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RECENSIONI

OGAWA

YOKO OGAWA, L’ANULARE – ADELPHI, MILANO 2007

Tradotta in molte lingue, amata e premiatissima in patria, Yōko Ogawa (Okayama,1962) è considerata una delle più importanti narratrici contemporanee giapponesi, esponente della corrente letteraria chiamata “black romanticism”, che esprime un punto di vista cupo e pessimista relativamente alla psicologia e ai sentimenti dei personaggi rappresentati. Le sue opere, perlopiù narrate in prima persona, si situano fra il genere realista e quello fantastico, con una eccedenza di elementi concreti da cui affiorano dettagli surreali, grotteschi o addirittura soprannaturali, comunque decisamente ossessivi e perturbanti. Le trame evitano il sentimentalismo e le situazioni esplicitamente erotiche o sensuali, fornendo spunti di azione a protagonisti alienati dal contesto storico e sociale in cui vivono. Con uno stile minimalista, limpido e descrittivamente puntuale, la scrittrice propone una narrazione scorrevole e priva di pretenziose artificiosità formali. I suoi romanzi e racconti sono stati pubblicati in Italia da Il Saggiatore e Adelphi: presso quest’ultimo editore è uscito nel 2007 L’anulare, che in Giappone aveva visto la luce nel 1994 con grande successo di pubblico.

Come succede prevalentemente nei romanzi e nei racconti di Ogawa, la voce narrante è quella di una giovane donna di cui non viene mai citato il nome, impiegata da un anno presso un misterioso laboratorio situato in un fatiscente ex collegio femminile. La ragazza, in un precedente lavoro come operaia in una fabbrica di bibite, aveva perso la punta dell’anulare sinistro, troncata da un macchinario e sbalzata a decomporsi all’interno di una bottiglietta di gazzosa. Questo antecedente, narrato con fredda indifferenza, nel prosieguo della lettura diventa metafora dell’oscillazione tra dissolvimento e ricomposizione della materia che pervade l’intero racconto. La perdita di una piccola parte del suo corpo non viene metabolizzata come lutto, ma vissuta invece con curiosità: “Un’immagine mi ossessionava: quel pezzetto di carne a forma di conchiglia, rosa come un petalo di ciliegio, tenera come la polpa di un frutto maturo, che cade al rallentatore nella gazzosa ghiacciata per poi restare sul fondo, fluttuando tra le bollicine”.

Il proprietario del laboratorio in cui la protagonista viene assunta, l’inquietante signor Deshimaru, impeccabile nel camice bianco che ne riveste l’asettica correttezza dei gesti e la pacata professionalità dell’eloquio, nell’assicurare alla nuova dipendente ogni garanzia professionale, mette subito in chiaro le proprie richieste di datore di lavoro: gentilezza con i clienti, puntualità, pulizia e discrezione. L’unica mansione spettante alla giovane sarà quella di accogliere gli avventori spiegando loro l’operatività della piccola azienda: custodire in teche trasparenti e sigillate gli oggetti di cui vogliono privarsi senza tuttavia perderli definitivamente, anzi affidandoli alla conservazione in un luogo protetto. Questi “esemplari” deputati alla cura sono testimonianze di vita, memorie di momenti fondamentali dell’esistenza di ogni cliente: “C’erano esemplari di ogni genere: bulbi di giacinto, anelli magici, calamai, forcine per capelli, carapaci di tartarughe, giarrettiere”. Una signora elegante chiede di immagazzinare il suono di un pezzo pianistico dedicatole dal fidanzato, un anziano vuole proteggere lo scheletro del fringuello che per molti anni gli aveva fatto compagnia col suo canto, una ragazzina desidera mantenere intatti tre funghi nati dalla cenere dell’incendio della sua casa, in cui erano morti i suoi genitori e un fratellino. La stessa adolescente in seguito chiederà di preservare la cicatrice della bruciatura che in quella tragedia le aveva inciso la guancia.

La cura maniacale con cui il signor Deshimaru si occupa della preparazione e catalogazione degli esemplari nelle stanze sotterranee a lui solo accessibili, è un indizio del suo feticismo per tutti gli oggetti, ad esempio per le scarpe che regala alla giovane dipendente, irretendola in una relazione sessuale prevaricante e nascondendole i lati più tenebrosi della sua attività. L’atmosfera gelida e ovattata del laboratorio in cui si svolge la vicenda, viene perfettamente resa dalla scrittura razionalmente distaccata di Yoko Ogawa, che esprime la sua analitica imperturbabilità soprattutto nella descrizione dettagliata di cose e ambienti, lontana da qualsiasi adesione emotiva. L’inatteso sacrificio finale della protagonista turba il lettore, interrogandolo sul significato della sostenibilità del dolore, della separazione da ciò che si è amato, della ferocia perturbante del ricordo, espressi nel desiderio di conservare per sempre almeno una traccia della propria sofferenza.

 

© Riproduzione riservata         «Gli Stati Generali», 26 novembre 2023

 

RECENSIONI

VANNINI

MARCO VANNINI, SULLA RELIGIONE VERA. RILEGGERE AGOSTINO – LINDAU, TORINO

 Il filosofo Marco Vannini (San Piero a Sieve, 1948) ha curato la traduzione italiana di tutte le opere, tedesche e latine, di Meister Eckhart, nonché di altri mistici antichi, medievali e moderni, dedicando loro numerosi studi. Autore di un’edizione bilingue del De vera religione di Agostino (2012) e di un Invito al pensiero di sant’Agostino (2014), nella sua ultima pubblicazione edita da Lindau si occupa ancora del Padre della Chiesa di Tagaste, con un volume intitolato Sulla religione vera. Rileggere Agostino, rielaborazione de La religione della ragione, uscito da Bruno Mondadori nel 2007.

