abissinia, dopo aver lavorato come inserviente di un circo, soldato mercenario, caposquadra in un cantiere e venditore di caffè e avorio in Europa, in Africa e in Medio Oriente

Franzosini è uno dei più originali scrittori italiani, ex bancario e oggi stimato autore Adelphi molto tradotto all’estero: ha scelto di indagare la vita misteriosa di personaggi più o meno noti, ma le cui vicende esistenziali sono rimaste avvolte in un velo di nebbia, oscurate da silenzi, calunnie, pregiudizi, persecuzioni. Come Bela Lugosi, interprete di film horror su Dracula; o l’avventuriero inglese Johann Ernst Biren, mangiatore di carta stampata; oppure il religioso Giuseppe Ripamonti, che scriveva i discorsi del Cardinale Federico Borromeo e venne da lui accusato di eresia e fatto imprigionare; o Raymond Isidore, costruttore di una cattedrale fatta di detriti e sporcizia; o ancora Rembrandt Bugatti, straordinario scultore di animali in bronzo e fratello infelice del fondatore di un prestigioso marchio automobilistico… Personaggi stravaganti e ai margini, a cui rendere dignità sulla pagina, attraverso un minuzioso lavoro di ricerche negli archivi, approfondite letture, precise ricostruzioni d’ambiente.

In questo volume pubblicato da Skira, Edgardo Franzosini si occupa invece di un artista famosissimo, genio precoce dalla vita girovaga e sregolata, che aveva scritto il Bateau ivre a diciassette anni e, nel giro di poco tempo, altri due capolavori: Une saison en enfer e le Illuminations. Ricostruisce la città che accolse il giovane Arthur utilizzando diverse fonti documentarie: giornali d’epoca, locandine teatrali, antiche guide turistiche, resoconti di fatti di cronaca e di vicende politiche. Una laboriosa Milano di 280.000 abitanti, che verosimilmente non rappresentava per il poeta la meta finale del viaggio, bensì una tappa intermedia, prima di raggiungere Civitavecchia o Brindisi per imbarcarsi verso la Spagna o le Isole Cicladi, nel suo errabondo e inquieto vagare in cerca di lavoro e di una sistemazione abitativa. Sappiamo da una lettera che mal sopportava la sua cittadina nelle Ardenne («La mia città natale è superlativamente idiota fra tutte le cittadine di provincia»), la borghesia ottusa e convenzionale che vi abitava, i familiari meschini e ignoranti. Come era arrivato a Milano? Camminando dal confine tedesco fino al Canton Ticino, attraverso il passo del San Gottardo; e poi da Airolo a Milano, per 200 chilometri, ancora a piedi (agile e resistente marciatore qual era), oppure in treno, ma clandestinamente, poiché del tutto sprovvisto di soldi. Del suo soggiorno nel capoluogo lombardo sono rimaste «impronte lievissime». In pratica, solo la copia di un biglietto da visita che riportava a caratteri di stampa il suo nome, a cui era stato aggiunto a penna un indirizzo: «39. Piazza del Duomo. Terzo piano. Milano». Ne diede testimonianza Ardengo Soffici in un saggio critico sul poeta francese, con dedica «Alla ignota Signora milanese che soccorse e forse amò Rimbaud, affamato vagabondo per l’Italia».

Basandosi su queste labili tracce, Edgardo Franzosini ha fabbricato un racconto sospeso tra realtà e leggenda, supposizioni e aneddoti. Chi era la dama che lo ospitò per quasi un mese nella sua casa in Piazza del Duomo? Era esistita veramente, come suggeriva con qualche morbosità Verlaine (che nel 1873, pazzo di gelosia, aveva sparato all’amante due colpi di pistola, finendo per questo in carcere)? L’adorato Paul scriveva: «Coso è a Milano, in attesa di denaro per la Spagna», alludendo poi a due episodi di amore eterosessuale dell’amico, uno a Londra e uno «con una vedova molto civile in quel di Milano». Anche il critico Ernest Delahaye citò «una signora caritatevole… una buona milanese», di cui era venuto a conoscenza attraverso una lettera di Arthur. La sorella di Rimbaud, Isabelle, e il marito di lei, strenui difensori dell’immagine rispettabile e virtuosa del poeta, a più riprese smentirono la frequentazione con una donna italiana, affermando che il loro caro viaggiava esclusivamente per impratichirsi nelle lingue straniere, a cui era portato per naturale e felice disposizione mentale. Se l’ospitale signora fosse vedova inconsolabile o no, se affittasse camere sul sagrato della cattedrale a turisti bisognosi, se si fosse fatta ricompensare in qualche curioso modo dal ragazzo, probabilmente non si verrà mai a sapere: alcune composizioni rimbaudiane, sulla cui paternità si nutrono tuttavia dei dubbi, sembrano riferirsi a un rapporto con una imprecisata “madame”, che potrebbe però essere una figura di fantasia. Non esistono documenti ufficiali sul soggiorno milanese di Arthur, né segnalazioni di vagabondaggio che lo riguardassero, o incontri con esponenti del mondo letterario. È attestata solo una sua spedizione dalla Regia Posta Centrale di Via Larga, ma non sembra che in quel periodo abbia richiesto denaro alla famiglia, come aveva fatto in altri frangenti: perlomeno non rimangono documentazioni epistolari di tal sorta.

