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RECENSIONI

DARWISH

MAHMUD DARWISH, NON SCUSARTI PER QUEL CHE HAI FATTO – CROCETTI, MILANO 2024

Con testo arabo a fronte, l’editore Crocetti pubblica Non scusarti per quel che hai fatto, raccolta di versi del poeta palestinese Mahmud Darwish (1941-2008). Darwish, nato in un villaggio dell’alta Galilea, alla costituzione dello stato di Israele dovette rifugiarsi con la famiglia in Libano, tornando successivamente nella sua terra nella condizione di profugo e clandestino. Per il suo attivismo politico fu più volte incarcerato e condannato agli arresti domiciliari, quindi esiliato in vari stati europei e in Egitto, in Libano e a Tunisi. Fece parte del consiglio esecutivo dell’OLP dal 1987 al 1993. Rientrato in Palestina dopo gli accordi di Oslo (1993), visse tra Ramallah, in Cisgiordania, e Amman, in Giordania. I suoi versi, conosciuti e amati in tutto il mondo e tradotti in più di venti lingue, sono stati musicati da alcuni tra i maggiori compositori arabi. Considerato il poeta nazionale della Palestina, alla sua morte, avvenuta a Houston (Texas) dopo un’operazione al cuore, l’Autorità Palestinese proclamò tre giorni di lutto nazionale, e ai funerali di stato, a Ramallah, parteciparono decine di migliaia di persone.

La raccolta da poco edita da Crocetti risale al 2004, e rappresenta una summa dei temi e dei toni di tutta la precedente produzione di Darwish. Nonostante il nome “Palestina” sia citato una sola volta, l’amore per il suo paese viene manifestato costantemente, non solo nell’allusione (più malinconica che indignata) alla sopraffazione politica subita, ma soprattutto nell’accorata nostalgia per le persone e le cose perdute nei lunghi anni di esilio, e nella descrizione dei paesaggi. L’attenzione è rivolta ai colori e ai profumi della vegetazione (ulivi, anemoni, rose, sambuchi), a ciò che si muove nell’aria (uccelli e nuvole, che rievocano immagini impalpabili di sogni, di angeli e cherubini), agli animali sempre simbolo di naturale innocenza (cavalli, colombi, gazzelle, farfalle), agli oggetti che hanno segnato l’attività quotidiana della sua famiglia (“l’eco delle cose parla attraverso la mia bocca”).

Ma anche le città arabe in cui il poeta è arrivato “come un gabbiano” sono presenti con i loro rumori, le musiche e la vivacità dei traffici urbani, le amicizie e gli amori incontrati: Tunisi, Beirut, Baghdad, Damasco, Il Cairo, Gerusalemme: “A Gerusalemme, intendo dentro le antiche mura, / cammino da un tempo all’altro // … Tutta questa luce mi appartiene. / Cammino. Divento più leggero. / Volo e mi trasfiguro”.

Memoria e oblio sono i due poli entro cui ruota la riflessione del poeta: volontà doverosa di ricordare e testimoniare, consapevolezza della caducità del tempo che tutto dissolve. Nella poesia che dà il titolo al libro, il lungo elenco dei ricordi viene riproposto dal soggetto recitante nel presente al mutato “io” che li aveva vissuti nel passato: “Non scusarti per quel che hai fatto, mi dico in segreto. / Al mio altro ‘io’ dico: // eccoli, i tuoi ricordi, tutti visibili: / la noia di mezzogiorno nella sonnolenza di un gatto / la cresta del gallo / la fragranza di salvia / il caffè della madre / la stuoia e i cuscini”.

Persistente è la memoria di altri celebri poeti – come Neruda e Ritsos, l’iracheno al-Sayyāb, il curdo Salīm Barakāt o il siriano Abū Tammām –, ma altrettanto costante è la consapevolezza della fugacità dell’esistenza, dell’impossibilità di rimanere vivi nella storia privata e collettiva del proprio paese: “Tutto quel che hai intorno è dimenticanza”, “Sarai dimenticato, come se non fossi mai stato. / Sarai dimenticato come la morte violenta di un uccello, / come una chiesa abbandonata, / come un amore passeggero / e come una rosa nella notte… sarai dimenticato”. Lo spaesamento individuale, la dissoluzione dell’io, la stanchezza dell’età che avanza (“Ho la saggezza del condannato a morte”, “voglio una morte in giardino / niente di più e niente di meno!”) sono senz’altro fattori di inquietudine personale, ma riflettono anche i timori e le incertezze di un intero popolo. Il sopruso patito dalla Palestina ha per il poeta valenza universale, diventa il male sofferto da ogni vittima a causa della ferocia del potere, in tutti gli ambiti in cui viene esercitato. Nell’ode Al nostro paese (definito “vicino alla parola di Dio, minuscolo come un seme di sesamo, povero come le ali di un gallo cedrone, bottino di guerra”), si avverte la tragica profezia dello sterminio che oggi sta vivendo Gaza: “Il nostro paese, nella sua notte insanguinata, / è un gioiello che brilla per le distanze più lontane / e illumina ciò che è al di fuori di lui… / Quanto a noi, dentro, / soffochiamo ogni giorno di più!”

Nonostante la sofferenza dell’esiliato, del prigioniero, del testimone di una guerra che insanguina e distrugge da decenni la Palestina, Mahmud Darwish pronuncia ancora parole di speranza, ancora incoraggia la sua gente alla resistenza, e si dice fiducioso in un futuro di pace: “Un altro giorno verrà, un giorno femmineo, / alla metafora trasparente, compiuto, / diamantino, di visita nuziale, soleggiato, / fluido, allegro. Nessuno sentirà / alcun bisogno di suicidio o di migrazione… // Nessuna polvere, nessuna siccità, e nessuna sconfitta”.

La sua poesia, così limpida e corale, rivela i caratteri di molte composizioni mediorientali: la descrittività attenta e partecipe, il tono colloquiale, la modulazione musicale percepibile anche attraverso la traduzione grazie alle formule ripetute come in una litania religiosa, la totale assenza di sperimentalismi linguistici, la non equivocabilità del messaggio, che – a differenza della contemporanea poesia occidentale – non lascia spazio a interpretazioni fuorvianti del lettore. La pacatezza formale delle composizioni di Darwish offre uno spiraglio all’utopia di una conciliazione tra le popolazioni di una terra tormentata.

 

© Riproduzione riservata            «Gli Stati Generali», I marzo 2024

 

 

 

 

 

 

MAESTRI

RABONI

I MANIFESTI

 

Chissà dov’ero, dove m’ero ficcato quando

le tue gambe hanno invaso la città.

Forse non guardo i manifesti.