Due sono le tesi fondamentali di questo nuovo saggio: che la Verità risieda all’interno dell’animo umano e che la fede cristiana coincida con la filosofia. Esaminiamo quindi questi concetti-base del volume, così come Vannini va analizzandoli nel corso delle pagine. Nell’estesa introduzione, l’autore stigmatizza il relativismo contemporaneo che induce le persone a crearsi delle credenze, sia in ambito religioso che in quello filosofico, sulla base di inclinazioni, valori e bisogni personali, avendo a progetto di vita esclusivamente la ricerca di una aleatoria felicità individuale, come viene suggerito da un diffuso ed effimero psicologismo, che non riconosce altre realtà se non il raggiungimento del benessere fisico e mentale della persona. Da questa rincorsa alla soddisfazione materiale derivano non solo le inquietudini e le fragilità che caratterizzano la società contemporanea (nonostante il proliferare di terapie, addestramenti e dottrine di ogni tipo), ma anche “lo svilimento del cristianesimo verso un banale umanesimo e filantropismo, con la perdita progressiva dell’elemento suo proprio di rinascita nello spirito”.

Parlare nel contesto attuale di “religione vera” e di “filosofia vera”, può richiamare negativamente un’idea di fondamentalismo, di fideismo acritico e intollerante. In realtà religione e filosofia sono attività rivolte allo stesso fine, cioè alla saggezza e conoscenza di sé, che esige una radicale conversione per la ricerca del Bene, da perseguire attraverso il rientro in sé stessi, nel distacco da ciò che è accidentale e molteplice, da ogni elemento legato al tempo e allo spazio, dalla dittatura del corpo e dalle esigenze esteriori imposte dalle mode sociali. Il raggiungimento della verità non dipende dall’obbedienza ai testi sacri e alle autorità ecclesiali, da liturgie e cerimonie formali, ma si ottiene con la rimozione dell’inessenziale, per recuperare la luce interiore, quella dello spirito, dell’Uno e dell’Eterno, seguendo la via che l’insegnamento neoplatonico, attraverso Agostino, ha introdotto nel mondo cristiano.

Il primo capitolo del volume, dedicato alla filosofia antica, presenta un denso excursus sul pensiero classico. Tutti i filosofi greci, dai Presocratici fino ai Neoplatonici, si proposero di indicare, più che un sistema teorico, un modello e un indirizzo di vita in grado di condurre alla saggezza, alla serenità, alla contemplazione dell’Eterno, impegnando l’intera esistenza in vista di una sua trasformazione. A partire dalle dottrine di purificazione di Pitagora, attraverso il severo richiamo socratico alla giustizia posta al di sopra di ogni contingenza storico-politica, si arriva a Platone che insegnava come filosofare fosse “esercitarsi a morire”, lontano da tutti i legami materiali e concettuali, per ascendere gradatamente dalla bellezza sensibile a quella intelligibile, fino alla contemplazione della luce immutabile che è il Bene in sé. Anche tutte le scuole post-aristoteliche ellenistiche e romane (epicurea, stoica, cinica, scettica, neoplatonica) declinarono in modi diversi la stessa esperienza: attraverso la pratica di esercizi spirituali e l’uso della temperanza e della continenza, si procede da una visione delle cose dominata dalle passioni individuali a una rappresentazione del mondo governata dall’universalità e dall’oggettività del pensiero. Plotino ammoniva “distàccati da tutto” (Áphele pánta) per approfondire la conoscenza interiore, che conduce alla comunione con tutti gli uomini e le cose, e attraverso l’ékstasis, all’Uno, fine ultimo, luce e perfezione.

Il secondo capitolo del volume esplora il concetto di religione nel suo duplice aspetto di mitologia e di mistica, da quando essa si confondeva con la magia e la superstizione, e veniva praticata per ricavarne benefici individuali o collettivi, fino a quando il cristianesimo dei primi secoli entrò in contatto con il mondo greco, assorbendone il concetto di filosofia intesa come meditazione, insegnamento e guida per l’esistenza. Di questo traghettamento dalla credulità popolare a un concetto più spirituale del divino fu artefice soprattutto Agostino (Tagaste, 354-Ippona, 430), negli anni giovanili profondamente influenzato dal pensiero scettico e neoplatonico che esortava a cercare nella propria interiorità la luce eterna di Dio. Nel testo De vera religione (389-391) scriveva infatti: “non uscire fuori di te, rientra in te stesso, la verità abita nel profondo dell’uomo”, ricalcando una terminologia decisamente plotiniana. In età più matura e rivestendo l’incarico di vescovo, Agostino privilegiò un’interpretazione della Bibbia e delle lettere di Paolo più fedelmente vicina alle proposizioni teologiche del cattolicesimo a lui contemporaneo, ergendosi ad accanito difensore della Scrittura. Non considerò più la religione subalterna alla filosofia, ma essa stessa Logos, essa stessa unica e vera filosofia. L’esperienza neoplatonica dell’identità spirituale uomo-Dio-cosmo, animata dal desiderio di unione mistica con il divino, venne così abbandonata in favore della visione biblica dell’alterità di Dio, secondo un’interpretazione puramente scientifico-teologica della Parola che ridusse il cristianesimo a dogmatismo, formalità rituali e pura esegesi dei testi sacri.

