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RECENSIONI

PORTELLI

ALESSANDRO PORTELLI, IL GINOCCHIO SUL COLLO – DONZELLI, ROMA 2020

“I can’t breathe. I can’t breathe”: non posso respirare, ripetuto undici volte dall’afroamericano George Floyd, il 25 maggio 2020 a Minneapolis, mentre l’agente di polizia Derek Chauvin lo teneva per otto minuti bloccato a terra con un ginocchio sul collo. Alessandro Portelli ricostruisce quel tragico episodio e il movimento di protesta di massa che ne è seguito, inserendoli all’interno dell’ininterrotta sequenza di violenze praticata dalla polizia americana negli ultimi decenni, per risalire poi al racconto delle discriminazioni razziali e delle disparità sociali che hanno segnato la storia secolare degli Stati Uniti. Lo fa utilizzando materiali letterari e cinematografici, canzoni di protesta, cronache giornalistiche e giudiziarie, con riferimenti anche all’attualità italiana e al dibattito internazionale sulla cancel culture. Portelli (Roma, 1942), critico musicale, storico e anglista, ha dedicato molti saggi alla letteratura afroamericana e alle tradizioni popolari orali: è stato professore ordinario di letteratura angloamericana all’Università “La Sapienza” di Roma, e dagli anni ’70 scrive su Il Manifesto.  Il ginocchio sul collo non è il suo libro più recente (sono usciti altri volumi in italiano e inglese, tra cui il fondamentale We shall not be moved. Voci e musiche dagli Stati Uniti (1969-2018), con 4 CD-Audio), ma senz’altro rappresenta una testimonianza appassionata dell’impegno culturale e politico dell’autore contro ogni violenza di stato. Facendo riferimento all’omicidio di Floyd, scrive: “C’è qualcosa di mitologico nell’immagine del poliziotto col ginocchio piantato sul collo di George Floyd: san Giorgio che calpesta il drago sconfitto, la divinità purissima che schiaccia il serpente, il cacciatore bianco sull’elefante ucciso in safari. Sono figure della vittoria della virtù sulla bestia, della civiltà sul mondo selvaggio… E del bianco sul nero. Ma in questa immagine il senso si capovolge: l’animale è quello che sta sopra e calpesta, e la vittima calpestata è quella che invoca il più umano e insieme il più simbolico dei diritti: il respiro”.

L’assassinio di George Floyd ha scoperchiato un intreccio di contraddizioni e ingiustizie sedimentate nel tempo, provocando la reazione dei moltissimi uomini e donne di ogni età, neri, bianchi, ispanici “senza parola e senza rappresentanza”, che finalmente hanno urlato la loro rabbia di fronte alla disuguaglianza crescente, alla precarietà, allo svuotamento della democrazia e alla violenza poliziesca diffusa, che solo nel 2020 ha causato più di due uccisi al giorno. Le imponenti manifestazioni che ne sono derivate, protrattesi per mesi, hanno coinvolto milioni di persone, suscitando reazioni solidali e allarmate nell’opinione pubblica mondiale (soprattutto tra i giovani e i militanti per i diritti civili), e interventi legislativi mirati a correggere lo strapotere repressivo, esercitato militarmente, dei corpi di polizia. Davanti all’ingiustizia di tante morti di afroamericani, impressiona rileggere le parole di Huckleberry Finn riportate in epigrafe del libro: “S’è fatto male qualcuno?”. “Nossignora. È morto un negro”, a ribadire che black lives don’t matter.

Il volume segue coerentemente la traccia della denuncia etica e politica, sia negli interventi di taglio più spiccatamente giornalistico e di cronaca, sia nelle documentazioni raccolte dall’autore nei suoi frequentissimi viaggi in America, per risalire infine alla ricostruzione storica degli ultimi due secoli di sopraffazione della civiltà occidentale bianca sulle minoranze e le popolazioni più povere.  Tre sono le vicende esemplari recuperate dal passato, in cui dominio e repressione dei bianchi si sono scontrate con la violenza delle rivolte nere: la ribellione degli schiavi a Charleston nel 1822, la sommossa ad Harlem nel 1943, i disordini esplosi nel ghetto di Los Angeles nel 1992. Alessandro Portelli narra questi episodi con la vivacità e la partecipazione emotiva del romanziere più che del distaccato saggista, interrogandosi sulla discrepanza tra l’intensità e la complessità dalle proteste e “l’inossidabile capacità della cultura dominante di non sentire, non vedere, non capire”.

Dal 2013 al 2020 le persone uccise dalla polizia negli Stati Uniti sono state 8264, per il 28% afroamericane, ma molto più numerosi sono state le vittime tra i nativi indiani; vengono uccisi individui considerati “sospetti” in termini di colore, di classe, di genere: si tratta quasi sempre di indigenti ritenuti potenziali criminali, a volte trovati in possesso di armi improprie, a volte valutati come ostili o provocatori. Il pregiudizio razziale è comunque prevalente, e l’elenco degli ammazzati fornito da Portelli, con le circostanze che hanno condotto alla loro eliminazione, è impressionante. Bruce Springsteen ha ammesso in un’intervista: “Incombe ancora su di noi, generazione dopo generazione, il fantasma della schiavitù, il nostro peccato originale e il dilemma irrisolto della società americana”.

Perché i poliziotti sparano in maniera indiscriminata e ingiustificata, contro obiettivi di solito indifesi? Tra le cause elencate da Portelli sono da considerare il disprezzo per il diverso, la certezza dell’impunità (nel 99% dei casi non c’è stata nessuna sanzione nei confronti degli agenti responsabili), lo spirito di corpo, l’incompetenza e la paura. Anche le forze dell’ordine europee e italiane non sono esenti da tali responsabilità, e vengono citati come esempi i nomi di Aldrovandi, Cucchi, Magherini, Sandri…

Il terzo capitolo del libro, polemicamente appassionato, si intitola “Uomini di marmo”, e affronta il discusso argomento della cancel culture e dell’abbattimento delle statue erette in onore di discutibili personaggi storici, che si sono macchiati di crimini contro gruppi di etnie diverse. Negli States sono centinaia i monumenti, le targhe commemorative, le cerimonie e i titoli onorifici celebranti non solo gerarchi e militari sudisti, politici schiavisti, intellettuali che hanno legittimato il razzismo, ma addirittura membri e fiancheggiatori del Ku-Klux Klan, tutti uomini e tutti osannati molti anni dopo la morte, mentre nessun monumento è stato eretto in memoria delle migliaia di neri e nativi sacrificati nelle guerre nazionali e cittadine, pubbliche e private.

Portelli sottolinea con veemenza che “un monumento esiste perché qualcuno l’ha eretto, e l’ha eretto in qualche momento e con qualche intenzione: è un messaggio, un segno di quelle intenzioni… le statue, lungi dallo svolgere una funzione di memoria storica, congelano la storia in un passato monumentale spesso falsificato e negano tutta la storia che è venuta dopo… sono segni intenzionali con cui il potere presente afferma il proprio diritto di definire il significato del tempo storico e dello spazio pubblico”.