Adesso paziente, maniaco ti do la caccia

di stazione in stazione

borbottando preghiere. Quello che non sei tu

esce dal fuoco o indietreggia se le tue

magre, livide dita si vede che una calza

tendono con increscioso pudore.

 

                                                                                                                     Giovanni Raboni (1932-2004)

INTERVISTE

GANCITANO

MAURA GANCITANO E LA POESIA

Maura Gancitano (Mazara del Vallo, 1985) è una saggista e opinionista italiana attiva soprattutto nell’ambito della divulgazione, con collaborazioni giornalistiche e partecipazioni a dibattiti politici e televisivi. È co-fondatrice di Tlon (insieme al marito, Andrea Colamedici), un progetto di divulgazione culturale e casa editrice; ideatrice della Festa della Filosofia presso le Triennali di Milano e Roma, organizzate in media-partnership con Rai Scuola, e di Prendiamola con Filosofia, maratona streaming di divulgazione culturale nata su sollecitazione del Ministero della Salute; autrice di vari podcast, tra cui Pensare Europeo, in collaborazione con il Parlamento Europeo, e Scuola di Filosofie, raccolta di monografie sulla storia della filosofia del Novecento, prodotto da Audible. Con il saggio Specchio delle mie brame (Einaudi) ha vinto il Premio Rapallo 2022, ex aequo con Bianca Pitzorno.

Ma chi me lo fa fare?, Milano, HarperCollins 2023; Specchio delle mie brame, Milano, Einaudi, 2022; Il gioco del pensiero, Bologna, Zanichelli, 2022; L’alba dei nuovi dèi, Milano, Mondadori, 2021; Prendila con Filosofia, Milano, Harper Collins, 2021; Liberati della Brava Bambina, Milano, Harper Collins, 2019; La società della Performance, Roma, Tlon, 2019; Lezioni di Meraviglia, Roma, Tlon, 2017; Tu non sei Dio. Fenomenologia della spiritualità contemporanea. Roma, Tlon 2016; Malefica. Trasformare la rabbia femminile, Roma, Tlon 2016.

***

Platone nello Ione, nel Fedro, nel Simposio e nel X libro della Repubblica dava un giudizio poco positivo dei poeti, ritenendoli folli posseduti da sentimenti irrazionali, che lo stato dovrebbe esiliare dai suoi confini in quanti produttori di illusioni, credenze false e pericolose. Oggi prevale l’opinione che la poesia non serva a niente, ma – come disse Montale all’assegnazione del Nobel – perlomeno non sia nociva. Condivide questa posizione?

La visione di Platone era calata nel tempo di profonda trasformazione in cui viveva. A quanto ne sappiamo, aveva l’impressione che le storie e l’atmosfera create dai poeti rendessero gli uomini deboli e fossero diventate nocive per il percorso di conoscenza. Platone era in realtà un grandissimo amante della poesia e dell’opera di Omero in particolare, e per questo ha probabilmente scelto di inventare nuovi miti, che contengono alcune tra le immagini più poetiche che l’essere umano abbia mai prodotto. Credo quindi che il suo rapporto con la poesia fosse molto dinamico, come quello con la scrittura. Al di là di questo, ad ogni modo, io credo che la poesia sia essenziale per creare uno spazio di meraviglia nella vita. Forse anche perché viviamo tempi di grande crisi, ma per ragioni speculari a quelle di Platone: oggi la poesia è necessaria per recuperare una certa distanza da una visione del mondo cinica e estremamente materiale.

Secondo Richard Rorty la poesia è creazione del perturbante, “perché il perturbante è il risultato dello sradicamento di una parola dal suo gioco linguistico originario”. Tra i compiti del poeta, quello di porre domande e creare inquietudine è importante quanto quello descrittivo, immaginoso, consolatorio e addirittura ludico?

Sicuramente. C’è una frase di Emily Dickinson che viene spesso usata per esprimere questa sensazione: “Se quando leggo un libro, ho l’impressione che mi si scoperchi il cranio, allora so che quella è poesia. È l’unico modo che io conosca di avvertirne la presenza”. La poesia può avere uno scopo puramente ludico, ma rappresenta comunque un tentativo di manipolare le parole per creare meraviglia, e la meraviglia è sia lo stupore, sia il terrore. È il caso, per esempio, di Wisława Szymborska, autrice di moltissime poesie introspettive e perturbanti, per le quali ha vinto il Nobel nel 1996, ma che insieme al suo amico poeta Stanisław Barańczak componeva dei limerick, delle brevi forme poetiche umoristiche che prendono il nome da Limerick, un paesino irlandese. Che ti faccia ridere, piangere o pensare, la poesia non può comunque lasciarti indifferente.

 

Heidegger ha studiato e commentato Hölderlin non solo dal punto di vista letterario e filosofico, ma anche con una particolare adesione emotiva. Ci sono altri pensatori che hanno letto i poeti arricchendone i testi non solo a livello ermeneutico, ma anche di percezione sensibile?

È sempre accaduto che la filosofia cercasse di spiegare la poesia, di interpretarla, di costruirle intorno delle categorie. Eppure, credo che l’interesse di chi fa filosofia nei confronti della poesia nasca dallo stato di meditazione a cui la sua lettura può condurti, che quando si scrive di filosofia è fondamentale. In ogni caso, un elenco di filosofi e filosofe appassionati di poesia sarebbe infinito. Basti citare l’amore di Walter Benjamin per Baudelaire, che ebbe una grande influenza sulle sue riflessioni filosofiche, o quello di Maria Zambrano per Federico García Lorca e San Giovanni della Croce, di Julia Kristeva per Stéphane Mallarmé. Un altro esempio di connessione tra poesia e filosofia: nel 1948 Sartre scrisse l’introduzione all’Antologia della nuova poesia nera e malgascia di lingua francese curata dal poeta senegalese Léopold Senghor, e il suo interesse per quella poesia assume un preciso significato politico e di condanna nei confronti del colonialismo.

 

Che giudizio dà dei filosofi che scrivono versi? Ne ha letti, le sembrano interessanti? Nietzsche, per esempio, gigante del pensiero, aveva scritto liriche mediocri…

Non credo si possa dare un giudizio unitario: esistono filosofi e filosofe che sono capaci di scrivere con più registri e in cui convivono spinte diverse, come nel caso di Sartre, mentre in molti altri casi la scrittura filosofica è il canale principale di espressione, e altri tentativi possono non riuscire o sembrare forzati. Sono modi diversi di usare le parole, e del resto scrivere poesia può essere un’arte che ha senso in sé e si conclude con il suo gesto, non è necessario che sia esteticamente notevole. È anche la ragione per cui molti filosofi e filosofe scrivono poesia, ma decidono di non pubblicarla. Ci sono stati poi alcuni casi, come quello di Edith Stein, in cui la via poetica e mistica ha accompagnato una conversione totale della propria vita.

