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RISPOSTE

AIRAGHI

Intervista ad Alida Airaghi, finalista al Premio Strega Poesia: “La storia siamo noi, tutti responsabili di qualcosa”

Alice Figini Pubblicato il 08-05-2024

La poetessa Alida Airaghi è finalista al Premio Strega Poesia con la sua ultima silloge Quanto di storia, edita da Marco Saya Edizioni.

Definire Quanto di storia un semplice “libro di poesie” appare quasi riduttivo, perché in queste pagine viene effettuato un catalogo ragionato del nostro tempo, unendo a catena avvenimenti storici e memoria individuale attraverso la luminosità chiarificatrice del verso che isola il sintagma del senso. I versi di Alida Airaghi possono essere definiti una forma di “poesia civile”: nel raccontarci gli episodi della storia contemporanea l’autrice non nasconde indignazione e impotenza, anzi, ce le trasmette con viva emozione e partecipazione, facendoci provare la medesima volontà di riscatto per avvenimenti che, talvolta, sembrano travalicare la capacità di comprensione umana.

La scrittura di Airaghi fissa sottoforma di date alcuni cambiamenti epocali che hanno travolto la nostra società – dalla strage di Piazza della Loggia alla caduta delle Torri Gemelle alla nascita di Facebook, sino alle guerre recenti in Ucraina e a Gaza – e lentamente li dipana attraverso i versi, come nel tentativo di disbrogliare una matassa intricata: dalla data, in un giorno qualunque inserito nel calendario, al senso storico e umano che toglie quel “giorno qualunque” dal suo apparente anonimato. È sempre l’umano a dare un senso alla Storia, forse senza gli uomini non esisterebbe neppure il concetto astratto di tempo né il tentativo di ordinarlo, calendarizzarlo, intrappolarlo in ore e minuti. In Quanto di storia il tempo assume un duplice volto: la memoria collettiva e la memoria individuale, proprio come ne Gli anni di Annie Ernaux, in cui viene narrata la vita di una donna che si incide nel solco di un’intera generazione lungo il filo di una storia condivisa.

La storia siamo noi, nessuno si senta escluso”, cantava Francesco De Gregori, Alida Airaghi ce lo rammenta attraverso versi che si fanno espressione dello “scandalo che dura da diecimila anni” narrato da Morante.

Ne abbiamo parlato in questa intervista toccando vari temi, dalla guerra alla pandemia, dai social network alla coscienza individuale.

  • Ha scelto di dare alle poesie il titolo di date storiche significative, che però forse non tutti i lettori riconoscono nell’immediato. È stata una scelta voluta? Voleva che fosse la poesia a svelare l’evento?

In un primo momento avevo affiancato alla data un titolo che identificasse l’avvenimento con più immediatezza, poi ho pensato che dovesse essere il lettore stesso a recuperare nella memoria la situazione collegata a un preciso, e spesso tragico, momento cronologico.

  • La silloge si muove entro i due poli della storia individuale: giovinezza e vecchiaia. La prima poesia si intitola Juvenilia e l’ultima De senectute, in cui si ritrae in due diverse età della vita. Scrive: “si cambia, si invecchia eppure restiamo gli stessi di sempre”. La vecchiaia è un artificio, in fondo si è per sempre giovani?

Sono convinta che ogni età abbia un suo dignitoso profilo, sia esso acerbo o maturo. Gli atteggiamenti giovanilistici degli âgée mi infastidiscono, mi sembrano alquanto patetici.
Personalmente, credo di essere sempre stata più “antica” che giovane, già da bambina e da ragazza. Posata, riflessiva, forse addirittura soporifera…

  • Mi ha colpito la scelta di mettere Giovanni Giudici in epigrafe. È una citazione che sottolinea la dimensione privata di quel grande calderone collettivo che è la Storia. Nelle poesie intreccia avvenimenti universali, ad altri più intimi e privati che tuttavia hanno lo stesso impatto di una guerra o di un disastro nucleare su una vita. Secondo lei quale dimensione prevale nella narrazione della storia: quella collettiva, oppure quella individuale? La Storia è un destino che schiaccia e a cui è impossibile opporsi?

Amo la poesia di Giudici, che riusciva a scrivere versi civili e privatissimi con lo stesso candido entusiasmo: parlava d’amore e di impegno sociale sentendosi parte di un tutto. Penso che così dovrebbe essere: siamo frammenti di un insieme, pur mantenendo la nostra individualità, la nostra minima rilevanza personale. E abbiamo comunque voce in capitolo, possiamo e dobbiamo esprimere i nostri sentimenti, le idee, le passioni, senza lasciarci travolgere dalla storia collettiva. Che io non vedo mai come un destino incombente e oppressivo, ma sempre nel suo svolgersi in una prospettiva di sviluppo, di miglioramento, a cui dobbiamo aderire positivamente.

  • Elsa Morante definiva la Storia come uno “scandalo che dura da diecimila anni”. Per Morante lo scandalo era il Potere, per lei è lo stesso?

Decisamente non amo il Potere, in nessuna delle sue espressioni: militare, finanziario, politico, religioso, e anche culturale. Credo abbia come obiettivo di manipolare e asservire l’individuo, violentando il diritto di ciascuno all’indipendenza di pensiero e azione. Ma non do invece un giudizio negativo della Storia, che – ripeto – considero come il risultato di una collaborazione umana verso il progresso, pur con tutti i tradimenti, gli stravolgimenti, le crudeltà e le ingiustizie di cui si può macchiare.