La lunga querelle riguardante la distruzione di sculture commemorative intitolate ai conquistatori ha una sua ragion d’essere: se è vero che Cristoforo Colombo appartiene all’immaginario collettivo degli italiani, alimentato da affetto e orgoglio, è anche indubbio che la colonizzazione dei territori americani ha comportato stragi, usurpazioni, oltraggi. Per rimediare all’ingiusta e colpevole parzialità delle varie rappresentazioni culturali (in marmo, carta, pellicole) non esiste solo la soluzione dell’abbattimento: tra iconoclastia e celebrazione si possono individuare altri percorsi di risignificazione, di commento chiarificatore, di accompagnamento critico. Senza aspettare che la polvere del tempo ricopra le testimonianze fallaci e che le statue celebrative si sgretolino da sole.

 

© Riproduzione riservata        «Gli Stati Generali», I gennaio 2024

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

RECENSIONI

SIMENON

GEORGES SIMENON, GLI ALTRI – ADELPHI, MILANO 2023

L’ultimo libro di Georges Simenon uscito da Adelphi, che da anni ristampa con successo l’opera omnia dell’autore belga, si intitola Gli altri, ed è stato pubblicato in Francia nel 1961. Non si tratta di un giallo, genere di cui lo scrittore è celebrato maestro, ma di un romanzo psicologico, ambientato nel secondo dopoguerra in una cittadina francese di provincia, pettegola e conformista, e circoscritto alla storia della numerosa ed eclettica famiglia Huet.

Utilizzando la formula del diario, l’io narrante Blaise – ventottenne docente di disegno all’Accademia di Belle Arti, sposato con Irène – scandisce la propria narrazione suddividendola nelle sette giornate seguite alla morte dell’anziano zio Antoine. Blaise ed Irène conducono una vita matrimoniale monotona ma appagante per entrambi, tradendosi vicendevolmente senza alcun sotterfugio o senso di colpa. D’altra parte, tutti i membri della dinastia degli Huet (fatta eccezione per il fratello di Blaise, Lucien, modesto giornalista cattolicamente ligio ai propri doveri di marito-padre-cittadino, e per alcune figure femminili, dignitose nella loro fragilità) non esitano a mostrare il loro lato peggiore, si tratti di smodate ambizioni per ottenere successi economici e professionali, o di condotte sessuali che oscillano tra la superficiale disinvoltura e la depravazione. In particolare il cugino Édouard, tornato in città dopo un’assenza di molti anni, collaborazionista e spia dei nazisti, truffatore più volte finito in carcere, catalizza su di sé l’ostile imbarazzo di tutto il nucleo familiare, restio a perdonarlo e ad accoglierlo nuovamente tra le mura domestiche.

Blaise si riconosce pusillanime nei confronti della moglie adultera, frustrato socialmente e culturalmente (“Sono solo un mediocre, lo so, ma un mediocre lucido, direi persino, senza esagerare troppo, un mediocre soddisfatto”), ma sa anche di essere il solo in grado di registrare lucidamente ciò che accade intorno, tentando di rinsaldare i logori rapporti che negli anni hanno allontanato genitori e figli, fratelli e cugini, coniugi e amanti. La città in cui vive gli assomiglia, gli è estranea e insopportabie: “città della mia infanzia, della mia adolescenza, dove la vita non aveva sbocchi e dove non restava che cercare di vincere la noia”.

Il funerale dello zio Antoine, il cui suicidio viene raccontato ad apertura del romanzo, scatena una guerra sotterranea tra tutti i parenti in vista della divisione ereditaria. Giurista potente e rispettato, oculato amministratore del suo ricco patrimonio, innamorato della giovanissima moglie Colette -donna affascinante e inquieta, psichicamente instabile, sospetta ninfomane -, Antoine Huet viveva in una signorile palazzo in Quai Notre-Dame, frequentato raramente e con reverenziale timore da tutto il vasto consorzio parentale. Le sue esequie diventano un avvenimento rivelatore cui tutta la famiglia si sottopone con ansia e turbamento, come se l’evento “morte” mettesse ciascuno di fronte alla propria meschinità di piccola, insignificante ed egoista creatura umana. La cerimonia nella cattedrale gremita di personalità importanti e semplici curiosi, vede i consanguinei a disagio, sospettosi e indaganti le intenzioni e aspettative altrui riguardo alle decisioni testamentarie del caro estinto. “Mi chiedevo che cosa ci facevamo lì, tutti quanti, a seguire dei riti che comprendevamo solo in modo approssimativo… Il tutto assomigliava a una grande, spettacolare liquidazione… Ce l’eravamo cavata con canti, paramenti, canonici, insomma una sfarzosa messinscena sproporzionata ai personaggi che eravamo”.

Neppure la notifica dell’eredità dello zio Antoine, con un più che dignitoso vitalizio alla giovane moglie, e le restanti proprietà divise tra i tre nipoti maschi Blaise, Lucien ed Édouard, cambia qualcosa nell’esistenza di chi è rimasto. In particolare, non modifica in alcun modo l’atteggiamento dell’io narrante Blaise, sempre più apatico e indifferente nei riguardi di sé stesso e degli altri. Quegli altri che Simenon ha lapidariamente omaggiato nell’essenziale  titolo del suo romanzo.

“La vita continua… Fuori, i lampioni si erano appena accesi. Ho camminato lungo rue de la Cathédrale, poi lungo rue des Chartreux, guardando le stesse vetrine di quando avevo sedici anni”.

 

© Riproduzione riservata          «Gli Stati Generali», 21 dicembre 2023

 

RECENSIONI

AAVV, FONDAZIONE MIGRANTES

FONDAZIONE MIGRANTES, IN FUGA – TAU, TODI 2023

Fondazione Migrantes ha realizzato una graphic novel rivolta soprattutto, ma non solo, ai giovani e ai più piccoli: In fuga è un volumetto illustrato di 36 pagine, pubblicato dalla casa editrice Tau, seguendo l’originale proposta creativa di un gruppo di fumettisti e sceneggiatori composto da Emanuele Bissattini, Valerio Chiola, Mariacristina Molfetta, Chiara Marchetti, Duccio Faccini e Manuela Valsecchi.

In primo luogo, è opportuno presentare le attività di Fondazione Migrantes, organismo pastorale della Conferenza Episcopale Italiana istituito nel 1987 “per accompagnare e sostenere nella conoscenza, nell’opera di evangelizzazione e nella cura pastorale dei migranti, italiani e stranieri, per promuovere nelle comunità cristiane atteggiamenti e opere di fraterna accoglienza nei loro riguardi, per stimolare nella società civile la comprensione e la valorizzazione della loro identità in un clima di pacifica convivenza, con l’attenzione alla tutela dei diritti della persona e della famiglia migrante e alla promozione della cittadinanza”. Le persone cui si rivolge l’attività della Fondazione, sono singoli, famiglie e comunità coinvolte dal fenomeno della mobilità umana, e in modo particolare gli immigrati ed emigrati stranieri e italiani, i rifugiati, i profughi, gli apolidi e i richiedenti asilo, la gente dello spettacolo viaggiante, i Rom, Sinti e nomadi.

Il fumetto, disegnato con immagini realistiche e vivacemente colorate, si basa sulle testimonianze rese da migranti nel volume Il Diritto d’asilo 2022 sui diversi trattamenti che vengono riservati a chi scappa dalle guerre a seconda del paese di origine. Presenta personaggi differenti per provenienza, lingua, sesso, età: interi nuclei familiari o singoli immigrati che provengono dall’Ucraina, dall’Africa o dal Medio Oriente, fuggendo da guerre e privazioni, attraverso percorsi dolorosi, subendo violenze fisiche, fame e umiliazioni di ogni tipo. Si chiamano Dimitry, Veronika, Rashid, Natalka, Amaka, Bidemi, Alì. Raggiungono sedi diverse in Italia, o riunendosi a familiari già residenti nel nostro paese, o alloggiati temporaneamente nei centri di accoglienza definiti CAS e SAI.