Franzosini si sofferma sulle testimonianze scritte che alludono ai rari rapporti che Rimbaud ebbe con le donne, in particolare con la Mariam di Harar, che forse lo rese padre. Lo descrive poi fisicamente, nelle grandi mani arrossate e nodose e negli occhi di un azzurro imbarazzante. Accenna agli eccessi comportamentali dettati dal suo carattere violento, arrogante e sfrontato: «insopportabile perché tutto gli era insopportabile». Ciò che risulta davvero fondamentale, al di là della relazione avuta con la misteriosa signora, è che nelle settimane in questione Arthur Rimbaud decise di non scrivere più, di lasciar perdere ogni interesse letterario, arrivando addirittura a cestinare inviti e omaggi da parte di editori ed estimatori: scelta «logica, onesta, necessaria», secondo il parere di Verlaine. Il «silenzio poetico», su cui tanto hanno indagato i critici, pare abbia coinciso con un «silenzio erotico» e con un «silenzio dell’ebbrezza» da alcol e droghe. Una rinuncia e un disconoscimento dell’esistenza fino ad allora vissuta, che già si era espressa in una giovanile dichiarazione di dissociazione da sé stesso («Io è un altro, Je est un autre»), e nel sogno di sconfinamento manifestato nel Bateau ivre, con il rifiuto di far galleggiare la sua folle navicella in una pozzanghera «noire et froide», quale avvertiva fosse allora l’Europa, portandola invece a veleggiare verso altri lidi.

 

«Il Pickwick», 17 maggio 2018

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

RECENSIONI

DI CESARE

DONATELLA DI CESARE, MARRANI ‒ EINAUDI, TORINO 2018

Il termine “marrano” indica gli ebrei sefarditi che nel Medioevo vennero costretti ad abiurare la loro fede e ad abbracciare la religione cristiana. L’etimologia della parola è incerta: potrebbe derivare dall’arabo, dall’aramaico o dal castigliano, e significare scomunicato, ipocrita, straniero, convertito, o più probabilmente “cosa proibita”. Veniva comunque usata in spagnolo in senso dispregiativo come sinonimo di porco, per schernire e ingiuriare gli infedeli che si astenevano dal mangiare carne di maiale. In seguito definiti conversos, confesos o cristianos novos, i marrani continuarono nei secoli a venire chiamati così ovunque, sebbene con accezioni differenti, che potevano indicare eresia, tradimento o ribalderia.

Donatella Di Cesare, docente di Filosofia Teoretica alla Sapienza di Roma, dedica ai marrani un approfondito e coinvolgente saggio, in cui esamina dal punto di vista storico, ideologico e psicologico le vicende tragiche e tormentate di questa vasta categoria di persone: perseguitate, imprigionate, uccise, costrette a nascondersi e ad emigrare, o – per salvarsi – a rinunciare al proprio credo. Storicamente, la persecuzione antiebraica iniziò il 4 giugno del 1391, quando una folla inferocita fece irruzione nella judería di Siviglia, devastandola e massacrando 4000 appartenenti alla comunità.  Da quel momento eccidi di massa, saccheggi e distruzione di sinagoghe si moltiplicarono in tutta la Spagna, portando alla decimazione degli ebrei residenti, fino alla loro definitiva espulsione dai confini, avvenuta nel 1492. L’autrice ripercorre le varie fasi delle persecuzioni, attraverso le rivolte e le stragi avvenute in diverse città spagnole e portoghesi (Toledo, Cordova, Segovia, Lisbona), le prime leggi razziali sulla limpieza de sangre promulgate nel 1449, il feroce contributo giuridico fornito dal Tribunale dell’Inquisizione istituito nel 1478, le condanne al rogo, l’emigrazione coatta verso altri paesi europei (nelle Fiandre, innanzi tutto, ma anche in  Italia, nelle sedi privilegiate di Ferrara, Venezia e Livorno), verso l’Oriente e il Nuovo Mondo. Ciò che tuttavia risulta più interessante e originale nell’indagine di Donatella Di Cesare è l’approccio alla condizione psicologica dei marrani, al loro destino di doppiezza esistenziale, di scissione del sé, di perdita e recupero delle radici, di ciò insomma che Ludwig Wittgenstein (anche lui cattolico di origini ebraiche) aveva confessato riguardo al proprio perpetuo non riconoscersi: “Ich kenne mich nicht aus”.