  • Definisce la morte di Borsellino una “congiura del silenzio” e allude alla sua agenda rossa scomparsa come metafora di una verità per sempre perduta. Questo silenzio, secondo lei, dura tuttora?

Mi sembra evidente che non sia mai stato alzato del tutto il sipario che copre tante stragi di mafia, le collusioni tra politica e alta finanza, i delitti efferati dei diversi terrorismi, le mistificazioni e la corruzione che serpeggiano nei palazzi del Potere.

  • Molte poesie sono dedicate alle stragi: dalla strage di Ustica a Chernobyl sino a Via D’Amelio. La poesia narra il dolore delle vittime, di coloro che non possono raccontarlo. La Grande Storia in fondo non è fatta di vincitori, ma di martiri?

Come canta De Gregori, “la storia siamo noi”, vincitori e sconfitti, eroi e disertori, tutti responsabili di qualcosa, nella buona o cattiva sorte. I martiri ci sono e ci saranno sempre, nei conflitti di ogni genere, sul lavoro, nella dedizione a un’idea, nella generosità del sacrificio. Luci nel buio, lampi di verità e coraggio, agnelli che aiutano il mondo a sopportare il male.

  • Nel libro tratta anche temi molto privati, tra cui una grave perdita. Inserire il proprio dolore nel solco della grande Storia aiuta, in qualche modo, a curarlo?

La morte di mio marito, nel ’91. La nascita delle nostre bambine, nel ’79 e nell’85. Due grandi gioie e un grande dolore. Felicità e sofferenza si compenetrano, e forse si compensano, continuamente. Il privato che ci coinvolge nel profondo spesso mette in secondo piano la Grande Storia. Che poi però riaffiora, ed è giusto sia così.

  • In 11 settembre 2001 si concentra sul crollo delle Torri Gemelle, forse nessuno prima le aveva immaginate come vittime, le aveva piante come vuoto, umanizzandole. Ci si concentra sempre sull’uomo che cade e di rado sulle due Torri. Pensa che le Twin Towers siano la metafora della crisi dell’Occidente?

Senz’altro il crollo delle Torri che sfidavano il cielo, nella loro pretesa onnipotenza, ha colpito l’immaginario universale, evidenziando la fragilità di un’America che si riteneva invincibile. L’orgoglio di Babele frantumato, ridotto in polvere: tutto quel fumo che nascondeva corpi carbonizzati… Come non ripensare al monito “ricordati che sei cenere”?

  • Dedica una poesia alla nascita di Facebook: il 4 febbraio 2004. La introduce come “un’idea vincente”, ma poi rivela il rovescio della medaglia. Qual è la sua opinione sui social network?

Non sono iscritta a nessun social, mi sembrano invadenti e schiavizzanti, nella loro presuntuosa e futile aspirazione ad imporsi, esponendo la quotidianità di chi li utilizza. Perché dovrebbe interessare ad altri dove passo le vacanze, che profumo uso, cosa mangio?

  • La storia contemporanea si muove tra tre avvenimenti terribili che lei narra in successione: la pandemia di Covid, la guerra in Ucraina e la guerra di Gaza. Racconta sempre le tragedie dal punto di vista dei civili, anche focalizzandosi sugli animali, vittime inermi del conflitto. Riporta gli eventi collettivi a una dimensione privata, individuale, che accresce l’impotenza. Scrive “nel vuoto del cielo che tace di un mondo saziato di pace”, non una preghiera ma una specie di atto d’accusa nei confronti della crudeltà innata degli uomini. L’uomo è per natura malvagio? Secondo lei non c’è nessun Dio?

Non credo in una Provvidenza che predilige un decimo della popolazione mondiale e condanna i restanti nove decimi alla fame, allo sfruttamento, alla mancanza di libertà. Soffrono i civili di Gaza, gli ebrei dei pogrom, la cagnolina della vecchietta ucraina: gli innocenti, gli innocui. Non esiste alcun Dio che possa giustificare quest’enorme ingiustizia. Ma credo nella possibilità di un riscatto finale, a cui dobbiamo contribuire tutti, come esseri umani. Nessuno nasce malvagio, la cattiveria si sviluppa nell’animo di chi si sente poco amato.

  • Nella poesia che chiude la silloge scrive “sappiamo di essere storia”. Cosa significa per lei “essere storia”? Qual è il suo rapporto con il trascorrere degli anni?

Pacificato, direi. Non sono ossessionata dal passare del tempo, dalle rughe, dalla morte. La vita inizia e finisce, è giusto lasciare spazio a chi verrà dopo di noi. Mi addolorano le morti precoci, di giovani che non hanno potuto realizzarsi come persone. In giugno compio settantuno anni, mi considero tra i privilegiati che hanno trascorso molto tempo sulla terra.
E non credo nell’immortalità individuale, in una mia esistenza in un qualsiasi opinabile al di là. Si spengono anche le stelle, finirà il sole, si polverizzeranno le galassie, Perché mai Alida dovrebbe vivere in eterno? Se sarò ricordata per alcuni anni da chi ho incontrato e amato, sarà già questo il mio felice paradiso. Tuttavia spero che l’umanità sopravviva in qualche modo, anche solo biologicamente, ridotta magari a un batterio (com’è stato all’inizio!) in cui sia compresa l’intera sua splendida storia millenaria: magari l’intelligenza artificiale ci aiuterà a capire come.