Uno degli operatori ritratti nel libro afferma: “Ci sono gli stessi problemi per situazioni sempre diverse”, e in effetti gli ostacoli da superare per chi arriva in Italia a prima vista sembrano simili: la sistemazione logistica, l’apprendimento della lingua, la ricerca di un lavoro, l’inserimento scolastico, il riconoscimento dei titoli di studio, la separazione dai parenti, l’impossibilità di fuoriuscire dallo stato senza perdere i diritti acquisiti, le esasperanti lentezze burocratiche.

In realtà esistono sostanziali differenze tra chi proviene da paesi europei come l’Ucraina, e chi invece è originario di altri continenti. Ai primi si offrono garanzie legali e premure più sollecite e solidali, dal punto di vista sanitario, educativo, giuridico; agli altri viene serbato un trattamento meno favorevole, e spesso discriminatorio nei risultati effettivamente conseguiti. Un motivo di più per riflettere e far riflettere i lettori sulla legislazione e sui diversi atteggiamenti messi in atto nel nostro paese che ama definirsi civile.

 

© Riproduzione riservata    SoloLibri.net           19 dicembre 2023

POESIE

DEDICA SENZA NOME

Vorrei che tu non fossi, caro,

o che non fossi per me. Che fossi

un’altra cosa, un altro, in altro spazio

e tempo, e di cui dire “c’è”.

Ma non per me, non dentro me.

Essenziale come quello che deve essere,

e il suo esserci fa bene,

è un bene che si riconosce,

che gli altri (tutti gli altri) sanno.

Ma a me straniero, come un oggetto

che esiste però non ci appartiene,

ed è utile, perfetto: così vorrei che fossi,

indipendente e non nel mio pensiero:

vorrei saperti senza volerti,

sfiorarti come le cose intorno

a cui siamo abituati, tanto

da non notarle, da non desiderarle.

Una finestra, una matita;

il cucchiaio, il calendario.

Così ti vorrei, non mio e altro,

quotidiano nell’uso e necessario.

 

 

In Un diverso lontano, Manni, Lecce 2003

 

 

 

INTERVISTE

BERENGO

VALENTINA BERENGO E LA POESIA

Valentina Berengo, veneziana, scrive di narrativa su quotidiani e riviste online, tra cui «Il Foglio», «minima&moralia» e «Il Bo Live», magazine dell’Università di Padova. Laureata in Ingegneria nel 2006, ha ottenuto un dottorato in Ingegneria geotecnica nel 2010. Nel 2016 ha pubblicato con Cleup il volume di racconti L’incanto dentro. È giornalista professionista dal 2021.

·       Dopo quale percorso di studi, e assecondando quale inclinazione personale, è arrivata a occuparsi di giornalismo culturale?

Al liceo classico ho capito che l’umanesimo è la mia dimensione interiore: ho iniziato allora a subire la fascinazione del mondo greco antico, dal mito alla tragedia. Quando, nel mezzo di un lutto emotivo molto grosso, cercavo qualcosa che potesse darmi un po’di sollievo, ricordo di essere salita su un treno per Firenze diretta a Palazzo Strozzi dove c’era una mostra sul Verrocchio e di aver respirato per qualche ora. Certo, sono laureata e ho un dottorato in ingegneria geotecnica: la matematica è un linguaggio che tutti dovrebbero poter parlare, e la pratica dell’ingegneria mi ha mostrato che c’è chi riesce ad abitare il mondo senza sentire il bisogno di speculare sull’interiorità umana. Ma non io: la letteratura è per me una chiave di accesso al senso dell’esistere, quindi a trent’anni ho deciso che la lettura e la scrittura, che coltivavo da sempre, sarebbero dovute diventare il mio lavoro. Ho iniziato così la gavetta nel mondo editoriale. Ho inventato progetti di diffusione del libro, rassegne letterarie, lavorato in redazione e all’ufficio stampa per due case editrici, iniziato a presentare autori in libreria e contemporaneamente a scrivere di narrativa sui giornali: ci ho messo un po’ a decidere di prendere il tesserino, ma credo che, a un certo punto, far coincidere il titolo con il mestiere possa aiutare – quantomeno gli altri – a capire chi sei. La domanda: “Che lavoro fai?” mi mette ancora in crisi, perché mi occupo di molte cose diverse, anche se tutte in ambito editoriale, ma la risposta: “Sono una giornalista culturale” è quella che ne comprende la massima parte.

·       Quali iniziative e progetti ha ideato e vorrebbe perseguire, sempre in ambito culturale ed editoriale?

Ho iniziato con un progetto di consigli di lettura in radio, Personal Book Shopper: dimmi chi sei e ti dirò cosa leggere, che segue l’adagio secondo cui ogni libro ha il suo lettore ed è importante che libro e lettore si incontrino nel momento giusto, filosofia che oggi sviluppo con il gruppo di lettura che coordino da anni alla Feltrinelli di Padova; mi batto per divulgare l’idea che non ci sia conflitto tra il sapere umanistico e quello scientifico-tecnico con una rassegna che ho fatto nascere a Padova e ora vive a Torino: L’anima cólta dell’ingegnere, e dal lockdown in avanti “porto” scrittori e scrittrici nelle case di chi ama leggere con Scrittori a domicilio, un canale online di presentazioni di libri. Poi organizzo rassegne per le Biblioteche, sono la editor di una collana di saggi divulgativi per il giornale dell’Università di Padova, e ho in animo di continuare a fare tutto questo, senza smettere di presentare autori e scrivere di libri, ma anche di ampliare l’orizzonte. La filiera del libro mi affascina tutta. È un settore complesso, sempre in sofferenza dal punto di vista economico, in cui le persone si muovono chiamate da una vocazione e da una punta di narcisismo. Voglio scandagliarlo ancora e fare del mio meglio per portare il mio contributo alla causa. Sto lavorando su un paio di progetti, ma per scaramanzia non dico ancora nulla. Incrocio le dita e continuo!

 

·       Nello spazio che i media dedicano ai libri, la poesia ha sempre un ruolo marginale. La diffidenza verso la forma poetica è dovuta a una scarsa diffusione, frequentazione ed educazione al testo letterario in versi, o al suo linguaggio non facilmente approcciabile? In che modo si può incoraggiarne la fruizione? Secondo la sua esperienza, i lettori di poesia in Italia sono in aumento, e in quale fascia d’età?

 

·       Le è capitato di intervistare poeti e poete, magari durante un festival o nel corso di una premiazione? Ha un ricordo particolare, un episodio simpatico, un’emozione suscitata dall’ascolto dei loro versi da raccontare?

Purtroppo solo due volte: centinaia e centinaia di romanzieri, e due soli poeti. Ma che poeti! Mariangela Gualtieri, online, che mi chiedeva di guardarla negli occhi (alle volte, mentre ascolto l’autore, ho la testa – letteralmente – nel libro, perché scelgo riferimenti, citazioni per offrirli alla domanda successiva) e mi sono emozionata sentendola recitare i suoi versi, e Imre Oravecz che, prima di ogni altra cosa, m’è sembrato profondamente umano.