Costretti a una conversione forzata, i marrani non facevano più parte della famiglia giudea: venivano sentiti come traditori, transfughi, apostati. Alcuni di loro, accettando il cristianesimo, finirono per goderne i vantaggi, sposandosi con nobildonne cattoliche, intraprendendo carriere di successo, ricoprendo cariche influenti persino all’interno della Chiesa, arricchendosi con guadagni tratti dal commercio, e provocando in tal modo invidie e risentimenti nella popolazione. Altri rimasero in segreto fedeli alla religione degli antenati, aderendo a riti, preghiere e festività negate in pubblico e praticate di nascosto in privato, tramandate con timore e senso di colpa ai discendenti, rese spurie e destinate all’oblio dalla sporadica e incerta frequentazione.

In un capitolo intitolato, con penetrante intuizione, L’altro dell’altro, Donatella Di Cesare sottolinea quanto fosse ibrido lo status dei marrani che gli spagnoli avevano inglobato al loro interno con il fine e la speranza di preservare la propria identità dal corrompimento con una “razza” odiata. Se prima l’altro, l’ebreo, era esterno, “distinto e ben riconoscibile, una volta introdotto a forza nel corpo della cristianità restò altro, ma all’interno. …Il marrano, costretto a un’emigrazione interiore, restò tuttavia differente, inassimilabile, ereditando l’alterità dell’ebreo. Eppure ebreo non era più – anzitutto agli occhi degli ebrei”. Secondo l’autrice, questa condanna alla differenza, a un’immagine ambivalente e discordante, finì per rendere unica e irriducibile a schemi mentali obsoleti la figura del marrano, facendone l’antesignano della modernità. Nel suo tormentato scrutarsi, sorvegliarsi, diffidare degli altri e di sé stesso, alla ricerca continua di una memoria da preservare o di un’origine da rifiutare, fu l’iniziatore di un percorso esplorativo verso l’interiorità, che lo portò ad avventurarsi lungo i sentieri della mistica, come Teresa d’Avila, o quelli della filosofia, come Spinoza: sempre in dissonanza con il pensiero comune, anticipatore di una diversa sensibilità e di teorie innovatrici, in religione come in politica. “L’angoscioso oscillare tra inserimento e marginalità”, tra palese e segreto, dentro e fuori, ha fatto del marrano il paradigma dell’uomo moderno, espressione di un’individualità continuamente ridiscussa, e di una coscienza lacerata che ha saputo insinuare “il seme del dubbio, il fermento dell’opposizione” all’interno delle ideologie contemporanee. Lo stimolante saggio di Donatella Di Cesare, esposto in una prosa limpida e lineare, nel ripercorrere le varie fasi di una tragedia europea e poi universale, ci interroga sull’importanza ancora oggi basilare dei concetti di identità, memoria, riconoscimento, accettazione dell’altro da noi, e dell’altro che è in noi.

 

© Riproduzione riservata         https://www.sololibri.net/Marrani-Di-Cesare.html      14 maggio 2018

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

INTERVISTE

DI CESARE

RECENSIONI

VIVINETTO

GIOVANNA CRISTINA VIVINETTO, DOLORE MINIMO – INTERLINEA, NOVARA 2018

Sulla copertina, due profili si fronteggiano, uno maschile e uno femminile, a suggerire il rispecchiarsi scisso di due personalità in una, di due corpi che si appartengono nella stessa pelle, riconoscendosi, cercandosi, rifiutandosi. Corpo e pelle sono infatti i sostantivi più reiterati in questi versi, realtà materiale e concreta a cui ancorarsi, da cui è impossibile e ingiusto prescindere.