 

© Riproduzione riservata                  «SoloLibri», 8 maggio 2024

MAESTRI

MILOSZ

UN INCONTRO

Attraversavamo all’alba campi ghiacciati su un carro.
Un’ala rossa si levò nel buio.

E all’improvviso una lepre corse sulla strada.
Uno di noi la indicò con la mano.

È stato molto tempo fa. Oggi nessuno dei due è vivo,
Né la lepre, né l’uomo che fece quel gesto.

O amore mio, dove sono, dove stanno andando?
Il lampo di una mano, una striscia di movimento, un fruscio di ciottoli.
Lo chiedo non per pena, ma per meraviglia.

 

                                                                                                                            Czeslaw Milosz  (1911-2004)

RECENSIONI

CASTRONUOVO

PAOLO CASTRONUOVO, BUGIARDINO – CONVIVIO, CATANIA 2023

Un libro “come un referto improrogabile e necessario”, scrive Alfonso Guida nella prefazione a Bugiardino, piccolo volume di poesie di Paolo Castronuovo, parlando di una ferita non rimarginabile e di una cura posta al limite tra speranza e scacco. Il foglietto di indicazioni che accompagna ogni scatola di medicinali diventa nel titolo metafora della possibilità di salvezza da una malattia che attanaglia soprattutto l’anima, e come tale si scandisce in sezioni esplicative del contenuto, delle modalità di assunzione, degli effetti indesiderati e del metodo di conservazione.

La fatica di vivere viene avvertita già dal mattino: “una giornata inizia col peso / smisurato della luce / un fardello roboante di ferraglia”, e il prosieguo del giorno si svolge come in “un centro riabilitativo / senza infermieri”, dove “i libri sono sbarre di un carcere”.

Se “non c’è una via di fuga dal male”, spetta all’immaginazione più visionaria aprire mente e cuore all’evasione benefica; nei versi di Castronuovo le immagini si susseguono esplodendo nella loro ricchezza di colori, suoni, personaggi, come in un caleidoscopio di sogni bizzarri e vivaci: ballerine e rapinatori, sassofoni e lamiere accartocciate, elefanti e droni, pullman e compressori, urla e silenzio, deflagrazioni di bianco-giallo-nero. Scatti di luce e buio mimano la danza allucinata di percezioni visive e uditive scollegate tra loro, secondo la lezione mai superata del surrealismo, rivisitata dall’eredità della beat generation, con sprazzi di brutalità filmica alla Cronenberg: “una continuità fluente / senza logica ma con un filo tesissimo / un ritmo surreale, automatico, sostenuto, / la corsa del corpo e la pacatezza della mente / sedata dopata impazzita”. A tale ritmo sincopato si alternano momenti di quiete e riflessione malinconica: “L’urna della vita / è solo piena / di cenere // non vale la pena / piangere”.

 

© Riproduzione riservata                IBS, 17 aprile 2024

 

RECENSIONI

GROSJEAN

JEAN GROSJEAN, IL MESSIA – QIQAJON, BOSE 2024

Le Messie di Jean Grosjean uscì in Francia nel 1974: oggi lo ripropone la casa editrice Qiqajon di Bose nella limpida traduzione di Emanuele Borsotti, con prefazione del Cardinale José Tolentino Mendonça e un’appendice composta da sette “spigolature” di Christian Bobin.

Poeta, scrittore, teologo e traduttore (Parigi 1912 – Versailles 2006), Jean Grosjean fu ordinato prete nel 1939, tornando allo stato laicale dieci anni dopo. Pubblicò numerose raccolte di versi, principalmente di ispirazione religiosa, e innovative rielaborazioni di episodi biblici. Si cimentò in traduzioni impegnative, dai tragici greci a Shakespeare, dal Nuovo Testamento al Corano, ma il suo nome viene ricordato soprattutto per le originali interpretazioni dei testi sacri, tendenti ad approfondire ed espandere il loro significato letterale, esaltandone allo stesso tempo il valore letterario e l’atmosfera poetica. Proprio sul gioco ermeneutico instaurato tra scrittura, riscrittura e lettura si sofferma l’acuta introduzione al testo di Tolentino Mendonça, mentre Bobin sottolinea il carattere profondamente meditativo di Grosjean, il cui “cuore di cristallo”, “cuore sovra-illuminato” sapeva coniugare la sapienza teologica con uno stile elegantemente essenziale.

Nel Messia lo scrittore immagina, prendendo spunto dal materiale neotestamentario, in che modo Gesù possa aver trascorso i quaranta giorni tra la resurrezione e l’ascensione, traendone una narrazione sul filo del fantastico e del prodigioso. L’icastico e surreale incipit del romanzo presenta il Risorto accompagnato da altri morti tornati a vivere nelle sembianze di fantasmi, per rivedere i cari che hanno lasciato:Gesù camminava sotto le stelle. Doveva essere guardingo per riabituarsi a vivere. Si limitava a frequentare le tombe e il suo passaggio ne risvegliava gli ospiti. Per insignificanti che fossero stati, avevano avuto la sua stessa esperienza di naufragio. Si alzavano, pronti a fargli da scorta, ma lui li congedava gentilmente, lasciandoli impacciati nella loro resurrezione”.