·       Personalmente, lei legge poesia? Preferisce testi classici o contemporanei, italiani o stranieri?

La leggo, sì, e ancora con quella felicità della neofita: di chi non ha esagerato, non sa i retroscena, non conosce i trucchi del mestiere e può permettersi il lusso di seguire l’inclinazione e il momento. E si vede anche dalla varietà e dal disordine di ciò che leggo. Amo Szymborska, Gualtieri, Saffo, Saba, Tasso, Dickinson, Achmatova, Donne, Shakespeare, Hikmet, Merini e di recente mi sono innamorata di Alicia Gallienne, morta a vent’anni nel 1990, “scoperta” due anni fa in Francia da Gallimard e portata in Italia qualche mese fa da Molesini con la traduzione di Francesco Zambon. Quando leggo i poeti sento che sono, in qualche modo, baciati da Dio. Come sarebbe possibile, altrimenti, scrivere così a diciassette anni?

Ogni eloquenza del tuo cuore / Ti condurrà a ciò che Dio creò di più bello. / Il tuo viso ramificato extra-lucido / Sotto il vento degli alberi /  È certo già la vita che ricomincia. // Il mare sulla sabbia, / Posato come una conchiglia / E il tuo viso ancora su carta da lucido / Dietro la bruma delle acque, / È certo già uno sguardo nella notte. // Ma sempre la vita che fugge / Ma sempre la stessa immagine. / Ogni eloquenza del tuo cuore / Ti farà annegare / Nelle nuvole profonde / Dove si dimenano i pazzi. // Ma sempre la stessa immagine / Ma sempre la vita che fugge. // Non dimenticare che il mio amore rimane / Sulla neve del passato, / Sul vento degli alberi, / Sulla bruma delle acque, / Nelle nubi profonde, / In tutto ciò che mi ricorda l’eloquenza del tuo volto dimenticato. // È certo già la vita che ricomincia.”  Alicia Gallienne, 6 dicembre 1987

 

© Riproduzione riservata         «Gli Stati Generali», 14 dicembre 2023

 

 

 

 

RECENSIONI

DIANESE, BETTIN

MAURIZIO DIANESE, GIANFRANCO BETTIN – LA TIGRE E I GELIDI MOSTRI

FELTRINELLI, MILANO

 

“Strategia della tensione” fu la definizione coniata dal quotidiano inglese The Guardian subito dopo la strage di Piazza Fontana, per indicare il processo destabilizzante in atto in Italia negli anni tra il ’60 e l’80, anni contraddistinti da lotte sociali particolarmente combattive, e contrastate con forza dai governi dell’epoca, appoggiati da apparati chiave della nazione (magistratura, forze armate, forze dell’ordine, intelligence). Lo scorso 9 maggio, nella Giornata della Memoria delle vittime del terrorismo, il Presidente Sergio Mattarella ha affermato che le stragi di quel periodo sono state effettuate “con la complicità di uomini da cui lo Stato e i cittadini avrebbero dovuto ricevere difesa”, attraverso “gravi deviazioni compiute da elementi dello Stato, e per le quali avvertiamo ancora l’esigenza, pressante, di conoscere la piena verità”.

Il 20 giugno del 1980, pochi giorni prima di essere assassinato dai Nar a Roma mentre indagava sull’eversione nera, il sostituto procuratore Mario Amato aveva dichiarato di stare per giungere “alla visione di una verità d’insieme, coinvolgente responsabilità ben più gravi di quelle stesse degli esecutori materiali degli attacchi criminali”. Il volume di Maurizio Dianese e Gianfranco Bettin, La tigre e i gelidi mostri, appena pubblicato da Feltrinelli, si propone di mettere in luce quale fosse la “verità d’insieme”, l’oscuro ordito alla base di tale disegno sovvertitore, presentando materiali originali, nomi inediti di stragisti, e riflessioni sulle sentenze giuridiche emesse in interminabili, macchinosi e discutibili processi.

Il titolo scelto dagli autori per il loro libro esige una spiegazione. Nietzsche nello Zarathustra chiamava lo Stato “il più gelido dei mostri”, nella sua funzione autoritaria e repressiva di contenimento del dissenso. “La tigre” è una metafora riferita al grande cambiamento democratico che ha investito l’Italia nei decenni presi in considerazione, in cui una profonda trasformazione socioeconomica e culturale incoraggiava l’affermazione di atteggiamenti, ideologie e sensibilità radicalmente innovative e capaci di autodeterminazione, indipendenti dai modelli tradizionali. Tale evoluzione era stata prodotta da diverse cause: lo sviluppo industriale, la mobilità interna, la scolarizzazione di massa, i nuovi media, la crescita del reddito e dei consumi, i ruoli inediti interpretati dalle donne e dagli studenti, il diffondersi di teorie e prassi filosofiche e scientifiche come la psicanalisi e il femminismo. La minaccia rappresentata da questo movimento rinnovatore (the silent revolution) spaventava l’establishment politico, culturale, economico e industriale: secondo un detto sapienziale dell’Estremo Oriente, bisogna cavalcare la tigre per domarla, dirigerla e possibilmente renderla innocua.

Un piano di restaurazione era già in atto dalla fine del secondo conflitto mondiale, durante la Guerra fredda (1947-1991), programmato da settori cruciali dell’amministrazione degli Stati Uniti, presenti sul territorio italiano con basi militari proprie e della Nato, appoggiati da servizi e strutture militari e da gangli di potere occulti (come la Loggia massonica P2), da diversi settori dell’economia e dell’impresa, da aree della criminalità organizzata, di gruppi neofascisti (soprattutto Ordine nuovo, Avanguardia nazionale, Fronte nazionale e Nuclei armati rivoluzionari)    e di agenzie terroristiche internazionali come l’Aginter Presse. Tali settori pianificarono di  usare la tensione e i traumi provocati dagli attentati per condizionare in senso moderato e “centrista” una situazione che avrebbe potuto sfociare verso la proclamazione dello stato d’emergenza, con la sospensione della Costituzione o l’attuazione di un colpo di Stato, come in Grecia nel 1967 e in Cile nel 1973, mentre erano ancora in piedi le storiche dittature franchista in Spagna e salazariana in Portogallo, e si moltiplicavano i regimi militari in America Latina e altrove.

Carlo Feltrinelli afferma nell’introduzione al libro: “In Italia hanno agito, con il supporto di settori cruciali dello Stato, militanti e organizzazioni neofasciste che non solo praticavano azioni criminali e violente, ma concepivano la strage indiscriminata come forma di lotta politica e di condizionamento emotivo del paese”.

Infatti, agivano ancora in Italia molte figure compromesse col regime fascista e con la Repubblica di Salò, con l’intento di “destabilizzare l’ordine pubblico per stabilizzare l’ordine politico”.  II I maggio 1947 in Sicilia l’eccidio politico-mafioso di Portella della Ginestra, attuato dalla banda di Salvatore Giuliano al servizio dei proprietari terrieri, aveva provocato 11 morti e 47 feriti.

Su questo sfondo complesso e ambiguo si muovevano gli attori delle vicende raccontate da Dianese e Bettin, in una narrazione che pur utilizzando gli strumenti dell’analisi storica e dell’inchiesta sul campo, presenta anche la struttura e la vivacità del romanzo d’azione.