Legge poesia? Preferisce gli autori classici o quelli contemporanei, gli italiani o gli stranieri? Si è mai cimentata personalmente nella scrittura in versi?

La leggo, anche se in scarsa misura rispetto a saggi e romanzi. Mi piace moltissimo la lingua italiana, quindi amo quella poesia del Novecento (Spaziani, Montale, Luzi, Sanguineti), ma ci sono stati dei momenti in cui ho cercato di avvicinarmi ad altre atmosfere poetiche, come quella americana. I miei preferiti sono forse Mark Strand, Anne Carson e Frank Bidart. Nella lettura della poesia non amo le costruzioni troppo complicate e rarefatte, ho bisogno di figurarmi nella mente quello che il poeta ha immaginato, quindi ci sono anche poesie che non mi sono accessibili, che non riesco ad apprezzare. Quanto a me, ho scritto molte poesie da giovanissima, ma quella di scrivere poesia non è un’urgenza che sento. Mi godo il privilegio di poter essere una pura lettrice.

 

© Riproduzione riservata               «Gli Stati Generali», 25 febbraio 2024

 

RECENSIONI

MONTANARI

TOMASO MONTANARI, LE STATUE GIUSTE – LATERZA, ROMA-BARI 2024

 

Nel paragrafo conclusivo del suo ultimo libro, Le statue giuste, Tomaso Montanari afferma che bisogna vegliare affinché “la storia, tutta intera, non sia dimenticata, falsificata, strumentalizzata a favore del potere presente”. Perché la “Storia” che ci viene raccontata, oggi, è distorta, parziale, resuscitata perlopiù con finalità repressive, e non in maniera problematica, contestualizzata e coinvolgente, come dovrebbe: studiata poco e male a scuola, è chiusa in asfittiche aree di ricerca nelle università, mentre ogni riflessione culturale rimane circoscritta nell’ambito della contemporaneità.

Storico dell’arte, divulgatore culturale, saggistarettore dell’Università per stranieri di Siena, Montanari (Firenze 1971) ha supportato campagne di opinione orientate alla difesa del patrimonio artistico, museale e architettonico italiano. La sua ultima battaglia civile prende di mira statue, monumenti, affreschi antichi e moderni osservabili in spazi pubblici, dedicati a eventi storici e personaggi responsabili di comportamenti riprovevoli, addirittura di reati penali, e più gravemente ancora di colpe ideologiche e militari.

Nell’arco di millenni la ricezione delle immagini ha creato contrapposizioni tra culto adorante e volontà di distruzione, appellandosi a differenti ideologie e fideismi: dalla costruzione del vitello d’oro nell’Esodo ai culti faraonici in Egitto, dalle damnationes memoriae di epoca romana alla riforma protestante, dalla rivoluzione francese fino alle dittature del ’900.

L’autore ritiene di dover difendere e incoraggiare il movimento di protesta che lotta contro le mentalità coloniali e totalitaristiche tuttora esistenti, per combattere ingiustizie e soprusi veicolati dall’ordine sociale occidentale ereditato dal passato. In questo senso, la sua vibrante indignazione non va considerata come un’adesione pregiudiziale alla cancel culture, definizione vuota e menzognera attraverso cui si condanna, in nome della conservazione della storia, il vandalico abbattimento di testimonianze materiali e la censura di testi letterari, ma intende rimarcare l’esigenza di trovare una terza via tra distruzione e venerazione, tra dissacrazione e adesione acritica.

I sette capitoli che costituiscono questo saggio (accompagnato da un ricco apparato di note) analizzano momenti ed episodi recenti che su questo argomento hanno dato adito a posizioni contrastanti. A partire dall’intervista di Trump del luglio 2020 contro la cancel culture, definita una barbarie distruttiva nei confronti di un passato storico da difendere ostinatamente, in nome della pacifica convivenza contro la violenza di piazza, della tradizione contro l’iconoclastia, dell’amore contro l’odio: messaggio raccolto e rafforzato nelle esternazioni più recenti di Giorgia Meloni e Gennaro Sangiuliano.

Montanari si sofferma sull’abbattimento di monumenti avvenuti in anni recenti in diverse parti del mondo: negli Stati Uniti sono stati oggetto di contestazione e demolizione i marmi raffiguranti i generali sudisti della Guerra di Secessione, nel campus dell’Università di Città del Capo la statua del teorico dell’apartheid Cecil Rhodes, a Bristol nel giugno del 2020 quella bronzea dello schiavista Edward Colston. Episodi sempre accompagnati da contestazioni, processi, proposte alternative di correzione.

Tali “eroi” del passato meritavano davvero l’onore di un monumento, in grado di influenzare positivamente l’immaginario di abitanti, turisti, passanti disinformati, o questo privilegio non andrebbe riservato a coloro che promuovono cambiamenti positivi, lottando per la pace, l’uguaglianza e l’unità sociale? Una statua dovrebbe offrire un modello di comportamento e una bussola va loriale, creare un visibile legame sentimentale tra passato e presente, raccontare il passato per spiegare il presente e proiettarsi in un futuro migliore…

Le piazze e i viali italiani sono ornati da mausolei, sculture, busti, targhe dedicate a sovrani, statisti, condottieri, filosofi e artisti dall’operato poco democratico, dai re di Casa Savoia ai generali risorgimentali, in un pantheon celebrativo spesso imbarazzante, costruito su un’idea di dominio (“dei maschi, dei bianchi, degli occidentali, dei cristiani, della cultura classica”…) L’ omaggio agli anni del fascismo e del colonialismo (1882-1960, con mezzo milione di vittime africane) è ancora recuperabile nella toponomastica nazionale, e negli articoli goliardicamente derisori, orgogliosamente razzisti e misogini di Indro Montanelli.

Montanari porta l’esempio dell’Aula Magna della Sapienza di Roma, affrescata da un dipinto di Mario Sironi celebrativo dei fasti mussoliniani. Italo Balbo, Rodolfo Graziani, Giuseppe Bottai e altri gerarchi fascisti godono tuttora di imperitura e grata memoria in diverse città della penisola, e anche i nomi delle strade non sfuggono a questa genuflessa tradizione. L’universo femminile viene ignorato: solo otto vie su cento sono dedicate a figure di donne, perlopiù rappresentative della classicità, della mitologia, e soprattutto del mondo cattolico (madonne, sante, martiri), della cura e del sacrificio personale.