Gesù sollevatosi dal sonno della morte si mette a sedere nel sepolcro e si libera dalle bende che lo avvolgevano, scavalca i corpi addormentati delle guardie e si incammina nella notte, “meravigliosamente malsicuro”, cercando di riambientarsi alla vita. Cammina a piedi nudi sull’erba rugiadosa di inizio primavera, ascolta le tortore tubare tra i cespugli, poi torna al sepolcro per spiare le donne e i discepoli che cercano il suo cadavere sparito, osserva Maria Maddalena angosciata davanti alla tomba vuota, e le rivolge parole di consolazione nella lingua dialettale che li accomunava in vita. Poi si allontana, senza lasciarsi toccare dalla donna che, dopo sua madre, aveva più amato.

Tornare a esistere, a confondersi con la gente, a godere nuovamente di ogni respiro, prima creatura risorta dal momento della creazione, è un’impresa vertiginosa nella sua unicità, richiede coraggio e prudenza: implica la solitudine più assoluta, perché oscilla tra il vuoto della morte e il troppo pieno di una vita che non offre appigli a cui aggrapparsi. Sulla strada per Emmaus il Messia incontra due viaggiatori, li riconosce ma non viene riconosciuto; parla con loro, cerca di scuoterne l’ottuso torpore. Non appena un vago turbamento li sfiora, forse un sospetto di verità, allora riprende il suo cammino solitario, invaso dallo stupore per la bellezza di ogni cosa che vede: fiori, sabbia, uccelli, rettili. Bellezza sconfortante, la civetteria della natura! Qualcuno si nasconde dietro l’incanto del paesaggio come fosse un’esca. È forse il Padre? “Gesù era solo, fra un Dio dalle tracce sfuggenti e una terra dalle apparenze ingannevoli”. Intanto gli apostoli raccolti nel cenacolo da tre giorni, rancorosi, si accusano a vicenda di aver abbandonato Gesù: quando lui si ripresenta, avverte in loro più imbarazzo che gioia, più timidezza che adesione. Anch’egli li sopporta a fatica, e tornato ad avvolgersi nella notte, viene illuminato dai bagliori delle armature di una schiera di arcangeli, mandati dall’alto a vegliare sul suo cammino. Umana realtà o sogno sovrumano, la sua figura è sospesa tra carne e spirito, concreta e immateriale nello stesso tempo. Dio tace, il Padre non si mostra.

Il Messia fa altri incontri, va in cerca di chi aveva preso parte alla sua vita terrena (Lazzaro con le sorelle Marta e Maria), ripete i miracoli che aveva compiuto durante i tre anni di missione pubblica, rivive la trasfigurazione sul monte Ermon, il rinnegamento di Pietro, lo strazio dell’abbandono nel Getsemani, rimmergendosi nel passato: “Così, senza mangiare né dormire, Gesù frequentava in segreto i luoghi che erano stati suoi e dove pensava di ritrovare il cammino verso il suo Dio, quel cammino che era stato doppiamente offuscato dai tormenti della morte e dalle sorprese della resurrezione”.

Grosjean inserisce nella topografia dei luoghi attraversati dal Risorto i nomi di piccole località della Borgogna (Montussaint, Crénu, Puessans), dove a lungo aveva abitato con la moglie, nel paese di Avant-lès-Marcilly, e introduce oggetti, architetture, suoni, cerimonie e personaggi sia novecenteschi sia di epoche lontane (il condottiero cartaginese Annibale, l’imperatore Tiberio), a significare che la Resurrezione è evento che si produce e rimane al di là del tempo e dello spazio. Infine, davanti a una piccola folla di proseliti, viene assorbito da una nube, sollevandosi da terra, mentre il paesaggio si fa sempre più lontano e il cielo si avvicina. Raggiunge finalmente il Padre, si pone alla sua destra, e insieme si incamminano “nella grande frescura degli spazi”.

Il Gesù di Jean Grosjean ci appare umanissimo e divino, nella sua fragilità di creatura risvegliata dalla morte e nella forza luminosa di una rinascita destinata a durare in eterno.

 

© Riproduzione riservata     «La Poesia e lo Spirito», 6 aprile 2024

 

 

RECENSIONI

CARRERA

ALESSANDRO CARRERA, SAPERE – IL MULINO, BOLOGNA 2023, p. 152

Alessandro Carrera, professore di Italian Studies e World Cultures and Literatures alla University of Houston, in Texas, è autore di numerosi volumi di critica letteraria, di romanzi e poesie; si interessa da sempre di musica, e per Feltrinelli ha tradotto tutte le canzoni e le prose di Bob Dylan, a cui ha dedicato diversi studi. È pienamente titolato, quindi, a interrogarsi – nel suo volume Sapere, edito da Il Mulino – sul valore della cultura e della sapienza che ad essa si collega nell’origine e nelle finalità: sapere inteso come “bene” non solo intellettuale, ma anche etico, civile, di collante sociale. “Il sapere non è né l’istruzione che ho ricevuto né la somma dei libri che ho letto. Inizia insieme all’umanità, ben prima che si formi la nozione di cultura. È, per prima cosa, il sapere delle origini…”

Quindi, il sapere è originario e collettivo, si differenzia presto dalla cultura, anche se spesso le loro strade si intersecano. Con un’azzeccata intuizione, Carrera definisce il sapere come l’inconscio della cultura, la quale può essere classificata, conservata in biblioteche, commercializzata e addirittura cancellata. Il sapere no, rimane, resiste, è indistruttibile, perché introduce alla visione delle idee, non ha una funzione eminentemente pratica. Il problema da porsi è come tramandarlo alle generazioni future, in maniera non dogmatica né gerarchica.