I tre episodi drammatici dello stragismo in Italia (Piazza Fontana a Milano nel 1969, Piazza della Loggia a Brescia nel 1974, Stazione di Bologna nel 1980) vengono riscostruiti puntualmente indagando nel retroterra ideologico degli attentatori, nell’ideazione e nella programmazione dei crimini terroristici, nell’individuazione di protagonisti e comprimari, nel rifornimento di armi ed esplosivi, attraverso un minuzioso resoconto di date, orari, incontri clandestini, testimonianze, registrazioni di verbali e interrogatori, e lo studio circostanziato di prove processuali e finanziarie , oltre a una “montagna di documenti, contributi storiografici, analisi storico-politiche”. Soprattutto ci si sofferma sullo scandaloso susseguirsi di depistaggi, insabbiamenti, occultamento di prove, suicidi e trasferimenti di appartenenti alle forze dell’ordine, citando nomi e ruoli dei responsabili e delle vittime delle falsificazioni e delle censure che hanno accompagnato vent’anni di attività sovversiva in Italia. Gran parte di questa documentazione è stata resa nota nella serie infinita di processi, inchieste giornalistiche, indagini della magistratura, cui si sono accompagnate spesso congetture velleitarie e interpretazioni pregiudiziali, nell’immaginario collettivo stimolato da un’incontrollata emotività e da suggestioni artistiche.

Il merito di questo nuovo volume di Dianese e Bettin, che già nel 1999 e nel 2019 avevano firmato insieme due pubblicazioni su Piazza Fontana, è quello di aver individuato e pubblicato i nomi degli esecutori materiali degli eccidi di Milano e Brescia, cresciuti fisicamente e ideologicamente negli ambienti fascisti veneti e lombardi. Di Verona, città con comprovate tradizioni reazionarie sia in campo politico sia in quello religioso, era Claudio Bizzari, militante di Ordine Nuovo, figlio di un funzionario di banca ex-repubblichino. Più volte indagato e denunciato per atti dinamitardi e diffusione di stampa sovversiva, con una formazione militare tra i paracadutisti del corpo degli alpini,

Bizzari avrebbe posizionato la bomba nella Banca Nazionale dell’Agricoltura, che provocò 17 morti e 88 feriti.

A Brescia invece l’indagine ruota intorno alla figura del ventunenne Silvio Ferrari, attivo militante neofascista nella sua città, saltato in aria dieci giorni prima dell’attentato del 28 maggio 1974 in Piazza della Loggia, mentre trasportava di notte sullo scooter un ordigno ad accensione programmata composto da un chilo di tritolo e nitrato di ammonio, destinato a esplodere contro l’agenzia pubblicitaria del “Corriere della Sera”. Se in un primo momento si era pensato a un incidente provocato dall’imperizia del ragazzo, nel corso degli anni si fece strada l’ipotesi (suffragata da numerose testimonianze e fotografie, in particolare della sua fidanzata Ombretta Giacomazzi) che la sua morte fosse stata stabilita dai suoi stessi camerati di Ordine nuovo, insieme a due ufficiali dell’esercito italiano con delicati incarichi istituzionali e a due ufficiali americani, come punizione per aver visto e parlato troppo. Il volume di Dianese e Bettin riporta nomi e cognomi di tutte le persone coinvolte sia nelle riunioni complottiste sia nelle indagini, spesso lacunose o fuorvianti. Quegli anni foschi restituiscono figure di ragazzi “che non si sottraevano all’idea di commettere una strage per odio politico e fanatismo ideologico e per venale interesse, di soldi e ruoli da acquisire nella struttura di potere occulta che li aveva ingaggiati. Ancor più…  sbalzano di fronte a noi l’infedeltà alla Repubblica e alle sue leggi, a cominciare dalla Costituzione, di uomini dello Stato disposti a tutto, anch’essi per tramare e interpretare il potere come arbitrio, per preparare una piena e palese assunzione di dominio”.

Dopo la morte di Silvio Ferrari, il 28 maggio in Piazza della Loggia venne fatta deflagrare una bomba durante una manifestazione sindacale indetta “contro l’aggressività criminale del neofascismo”: gli otto morti e un centinaio di feriti attendono ancora giustizia, dopo sei processi, di cui uno tuttora in corso.

Il clima politico italiano era all’epoca incandescente, non solo per l’avanzata elettorale del Movimento Sociale a cui si contrapponeva l’esito positivo del referendum sul divorzio, ma anche per l’intensificarsi di attentati, a cui l’Italia democratica tentava di rispondere sia in Parlamento (il Presidente della DC Arnaldo Forlani in un discorso del 72 a La Spezia aveva denunciato la pericolosità dell’offensiva reazionaria), sia per la coraggiosa attività di alcuni magistrati, come Vittorio Occorsio che aveva messo fuori legge Ordine Nuovo, e dopo di lui Mario Amato, entrambi uccisi dai neofascisti.

Sei anni dopo i tragici eventi di Brescia, fu Bologna ad assurgere a teatro di un’altra strage, la più efferata nella storia del nostro Paese, ancora una volta realizzata “non solo con l’attiva complicità e la copertura, ma con la condivisa pianificazione da parte di organi e apparati vitali dello Stato”.

85 morti, 200 feriti e una serie di processi da cui ancora non è scaturita la verità definitiva: sono stati condannati gli esecutori dell’attentato (Fioravanti, Mambro, Cavallini, Ciavardini, Bellini), tutti gravitanti nell’area di estrema destra, che dopo lo scioglimento di Ordine nuovo e di Avanguardia nazionale (nel 1973 e nel 1976), si era riorganizzata a livello nazionale, trovando sempre nel Veneto un ricettacolo operativo e ideologico di rilievo. Dianese e Bettin ipotizzano una collaborazione attiva da parte del veneziano Gianpietro Montavoci, esperto di esplosivi, reclutato come informatore dai servizi segreti con il nome in codice di Mambo, uomo di fiducia del leader triveneto Maggi (condannato in via definitiva per la strage di Brescia e dentro tutte le trame dell’epoca). Varie sentenze processuali avevano poi indicato in Licio Gelli, l’ex Gran maestro della Loggia massonica P2, il mandante della strage con la collaborazione di Federico Umberto D’Amato, ex capo dell’Ufficio affari riservati del ministero dell’Interno, e di Mario Tedeschi, ex senatore del Msi ed ex direttore del settimanale “Il Borghese”. Precedentemente erano stati condannati per depistaggio delle indagini lo stesso Licio Gelli, il collaboratore del Sismi Francesco Pazienza, gli ufficiali del Sismi Pietro Musumeci e Giuseppe Belmonte. La Procura generale ha poi ricostruito i flussi di denaro utilizzati per finanziare la strage, distratti da Gelli da conti del Banco Ambrosiano di Roberto Calvi (circa dieci milioni di dollari).

L’ attività criminosa della P2, insieme alla penetrazione gelliana nella finanza, nelle banche e nell’editoria, con l’asservimento del gruppo Rizzoli-Corriere della Sera, è riconducibile ai piani atlantici di prevenzione dell’espansione del comunismo in Europa, con l’impiego della controguerriglia psicologica che prevedeva anche il ricorso a stragi e pro vocazioni nelle varie forme delineate dall’operazione Chaos. Tale operazione era stata programmata dalla Cia e sviluppata nel 1967 su impulso del presidente Johnson per disorientare i movimenti degli anni 60 e 70 e le sinistre in tutto il mondo.