Non si tratta solo di dare un giudizio estetico sulla qualità spesso scadente di molte opere d’arte, ma di considerare il codice dei significati che vengono trasmessi, generalmente di subordinazione e obbedienza a ideologie che calpestano i diritti delle minoranze, la pluralità delle culture, la differenza di genere, lo sfruttamento della forza lavoro.

Nei monumenti e nelle intitolazioni di strade e scuole, così come nel calendario civile (con un 2 Giugno celebrante la festa della Repubblica attraverso discutibili parate militari), il messaggio trasmesso è inequivocabile: “La scrittura simbolica dello spazio pubblico non è mai neutrale, non è un saggio di storia o una lezione accademica: è invece un atto politico che sceglie un versante della storia, e lo propone alla venerazione di tutta una comunità”.

La proposta suggerita da Tomaso Montanari (già indicata nel libro di Alessandro Portelli Il ginocchio sul collo, recensito in gennaio su Gli stati Generali) non consiste nell’esortare alla cancellazione e all’abbattimento di statue e testimonianze di un passato controverso e non condivisibile, ma in una loro risignificazione, risemantizzazione da affidare a storici e artisti che ne accompagnino l’esposizione con commenti adeguati. Oppure nel loro trasferimento dallo spazio pubblico a uno spazio museale “in cui la loro intera storia venga narrata nel modo più oggettivo, largo e inclusivo”, senza tuttavia eliminare i segni della loro precedente esistenza in luoghi destinati alla visibilità collettiva.

Basta una targa, per inquadrare correttamente le tante cose che una statua può raccontare su ciò che ha davvero raffigurato in passato e rappresenta nell’oggi.

 

© Riproduzione riservata                        «Gli Stati Generali», 16 febbraio 2024

 

 

RECENSIONI

POMPILI

DOMENICO POMPILI, SUL SILENZIO

LETTERA PASTORALE ALLA CHIESA DI VERONA, 2023

 

A un anno dall’investitura, il Vescovo di Verona Domenico Pompili ha inviato una Lettera Pastorale indirizzata alla sua Diocesi, ma rivolta idealmente a quanti – credenti e non – siano interessati a confrontarsi sul valore attribuito alla comunicazione, e al ruolo che all’interno di essa riveste il silenzio. Il testo, intitolato appunto Sul silenzio, è diviso in due sezioni, la prima meditativa ed esplorativa dell’argomento, la seconda dedicata alle indicazioni pastorali da accogliere nelle parrocchie, nei seminari, in tutte le strutture religiose della provincia.

Situato nel solco di una lunga tradizione culturale che, partendo dai classici occidentali e orientali scava nel ricco patrimonio della spiritualità cristiana, lo scritto di Domenico Pompili si richiama esplicitamente alla discrezione che del silenzio è fondamento, attraverso uno stile pacato, non assertivo, espresso con una sensibilità vicina allo spirito della poesia.

Già nell’introduzione, dopo un suggestivo omaggio alla “bellissima terra veronese”, Pompili dichiara quali obiettivi si ponga nella sua Lettera: “più che stilare progetti, elencare priorità o fantasticare di sogni, desidero avviare una riflessione che in questo anno possa alimentare la vita della nostra chiesa e divenire il terreno nel quale radicare la nostra azione pastorale”.

Il silenzio, infatti, si pone come realtà “al fondo, al cuore, all’inizio di ogni avventura cristiana”, poiché risponde a una ricerca di interiorità e di concentrazione sulle cose essenziali. Rientrare, agostiniamente, nell’intimo meo, insegna ad “ascoltare la parte più vera di sé, in mezzo al frastuono frenetico di un mondo inquinato dal rumore: il rumore esterno e quello, ancor più pervasivo, dei vari dispositivi elettronici, che creano una ‘eco’ assordante ed isolante”.

È necessario allontanarsi dalle chiacchere, dal parlare vano, disattento, indifferente e offensivo, come ammoniva Gesù: “Ma io vi dico che di ogni parola infondata gli uomini renderanno conto nel giorno del giudizio” (Mt 12,36). Proprio Gesù sapeva insegnare, non solo a parole, ma anche tacendo (Gv 8,1-11, Mt 7,31-37), e usando un linguaggio che da kerygmatico aveva saputo farsi parabolico, e poi didattico e infine testimoniale, nel sacrificio della croce.

“Il silenzio è recettivo, non impositivo; è comprendere, non prendere; è contemplativo e proattivo insieme”, pur nella sua difficile definizione, e talora nella sua ambiguità. Ci sono infatti silenzi cattivi, quelli dell’omertà che nasconde o difende gli abusi, o i mutismi umilianti che indicano disprezzo dell’altro, ostilità, inimicizia. E altri invece che rivelano angoscia, solitudine, marginalità sociale, depressione, impossibilità di chiedere aiuto, e reclamano il nostro impegno a interpretarli.

La voce del Vescovo diventa essenzialmente quella del Pastore, quando si incrina commossa e solidale raccontando il dolore inascoltato dei più fragili: dei vecchi, desiderosi del calore di un abbraccio; degli adolescenti, auto-isolantisi in mondi paralleli perché esclusi dall’universo adulto; dei migranti in attesa di un riconoscimento umano e sociale; delle donne la cui specificità femminile viene negata e troppo spesso violentata; dei carcerati allontanati dal consorzio civile; delle chiese cristiane che aspirano a un ecumenismo comprensivo.

C’è anche, spesso indecifrabile e scandaloso, il silenzio di Dio, quando non risponde alle invocazioni delle creature. Dio tace perché offeso dalla malvagità umana, o per una esigente volontà educativa, o semplicemente perché “solidale con il grido disperato che nessuna parola potrà mai consolare”. Domenico Pompili si appoggia alle parole sagge dei filosofi (Søren Kierkegaard, Hans Jonas), di chi ha patito la persecuzione nazista (Elie Wiesel, Etty Hillesum), dei poeti (Antonio Machado, Mario Luzi), dei santi, e cita un famoso passo dell’Antico Testamento (1Re 19, 11-13), in cui Dio si rivela a Elia con “la voce di un silenzio sottile”, dopo aver negato la propria presenza nel vento, nel terremoto, nel fuoco.

La seconda parte della Lettera è dedicata alle Indicazioni Pastorali, intese a suggerire alcune piste operative, da integrare con nuove proposte delle comunità cattoliche sparse nel territorio. Partendo dall’affermazione forte e coraggiosa che “la chiesa è solo un ponte necessario per avanzare, non la meta”, e che “la parrocchia resta fondamentale, ma non può non allearsi con realtà più ampie. Nessuno ha in mente di abolire i campanili. Il campanilismo, però, è ormai decisamente anacronistico”, il Vescovo incoraggia a un’azione pastorale diffusa, impegnata a trasformare l’immobilismo esistente. Invita pertanto a “riaprire le chiese, perché diventino scuola in cui reimparare il silenzio, luoghi nei quali chiunque possa non solo trovare uno spazio in cui celebrare il mistero di Dio, ma anche semplicemente sostare nella ricerca di un anelito di umanità. Vivere un tempo di sosta e di silenzio, sottratto alla frenesia della corsa e alla schiavitù dell’utile”.