La giovane autrice di questo intenso volume di poesie, Giovanna Cristina Vivinetto (Siracusa, 1994), si racconta sdoppiandosi in voci distinte e tuttavia compenetrantesi: la sua di oggi e quella dell’infanzia, la sua di figlia/figlio e quella di una madre presente-assente, il bisbiglio intimorito dell’autocoscienza e quello imperioso, giudicante, della società. Parla di perdita e scoperta, di morte e rinascita, metaforizzate in mani che si aprono carezzevoli o si chiudono severe, in luce e oscurità, in perdoni richiesti e rifiutati. La cesura, il taglio a cui spesso questa scrittura fa riferimento è senz’altro un accadimento fisico, ma insieme supera la fisicità, nella nostalgia di un’integrità recuperata (le due metà del mito del Simposio?) all’interno di un abbraccio amorevole e comprensivo, di un ritorno al ventre materno, all’umida conca di un terreno boscoso: che difenda, protegga e ricomponga. Quello di Giovanna è un continuo interrogarsi e interrogare, sé stessa e la natura, senza recriminazioni, anzi spesso cercando una razionalizzazione che si esplicita in terminologie scientifiche e mediche, con una prosaicità tesa ad arginare l’emotività dell’espressione poetica. Che tuttavia fuoriesce, irrefrenabile, dolore minimo che non accetta silenziatori: «Sarà che la voce interna fiorisce / solo a forza di strappi e toppe / mal ricucite – da lì sguscia l’anima».

La simbiosi con la figura della madre, il sovrapporsi del punto di vista tra chi ha generato e chi è stato generato, e chiede di essere messo al mondo di nuovo, trovando una corrispondenza fiduciosa e un incoraggiamento verso l’approdo a una vita realizzata, è affettuosamente evidente negli esiti più toccanti della scrittura: «Così l’attesa era la tua. / Aspettavi da anni come si attende / la salute ai piedi di un malato, / come chi ha perso qualcuno / smaltisce il male sulle scale / di casa. Quegli occhi erano / una preghiera, un inno muto / alla rinascita».

Giovanni e Giovanna si confrontano e si comprendono, uno nei confini dell’altra, in attesa dello schiudersi del bozzolo che li serra anima e corpo, aprendosi finalmente a un volo leggero: «Ci vollero diciannove anni / per prepararsi alla rinascita, / per trasformare la distanza tra noi / in spazio vitale, il vuoto in pieno, / il dolore in malinconia ‒ che altro / non è che amore imperfetto. Aspettammo / i nostri corpi come si aspetta / la primavera: chiusi nell’ansia / della corteccia. Capimmo così / che se la prima nascita era tutta / casualità, biologia, incertezza ‒ l’altra, / questa, fu attesa, fu penitenza: / fu esporsi al mondo per abolirlo, / pazientemente riabilitarlo». Ecco quindi che la voce giovane e matura di Giovanna Cristina Vivinetto sa fare dono della sua esperienza sofferta agli altri, anche a chi non capisce, a chi teme, a chi giudica. Ripercorrendo gli anni nelle varie sezioni del libro, da Cespugli di infanzia a La traccia del passaggio, fino al superamento del Dolore minimo in una ritrovata e consapevole ricomposizione di sé, l’autrice affronta una trasformazione, una metamorfosi, una migrazione (come suggerisce Alessandro Fo nella postfazione) che avviene attraverso la conquista della parola poetica, unica parola che salva tra le tante altrui (sbagliate, superficiali, indiscrete): «Per acquietare il male che lo assale / il poeta lo canta. // … Così il mio male si estingue / su ogni mio verso. Lo canto, / lo urlo per liberarlo dal groviglio / di pelle che ha contagiato».

© Riproduzione riservata         https://www.sololibri.net/Dolore-minimo-Vivinetto.html       12 maggio 2018

 

 

RECENSIONI

LUXEMBURG

ROSA LUXEMBURG, UN PO’ DI COMPASSIONE – ADELPHI, MILANO 2007

Nel cortile del carcere di Breslavia dove era stata imprigionata nel 1914, Rosa Luxemburg (1870-1919) assistette a una scena di incredibile violenza nei confronti di due bufali, che trainavano un carretto di masserizie sotto la sorveglianza di alcuni militari. Ne fu profondamente colpita e scandalizzata, e la descrisse così in una lettera alla sua amica Sonia Liebknecht:

«Il soldato che li accompagnava, un tipo brutale, prese allora a batterli con il grosso manico della frusta in modo così violento che la guardiana, indignata, lo investì, chiedendogli se non avesse un po’ di compassione per gli animali. ‘Neanche per noi uomini c’è compassione’, rispose quello con un sorriso maligno e batté ancora più forte… Gli animali infine si mossero e superarono l’ostacolo, ma uno di loro sanguinava… Sonička, la pelle del bufalo è famosa per essere assai dura e resistente, ma quella era lacerata. Durante le operazioni di scarico gli animali se ne stavano esausti, completamente in silenzio, e uno, quello che sanguinava, guardava davanti a sé e aveva nel viso nero, negli occhi scuri e mansueti, un’espressione simile a quella di un bambino che abbia pianto a lungo. Era davvero l’espressione di un bambino che è stato punito duramente e non sa per cosa né perché, non sa come sottrarsi al tormento e alla forza bruta… gli stavo davanti e l’animale mi guardava, mi scesero le lacrime – ma erano le sue lacrime; per il fratello più amato non si potrebbe fremere più dolorosamente di quanto non fremessi io, inerme davanti a quella silenziosa sofferenza. Quanto erano lontani, quanto irraggiungibili e perduti i verdi pascoli, liberi e rigogliosi, della Romania! … E qui …questa città, ignota e abominevole, la stalla cupa, il fieno nauseabondo e muffito, frammisto di paglia putrida, gli uomini estranei e terribili e… le percosse, il sangue che scorre giù dalla ferita aperta. Oh, mio povero bufalo, mio povero e amato fratello, ce ne stiamo qui entrambi così impotenti e torpidi e siamo tutt’uno nel dolore, nella debolezza, nella nostalgia… Intanto, i carcerati correvano operosi qua e là intorno al carro…  il soldato invece ficcò le mani nelle tasche dei pantaloni, se ne andò in giro per il cortile ad ampie falcate, sorrise e fischiettò tra sé una canzonaccia. E tutta questa grandiosa guerra mi passò davanti agli occhi… Sonjusa, carissima, siate nonostante tutto calma e lieta. Così è la vita, e così bisogna prenderla, con coraggio, impavidi e sorridenti – nonostante tutto. Buon Natale!»

Lo scrittore austriaco Karl Kraus lesse la lettera, ne rimase fortemente impressionato, e la pubblicò sulla sua rivista di satira politica Die Fackel nel 1920, affiancandola a un malevolo commento (veritiero o inventato) di una lettrice «megera», proprietaria terriera di Insbruck, che derideva la sensibilità eccessiva della rivoluzionaria comunista verso gli animali. Ciò offrì a Kraus agio di esprimere tutto il suo dissenso e l’indignazione nei riguardi del brutale potere che aveva condannato e poi ucciso la coraggiosa teorica del comunismo, di cui elogiava «l’umanità e la poesia», e «l’anima così elevata». Rosa Luxemburg, filosofa ed economista polacca di origine ebraica, esiliata a Zurigo per motivi politici, trasferitasi a Berlino aderì al Partito Socialdemocratico e divenne la principale esponente della fazione di sinistra, prendendo posizione contro il revisionismo e contro il modello leninista di organizzazione del partito. Nel 1916 promosse l’insurrezione spartachista, e venne uccisa nella repressione che ne seguì. La sua opera fondamentale fu Die Akkumulation des Kapitals (1913), un prezioso contributo allo studio della politica imperialista.

In questo libriccino pubblicato da Adelphi nel 2007, e corredato da una ricca postfazione di Marco Rispoli, la lettera della Luxemburg occupa solo sette paginette. Sono però antologizzati altri scritti, di Franz Kafka, Elias Canetti e Joseph Roth, tutti indaganti il rapporto che intercorre tra la coscienza dell’uomo e la sofferenza degli animali, esplorato con particolare empatia e partecipazione dal pensiero filosofico e letterario nel corso degli ultimi due secoli (a partire da Schopenhauer, Dostoevskij, Nietzsche, per arrivare a molti poeti contemporanei, anche italiani), capace finalmente, dopo millenni di indifferenza e sfruttamento nei riguardi dell’ambiente, di identificarsi con il dolore di tutte le creature.

Un po’ di compassione, come quella che una donna intransigente e perpetuamente in lotta come Rosa Luxemburg manifestava per il bufalo sanguinante, “povero e amato fratello”, vittima innocente e indifesa della brutale violenza e del sadismo dell’uomo.

 

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https://www.sololibri.net/Un-po-di-compassione-Luxemburg.html                  10 maggio 2018