La critica di Marco Vannini alla pretesa storicità della Bibbia è implacabile, poiché ritiene i fatti in essa raccontati (a partire dalla Creazione) suggestive creazioni letterarie, la cui attendibilità è inficiata da incongruenze e contraddizioni, evidenziate in rigorosi studi epistemologici degli ultimi due secoli. L’Antico e il Nuovo Testamento sono il risultato di rielaborazioni create a partire dal VII secolo a.C. e protrattesi fino al II d.C, per imporre politicamene l’unicità di un dio, di un culto, e di un unico centro religioso, attraverso regole comportamentali, leggi sociali e fantasie apocalittiche che hanno finito per nutrire intolleranza e fanatismo, mettendo in secondo piano l’idea di spiritualità, di unione con il divino, di immortalità dell’anima. Le tesi coraggiose dell’autore, che molti esegeti ortodossi non esiterebbero a definire eretiche (un plauso alle edizioni di ispirazione cattolica Lindau che hanno pubblicato il volume), sottolineano come l’allontanamento dal pensiero filosofico greco abbia relegato il cristianesimo in una concezione materialistica e utilitaristica, immiserente anziché liberante.

Sarà il misticismo speculativo medievale a recuperare la preziosa eredità del pensiero classico, e appunto al misticismo Vannini dedica l’appassionata ultima parte del libro. Massimo esperto italiano degli scritti di Meister Eckhart, qui lo studioso toscano inizia invece la sua esposizione presentando la figura del castigliano San Giovanni della Croce (1542-1592), anch’egli profondamente debitore del neoplatonismo: solo dopo aver sperimentato la “notte oscura” del nulla, del vuoto, l’anima può risalire alla luce, connaturandosi a Dio che non è più oggetto di conoscenza, alterità alienante, idolo antropomorfico, ma puro spirito, unica identità con l’anima umana che si divinizza, diventando Dio e partecipando della sua luce. Tale percorso di salvezza per il carmelitano spagnolo può attuarsi solo con la rinuncia e il distacco da tutto, esattamente come insegnava Plotino: “la sostanza dell’anima, unita a Dio, assorbita in lui, è Dio per partecipazione di Dio”.

Nella storia del cristianesimo i mistici, accusati di sopprimere la distinzione tra uomo e Dio, furono emarginati, poco compresi e guardati con sospetto: eppure eliminando l’opposizione tra soprannaturale e naturale, tra divino e umano, hanno insegnato una verità riconosciuta anche dalle religioni orientali e dalla filosofia, cioè l’identità del Tutto, e dunque del divino nel cosmo e in tutti gli esseri, che tutti esistono in Dio. Lontana dal panteismo che appiattisce la trascendenza divina sulla natura, la religione vera supera l’alterità di Dio e il dualismo soggetto-oggetto, unificando tutte le creature in un solo essere, spiritualmente eterno, scevro dai vincoli della materia e della carne nell’unità relazionale con il Tutto. Libera dalla volontà, libera dall’attaccamento, e dunque libera dall’opinione, la luce dell’intelligenza illumina il Tutto. La mistica ha mantenuto viva questa verità, con l’esperienza di un modello di vita filosofico, del distacco, della grazia, della libertà, opposto alla vita nella servitù, nella forza, nella volontà e nel desiderio. Non occorrono perciò rivelazioni o visioni particolari, dogmi o encicliche, perché è il quotidiano, il qui e l’ora, con le cose presenti di fronte a noi, a costituire il divino così come si mostra al nostro sguardo e al nostro amore.

 

© Riproduzione riservata           «Gli Stati Generali», 20 novembre 2023

 

MAESTRI

OLIVER

IL SOGNO

 

Solo una volta, e in sogno,

ho osservato una mucca mentre, segretamente

e con la tenerezza di ogni donna amorevole,

dava alla luce

un vitello rosso, lo asciugava con la lingua e lo allattava

in un angolo caldo

della notte tersa

nell’erba fragrante

nei domini selvaggi

della primavera della prateria, e ho chiesto loro,

in sogno mi sono inginocchiata e gli ho chiesto

di farmi un po’ di spazio.

 

                                                                                                                             Mary Oliver (1935-2019)

 

INTERVISTE

VALLORTIGARA

GIORGIO VALLORTIGARA E LA POESIA

Giorgio Vallortigara (Rovereto 1959) è professore ordinario di neuroscienze all’Università di Trento ed è stato Adjunct Professor presso la School of Biological, Biomedical and Molecular Sciences dell’Università del New England, in Australia. Si è particolarmente interessato alla cognizione numerica e alla predisposizione biologica al riconoscimento di agenti animati in vari modelli animali. È autore di più di 300 articoli scientifici su riviste internazionali e di libri a carattere divulgativo: Cervello di gallina (Bollati-Boringhieri, 2005), Cervelli che contano (Adelphi 2014), Pensieri della mosca con la testa storta (Adelphi 2021), Il pulcino di Kant (Adelphi 2023). Oltre alla ricerca scientifica svolge un’intensa attività di divulgazione, collaborando con le pagine culturali di varie testate giornalistiche e riviste.

 

 

  • Nel volume Lettere dalla fine del mondo. Dialogo tra uno scrittore che voleva essere uno scienziato e uno scienziato che voleva essere uno scrittore, pubblicato da La nave di Teseo nel 2021, lei affermava che tre attività umane le stanno profondamente a cuore oltre alla scienza: l’arte, la musica, la scrittura. Tra di esse, quale predilige con particolare partecipazione emotiva?

