ALAN BENNETT, LA PAZZIA DI RE GIORGIO – ADELPHI, 1996
Nelle trenta pagine di introduzione a questa celebre commedia, rappresentata con successo a Londra nel 1991, l’autore afferma che “ogni descrizione di fatti politici, qualunque sia il periodo, fa affiorare analogie con fatti contemporanei”, contemporaneamente negando qualsiasi intenzione polemica nei confronti della politica britannica contemporanea. Insomma, come nei titoli di coda dei film, “ogni riferimento a persone o fatti realmente accaduti è puramente casuale”. Così nella pazzia di Re Giorgio III (che forse era soltanto l’esito di una malattia organica, la porfiria) non dovremmo leggere allusioni alla monarchia Windsor o a eventuali fatti di corruzione di corte, ma solo una rappresentazione tragica e insieme ironica dell’eterno balletto che danza intorno all’esercizio del potere, ovunque e sempre. Quindi, “Siamo tutti Whigs, finché non arriviamo al governo. Poi si diventa tutti Tories”; “Qualche dannato imbecille deve aver chiacchierato. Tutti chiacchierano”; “Monarchia e follia sono due stati che hanno una frontiera in comune”; “Corrono tutti a mettersi al riparo”… sembrano osservazioni generiche che si possono riferire a qualsiasi periodo storico e a qualsiasi governo. Non sono tanto la corruzione, la cortigianeria, l’asservimento della scienza al potere, l’arrivismo, il formalismo asfissiante, il tradimento di amici e parenti a costituire il bersaglio della rappresentazione indulgente e fatalistica di Alan Bennett. Che sembra invece più interessato alla descrizione bozzettistica delle farneticazioni del re, comicamente balbuziente, improvvisamente scurrile, umiliato nella sua degradazione fisica, ma anche assolutamente umano e ingenuamente indifeso nella malattia (“Non matto però io. Non matto-matto-matto-matto. Mattestà maestà. Ma solo nervi nervi nervi sì-sss”), con poche persone fedeli intorno: per cui alla fine si parteggia per lui, e per la sua salute recuperata. “Il Re è di nuovo se stesso”.
IBS, 10 febbraio 2015