Il silenzio va incentivato nei luoghi formativi della cattolicità, dalla catechesi alla riflessione teologica. E in che modo? Fare, custodire, insegnare, condividere il silenzio, diventando “sia come persone che come comunità, spa zi di ascolto, laboratori di contemplazione… per entrare in relazione con sé stessi, con gli altri e con Dio”. È opportuno promuovere “centri di ascolto del Vangelo, di scuole della Parola, incontri di cultura biblica”, e “riscoprire il silenzio nelle celebrazioni, talora frettolose e assordanti, preoccupate di riempire spazi e rispettare forme più che di aprire cuori e menti alla realtà che si celebra”, garantendo alcuni momenti di riflessione personale “dopo l’ome lia, come aveva insegnato Benedetto XVI, e dopo la comunione, invece di aprire il profluvio degli avvisi parrocchiali”.

Domenico Pompili conclude la sua Lettera con paterna sollecitudine, nell’esortazione ad accogliere il silenzio allestendo “una ‘tavola comune’ a cui sedersi insieme per condividere la fatica di un mondo che è diventato sordo per il troppo gridare”.

 

© Riproduzione riservata         «Mosaico di pace», 14 febbraio 2024

 

 

 

 

 

 

 

 

POESIE

4 LUGLIO 2012

Scalare, elementare, massivo

nuota in un campo vibrante

per dare principio

al principio

s’immola

decadendo

morendo in meno

di un nano secondo

eppure vivo

brucia di luce

scuce materia danzante

esplode

da non dimensione

si fa dimensione

solamente supposto

pensato sognato

ma poi investigato

scomposto

fortuito modello

ideato braccato

per cinque decenni

infine tracciato

vicino a Ginevra

scoperto arrestato

nel tunnel

profondo

blindato protetto

armato circuito

di ghisa cemento

e dentro magneti

niobio titanio

freddati nell’elio

intorno protoni

neutroni elettroni

l’intero universo

compresso

nel mitico Atlas

fissando

l’inizio del mondo

dannato bosone

sfuggente

alla scienza

sprovvisto di mente

e senza coscienza

si fa creazione

gratuita perfetta

bellezza di stella

di aria di terra

di noi finitezza

o tu particella

tu sia benedetta

se dio

è un’ipotesi

errata esaurita

non più necessaria

bosone

signore del tutto

bosone che muore

inventando

la vita.

 

In Quanto di storia, Marco Saya, Milano 2023

 

 

RECENSIONI

NICOLA VACCA

NICOLA VACCA, LIBRO DELLE BESTEMMIE – MARCO SAYA, MILANO 2023

I quattro autori delle frasi poste a esergo dell’ultima raccolta di versi di Nicola Vacca (Nietzsche, Cioran, Bufalino, Pavese) vengono citati per suffragare le tesi che il poeta esprime – coraggiosamente, provocatoriamente – ne Il libro delle bestemmie. Tesi che attribuiscono alla bestemmia la funzione di cartina tornasole, in quanto anche qualora esistesse un essere supremo, benevolo e provvidenziale, creatore del cielo e della terra (“un Dio eventuale”, come lo definiva Pavese), essa ne indicherebbe sia la presenza sia l’assenza, esaltandone o distruggendone il concetto nel momento stesso in cui viene pronunciata. La parola, il nomen, anche quando è oltraggioso, offre sostanza all’idea: nomina sunt consequentia rerum.

Vincenzo Fiore nell’acuta postfazione afferma giustamente che “a dare più credito a Dio sono coloro che paradossalmente non riescono più a credere in Lui”. E infatti Nicola Vacca confessa il suo rovello, perché il pensiero di Dio lo assilla proprio nell’ansiosa volontà di cancellarlo: “Mi pongo domande mentre vaneggio / di bestemmia in bestemmia”.

Sulla scia del pensiero illuminista, razionale, irreligioso, Vacca considera la divinità un’invenzione dell’uomo creata per sfuggire alla propria paura di vivere e di morire: “il prodotto delle debolezze umane”, secondo Albert Einstein. E rivolge i suoi appuntiti strali contro l’istituzione ecclesiale e il gregge dei timorosi fedeli che se ne dichiarano seguaci (ma già Padre Turoldo ammoniva “Dio ci liberi dai carismatici”): “Barricati nelle chiese / sono tutti in fila / davanti al confessionale / per chiedere l’assoluzione / a un dio che non è mai sceso quaggiù”.

Il poeta professa a gran voce il suo risentito ateismo, sfiorando spesso l’eccesso blasfemo nell’irriverente litania degli attributi relativi a Dio: illusionista equivoco ciarlatano oscuro crudele indifferente disoccupato baro muto vigliacco bastardo malvagio funesto, “un boia / che non si sporca le mani”, “un imbroglio su cui sputare”.

Nemmeno Cristo si salva da tale iconoclastia verbale, perché – fragile e impotente –, non potrà mai risorgere dalla morte che il Padre gli ha imposto dopo averlo lasciato solo: “Cristo si copre gli occhi / perché non vuole vedere / gli orrori che ha creato suo padre”.

L’indignazione di Nicola Vacca, novello Savonarola eretico, accomuna creatore e creature: “Dio è il vuoto / che marcisce insieme a noi”, “Questo mondo è sporco / come dio che lo ha creato”, “se l’umano è marcio, il divino è lurido”. Disgustato ed esacerbato, implora l’estinzione del mondo, destinato ad auto-distruggersi a causa della sua stessa iniquità, dato che i tanto proclamati valori morali (amore, amicizia, famiglia, fede, gloria) servono solo a coprire il “tanfo” del sudiciume.

La copertina che il poeta ha scelto per la raccolta è esplicitamente rappresentativa della funerea tensione che la attraversa: lo spaventoso Inferno magistralmente dipinto da Hieronymus Bosch nel trittico de Il Giardino delle Delizie.

Nella visione totalmente negativa dell’umanità, ormai priva di qualsiasi futuro, l’autore chiama come testimoni e sodali altri poeti e scrittori (Majakovskij, Ritsos, Strand, Artaud), che tuttavia non sono riusciti con la severa purezza delle loro parole a risvegliare le coscienze degli uomini, e a salvarli.