Senza dubbio la scrittura, anzi più precisamente la lettura. Sono un lettore vorace di romanzi ma anche di poesia. Non trovo che ci sia una differenza fondamentale con l’attività scientifica perché anche nella scienza si tratta di narrare delle storie. Certo la plausibilità della narrazione scientifica deve essere fondata sui fatti e la sua oggettività risiede nella intersoggettività delle osservazioni e degli esperimenti. La narrativa letteraria rappresenta invece un punto di vista unico e originale, quello del narratore. Forse per questo io la considero privilegiata rispetto al lavoro dello scienziato. Il tema della narrazione mi interessa anche dal punto di vista scientifico. Perché gli esseri umani sono così affascinati dalle storie? Si tratta evidentemente di un fenomeno biologico, perché è un universale della natura umana: dovunque ci sono stati esseri umani ci sono stati aedi, cantori, raccontatori di storie e poeti. La passione per le storie è ovviamente al servizio (o il sottoprodotto) della cosiddetta teoria della mente, la nostra peculiare abilità di interpretare i comportamenti degli altri individui attribuendo loro degli stati mentali (lui crede che, lei desidera che…), ma forse è anche un modo per fronteggiare la finitudine delle nostre vite. Come diceva Pessoa, «Leggo perché la vita non mi basta».

 

  • Sempre nella stessa stimolante conversazione con Massimiliano Parente, sosteneva che lo sguardo scientifico non distrugge la bellezza delle cose, ma semmai rende più consapevoli della loro ragion d’essere. Le capita di osservare un fenomeno naturale, un insetto, un albero, e soprattutto di leggere una poesia senza indagarla con la curiosità dello scienziato, ma semplicemente lasciandosi trasportare da una sensibilità di carattere sentimentale?

L’aspetto che lei chiama sentimentale in effetti è il più razionale, perché ha a che fare con l’esperienza cosciente, quindi inevitabilmente è anche quello dello scienziato. Il tipo di sguardo cui lei allude è forse quello dei sogni o della rêverie, dove è l’inconscio a farla da padrone. Lì pare essere collocata la fonte della rivelazione creatrice – che si esprima poi in un brano musicale, in un romanzo, in un esperimento scientifico o in una formula matematica poco importa. Il vero mistero, come ha notato recentemente lo scrittore Cormac McCarthy, è perché l’inconscio debba usare questi mezzi indiretti per comunicare: la metafora, l’allusione, l’immagine fugace… Non potrebbe fornirci in chiaro i suoi messaggi?

  • Scrittori e poeti: quali sono quelli a cui ritorna più frequentemente, con attenzione grata?

Sono sempre a disagio con questo tipo di domande, perché non voglio essere indelicato con qualcuno degli autori che amo scordandomi di menzionarlo. Quindi, solo perché forzato a farlo, dico due nomi: Borges per la prosa e Montale per la poesia. Perché? Forse perché tutti e due hanno «parlato» la scienza senza saperne alcunché, il che è quasi magico! Invece parlo più volentieri dei libri che ho appena letto o che ho sul comodino in questo momento. L’ultimo (e finale) McCarthy, Stella Maris (Einaudi) che è strepitoso, e la raccolta di Tutte le Poesie (Einaudi) di Giovanni Raboni, che confesso non conoscevo (“Le volte che è con furia che nel tuo ventre cerco la mia gioia è perché, amore, so che più di tanto non avrà tempo il tempo…”), ma anche ho trovato incantevole Ultima estate a Roccamare di Alberto Riva (Neri Pozza). Poi quei poeti che (inconsapevoli?) parlano a noi scienziati, per esempio Andrea Bajani in Dimora naturale che si fa neurobiologo (“In queste settimane tutti parlano / dei polpi, avrebbero il vantaggio / di un cervello non localizzato, / distribuito dappertutto. Pensavo / fossimo gli unici imperfetti / condannati dalla massa cerebrale. / Sono umani in stato terminale: / il farabutto si è metastatizzato”) o Gilda Policastro che si fa statistica matematica (“Non esce quel numero, / nessuno lo estrae: sceglie te / la statistica, il numero che sei / quando a decidere è l’ultimo crunch”). Potrei proseguire, meglio se mi fermo…

 

  • Commentando un po’ ironicamente, e da profana, il suo ultimo libro (Il pulcino di Kant, Adelphi 2023), in cui esamina approfonditamente la nascita e l’evoluzione della conoscenza nel cervello umano e animale, le chiedo se ritiene la predisposizione verso la scrittura poetica una dote innata o acquisita. Perché in alcuni adolescenti si manifesta spontaneamente, senza predisposizioni di tipo culturale assimilate in ambito familiare o scolastico, e altri invece sono totalmente sordi al richiamo della poesia?

Credo sia innata, ma ammetto di non averne le prove. Un po’ tutti questi talenti – per la musica, la matematica, la poesia – si manifestano precocemente e sovente in assenza di istruzioni specifiche. I poeti sono “nati imparati”, come si dice a Roma. Questo naturalmente non ci esime dal dovere di cercare di far accostare alla poesia i giovani a scuola e gli adulti anche altrove. Un mio collega, Emanuele Castano, uno scienziato cognitivo che si occupa degli esiti della familiarità con la lettura della narrativa letteraria di contro a quella di intrattenimento, ha mostrato come nel primo caso si affini sensibilmente la nostra capacità di cogliere e leggere gli stati mentali degli altri. Però c’è qualche controindicazione, perché non necessariamente questa acutezza psicologica rende più felici le nostre vite personali. I poeti lo sanno.

 

  • Ci può citare qualche verso che ricorda a memoria?