Malgrado queste cospirazioni internazionali e tutto il sangue innocente sparso, “il riformismo italiano ha prodotto frutti importanti: lo Statuto dei lavoratori, il Servizio sanitario nazionale, la riforma del diritto di famiglia, il divorzio, l’aborto, la riforma psichiatrica, l’obiezione di coscienza e il superamento del servizio militare obbligatorio, l’allargamento generale della sfera dei diritti e della partecipazione politica”. Di fronte all’avanzare delle destre e del sovranismo in Italia e nel mondo, “bisogna, di nuovo, cavalcare insieme alla tigre”, opponendosi al ritorno delle ombre oscure e feroci che hanno dilaniato la storia del secolo scorso e minacciano il progresso civile di quello attuale.

 

© Riproduzione riservata           «Gli Stati Generali», 10 dicembre 2023

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

nato,

RECENSIONI

LAMANTEA

ROBERTO LAMANTEA, LO STRAPPO BIANCO – INTERNO POESIA

Forse già dalle epigrafi che Roberto Lamantea (Padova, 1955) ha scelto come introduttive al suo libro di versi Lo strappo bianco, possiamo intuire quale sia il filo conduttore della sua riflessione poetica.

Louise Glück e Adam Zagajewski, scrivendo della “luce bianca / non più travestita da materia”, della “luce delicata che erra, svanisce / e ritorna”, sembrano alludere al dileguarsi del reale nella sua concretezza, quando sfuma in una impalpabile, evanescente luminosità. Luce bianca incorporea che, rischiarando ogni orizzonte, finisce tuttavia per confondere lo sguardo umano, incapace di spingersi oltre la consistenza delle cose.

Luce e bianco sono termini ricorrenti nel volume di Lamantea, quando parla del paesaggio “di luce in luce sfinito”, o del candore di ovatta cipria neve latte luna biancospino: bianco che si oppone al nero, alla minaccia della negatività. Questa luce, questo bianco dovrebbero rimandare al fiabesco, all’infanzia, alla genuinità, in contrapposizione alla prosaicità del reale… Ma “il metro del mondo / non sarà / un girotondo di fate /   e   zucchero e albe”, perché la storia non è mai innocente nelle sue vicende collettive e private, e il poeta ne è ben consapevole: “con le mani di terra / e corteccia / e linfa e spine / abbiamo arato colline / e sgozzato conigli // dalle zolle affiorano mani / e teschi”.

Il sangue versato da tutte le vittime di guerre a Treblinka, in Siria, in Iraq ne costituisce indelebile testimonianza.

Nemmeno la natura viene risparmiata da violenze e crudeltà, agite o patite. La metafora del bosco si ripresenta in tutte le sezioni del libro, anche in quelle dedicate a fugaci figure femminili che danno “sapore a un attimo distratto”, o a ricordi di vacanze adolescenziali. Il bosco, a cui è dedicata la prima sezione della raccolta, diventa simbolo di adesione panica all’esistenza, in un’apoteosi del vegetale (licheni foglie erbe rametti baccelli fronde muschi sterpi rami germogli rose glicini betulle) e dell’animale (scarabei insetti serpi ragni), in un tripudio di verde selvatico non addomesticabile, ma contemporaneamente può rappresentare una minaccia, nelle improvvise, abbaglianti visioni di pericolo e morte: “per mano ti portano per mano / nel bosco – non sentieri dossi rune / l’intrìco di rìvoli ex nidi / e spiume slavato è lingua / i fossi e rivi e cune / di terra dune piogge e brevi / d’attese, forse, e di slavati / sguardi – i cardi selvatici / di spine”. Subisce prepotenza e soprusi, il bosco, quando anche i suoi alberi vengono abbattuti e trasformati in carta, utile a stampare “poesia noiosa”; nello stesso tempo però si fa asilo e protezione di aggressive brutalità.

Chiaro e scuro si rincorrono in questa raccolta, sottolineati anche da frequenti variazioni nel registro stilistico: alla sonorità tutta giocata tra ripetizioni, rime e assonanze, innocui calembour – nostalgico richiamo ai girotondi, alle ninnenanne, alle cantilene dei bambini – si contrappone un audace sperimentalismo linguistico che utilizza allitterazioni, artifici eufonici, martellamenti ritmici, secondo la più collaudata lezione surrealistica. Eccone alcuni esempi: “snuda notte snìdia / in gola sfiorata / notte senza labbra vento senza labbra / notte sgozzata”, “ai denti fuoco e gioco / m’imbavo e rinasco / baco nel nido di terra nudo nel nudo di terra nido m’imbivo e bibo bulbo / e ovulo e ibisco e fiele / in vischio m’innesto e miele in ameba in ovulo // a rinascere terra // a rinascere terra”.

Anche i versi, differenziandosi nella lunghezza, variano da strofe pacatamente distese a distici contratti nell’allusività del significato: “nel giardino il sonno / tra le dita di un ragno”, e l’impressionismo descrittivo di molte composizioni si converte nella seconda parte del volume in una visionarietà più intimidatoria e ostile.

Una varietà di forme e contenuti che Lamantea ben riassume nel titolo ossimorico, dove lo strappo – di solito associato al rosso del sangue, al nero dell’affronto – esibisce la sua inoffensività nel bianco della resa.

 

© Riproduzione riservata    SoloLibri.net                    10 dicembre 2023

 

 

 

 

RECENSIONI

CRISCUOLO

GIORDANO CRISCUOLO, UN FATTO STRANO – ERETICA, BUCCINO (SA) 2023

In una torrida e silenziosa giornata di un luglio “appiccicoso”, il ventisettenne Antonio Maria Volpe – un giovane come ce ne sono tanti, appassionato di musica, gran lavoratore, comunista -, pranza con i genitori alle ore 13,30, bevendo molto vino. Esce in cortile per cercare un po’ di fresco e alle 13,50 padre e madre lo trovano sdraiato sull’amaca, morto. Il medico condotto del paese, subito avvertito del decesso, non crede alla versione fornita dai genitori del ragazzo, ritenendo invece che la sua morte risalga a ben tre ore prima.

Questo la premessa di Un fatto strano, romanzo breve di Giordano Criscuolo, scrittore ed editore salernitano, alla sua settima prova narrativa. In seguito i personaggi in scena si moltiplicano, tutti presentati con nome cognome ruolo mansione: la nonna, quattro amici, la cassiera di un supermercato, una vicina di casa, un hacker anarchico, due carabinieri. E la vicenda si complica, tramutandosi da spiacevole e doloroso resoconto della morte precoce di un individuo giovane e sano, in un ingarbugliato e insospettabile caso di cronaca nera.

Con un tono ironicamente sornione, uno stile conciso e puntuale che può ricordare il Camilleri dei primi gialli di successo (ma senza l’eccedenza dei suoi dialettismi), l’autore analizza i fatti scandendoli nel loro precipitoso incalzarsi, e addirittura registrandoli nella successione di minuti e ore, sulla falsariga di un verbale di polizia. La parodia del giallo d’azione con contorni mafiosi diventa sarcasticamente surreale, nell’insensata ricostruzione degli avvenimenti.

