GASTON BACHELARD, LA POETICA DELLO SPAZIO – DEDALO, BARI 2006
Il filosofo francese Gaston Bachelard (1884–1962) fu un epistemologo dai molteplici interessi culturali: partendo da studi scientifici di fisica e chimica, si dedicò in seguito alla psicanalisi e all’antropologia. Nella seconda parte della sua carriera, si avvicinò in particolare alla ricerca sull’immaginario poetico, sottolineando la superiorità del fantastico e della “rêverie” rispetto alla razionalità e al ragionamento logico.
In questo volume su La poetica dello spazio, pubblicato nel 1957 dopo altri titoli importanti (La psicanalisi del fuoco; dell’acqua; dell’aria) ribadisce ostinatamente la sua convinzione riguardo alla folgorazione che un’immagine poetica, quando sia veramente tale, produce nel lettore, provocando in lui un “retentissement” (una risonanza: ma in francese il termine mantiene un alone di più immediata allusività), colpendo il suo inconscio con una “sonorità di essenza”. Rifiutando sia ogni semplificatrice motivazione psicanalitica, che tende a spiegare la poesia servendosi dell’analisi di ipotetici traumi biografici dell’autore («lo psicanalista pretende di spiegare il fiore attraverso il concime…»), sia le letture destrutturanti di certa linguistica, Bachelard propone – quasi romanticamente – una sua interpretazione fenomenologica dell’immaginazione poetica, che «emerge alla coscienza come prodotto diretto del cuore, dell’anima, dell’essere dell’uomo colto nella sua attualità».
L’immagine sorge prima del pensiero, direttamente da un’emozione del poeta, e «nella sua semplicità non ha bisogno di un sapere: essa è la ricchezza di una coscienza ingenua, nella sua espressione è linguaggio giovane». Linguaggio giovane che, con la sua novità, mette in moto un’originale e sorgiva attività linguistica, tuttavia nutrita di memorie. In particolare, di memorie spaziali, geografiche, che riesce a sublimare in maniera intuitiva, istintiva, imprevedibile. Il poeta rievoca, scrivendo, gli spazi amati, «gli spazi di possesso, difesi contro forze avverse». Ritornano, nelle sue rêveries (parola molto amata da Bachelard) le immagini della casa, che diventano la topografia del suo intimo. In generale, tutti gli esseri umani, ricordando le case e le camere in cui hanno vissuto, tornano a dimorare in se stessi, rannicchiandosi – per così dire – in un rifugio protettivo che hanno amato («la casa è il nostro primo universo»), o temuto, ma che comunque li ha nutriti. Quali sono gli ambienti domestici che più ritornano nelle immaginazioni poetiche, nei sogni, e anche negli incubi? Secondo Bachelard, la cantina e la soffitta, scavo e salita, riparo ed elevazione, irrazionale e razionale: sempre nel segno della verticalità, questi due ambienti evocano paure ancestrali e solitudine, silenzio e protezione dall’invasione altrui. Dagli ambienti della casa, il filosofo passa poi ad analizzare «la casa delle cose», cassetti, cassapanche, armadi: una sorta di «estetica del nascosto», in cui si racchiudono i propri segreti, in una dialettica del dentro e del fuori, dell’aperto e del chiuso. Che poi si collega al passaggio successivo, allo spazio dell’eterno e dell’immensità, anch’essi fucine di splendide immaginazioni poetiche, di turbinose visioni artistiche.
Il “fuori di noi” che è senza misura (mare, oceano, deserto, foreste, cieli…) ci allontana dalle meschinità quotidiane, allargando la nostra anima in una visione di vastità, inducendola alla contemplazione della grandezza che ci sconfina da noi stessi: «L’immensità è in noi, è legata a una sorta di espansione di essere che la vita frena e la prudenza arresta, ma che riprende nella solitudine». L’invito di Bachelard è allora a non avere paura del sogno, del ricordo, dell’immaginazione e della poesia: «Ah! Quanto avrebbero da imparare i filosofi se si risolvessero a leggere i poeti!». Scriveva Pierre-Jean Jouve, «Poiché noi siamo dove non siamo».
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www.sololibri.net/La-poetica-dello-spazio-Bachelard.html 6 febbraio 2017