Le quattro sezioni in cui si suddivide il libro (Un dio contro, Dalla parte del cecchino, Lode all’Anticristo, Cattive notizie giungono dall’alto) esprimono un crescendo di ferocia rabbiosa, e il poeta ostenta consapevolmente l’immagine di sé come giustiziere e vendicatore, cucendosi addosso le sembianze del tiratore scelto, che implacabile prende la mira per annientare illusioni, false credenze e ipocrisie del senso comune: “Amo le parole che sbranano / adoro i concetti che dilaniano”. In questo “squartamento” di sé e degli altri, Vacca ha bene assorbito la lezione di Cioran, attribuendosi “il tentativo / di un estremo atto di rivolta / contro il vuoto che inghiotte tutto”.

Se la corrente della poesia civile, nelle sue accezioni politiche e sociali, ha attraversato tutta la storia letteraria italiana da Dante in poi, con particolare vigore nell’800 risorgimentale e poi durante e dopo le due guerre mondiali, spingendosi fino al dichiarato impegno antifascista e anticapitalista degli scrittori attivi tra il 1950 e il 1970 (Pasolini, Fortini, Pagliarani, Sanguineti, Sereni, Roversi, Porta, Balestrini ecc.), la poesia anticlericale non ha avuto altrettanta diffusione nelle patrie lettere. Dai canti carnascialeschi medievali, alla satira di Giusti, al demonismo carducciano, fino allo scherno beffardo dei sonetti romaneschi, forse è solo nella bruciante contestazione di due religiosi, Turoldo e Tartaglia, e nell’invettiva pasoliniana di “A un Papa” (“non c’è stato un peccatore più grande di te”) che possiamo trovare un antecedente allo sdegno profano e maledicente di Nicola Vacca.

Che tuttavia nel Finale della raccolta, ridotto a pochi versi, si dichiara sconfitto, ammettendo di aver cercato inutilmente “uno spiraglio / nella crepa dell’esistere”, battendosi per “un gesto urgente / in una rivolta senza senso”. Se è insensato vivere, se è insensato credere, altrettanto vano è ribellarsi al destino di morte stabilito per ciascuno, il più ingiusto sopruso patito dall’essere umano, non riscattabile da alcuna speranza in un aldilà riparatore: “verrà la morte e avrà i nostri occhi / questa è la verità / che dovremmo tenere a mente / mentre collezioniamo bugie per sopravvivere”.

 

© Riproduzione riservata            «Gli Stati Generali», 10 febbraio 2024

 

 

 

 

 

 

 

RECENSIONI

PALERMO

ANTONELLA PALERMO, IL GIUNCO E LA STATUA – VYDIA, MONTECASSIANO (MC) 2024

 

Antonella Palermo, giornalista di origini molisane, vive e lavora a Roma, occupandosi di informazione culturale e attualità internazionale. La sua terza pubblicazione in versi, Il giunco e la statua, edita da Vydia, è introdotta da un’intensa, empatica e sapiente prefazione di Elena Santagata, che ne mette in luce non solo lo stile controllato e piano, fedele a “modulazioni anti-sperimentali”, ma anche l’equilibrato rapporto tra ambientazioni esterne e risonanze interiori, quale si evince dai contenuti della sua scrittura poetica.

Quindi ci imbattiamo in oggetti e persone che affollano le stanze o altrimenti le disertano, creando sospensioni, inquietudini e trasalimenti emotivi. Presenze e assenze, entrambe osservate analiticamente, descritte con attenzione partecipe, e vissute con il pathos di un’acuta sensibilità. La conclusione delle singole composizioni, ridotta a pochi o addirittura a un solo verso, esprime spesso una valenza gnomica e imperativa, rivolta più alla stessa autrice che ai lettori, quasi fosse motivata da un’ansia esplorativa che richiede di essere controllata razionalmente.

La raccolta, dedicata al padre morto dopo una sofferta malattia, si scandisce in tre capitoli.

Il primo è emblematicamente intitolato   Il tavolo al centro, a indicare l’elemento dominante di un cenobio familiare non sempre affettuoso: “Ci si sbranava per minuzie // qui ora si gioca al minimo, / le voci attutite, / sentire il vuoto sotto / anche se poggiamo i piedi”. Letti, sedie, divani, mensole, valigie: l’abituale arredamento domestico “si specchia / in un cuore imploso / e smemorato”. L’interno, con l’odore di cavolo bollito, il torsolo di mela ossidato, la polvere che si accumula sui mobili, l’assedio di mosche e formiche, riacutizza un cocente senso di disillusione per le “antiche sicurezze” crollate. Ma anche il fuori, visualizzato in vetrine spoglie, mendicanti, campanelli di ottone sulle porte, suscita una gelida vertigine, derivante dal rapporto tormentoso con un’alterità ostile.

La seconda breve sezione, L’ammanto, è un tenero omaggio al padre contadino, ridotto dalla malattia a esile giunco, a statua di Giacometti, a reliquia fossile. L’uomo che aveva usato tutta la sua forza “per spostare zolle / costruire il pozzo, tirar su gli ulivi” ora, nel suo giaciglio di ospedale, ha perso la voce, respira con l’ossigeno, non controlla più i movimenti. Giustamente la prefatrice parla di un’adesione di Antonella Palermo a un canone di “poesia terminale” inaugurato dalla Serie ospedaliera di Amelia Ros selli, e recentemente frequentato da numerosi autori, con la rievocazione delle dolorose agonie dei genitori, la riflessione sulla memoria e sulla morte, e quindi la finale elaborazione del lutto.

Nell’ultima parte del volume, La parola si arrende, la scrittura si immerge invece nel brulicare della vita, tra paesaggi, situazioni, e frequentazioni personali diverse. I viaggi (Sicilia, Sardegna, trafficate metropoli) presentano l’opportunità di godere nello stesso tempo di “solennità e grazia”, di “Girasoli maestosi / su giacimenti di sterpaglie”, di prolungati silenzi infranti dai “clamori dei bambini”.

Ma nonostante questo vorticare di distrazioni, di incontri, di eventi e località da scoprire, “Non diluisce la piena del dolore”. La poeta esamina con severità il suo atteggiamento di fronte all’esistenza, interrogandosi: “Posso rigare dritto, con voracità, o / ricominciare a dubitare”. Al bivio tra scelte diverse, generose o egoistiche, vitali o deprimenti, prova uno slancio di solidale amicizia nei riguardi della realtà: “Vorrei rammendare gli scheletri del mondo”.

E la parola finale, quella che si arrende al proprio potere trasformatore, è infine rivolta all’altro da sé, che sia un amico, un amore, un fantasma implorante soccorso: “Appòggiati”, gli dice.