Il primo capitolo del libro si occupa proprio della gerarchizzazione del sapere, a partire dalle esperienze personali dell’autore: un suo primo impiego come caporedattore in un giornale di medicina e alimentazione alternativa, gli studi di estetica musicale, il trasferimento negli Stati Uniti nel 1987, un viaggio a Kyoto a visitare il parco Ryoanji. Esperienze che l’hanno convinto dell’irrilevanza delle teorie che pretendono di spiegare il reale, catalogandolo, quando invece vengono continuamente superate, modificate da nuovi paradigmi ideologici (hanno stancato molti -ismi idolatrati in passato: strutturalismo, personalismo, esistenzialismo, storicismo, cognitivismo ecc.). Al loro posto si stende un’orizzontalità assoluta, un vuoto che è anche immanenza ma in senso antigerarchico, disegnando una diversa topologia dei campi del sapere, dove non esiste “né sopra né sotto, né destra né sinistra”. Alla verticalità cristallizzata di valori – in scala a seconda della loro rilevanza e del loro prestigio culturale –, si sostituisce la ricchezza della compresenza di posizioni e situazioni non confrontabili tra loro, eppure ugualmente potenti. “I Beatles sono ‘come’ Stockhausen, Bob Dylan è ‘come’ Miles Davis”. Ogni prodotto culturale in futuro sarà letto con criteri interpretativi oggi sconosciuti: bisogna riuscire a considerare artefatti diversissimi tra loro sul piano della compresenza, pur sapendo che

appartengono a momenti temporali diversi e non paragonabili, per approdare a un pensiero non gerarchico, analogico, immediato. Il concetto di diacronia va relativizzato rispetto alla sincronia dei saperi nel momento in cui appaiono, globalmente e in maniera differenziata: la cultura dominante mezzo secolo fa oggi è considerata di nicchia, non più egemonica, e viene di continuo sostituita da nuovi saperi prima ritenuti periferici, di minoranza.

Quale sapere trasmettere, quindi, e come? Nel secondo capitolo Alessandro Carrera riflette sulla sua professione di docente, ora universitario, precedentemente in ogni grado di scuola. Ironicamente si definisce un disc jockey della cultura, dato che oggi i concetti di classicità, bellezza, significanza  sono stati profondamente modificati in senso funzionale: di efficienza, resa economica, produttività. Il tablet, nella sua piattezza unidimensionale, è più comodo del libro; la rapidità è preferibile alla lentezza; il progresso tecnologico è essenziale, mentre le discipline umanistiche non lo sono. Anzi, mancando di utilità pratica, costituiscono un privilegio.

Se il knowing how è più importante del knowing what, l’insegnante dovrà adeguarsi a una nuova metodologia di trasmissione del sapere, tracciando un ambiente di apprendimento non lineare, trasmettendo capacità di discernimento, idee, gusto, stile, e concependo collegamenti attraverso cui le opere confluiscono una nell’altra, in forme contigue che si incastrano tra di loro. Come fa il dj miscelando musiche diverse. Confessa Carraro: “Faccio girare qualunque remix riesco a trovare. Ho imparato a tagliare, mischiare, graffiare, campionare e sequenziare. Imposto le frequenze, passo da una playlist all’altra in dissolvenza incrociata e ci faccio sopra qualche rap. Ma sia chiaro che non sto insegnando nulla, e lo so benissimo. Certamente nulla di come è stato insegnato a me. Sto facendo il dj della cultura”. Insomma, l’interpretazione pare valere di più della comprensione, e la conoscenza non sembra importante quanto la comunicazione.

Ma anche la comunicazione presenta pericoli, equivoci, tranelli: negli ultimissimi anni, più che la pandemia, il cambiamento climatico, le guerre in Europa orientale e in Asia, o il divario economico tra i ceti sociali, l’opinione pubblica si è focalizzata su due problemi messi in luce dal movimento MeToo e dall’uccisione dell’afroamericano George Floyd a Minneapolis: le questioni riguardanti il sesso e la razza “hanno messo in gioco l’intera autopercezione della cultura occidentale, nonché di riflesso planetaria”, più di qualsiasi altro argomento politico internazionale. I gender studies e i race studies monopolizzano tutte le ricerche e discipline nelle facoltà umanistiche, provocando una radicalizzazione estrema delle scelte linguistiche

La political correctness e la cancel culture, pur giustificate negli obiettivi da raggiungere, utilizzano spesso metodi di sorveglianza sulla produzione scritta e orale capaci di creare faglie epistemologiche di difficile ricomposizione, senza riuscire a sanare le lacerazioni che qualsiasi approfondimento culturale e scientifico crea nelle coscienze più fragili. Quale soluzione si può proporre che non sia inibente nei riguardi delle varietà culturali? Forse, senza pretendere di fornire scandagli esaustivi di analisi alle nuove generazioni, basterebbe fornire loro ciò che è sufficiente “per passare all’azione, per vivere”, scendendo dalla cattedra, e ponendosi tutti assieme le stesse domande.

