CARLO BETOCCHI, TUTTE LE POESIE – GARZANTI, MILANO 2019
“Che ne sarà del vento in Paradiso, / il vento che riporta la memoria”; “Il mio cuore è debole, stasera, / come il sole che lento risale / i tetti, e profonde sono le mie colpe; / ahi! L’uomo, come sempre tramonta”; “Cielo, quel po’ che c’è, oggi, di sole, / un po’ dalle tue nuvole, ti prego, / per il mio freddo lascia trasparire”; “C’è soltanto della pura gioia, nello stridìo / delle rondini, o anche un fitto / dolore?”; “Le stanze sono poche: la tua tosse / erra di stanza in stanza: il mio silenzio / è ovunque, quieto, strano, come fosse / lui solo”.
Sono alcuni dei folgoranti incipit delle poesie che Carlo Betocchi (straordinario, schivo, dimenticato poeta di paesaggi, di antichi amori domestici) scrisse nella sua lunga e laboriosa vita. Esistenza non puramente da intellettuale, la sua, ma all’inizio da capocantiere, vicina agli operai e alla gente del popolo, quindi da insegnante: imbevuta di una poesia imparata dai classici, fatta propria e prodotta poi con gentilezza sapiente, e con una grazia quasi francescana, da innamorato della natura e della creazione.
Betocchi nacque a Torino nel 1899 da una famiglia di lavoratori: il padre ferroviere dovette trasferirsi a Firenze quando lui aveva sette anni, e morì nel 1911 lasciandolo appena adolescente con la mamma e due fratelli minori. Formatosi nell’ambito di un cattolicesimo tradizionale e fervente, diplomato perito agrimensore, combatté nella prima guerra mondiale e poi volontario in Libia. In seguito lavorò come geometra edile, spostandosi in varie città italiane e francesi, ma mantenendo un entusiastico interesse per la letteratura, soprattutto di ispirazione religiosa. Fraterno amico di Piero Bargellini e Nicola Lisi, frequentava a Firenze gli scrittori e i critici del circolo ermetico (Luzi, Bo, Caproni), collaborando alle maggiori riviste culturali dell’epoca: Il Frontespizio, la Fiera letteraria, L’Approdo.
Attraverso un linguaggio diretto e colloquiale, un lessico privo di ricercatezze e sperimentalismi, una metrica basata sulla musicalità più lineare e cantilenante, a partire dalla prima raccolta del 1932 – Realtà vince il sogno –, Betocchi descriveva la vita quotidiana delle città, dei cantieri, delle officine e dei campi, gli affetti domestici i panorami sereni e colorati, dal cielo cristallino e dalle campagne verdi, manifestando una lieta serenità verso l’esistenza e un affettuosità fraterna nei riguardi dei viventi e della natura, restando invece indifferente ai richiami del successo economico e della celebrità mondana: “Al declinare impallidito / ti vedo, giorno infinito; / va la solitaria luna, / terra, sassi, deserta schiuma”.
Di questo primo periodo poetico, Giovanni Raboni sottolineò “la profonda veridicità, la natura essenzialmente, intimamente realistica”, venuta trasformandosi nel tempo in senso “disperatamente diaristico e introspettivo”. Ne è testimonianza l’evidente cambio di registro stilistico negli argomenti spirituali, che da una religiosità naturale e festosa passa all’interrogazione cupa e dolorosa della stagione finale, messa a dura prova da lutti e malattie, quando la fede divenuta meno candida e festosa, si fa più intima, interrogante e dubbiosa: “Oh, da vecchio, andarsene con i lunghi passi della prosa! (…) Diranno: – Com’è cambiato! È diventato un altro!”, “Lascio me stesso a me stesso, / un disutile arnese: / meglio ancora: non lascio nulla, non esisto”, “Silenzio. È la mia vita / che dice silenzio. / Non dimentica, ma tace”.
Carlo Betocchi morì a Bordighera, il 25 maggio 1986, quai novantenne. Le sue poesie sono state raccolte in diverse antologie, edite dai nostri maggiori editori. La pubblicazione più recente si deve a Garzanti, e riporta giudizi e recensioni ammirate di molti critici e poeti.
Così ne scrive Pasolini, ad esempio: “poesia piena di pace, verrebbe voglia di dire di benessere… inspiegabilità dovuta a un suo anacronismo… attenzione per le cose… pansensualismo che si identifica col panteismo… assoluto impegno umano… virile tenerezza … ininterrotto sentimento del divino…”.
E Mario Luzi: “L’umiltà è in Betocchi la coincidenza di un fervido e innato sentimento creaturale con una vigorosa e davvero rivoluzionaria intuizione conoscitiva e creativa”, Carlo Bo ne esalta soprattutto la figura umana: “Non ho mai visto tanto naturale distacco nei confronti della propria piccola fama, così come non mi è mai capitato di trovare una così piena corrispondenza fra l’uomo e il poeta”. Mentre Luigi Baldacci parla di “religiosità creaturale… magico quotidiano … perpetua meraviglia”. Infine Andrea Zanzotto: “quotidianità e brusca umiltà verso il mondo… sghemba allegria… consolazione e insieme gioia, anche un po’ stranita… luce e letizia”.
Luce, letizia, meraviglia, umiltà, benevolenza: ovviamente non si parla di un santo o di un monaco, ma di un poeta dallo sguardo capace di posarsi con trasparenza e lievità sulla realtà circostante, non sterminata materialmente, ma spiritualmente profonda e vitale.
© Riproduzione riservata «Gli Stati Generali», 6 giugno 2024