Gli amici testimoniano di essersi intrattenuti al bar con Antonio dalle 11,15 alle 11,45 parlando di “stronzate”, la cassiera del supermercato racconta di averlo visto entrare in negozio alle 11,50, per uscirne subito dopo con aria malinconica e smarrita. Il rientro a casa del giovane, avvenuto precisamente alle 13,10, segnala un vuoto di 80 minuti su cui le indagini riescono a imbastire solo supposizioni. A questo punto entrano in gioco due misteriosi uomini in nero con occhiali scuri, una sorta di “Man in Black” strapaesani, che si introducono nella casa del morto, entrando di soppiatto nella sua stanza e rubando un diario. Alle 14,24 i due uomini in nero vengono ammazzati per strada da altri due uomini in t-shirt e calzoncini corti, che appropriatisi del diario, lo consegnano alle 14,40 al capo-cupola locale, il quale dopo averne ridicolizzato il contenuto, lo brucia.

Spetta al giovane e biondo hacker Francesco Barba Micillo, amico fraterno di Antonio, offrire la reale versione dello svolgersi degli accadimenti: “So tutto”, esordisce. Ed è un tutto, quello che narra, fatto di divagazioni, censure, turbamenti, tra i cui balbettamenti distorti si delinea una storia torbida di mafia, vendette di paese, scambi di persona, trasferimenti di denaro, omicidi reali e morti virtuali.

Francesco e Antonio a quindici anni avevano trascorso una vacanza in Puglia insieme ad altri amici, incontrando un gruppo di ragazze sarde con cui avevano stretto amicizia. Antonio si era innamorato di Caterina, figlia di un boss dell’isola, che dalla nave che la riportava a casa era stata gettata in mare da due sicari assoldati da un potente nemico del padre. Del delitto era stato accusato il fidanzatino Antonio, che in un susseguirsi di minacce e ricatti durati più di un decennio, avrebbe dovuto lui pure essere eliminato. Spetterà al lettore, senz’altro incuriosito dalla rocambolesca vicenda, scoprirne l’inaspettata e imprevedibile conclusione, con il sottinteso ammonimento etico.

Il romanzo di Giordano Criscuolo, in cui vero e falso si sovrappongono confondendosi e smentendosi vicendevolmente, si situa nella scia delle commedie del teatro greco e romano da Aristofane a Plauto e Terenzio, poi riprese da quello cinquecentesco di Machiavelli e Bibbiena, dalla commedia dell’arte seicentesca fino al settecento goldoniano, là dove improvvise agnizioni, rapimenti, sotterfugi, burle e menzogne sortiscono l’effetto di svelare la corruzione dei costumi, la violenza e i soprusi del potere, l’ingiustizia sociale. Così infatti il protagonista definisce la trama, nell’ epilogo conclusivo: “una farsa portata in scena da gente piccola e da altra gente un po’ più grossa. Quando il sipario cala, mentre seduti tra il pubblico sembra che qualcosa ci sfugga e vorremmo chiederne di più al vicino, la gente piccola rimane sul palco a pulire, quella più grossa va per locali a brindare. Quelli come noi sono piccoli pesci in un mare di squali e i piccoli pesci vengono sempre mangiati dagli squali e dai pescatori”.

Ma per sfuggire ai pescecani si può (si deve!), scombinare le carte, inventare stratagemmi, e soprattutto sbeffeggiare i colpevoli: “una risata vi seppellirà”, si diceva in tempi più coraggiosi dei nostri.

 

© Riproduzione riservata    SoloLibri.net    3 dicembre 2023

 

 

 

 

 

 

RECENSIONI

GALEANO

JUAN CARLOS GALEANO, AMAZZONIA – DEL VECCHIO, FIRENZE 2023

Juan Carlos Galeano (poeta, saggista e traduttore) è nato nel 1958 nell’Amazzonia colombiana; emigrato negli Stati Uniti, insegna oggi all’Università della Florida. Oltre ad Amazzonia ha pubblicato un altro volume di versi e due antologie di miti indigeni. Anche in questo più recente lavoro, oggetto della sua riflessione ideologica e letteraria è il popolo della foresta, radicato nel mondo di animali e piante che il grande fiume – materno, paganamente divino – attraversa e nutre.

Delle cinquanta composizioni qui raccolte con testo spagnolo a fronte, la prefatrice Serenella Iovino sottolinea giustamente il tratto animista che accomuna in maniera metamorfica “delfini, alberi, ragazze, uccelli, serpenti, perfino oggetti all’apparenza inanimati”. Di questo universo Juan Carlos Galeano si fa interprete e avvocato difensore, come esplicita nell’epigrafe del volume: “Culture e specie viventi che non si connettono e non si scambiano con altre, si isolano, si impoveriscono, si indeboliscono. Vivere implica elaborare, tradurre e interpretare il mondo per andare avanti”.

Un impegno programmatico che lo scrittore traduce in versi simili a preghiere corali, a cantilene che mantengono l’ingenuità e la purezza dei girotondi infantili. In essi troviamo ricordi personali (il bucato steso al sole, la cameretta tappezzata da poster devozionali e profani, le notti passate a osservare il firmamento), flash di feste paesane, processioni e spettacoli teatrali, ma soprattutto la ribadita alterità degli indios, con le loro leggende e usanze, con la malinconica resistenza alla civilizzazione conquistatrice e la paura di un’espropriazione della propria cultura. Ragazzi che legano un filo intorno al collo degli avvoltoi facendoli volare come aquiloni, ragazze che si innamorano del fiume e vorrebbero diventarne le spose, bambini trasportati dalle madri in canoa e poi abbandonati nella foresta, adulti timorosi di affrontare nelle città le auto e le motociclette, villaggi impazziti di gioia per la pioggia.

Se il padre di Galeano si era trasferito con la famiglia in Amazzonia spinto dall’ideale di insegnare agli indigeni a pensare, il figlio poeta finisce per sodalizzare con la scelta dei nativi di continuare a vivere in un luogo stregato, in cui succedono cose incomprensibili alla nostra ristretta logica occidentale: le dita di una mano si trasformano in serpenti, le foglie degli alberi diventano banconote per arricchire le piante più povere, mari e monti giocano al tiro alla fune, un anaconda si addormenta solo se avvinto al corpo di un uomo, scimmie fanatiche e tartarughe giganti si aggirano minacciose a presidiare il suolo, di cui da sempre sono legittime padrone.

Tripudio delle acque del Rio amazzonico, e di cascate, torrenti, diluvi scroscianti, laghi profondi e pacifici (“Un lago è un essere solitario che non vuole problemi”), abitati da sirene, bisce, pesci esotici (gamitana, piranha, pirarucu, tucunaré…) e da pescatori che li sventrano ridendo, accerchiati dai volteggi di delfini acrobatici. Tripudio di aria e cielo, con nuvole danzanti che vanno a svernare a New York (“Le nuvole appaiono e scompaiono come se fossero pensieri”), tuoni e fulmini, satelliti, pianeti e stelle così matte da richiedere le cure di uno psichiatra.

L’immaginazione dell’artista, redivivo “Ovidio amazzonico”, rianima le cose morte come nelle fiabe di Andersen, resuscitando miti, leggende, trasfigurazioni miracolose in uno spazio magico, innocentemente sensuale.