 

© Riproduzione riservata           «Gli Stati Generali», 30 marzo 2024

RECENSIONI

NATANGELO

MARIO NATANGELO, CENERE – MONDADORI ELECTA, MILANO 2024

Secondo Erri De Luca, che ha scritto una breve nota introduttiva a Cenere, quando muore la propria madre. “si sradica l’albero della vita e al suo posto si forma un vuoto di voragine”. Cenere è l’ultimo libro pubblicato dal vignettista satirico Mario Natangelo (Napoli 1985), che dal 2009 disegna le sue strisce per Il Fatto Quotidiano, dopo aver esordito su Linus, Samarcanda e L’Unità. Quest’ ultima opera è il resoconto a fumetti del lutto patito con la perdita della mamma, morta nel marzo del 2023 a 62 anni in seguito a una lunga e penosa malattia. Pochi giorni dopo le esequie e la cremazione, strazianti come succede in ogni addio definitivo, Natangelo ha iniziato a pubblicare sul suo quotidiano una trentina di tavole in cui raccontava la sua esperienza del distacco, offrendo insieme un affettuoso omaggio alla persona più cara.

Diario di un dolore intimo, privato, che sa farsi collettivo nel momento in cui riflette l’esperienza sofferta da molte altre persone, senza caricarla di retorica o pietismo, ma alleggerendola con una dose calibrata di ironia rivolta principalmente a chi racconta sé stesso e il mondo che gli ruota intorno.

Cosa fa un figlio adulto quando sua madre viene a mancare? Ripercorre la strada che ha condiviso con lei dall’infanzia, ricorda episodi minuscoli (tenerezze, impazienze, litigi, gite, canzoni), raduna e conserva gli oggetti più significativi, ripesca fotografie, legge testimonianze di autori che hanno patito lo stesso strazio (Barthes, Loewenthal, De Luca, Camon, Murakami), e soprattutto si rimprovera per le disattenzioni e le insofferenze con cui l’aveva ferita.

La prima tavola pubblicata su Il Fatto raffigura l’autore seduto su una barella del Policlinico Gemelli, alle due di notte, un’ora dopo il decesso di lei, mentre i parenti – raccolti intorno al cadavere disteso sul letto e coperto da un lenzuolo -, si tengono per mano, piangendo e recitando il rosario. Il commento irriverente del figlio esplode con sarcasmo: “Che terroni!”. Ma subito dopo vengono cercati proprio nei familiari più prossimi conforto, comprensione e vicinanza: nella sorella Anna, nelle nipotine, negli zii e soprattutto nell’ “amato padre”. Figura, quest’ultima, mal sopportata e bonariamente contestata, perché lontana dalla sensibilità materna e in perpetuo conflitto con l’erede maschio (“Dio dimmi: perché ti sei preso il genitore sbagliato?”), ma infine riscoperta proprio nella comunanza delle memorie e della nostalgia, al punto che gli si regala un cagnolino con l’intento di alleviarne la solitudine vedovile.

Dopo qualche giorno di sbandamento e incredulità, il dovere professionale riprende il sopravvento su chi scrive (“il lavoro è un ottimo posto in cui nascondersi dal dolore”), e l’idea di condividere con i lettori il proprio sconforto trova subito una rispondenza solidale nel pubblico, creando una comunione di reciproche confessioni e consolazioni. Nella ricorrenza del trigesimo dalla scomparsa della madre, Natangelo pubblica una caustica striscia contro la moglie del ministro Lollobrigida che gli procura critiche e querele, facendolo ripiombare nell’atmosfera straniante delle polemiche futili della carta stampata e degli scontri politici, e distraendolo crudamente dalla necessità di raccogliersi ancora nell’intimità del ricordo e del rimpianto. È “il primo passo nel dopo”, nel vuoto della perdita, nella mancanza di un sostegno insostituibile, ma anche nell’accettazione di un destino che accomuna tutti gli esseri viventi. L’ultima tavola firmata dal vignettista si intitola appunto “salvezza”, perché “nel dopo siamo tutti salvi”, quando qualcosa di fondamentale è finito, e altro ricomincia a vivere.

 

© Riproduzione riservata       «Gli Stati Generali», 25 marzo 2024

 

 

 

 

 

 

 

RECENSIONI

SCARUFFI

SILVANO SCARUFFI, ROMANZO DI CRINALE – NEO, CASTEL DI SANGRO 2024, p. 160

Romanzo di crinale è l’ultima originale opera di uno scrittore altrettanto originale, Silvano Scaruffi, che vive a Ligonchio (RE) lavorando come guardiadiga, e ha pubblicato una quindicina di romanzi,

moltissimi racconti e pièce teatrali. Teatrale è in qualche modo anche l’impianto di questo testo, basato su un fitto intreccio di dialoghi diretti, in un linguaggio che mima l’arruffato, inconcludente, ripetitivo, talvolta scurrile e sempre immaginoso, cianciare in un italiano dalle forti cadenze dialettali di un’intera comunità strapaesana. Ambientato in un borgo dell’Appennino tosco-emiliano, località senza nome ai piedi di una minacciosa montagna, animata da fenomeni mostruosi e inspiegabili, la vicenda si snoda tra minime storie di uomini e donne senza storia, personaggi bizzarri legati da una consuetudine esistenziale che li rende fraternamente solidali anche nei dissidi e nei fallimenti.

Il loro paesino è una realtà logistica immobile ed eterna, definita fisicamente dai suoi confini esterni più che dalle caratteristiche interne: “C’è un gruppo di case, ammucchiato su un rivone, streminato lassù dalla mano di un seminatore distratto. E intorno, monti a raggiera. Un ghippo appenninico dove l’aria sa di frontiera, la terra di colonizzazione, le persone di deriva”.