Nulla di terribilmente originale, ma tutte le mattine quando, passeggiando, specie in autunno, mi capita di avere il barbaglio dei raggi del sole negli occhi, mi viene automatico di recitare Montale: E andando nel sole che abbaglia / sentire con triste meraviglia / com’è tutta la vita e il suo travaglio / in questo seguitare una muraglia / che ha in cima cocci aguzzi di bottiglia. Oppure, per immaginare di essere fieramente un uomo del Mezzogiorno anziché sommessamente tridentino, con accento imbarazzante recito senza cantarlo il testo di Luna Rossa di Vincenzo De Crescenzo: Vaco distrattamente abbandunato / ll’uocchie sott’ ‘o cappiello annascunnute / mane ‘int’ ‘a sacca e bávero aizato / Vaco siscanno ê stelle ca só’ asciute.

 

 

© Riproduzione riservata             «Gli Stati Generali», 17 novembre 2023

 

RECENSIONI

FIORE

VINCENZO FIORE, EMIL CIORAN – NULLA DIE, PIAZZA ARMERINA 2018

Nel 2018 la casa editrice siciliana Nulla Die ha pubblicato il volume di Vincenzo Fiore Emil Cioran. La filosofia come de-fascinazione e la scrittura come terapia. Vincenzo Fiore (Solofra, 1993) è un giovane filosofo e romanziere, collaboratore di riviste e quotidiani, membro del Progetto di ricerca internazionale dedicato a Emil Cioran. A buon diritto, e con assoluta competenza e passione, ha firmato questo esaustivo saggio, ricchissimo di note, corredato da una bibliografia e da un’appendice riportante una lettera autografa del filosofo romeno, tre ritratti fotografici e un articolo della giornalista venezuelana Carol Prunhuber.

Il libro si compone di tre capitoli, il primo dei quali ripercorre l’esistenza di Cioran dalla nascita in Transilvania nel 1911 alla morte a Parigi nel 1995: interessantissimo perché oltre a informare il lettore in maniera dettagliata su ogni avvenimento pubblico e privato della sua travagliata esistenza, garantisce puntualmente la veridicità dei fatti con testimonianze ricavate da lettere, interviste, brani tratti dalla sua produzione libraria e da interventi critici dei molti studiosi che di lui si sono occupati.
La parallela distribuzione tra notizie biografiche e il pensiero di Cioran è supportata proprio da un’affermazione del filosofo: “Tutto ciò che ho affrontato, tutto ciò di cui ho discorso per tutto il tempo della mia vita, è indissociabile da ciò che ho vissuto. Non ho inventato nulla, sono stato soltanto il segretario delle mie sensazioni… In fondo, tutti i miei libri sono autobiografici, ma di un’autobiografia mascherata”.

Nato a Rasinari, un villaggio di cinquemila abitanti situato nei Carpazi, Emil Cioran era il secondogenito di una famiglia istruita benché di modeste condizioni economiche. Il padre era prete ortodosso, e venne arrestato dalle autorità ungheresi insieme alla moglie con l’accusa di separatismo. L’infanzia di Emil fu quindi tormentata, tra separazioni e frequenti trasferimenti, e continuamente ossessionata dall’idea della morte, soprattutto a causa della sua acuta sensibilità, portata all’introspezione e alla malinconia. “Tanta febbre, tanta estasi e tanta follia”, ebbe a scrivere ricordando i suoi turbamenti giovanili, lo smarrimento di fronte agli avvenimenti politici, la sofferenza continua per l’insonnia, lo studio esaltato di argomenti religiosi – in particolare sul misticismo medievale -, di musica, di lingue straniere. Laureatosi nel 1932 con una tesi sull’intuizionismo di Bergson, l’anno successivo pubblicò il suo primo libro in lingua romena, Al culmine della disperazione, che metteva in luce la sua angoscia per la futilità della vita, il totale nonsenso di ogni attività quotidiana, la corruzione morale dell’essere umano. In quegli anni giovanili, si avvicinò a posizioni reazionarie e antisemite, convinto che l’ascesa al potere di Hitler potesse risvegliare la Romania dallo stato di abbrutimento politico ed etico in cui si era assopita per secoli, grazie a una sorta di trasfigurazione che dovesse favorire l’avvento di una “nuova umanità”. Tali posizioni ideologiche furono poi rinnegate dal filosofo con vergogna e pentimento, soprattutto dopo il suo volontario esilio in Francia a partire dal 1940.

Da questa data in poi, l’esistenza di Cioran non conobbe eventi biografici particolarmente traumatici, essendo totalmente dedicata alla riflessione filosofica e alla scrittura. Nel 1942 conobbe Simone Boué, giovane insegnante che rimase al suo fianco per tutta la vita, con cui alla fine della guerra si stabilì definitivamente a Parigi con lo statuto di apolide, adottando la lingua francese nella comunicazione quotidiana e in ogni scritto. Ritornato sulle posizioni teoretiche della sua giovinezza, addirittura radicalizzate, diede avvio a una personale crociata intellettuale contro il cristianesimo, la filosofia classica e le ideologie contemporanee. Con uno stile che lo assimilava a Nietzsche, non scrisse trattati sistematici, servendosi invece di aforismi e frammenti di prosa, rifiutando sia ogni rigida strutturazione sia qualsiasi artificio linguistico. Nel negare autenticità ai filosofi dogmatici e agli accademici, Cioran affermava che esistono solo due grandi questioni gnoseologiche: come sopportare la vita e come sopportare se stessi. L’unica pratica filosofica esercitabile era per lui lo scetticismo, come de-fascinazione, eliminazione di tutte le ideologie e astrazioni concettuali, in favore del vissuto rispetto alla teoria. Gli obiettivi polemici che il filosofo si pose furono quelli della negazione della Provvidenza e di un Dio creatore e benefico (Il funesto demiurgo, 1969), il contrasto al fanatismo ideologico e al totalitarismo, lo scandalo della nascita, ancora più dolorosamente negativa della morte (L’inconveniente di essere nati, 1973). Il totale pessimismo del suo pensiero lo avrebbe probabilmente condotto al suicidio già in giovane età, se non avesse trovato nella scrittura una partica auto-terapeutica che serviva a differire l’idea punitiva della fine volontaria.