 

© Riproduzione riservata    SoloLibri.net       6 febbraio 2024

 

RECENSIONI

TOLENTINO

JOSÉ TOLENTINO DE MENDONÇA,  ESTRANEI ALLA TERRA – CROCETTI, MILANO 2023

José Tolentino de Mendonça (Machico 1965), cardinale, teologo, docente universitario, dal settembre 2022 è Prefetto del Dicastero per la cultura e l’educazione. Recentemente vincitore del Premio Lerici Pea, nel 2014 ha rappresentato il Portogallo nella Giornata Mondiale della Poesia. Tra i temi principali delle sue numerose raccolte di versi, oltre a un rapporto intimamente vissuto con la natura, troviamo la riflessione filosofica sulla libertà e sul tempo come eventi dell’umano e del sovrumano, inseriti in un ambito di pensiero cristiano apertamente ecumenico.

Estranei alla terra è il suo ultimo volume, edito da Crocetti: comprende i versi pubblicati in La strada bianca del 2005 e in Teoria della frontiera del 2017. A conclusione di entrambe le sezioni, Mendonça ha voluto apporre due riflessioni teoriche su significato e finalità della poesia, di cui sottolinea il carattere dissidente, ereticale, addirittura guerrigliero e fuorilegge: “Una poesia abbraccia precisamente l’impurezza che il mondo ripudia”. Nella sua “estraneità alla terra”, la poesia assume la forma di apostasia, indifferente all’“onnipotenza di ciò che è visibile, stabile, appreso”.

Per nulla consolatoria o devozionale, la voce intensamente spirituale di José Tolentino Mendonça è anche profondamente incarnata nell’innocente “materialità del corpo”, nella sua “esatta trasparenza”: “Ogni corpo è sempre senza speranza / e, tuttavia, la speranza / solo ai corpi appartiene”. I corpi abbruttiti e sofferenti degli emarginati e dei clandestini, destinati ad assumere su di sé “la spazzatura del mondo”, in realtà rivestono i panni luminosi degli angeli di Jahvé.

C’è, nella poesia di Mendonça, un’esplicita e orgogliosamente esibita ostilità verso il limite, la costrizione, la regola imposta: “malgrado fissa dimora e orari stabiliti / è per strada che dormiamo, a cielo aperto”, mentre è all’infinito che aspira, allo sconfinato di cui giustamente parla Alessandro Zaccuri nella partecipe prefazione, quando afferma che solo la poesia – in virtù della sua smisuratezza, della sua “natura originaria e insieme insurrezionale” -, è autorizzata ad avventurarsi nelle regioni dell’interiorità e del sacro. Della riflessione introspettiva il poeta conosce beneficio e seduzione, ma anche il turbamento e “l’indefinibile inquietudine”, il “governo del vuoto / … la caduta senza fine”. La noche oscura di San Juan de la Cruz preme su di lui con lo strazio dell’inadeguatezza, del dubbio e dell’abbandono: “a volte vedo andare a rotoli / giù per le scale la mia vita”, “Da parte mia non so mai / se sono irrimediabilmente lontano o troppo vicino a Dio”, “immagino il mio scendere nel buio / scialuppa calata nella solitudine”.

A salvarlo interviene la nostalgia di assoluto, l’attesa del miracolo, la fede che supera ogni confine spazio-temporale: “l’anima non abita dentro il proprio tempo / porta con sé una fragranza lontana”.

La volontà di partecipare alla storia, quella mitologica e millenaria e quella più recente (l’assassinio di Pasolini, il consumismo, il delirio televisivo, la corruzione ambientale e morale), si scontra con il timore di non riuscire a giustificare l’assedio del reale (“Io dicevo alle montagne: ‘cadete sopra di me’ / e alle colline: ‘nascondetemi’”).

Nella ricchezza di originali metafore visive e uditive, i versi di Mendonça si accendono di colori e suoni quando descrivono la natura assolata od ombrosa, che nel fitto della vegetazione, nel violento abbattersi delle tempeste o negli abissi siderali, mantiene traccia di un passaggio celeste: “il fruscio d’argento del fogliame / anticipa il passo dell’angelo, nel buio”, “in mezzo a quella terra incolta  / eriche, rovi, lentischi, mirti e ginestre / crescono come se lì ci fosse qualcosa / grazie a cui restare in vita”.

Se all’apparire di un segno soprannaturale si accompagna il silenzio, incapace di mentire (“prendi in bocca / il silenzio e immergiti con lui / fino al fondo / in questo consiste la vera devozione”), ecco che allora anche il ricordo di un volto amato, di un respiro sottile fa sussultare il tempo, supera ere geologiche e spazi cosmici, crea “punti di luce” nel buio del presente, con la dolcezza del sentimento condiviso.

 

© Riproduzione riservata          «L’Indice dei Libri del Mese», n. II – febbraio 2024

 

 

 

 

 

 

RECENSIONI

DODA

IRENE DODA, L’UTOPIA DEI MILIARDARI. ANALISI E CRITICA DEL LUNGOTERMISMO

TLON, ROMA 2024

In un’ottantina di pagine, Irene Doda analizza criticamente e con verve polemica la corrente di pensiero del lungotermismo, inaugurando la nuova collana Urano delle edizioni Tlon con il volume L’utopia dei miliardari, saggio che si situa tra l’inchiesta sociologica, l’analisi politica e la filosofia etica. L’autrice, giornalista trentenne, si occupa di tematiche legate al lavoro e alla tecnologia, esplorando le tesi che forniscono giustificazione ideologica alle teorie produttivistiche dei giganti del tech mondiale. Pur affrontando argomenti complessi, la sua prosa si mantiene costantemente e lucidamente accattivante e vivace, soprattutto nelle frequenti digressioni ed esemplificazioni con cui accompagna dati più aridamente impegnativi.

Già nell’introduzione, ironicamente intitolata Apocalisse in SLOW MOTION, la presentazione del mondo contemporaneo in collasso fisico e mentale appare pungente e allarmata, nell’elenco dei disastri accumulatisi durante l’ultimo secolo, e nella presentazione delle finalità del suo libro: “Questo breve testo ha come protagonisti gli autoproclamati creatori del futuro: professori di Oxford, miliardari della Silicon Valley, ideologi e guru degli ultraricchi. Mentre il resto del mondo arranca, tra il clima impazzito e la povertà, le elezioni e i colpi di Stato, le epidemie e le diseguaglianze che crescono, questo piccolo e agguerrito gruppo di potenti sostiene di avere in tasca le soluzioni, addirittura scientifiche, ai dilemmi esistenziali dell’umanità”.