Questo paese è però minacciato da un esproprio territoriale, imposto da una società edilizia chiamata SIO, che intende costruire il Parko, con finalità mai chiaramente definite, ma esposte in incomprensibili dépliant distribuiti periodicamente agli abitanti (“Allora, se ci fate poi caso… fanno ʼsti depliant, quelli lì, della SIO, li stampano e li danno in giro per reclamizzare  il Parko, ma non ci si capisce mica una sega di quello che vogliono  dire”).  Gli indigeni reagiscono compattandosi in una resistenza sfiatata e parolaia, limitandosi a pretendere spiegazioni dal centralino telefonico sulle scosse che provengono dal sottosuolo, scrivendo sui muri Porko Parko, e a cacare provocatoriamente davanti ai cancelli dell’azienda.

In questo villaggio abbandonato da Dio e dalla civiltà, l’iniziativa dell’impresa immobiliare esprime la violenza di un arrembaggio capitalistico volto a stravolgere suolo e natura, calpestando i diritti di gente incapace di difendersi, che in realtà vorrebbe solo continuare a vivere la propria quotidianità senza essere disturbata da ingerenze esterne: “È inutile star lì a ridire che manca il lavoro, mancano le strade, mancano i servizi, manca questo e quello. Ormai l’abbiamo capita ʼsta fola: qua ci manca tutto. Ma a noi, può poi anche darsi che non ci serva niente”.

Chi sono le “persone di deriva” che animano il racconto, opponendosi a un progresso imposto dall’alto e non condiviso? Poveracci, gente stramba, che vive “di crinale”, raccogliendosi intorno all’unico posto in grado di accoglierli e ascoltarli: il bar, frequentato assiduamente dagli uomini di tutte le età, che bevono-fumano-bestemmiano-giocano a carte-litigano. Lo gestisce Brasco, che serve da bere ai rissosi Romma e Burasca, ascoltando le confidenze di Bunga (proprietario di una gatta, di un canarino e di un verme gelosamente conservato in un vaso di vetro: tutti e tre chiamati Bunga come lui) e le fantasie di Ginasio, allampanato boscaiolo in grado di predire il futuro ogni volta che si addormenta, mentre sua moglie Viola lo tormenta con rimproveri crudeli. C’è poi l’animalesco Bestio, che mangia uccellini vivi e beve olio dei motori, ossessionato da visioni horror scaturite dalla montagna che incombe terrifica, oppure dalle acque turbinose del lago: da lì sembra uscire nottetempo una figura mostruosa, un predatore gigantesco alto o due o venti metri: “Dicono scavi giorno e notte. Scavi e basta, tutto a picco e pala. E terra e pietre di risulta, le ammucchi qua e là, a secchiate”, mentre si susseguono spaventosi fenomeni atmosferici che terrorizzano l’intera comunità: “Qua va tutto a botaccio… Qua si sente crocchiare la terra sotto… Viene giù la casa. Presto o tardi, la casa verrà giù”.

Per esprimere paura e rabbia, la gente del paese conosce colorate imprecazioni e bestemmie (“Maledissa al diavle”, “Diavla impestada schiffa”, “Lurida vacca indemoniata”), intercalate a discorsi confusi e sgomenti, che fanno immaginare l’impossibilità di qualsiasi reazione contro il sopruso dei colonizzatori.  Invece improvvisa e inaspettata scoppia una rivolta contro la Sio e il Parko, che né impiegati e funzionari dell’azienda, né le guardie della sicurezza riescono a sedare. “I rivoltosi scardinarono il cancello della sede del Parko, si ammucchiarono all’ingresso. Spinsero e scancherarono, finché il por tone si incrinò, poi crollò… Invasero corridoi, stanze e uffici, risalendo le scale, ululanti e fitti, come una colonia di formiche legionarie. A un punto, i vetri delle finestre all’ultimo piano esplosero, le fiamme slinguarono fuori soffiando nella notte. Cenere e lapilli rotearono in aria, sospinti dal vento come insetti di fuoco. Piovve roba dal piano di mezzo, volarono fuori anche gli infis si delle finestre, sedie, scrivanie, schedari, computer, uno scroscio d’ufficio, poi il fuoco ghermì tutto”. Feriti, arresti, cala la notte nel silenzio di un incendio a mala pena domato, e il Romanzo di crinale si chiude senza specificare se “el pueblo unido jamás será vencido”, ma il lettore spera sia successo proprio così.

 

© Riproduzione riservata         «Gli Stati Generali», 22 marzo 2024

RECENSIONI

JEDLOWSKI, CERULO

PAOLO JEDLOWSKI, MASSIMO CERULO, SPAESATI – IL MULINO, BOLOGNA 2023

Il volume di Paolo Jedlowski e Massimo Cerulo, Spaesati, si interroga sulle esperienze di dislocamento (e relativo spaesamento) delle persone che, lasciati i luoghi in cui sono cresciute, si muovono abitualmente fra realtà geografiche – e quindi sociali – differenti. Persone che partono, ritornano, viaggiano senza essere costrette a emigrare da condizioni drammatiche di guerre, persecuzioni, povertà, cambiamenti climatici, ma spinte da ragioni più banalmente comuni, “per studio, per lavoro, per amore o per altri motivi”, in una sorta di pendolarità allargata, di mobilità fisica e mentale che talvolta implica il pericolo di una perdita di identità.