Il merito di Vincenzo Fiore è di aver saputo ricostruire, attraverso un linguaggio accessibile a tutti, lineare ed elegante, evoluzioni e involuzioni del pensiero di Cioran, appoggiandosi non solo alla propria appassionata interpretazione, ma anche alle numerose e approfondite analisi di critici non sempre benevoli verso le provocatorie e polemiche tesi dell’antifilosofico filosofo romeno.

 

© Riproduzione riservata          SoloLibri.net      16 novembre 2023

 

RECENSIONI

BERNHARD

THOMAS BERNHARD, CEMENTO – SE, MILANO 2023

Pubblicato in Germania nel 1982, e per la prima volta da Studio Editoriale nel 1990, dopo numerose ristampe ritorna oggi sul mercato Cemento, uno degli ultimi romanzi scritti da Thomas Bernhard (1931-1989). Il volume è corredato da ricche note biobibliografiche, da un’interessante appendice fotografica e soprattutto da un’approfondita ed esaustiva postfazione del compianto germanista Luigi Reitani, che ricostruisce sapientemente non solo le motivazioni letterarie ed extra-letterarie alla base della sua elaborazione, ma anche le polemiche con cui venne accolto dalla critica.

Non si tratta di un’autobiografia, sebbene siano presenti episodi della vita dell’autore, ma di una confessione monologante messa per iscritto da un intellettuale austriaco di mezz’età, il cui nome viene riportato solo all’inizio e alla fine del volume, sempre con lo stesso sintagma: “scrive Rudolf”. In effetti il protagonista sembra non saper fare altro che scrivere, persino nel momento in cui riconosce di non riuscire a scrivere. Né a scrivere né a vivere, con gli altri, tra gli altri, per gli altri. La sua è una storia di solitudine e nevrosi (che gli psichiatri definirebbero compulsiva), di frustrazione per la propria inettitudine, di rancore nei riguardi della famiglia e della società, di complessi di colpa per non essere stato all’altezza delle sue aspirazioni: sempre in preda a manie persecutorie, ambizioni smodate, ipocondria ossessiva.

Rudolf, secondogenito di una ricca e aristocratica famiglia austriaca, dopo la morte dei genitori si rinchiude nella dimora ereditata nel paesino di Peiskam, con l’unica saltuaria compagnia di una domestica fedele e discreta, e sotto l’opprimente controllo della sorella maggiore Elisabeth, esercitato sia a distanza dalla residenza viennese, sia negli occasionali e irritanti soggiorni nella comune proprietà di campagna. Dopo aver tentato studi filosofici, giuridici e scientifici senza riuscire ad arrivare alla laurea, Rudolf decide di dedicare la propria esistenza alla musicologia, impegnandosi in studi critici sui maggiori compositori classici. In particolare, le sue ricerche d’archivio, postillate da una grande mole di appunti e tracce programmatiche, riguardano la stesura di un saggio su Mendelssohn Bartholdy, in gestazione da molti anni, ma incagliata sin dall’avvio per la difficoltà di affrontare la frase iniziale.

Intorno al tema della scrittura che non è in grado di scriversi ruota tutto il romanzo. L’io narrante elenca ossessivamente ogni pretesto che gli impedisce di sbloccarsi: dal cattivo funzionamento di una lampada ai rumori distraenti, dai malesseri fisici alla presenza castrante e indisponente della sorella. Elisabeth, al contrario del fratello, è un’imprenditrice di successo nel campo immobiliare; donna di mondo, elegante, concreta, disinvolta nei rapporti sentimentali e d’affari, tratta Rudolf con ironica supponenza mista a compassione. Da lui considerata volgare, sciocca e perfida, viene tuttavia temuta: “Lei guidava i miei passi e al tempo stesso ottenebrava la mia mente… A me fanno schifo i suoi affari, a lei fa schifo la mia fantasia, io disprezzo i suoi successi, lei disprezza la mia mancanza di successo”.

La partenza della sorella toglie al protagonista l’ultimo alibi per non dare inizio al lavoro, e insieme lo induce a recriminare sui motivi del proprio fallimento esistenziale. Proclama la sua sfiducia nel genere umano, il disinteresse per la natura, la disillusione verso l’amore e l’amicizia (“che parola pustolosa!”). Pur avendo viaggiato moltissimo nella giovinezza, ora considera lo spostarsi di casa una fatica dispendiosa. Della solitudine in cui ama crogiolarsi incolpa la società viennese, l’aristocrazia e il popolino, l’accademia e la stampa, i politici e gli intellettuali, la Chiesa e il socialismo, la tradizione e la modernità: Vienna “cloaca d’Europa” reagirà con astio e fastidio, attraverso una campagna giornalistica persecutoria, all’esplicita ostilità dichiarata nel nuovo testo di Bernhard, ricalcante i suoi precedenti lavori narrativi e teatrali.