I nuovi insaziabili padroni del mondo, animati da delirio di onnipotenza, propugnano un’ottimistica filosofia che sta conquistando le grandi fondazioni filantropiche, le aziende multinazionali, le istituzioni politiche, con la promessa di un futuro prospero e felice di cui l’umanità godrà tra millenni, in una florida civiltà multiplanetaria per ora solo immaginata. Questa ideologia è stata chiamata “lungotermismo” proprio a causa della sua procrastinazione molto lontana nel tempo, che non mette in discussione le attuali strutture del capitalismo, del consumo, dei cicli di produzione. Nonostante l’approccio si presenti come scientifico, esso ha in realtà una forte impronta fideistica, e presenta molti elementi simil-religiosi vicini al fanatismo, nella sua illimitata fiducia in una salvezza dall’estinzione per la specie umana, che al contrario ne garantisca l’espansione e uno stato di benessere totale, sotto la guida di pochi spiriti eletti.

Il saggio di Irene Doda è strutturato in tre capitoli, il primo dei quali analizza le origini filosofiche del lungotermismo e il profilo dei suoi fondatori e sostenitori, il secondo ne approfondisce le contraddizioni e i rischi di applicazione pratica, e il terzo esamina le possibilità di una politica alternativa alla sua visione millenaristica. Nato e diffusosi in ambienti anglosassoni attraverso l‘opera del giovane accademico scozzese William MacAskill, deriva concettualmente dalla lezione dell’altruismo efficace (a sua volta ispirato alla filosofia settecentesca dell’utilitarismo).

Secondo MacAskill, lo stato attuale della vita dei sette miliardi di abitanti della terra è meno importante della realizzazione del potenziale umano nei millenni che verranno, pertanto è necessario impegnarsi per assicurare alle generazioni future una sopravvivenza il più possibile positiva, anche se si dovessero affrontare rischi minacciosi per il presente. Nell’ipotesi di una colonizzazione futura della nostra e di altre galassie, il numero in potenza degli abitanti potrebbe essere di miliardi e miliardi di “persone”, molto diverse da quelle oggi esistenti, digitali anziché biologiche, programmate per costruire comunità stabili e sagge, capaci di reagire a eventi distruttivi, naturali o politici, massimizzando la quantità totale di “valore” nell’Universo.

Non ci troviamo davanti a ipotesi fantascientifiche ideate su internet da gruppetti di cervellotici nerd, ma a vere proprie organizzazioni come il Future of Humanity Institute, il Global Priorities Institute e il Future of Life Institute creato da Elon Musk, che stanno raccogliendo proseliti tra filosofi, scienziati, informatici, finanzieri, appoggiati da ricercatori della prestigiosa Università di Oxford. Irene Doda elenca dettagliatamente i nomi delle Fondazioni che finanziano gli studi sul lungotermismo (Effective Ventures, Open Philanthropy, GiveWell, Good Venture), dei plutocrati che ne sono a capo e dei teorici che l’appoggiano (William MacAskill, Toby Ord, Hillary Greaves, Dustin Moskovitz…). Si tratta di personalità di rilievo delle università d’élite americane e britanniche, del mondo della Silicon Valley, delle grandi banche, che rivestono ruoli decisivi nelle organizzazioni politiche ed economiche internazionali.

Come il neoliberismo ha trasformato l’economia mondiale negli ultimi decenni, promuovendo le privatizzazioni, smantellando il welfare, e riducendo gli spazi democratici, così il lungotermismo inaugura una nuova, silenziosa rivoluzione ideologica, e un’operazione culturale appoggiata da imponenti flussi di denaro, in grado di infiltrarsi nei gangli del potere internazionale.

La prima evidente falla di una tale impostazione di pensiero è che nessun organismo politico o scientifico potrà mai prevedere il complesso sviluppo di un universo interconnesso, gli eventuali sconvolgimenti cosmici, le difficoltà materiali di una colonizzazione di pianeti extraterrestri, gli imprevedibili scontri con civiltà aliene, né tantomeno le scelte etiche di singoli individui che potrebbero mettere a repentaglio la sicurezza di intere nazioni: un qualunque evento casuale può portare a conseguenze imponderabili e deleterie. Se è già difficile progettare soluzioni in orizzonti di tempo limitati, sembra illusorio proiettarle in ere millenarie come quelle prospettate dal lungotermismo. Oltretutto, esso ha un rapporto ambiguo con la tecnologia, che viene a volte demonizzata (si consideri l’ostilità di Musk verso l’IA) e altre volte esaltata come unica possibilità di salvare il genere umano dalla fine, soprattutto se estremizzata secondo la più recente teoria dell’“accelerazionismo effettivo”, conosciuto anche con la sigla di e/acc, che propone uno sviluppo massiccio e sregolato dell’intelligenza artificiale. La principale ambiguità del lungotermismo riguarda infatti la dipendenza dai magnati dell’industria tecnologica, che ne finanziano generosamente ricerca e propaganda, appellandosi a un fantomatico bene superiore per giustificare qualsiasi misfatto compiuto nel presente attraverso l’inquinamento, il riscaldamento globale, la desertificazione, lo sfruttamento della forza lavoro. La filosofa Alice Crary così commenta: “Il lungotermismo ci chiede di salvaguardare il futuro dell’umanità, facendoci distogliere l’attenzione dalla miseria attuale e tralasciando di esaminare strutture socioeconomiche dannose”. L’impostazione filantropica assunta da molte multinazionali appare allora un alibi per non mettere in discussione le radici delle diseguaglianze. Esiste poi un’altra contraddizione tra l’impronta ecologica di Google, Amazon, Tesla e altri giganti tech, e i loro data center, che hanno un tasso molto elevato di emissioni di gas serra, quasi che la tanto proclamata lotta al cambiamento climatico sia una gigantesca opportunità di espansione del business e di acquisizione di nuovi brevetti tecnologici.

Un’ulteriore debolezza di questa ideologia e dei suoi adepti è la totale e deliberata ignoranza dell’alterità, delle differenze, delle possibilità e dei progetti che possono essere messi in campo per raggiungere molteplici futuri possibili. Nel loro esasperato antropocentrismo, i lungotermisti ignorano tutte le altre forme di vita animale e vegetale, i cui diritti vengono appiattiti sulle esigenze umane.

Secondo Irene Doda, per inventare un itinerario di resistenza agli universalismi che tendono all’assimilazione è essenziale costruire nuove relazioni tra esseri umani, alleanze multi-specie, connessioni con l’ambiente naturale, persino con le macchine. Bisogna accettare di vivere nell’incertezza, partendo anche dal caos attuale, consapevoli della relativa inadeguatezza e insignificanza dell’essere umano, che non è e non sarà mai onnipotente, ma può costruire percorsi alternativi di giustizia sociale, di solidarietà e progresso comune, qui e ora.

 

© Riproduzione riservata          «Gli Stati Generali», 25 gennaio 2024