I due autori sono legati da una similarità biografica: uno, Jedlowski (Milano 1952), è il docente che si è spostato dal settentrione al meridione per insegnare Sociologia all’Università di Calabria; l’altro, Cerulo (Rossano 1980), è l’allievo che ha percorso il tragitto opposto, occupando diverse cattedre nella nostra penisola fino ad arrivare a quella attuale di Napoli.

Alternandosi, i due professori hanno scritto i dieci capitoli del saggio confrontando il proprio diverso vissuto di sradicati, indagando emozioni e nostalgie, successi e conquiste, smarrimenti e riscatti, scanditi dalle stesse faticose costrizioni: spostamenti in treno, pullman, aereo, automobile, soste in alberghi e bar, orari rispettati o stravolti, incontri arricchenti e dispersivi.

La “vita mobile” raccontata da Paolo Jedlowski prende le mosse dal suo trasferimento da Milano a Cosenza per raggiungere la moglie, l’impiego di entrambi in quella nuova e innovativa università calabrese, la nascita dei due figli, il rapporto con la provincia e la campagna. Con finezza psicologica e una patina di malinconia, la vita di genitori nonni zii viene ripercorsa nei trasferimenti obbligati o volontari, confrontati con gli esili che da sempre hanno costretto generazioni intere, nel corso della storia umana, a tagliare le proprie radici per riambientarsi altrove, patendo pregiudizi razziali, conflittualità caratteriali e linguistiche, stravolgimenti di abitudini consolidate. La pendolarità di docenti, professionisti, studenti, costretti a spostarsi tra varie città e abitazioni, settimanalmente o mensilmente, dividendosi tra impegni, amici, parenti, su e giù per l’Italia o addirittura con puntate regolari all’estero, oggi è diventata prassi comune e pressoché necessaria.

Anche Massimo Cerulo, calabrese formatosi nell’Università in cui insegna Jedlowski, ha imparato presto quanto disagio comporti la “spartenza”, termine che associa il distacco da casa alla lacerazione che tale distacco comporta. Per un giovane meridionale è tuttora giocoforza evadere da un sud atavicamente immobile, pena la disoccupazione, la sotto-occupazione, l’umiliante sensazione di fallimento personale. Doloroso partire, impossibile tornare senza sentirsi in colpa verso sé stessi e l’ambiente familiare che ha sostenuto economicamente e affettivamente il trasferimento altrove di un figlio promettente e dotato.

L’ISTAT ha recentemente evidenziato che negli ultimi dieci anni sono stati circa 1.138.000 i movimenti in uscita dal Sud e dalle isole verso il Centro-Nord, e circa 613.000 quelli sulla rotta inversa. Il bilancio tra uscite ed entrate si è tradotto in una perdita netta di 525.000 residenti meridionali. La regione del Mezzogiorno da cui partono più emigrati è la Campania (30%), seguita da Sicilia (23%) e Puglia (18%). Chi parte ha un’età compresa tra i 18 e i 35 anni (53%), è laureato o almeno diplomato, predilige come meta la Lombardia e l’Emilia Romagna.

Ovviamente, il pendolarismo non riguarda solo le categorie culturalmente privilegiate dei docenti e degli studenti: viaggiano in continuazione consulenti aziendali, tecnici, rappresentanti di commercio, camionisti, marinai dei cargo, hostess, piloti d’aereo, ferrovieri… Per tutti loro l’esperienza extra-ordinaria del viaggio si trasforma lentamente in pratica ordinaria, attraverso una strategia di quotidianizzazione messa in atto per sopravvivere all’impressione decontestualizzante di essere sempre fuori luogo, in un altrove che può concedere molta libertà (relazioni diverse, amori non esclusivi,

amicizie influenti, paesaggi sempre nuovi), ma implica anche sofferenza: “tensioni famigliari, stress, fatica”, e soste prolungate, perdite di tempo, snervanti routine, rituali ripetuti, mancanza di intimità, rimpianti su scelte mancate. Il desiderio di trovare casa convive comunque con la spinta a uscirne.

Sono molti i saggi e i romanzi citati da Jedlowski e Cerulo nei loro interventi, insieme a brani di interviste, film, trasmissioni televisive, poesie e soprattutto canzoni, quasi che una colonna sonora li abbia accompagnati nei loro spostamenti ad addolcire i momenti più malinconici di estraneità e disgregazione dell’io. Il sentimento della nostalgia è quello più esplorato, come inevitabile rievocazione di periodi trascorsi più felici di quelli presenti, ma anche come consapevolezza dell’impossibilità di ritrovare nell’oggi o in un ipotetico futuro le condizioni di vita, le persone e i luoghi così com’erano quando sono stati abbandonati. Nostalgia indagata insieme alla speranza, orientata verso il domani per controbilanciare lo sguardo rivolto a ieri: speranza di lasciare una traccia del proprio lavoro, un’eredità culturale ed etica, e forse anche speranza di una stanzialità che ripaghi del girovagare compiuto in tanti anni. Nelle intenzioni dei due autori, questo libro vuole essere un piccolo contributo a una «storia intima» d’Italia, nata dal confronto di tante esperienze diverse; noi lettori ne ricaviamo un riuscito esercizio di empatia verso “chi va e di chi resta” (per citare  Eugenio Montale).

 

 

© Riproduzione riservata      «Gli Stati Generali», 14 marzo 2024