Nauseato da tutto, e principalmente da se stesso, Rudolf decide di provare a recuperare la salute precaria e di abbozzare finalmente il saggio su Mendelssohn trasferendosi a Palma di Maiorca, che già in passato lo aveva ospitato con gentilezza e premura. I preparativi per la partenza appaiono assillanti nella loro minuziosità, e provocano nel lettore un effetto esilarante per la descrizione puntigliosa e maniacale dell’allestimento dei bagagli.

Sullo sfondo della località iberica, le ultime trenta pagine il romanzo prendono una piega inaspettata, pur rimanendo vincolate alla forma del monologo descrittivo. Dopo aver preso possesso della stessa lussuosa camera d’hotel già occupata in passato, Rudolf rievoca l’incontro avvenuto due anni prima con una ragazza tedesca, che gli aveva raccontato della disperazione priva di prospettive in cui si trovava, a causa della tragica morte del marito precipitato dalla terrazza del loro fatiscente albergo, e tumulato in fretta e di nascosto nel cimitero cittadino. Informato già nei primi giorni di vacanza del successivo suicidio della giovane vedova, il ricordo tormentante dell’angoscia di lei mette fine alla sua illusione di potersi dedicare alla stesura del saggio musicale, e lo cementa in un’atonia priva di slanci, condannata di nuovo a una spietata autoanalisi priva di assoluzione.

La straordinaria abilità narrativa di Thomas Bernhard si esprime nell’esplorazione dei labirintici percorsi di un pensiero psicotico, nella ricostruzione di temi e atmosfere tipiche della propria narrativa (la dissoluzione di un ambiente culturale, l’ambivalenza distruttiva dei rapporti familiari, la polemica contro il perbenismo claustrofobico della borghesia austriaca), e nell’esasperazione di formule volutamente intese a creare effetti ironici e stranianti (ripetizioni, intercalari e  sottolineature del parlato).  Anche in Cemento l’autore austriaco esibisce la stessa modalità espressiva livida e sarcastica delle prove maggiori, mettendo in luce i nodi e le rigidità caratteriali ereditati dalla sua sofferta vicenda biografica, che hanno fatto di lui un maestro di scrittura autoreferenziale e ferocemente sovversiva.

 

© Riproduzione riservata               «Gli Stati Generali», 11 novembre 2023

 

 

 

 

 

RECENSIONI

POMPILI

DOMENICO POMPILI, LA FEDE E IL TERREMOTO – EDB, BOLOGNA 2017

Quando, purtroppo molto spesso, le televisioni mondiali ci riportano immagini crudeli di un terremoto avvenuto in qualche parte del globo (ci ricordiamo ancora dei sessantamila morti dello scorso febbraio in Turchia?), mi torna in mente il poemetto che Voltaire compose all’indomani del cataclisma che distrusse Lisbona nel 1755, uccidendo la metà della sua popolazione. Con l’acutezza polemica che lo animava, il filosofo francese stigmatizzava il superficiale disinteresse di chi da quella tragedia non era stato direttamente coinvolto (“Lisbona è distrutta e a Parigi si balla”), ma soprattutto chiamava in causa la giustizia e la provvidenza divina: “Umilmente vorrei, senza offendere il Signore, / che questo abisso infiammato di zolfo e salnitro, / avesse acceso il fuoco in un deserto; / rispetto Dio, ma amo l’universo”.

Con ben altro spirito cristiano e più sincera empatia, Domenico Pompili ha dedicato un piccolo volume al terremoto che nel 2016 ha devastato il centro Italia, territorio che all’epoca lo vedeva occupare la carica di Vescovo di Rieti. In dieci interventi, pronunciati e scritti tra l’agosto 2016 e il gennaio 2017, ne La fede e il terremoto affrontava temi religiosi e laici, avvalendosi non solo di testimonianze di prima mano, ma anche di supporti teologici (i Profeti, gli Evangelisti, San Paolo, Madre Teresa di Calcutta), letterari (Pasolini, Borges, Pessoa, Rodari) e filosofici (Bonhoeffer, Ricoeur), per esprimere solidarietà e conforto alle popolazioni colpite, riflettendo sulla sofferenza e la morte, e prospettando ipotesi di risanamento morale e di ricostruzione materiale delle zone colpite.

Il 24 agosto 2016 Domenico Pompili si trovava a Lourdes: svegliato alle 4 di mattina dalla notizia del sisma che aveva sfigurato il Lazio, alle 16 era già ad Amatrice, imbattendosi in abitanti che sin dalla prima feroce scossa avevano visto crollare le case e finire sotto le macerie i propri familiari.  Come consolare l’inconsolabile, dare una risposta a chi chiede il perché di una perdita tanto ingiusta e disumana? Bisogna umilmente lasciare spazio a rabbia sconforto disorientamento, condividere l’angoscia, ricucire la “faglia emotiva” aperta nelle anime, elaborare insieme il lutto, curare le ferite che lentamente si chiuderanno, lasciando comunque cicatrici incancellabili. Parafrasando Ungaretti, l’autore del testo afferma che è sempre il cuore delle persone a essere il paese più devastato. Ma Dio “non è mai altrove rispetto al dolore del suo popolo”, e non deve essere utilizzato come capro espiatorio di una tragedia le cui cause sono spesso da cercare nell’incuria e nei fallimenti umani.