Per il vorticoso sovrapporsi di visioni e colori, l’invenzione poetica di Juan Carlos Galeano si potrebbe accostare all’esperienza surrealista, ma in realtà è più vicina ai dipinti naif, agli sgargianti murales sudamericani, a rutilanti caleidoscopi, come nella più rappresentativa delle poesie qui antologizzate, Leticia: “Il sole e le nuvole si giocano a carte il mezzogiorno. / Quando vincono, le nuvole lasciano cadere pesci e delfini nelle strade di Leticia. / (Se perdono, scendono a prendere il sole coi turisti). / I pesci fanno i tassisti e quando scende la notte salgono a dormire tra le stelle. / Nei cortili delle case i delfini suonano la chitarra e fanno innamorare le ragazze. / Il cuore ardente di una nuvola dice che non può più competere con il sole. / Si ubriaca e si butta nel fiume vestito. / Il sole ogni notte fa il mangiatore di fuoco per il circo che viaggia lungo il fiume, / e poi fa il bagno coi delfini e le ragazze”.

 

© Riproduzione riservata          «L’Indice dei Libri del Mese” n. XI – Novembre 2023

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

INTERVISTE

CRISCUOLO

Intervista a Giordano Criscuolo, fondatore di Eretica Edizioni

Intervista a Giordano Criscuolo, fondatore di Eretica Edizioni

Ha pubblicato i romanzi Le parole che non scrivo (2005), Come su un solco di Morrison Hotel (2009), 1000 anni con Elide (2010), All’aurora sulle stelle e altre storie del sottosuolo (2011), Il meraviglioso vinile di Penny Lane (2015), Fiabe sorprendenti per principesse e disobbedienti (2021), Un fatto strano (2023).

 

  • Spinto da quali stimoli intellettuali ha deciso di dedicarsi all’attività editoriale? Che funzione ha avuto nella scelta della sua professione l’ambiente familiare e culturale in cui si è formato?

A sette anni lessi L’Inferno di Topolino e ne fui rapito, illuminato. Capii subito che le lettere avrebbero forgiato la mia vita. Mi chiudevo nella mia stanza, tiravo le tende e, alla luce soffusa di una candela, sfogliavo la Divina Commedia.
Non la comprendevo ovviamente, ma ne ero affascinato. Quelle illustrazioni di Gustavo Dorè, quelle terzine così misteriose, così armoniose… una magia. Tentavo di scrivere anch’io qualcosa e avevo chiesto a mio padre di prestarmi le penne e il calamaio che, conservate amorevolmente, usava ai suoi tempi a scuola: ero entrato nella parte del poeta, ma non sono mai riuscito a scrivere un verso. Eppure per me non era importante scrivere qualcosa, era importante stare lì in quel momento, alla luce di quella candela, fermo, sognante, in attesa. Casa mia era piena di libri e smarrito tra quelle pagine ingiallite ero il bimbo più felice del mondo. Attenzione: io non ero un genio, sia chiaro, quei libri non li leggevo (leggevo i fumetti, non riuscivo a pronunciare la C di ciliegia, correvo con gli amici, guardavo Mazinga e UFO Robot, mi facevo male), semplicemente i libri li sfogliavo e rimandavo coscienziosamente la lettura a quando sarei diventato grande. Mia madre era insegnante, mio padre pittore.
A casa mia si leggeva di tutto, mio padre aveva una cultura vasta, complessa, sofisticata. Studiava i filosofi, lo zen, la medicina cinese, la fitoterapia. Aveva un alambicco da Mago Merlino e, da appassionato erborista, distillava tutte le piante medicamentose e balsamiche del nostro territorio. Ambienti del genere lasciano un segno indelebile, ricordi possenti.

  • Ci può illustrare brevemente la struttura e la storia delle edizioni Eretica, spiegando le motivazioni di un nome così particolare?

Dopo il liceo, affascinato dalle arti di mio padre, mi iscrissi alla facoltà di Erboristeria. La realtà, però, era diversa dalla mia idea romantica e umanistica di verde, natura e pozioni magiche. L’esame di Chimica generale e inorganica mi mise di fronte a un bivio… senza pensarci due volte scelsi la strada del ritorno e rincasai. Una sera, mentre combattevo con i miei pensieri (che ne sarà di me? cosa farò della mia vita?), mio padre entrò nella stanza e mi disse: “Tu canti, suoni, scrivi, leggi. Vuoi iscriverti a Ingegneria?”. Capii allora che il mio mondo era quello delle Lettere e mi iscrissi a Discipline Letterarie. Quel nuovo percorso, dopo varie tribolazioni, mi ha portato a fondare Eretica. Porto il nome della Casa Editrice nel mio. I miei genitori mi chiamarono così in onore di Giordano Bruno. Il nome me lo suggerì mia moglie e rappresenta me stesso con tutta la forza che le parole riescono ad avere.

  • Quante collane sono presenti nel vostro catalogo? Pubblicate anche ebook, e se sì, ritenete che il formato elettronico possa rappresentare un’alternativa vincente rispetto al libro cartaceo? Avete un blog, e come è organizzato?

Attualmente abbiamo una collana di poesia, una di poesia e pittura/fotografia, una di narrativa contemporanea e infine la collana Piccola Biblioteca Eretica, con la quale pubblichiamo grandi autori noti e meno noti del passato.
L’anno scorso abbiamo provato a pubblicare diversi titoli in formato elettronico, ma le vendite sono state del tutto deludenti. Per questo motivo, senza escluderli del tutto per il futuro, abbiamo deciso di sospendere la pubblicazione di ebook. No, non abbiamo un blog ma una bellissima pagina su Instagram.

  • Quali sono le vostre pubblicazioni che hanno ottenuto più riconoscimenti di critica e di pubblico, e secondo lei per quali motivi?

Chi ha polvere spara e I grandi scrittori non mangiano di Donato Montesano e il romanzo Una ferita in fondo al cuore di Anna Danielon sono titoli che hanno venduto molto. Si tratta ovviamente di racconti e romanzi scritti benissimo, letture che riescono a incantare i lettori.
Il vero motivo del loro successo, tuttavia, sta nella smisurata passione di chi li ha scritti. In questi anni abbiamo pubblicato opere bellissime di autori che alla fine si sono dimostrati disinteressati e che a pubblicazione avvenuta sono letteralmente scomparsi. La promozione degli autori, e non solo di quegli autori che pubblicano con piccole Case Editrici come Eretica, ma anche di quelli che hanno la fortuna di pubblicare con i colossi, è vitale.
È tutto. Bisogna inviare i libri ai giornalisti, ai blogger, ai premi letterari, parlare del proprio libro sui social. Una piccola casa editrice da sola può fare veramente poco. La pubblicazione di un libro non è un punto di arrivo ma di partenza.

  • Attraverso quali canali preferenziali riuscite a pubblicizzare i vostri prodotti, e che traguardi vi proponete di raggiungere, a livello di mercato e di incidenza culturale, dato che la lettura è sempre più minacciata da altri e più aggressivi mezzi di comunicazione? Le fiere e le kermesse editoriali servono, o è più efficace la pubblicità sui social e sulla stampa tradizionale?

Per promuovere i nostri titoli, ci avvaliamo principalmente dei Social Network, sfruttando quei pochi mezzi che abbiamo a disposizione.
Sebbene Fiere e Saloni siano indubbiamente importanti, per noi della piccola/media editoria possono rappresentare a volte una spada a doppio taglio: da un lato offrono visibilità, dall’altro si rivelano spesso poco sostenibili dal punto di vista economico. I costi degli stand sono sempre elevati, senza contare quelli relativi agli alloggi, ai B&B, ai viaggi, eccetera.
Pur potendo sembrare monotono e ripetitivo, ritengo che il vero “salone del libro” risieda sul nostro comodino, accanto al letto.


© Riproduzione riservata SoloLibri.net            29 novembre 2023