L’amore del Pastore per la sua terra, già colpita da decenni di abbandono e spopolamento, si esprimeva in quell’occasione nell’invito a farne rivivere la bellezza, immaginando altri modelli di sviluppo, assecondando la vocazione verso forme economiche da potenziare: il turismo, l’agroalimentare, grandi potenzialità locali mai del tutto sfruttate. In una rifondazione collettiva si può dare forma a un mondo rinnovato, con l’impegno a “rendere di nuovo abitabile un piccolo paradiso diventato deserto”, consapevoli che “ri-costruire è un’opera prima che materiale, di carattere interiore”.

Un ammonimento prezioso a cui rifarsi, ogni volta che la nostra nazione, di cui purtroppo conosciamo la fragilità del suolo e la negligenza della custodia ambientale, viene messa a dura prova da violenti eventi naturali.

 

© Riproduzione riservata          SoloLibri.net                 10 novembre 2023

MAESTRI

LEVI

ABBI PAZIENZA

Abbi pazienza, mia donna affaticata,
abbi pazienza per le cose del mondo,
per i tuoi compagni di viaggio, me compreso,
dal momento che ti sono toccato in sorte.
Accetta, dopo tanti anni, pochi versi scorbutici
per questo tuo compleanno rotondo.
Abbi pazienza, mia donna impaziente,
tu macinata, macerata, scorticata,
che tu stessa ti scortichi un poco ogni giorno
perché la carne nuda ti faccia più male.
Non è più tempo di vivere soli.
Accetta, per favore, questi 14 versi,
sono il mio modo ispido per dirti cara,
e che non starei al mondo senza di te.

 

                                                                                                                          PRIMO LEVI (1919-1987)

MAESTRI

CAVALLI

QUESTA NOTTE PERFETTA 

Questa notte perfetta, questa ora così dolce,
il silenzio, e nessuno che disturbi
in questa casa esposta solo al mare e al cielo
nella temperatura giusta della carne,
io senza carne qui di fronte a te
mentre mi annoio e mentre tu ti annoi e credi
che rompere il silenzio rompa la noia
che invece ogni parola accresce. E adesso?
Annoiarsi da soli forse è un lusso,
ma annoiarsi in due è disperazione
– non è noia che placida risieda,
ma attivamente lavora nel mio sangue
e mi fa scarsa e debole, mi estingue.

 

                                                                                                                   Patrizia Cavalli (1947-1922)

RACCONTI

ZURIGO E UNA DONNA

ZURIGO E UNA DONNA

 

La sera della partenza scrisse una lettera alla sorella, mentre sedeva a un tavolo della sala d’aspetto della stazione, con la testa appoggiata al braccio sinistro, la sigaretta in bocca.

“Questa è l’ultima lettera mia che riceverai da Zurigo. Parto questa sera stessa, lascio questa città che magari non esiste veramente, o esiste solo nei listini di borsa. Ci ho vissuto per un anno, ed è stato un anno incorporeo, di nebbia. Mi hai chiesto spesso di descrivertela, Zurigo. Cosa dirti se non che ha un lago, due fiumi e una collina, tram azzurri e bianchi che la tagliano veloci in tutte le direzioni… Non è una città virile, piuttosto androgina. La si può amare od odiare intensamente e contemporaneamente, come succede con le persone. Non la puoi paragonare a una città delle nostre; immaginati invece una donna alta, ossuta, con occhi larghi e chiari. Con dita lunghe, voce profonda. Una donna non bella, non giovane, che tuttavia ti costringe a guardarla, quando l’incontri. Che ti ossessiona anche se in realtà non la conosci. Però lei conosce te, e ti prevede in ogni mossa. Una che tu vorresti prendere, possedere, ma di cui hai paura. Io scappo da lei, scappo da Zurigo. E non riesco a spiegarti come, e perché, sono così terrorizzato all’idea che lei possa seguirmi”.

Imbucò la lettera prima di salire sull’Intercity per Chiasso. La città era illuminata a bagliori da luci bianche e rosse, e oltre il tetto della stazione insegne al neon reclamizzavano assicurazioni, banche e l’Hotel Continental.

“Addio” pensò Guido, sporgendo la testa dal finestrino, accendendosi una sigaretta. Il treno si mosse, lento e silenzioso. “Addio”, gli ricambiò il saluto una mano pallida da un cartellone pubblicitario, la mano di una donna fotografata di spalle, un grande cappello nero in testa e, sotto, un codino biondo. Guido pensò senza stupore “Eccola ancora, fino all’ultimo. Ma io la lascio. È Zurigo che lascio. Per sempre”. Addio, dunque, e tirò su il finestrino, ci si appoggiò con la schiena, continuando a fumare, calmo come da tempo non gli era più successo.

Poteva essere stata l’immagine di un manifesto, quella che l’aveva tormentato per mesi? O non era invece la Susan in carne e ossa che lui continuava a proiettare in ogni donna, a vedere ovunque?Immagine o realtà, era comunque rimasta lì, sul binario numero uno dell’Hauptbahnhof.

Guido entrò nello scompartimento e si stravaccò sul sedile. Schiacciò il mozzicone nel portacenere, poi gli venne in mente che aveva lasciato il giornale in valigia. Si alzò straccamente, spostò una borsa, tirò giù la valigia. Gli scivolò davanti agli occhi, legato con uno spago al portabagagli, un depliant illustrativo:

Zürich: Ihr werdet sie nicht so leicht vergessen

Zurich: vous ne l’oublierez pas facilement

Zurigo: non la dimenticherete facilmente

Lei era lì, col suo codino biondo, Grossmünster e il fiume Limmat alle spalle. Lo guardava seria, muoveva appena le dita a dirgli ciao, sono con te.

 

 

In Sotto assedio, Gattomerlino edizioni, Roma 2023