MAURO BONAZZI, CREATURE DI UN SOL GIORNO ‒ EINAUDI, TORINO 2020
Con il titolo poeticamente evocativo di Creature di un sol giorno, tratto da Pindaro, il professor Mauro Bonazzi, titolare della cattedra di Storia della filosofia antica all’Università degli Studi di Milano, ha pubblicato da Einaudi un volume che indaga il contributo della grecità (mito, letteratura, religione, arte e, ovviamente, pensiero filosofico) all’elaborazione del tema dell’essere e del non essere più, del vivere e del morire, nel suo impatto sulla cultura occidentale.
“La civiltà greca ha prodotto una riflessione luminosa sul senso della condizione umana – su quello che siamo e sul valore delle nostre vite – capace di attraversare i secoli, influenzando e stimolando grandi scrittori e grandi pensatori. Lo ha fatto partendo dal tema della morte: questo è il punto di attacco. La morte è uno scandalo, un mistero, qualcosa che non riusciamo e non possiamo accettare. Il problema non è tanto quello di dover morire; ne siamo tutti consapevoli. A essere insopportabile è l’idea che questo fatto, il fatto che prima o poi ce ne andremo, rischia di togliere valore alla nostra esistenza, qui e ora. Quale è il senso di qualcosa che non c’era, c’è e non ci sarà? Quale il valore di qualcosa destinato a scomparire nell’oblio? È questa la domanda a cui bisogna trovare una risposta, perché è qui la chiave per comprendere il senso della nostra esistenza”.
A partire dal modo in cui i greci hanno valutato la morte, Mauro Bonazzi recupera il senso che essi hanno dato alla vita degli esseri umani, creature fragili come gli insetti che vivono solo un giorno, eppure immense, nel loro “impasto di miseria e grandezza”, perché uniche e irripetibili nei pensieri, nelle azioni, nelle trasformazioni cui soggiacciono attraverso il tempo. Esseri incompleti, a cui manca sempre qualcosa che devono conquistare per realizzarsi come persone; esseri desideranti, che aspirano alla felicità, da cercare nell’amore o nella gloria; esseri prede di passioni contrastanti, a volte nobili, a volte turpi.
Prendendo le mosse da Omero, dai suoi due eroi più rappresentativi (Achille nell’Iliade, magistralmente commentato da tre studiose ebree, costrette all’esilio dal nazismo: Simone Weil, Rachel Bespaloff e Hannah Arendt; e Ulisse nell’Odissea, personificazione sia della nostalgia per il paese natio, sia dell’ansia di conoscenza), l’autore si interroga su cosa intendessero i greci per gloria (kleos), e per onore (time), e quanto fossero disposti a sacrificare di sé stessi per ottenere entrambe le cose. Consapevoli che l’immortalità si può raggiungere solo in due modi: o riproducendosi biologicamente (a livello di specie, come fanno animali e vegetali), o lasciando dietro di sé il ricordo delle proprie imprese, attraverso l’azione eroica che sottrae all’oblio, alla caduta nel nulla. È la scelta di Achille, che assoggetta anche l’eros alla brama di lode, e che muore per sconfiggere la morte. L’Ulisse omerico vaga per anni sui mari in attesa di tornare a Itaca, la “cara patria”, non spinto dal desiderio di avventura, ma solo dalla nostalgia per il focolare domestico: sarà Dante, nel celeberrimo XXVI canto dell’Inferno, a fare di lui il simbolo del desiderio di conoscenza, addirittura in grado di trascendere qualsiasi responsabilità etica, di marito, padre, re, nocchiero pur di saziare la sua ansia di sapere (“l’ardore / ch’i’ebbi di divenir del mondo esperto / e de li vizi umani e del valore”)
Fu poi Platone, nel Simposio e nel Fedro a dissertare su amore e morte, attraverso le voci di Aristofane, Socrate, Diotima, Fedro stesso, che si interrogano su cosa prevalga nell’eros, se la sensualità, l’attrazione per la bellezza fisica, il desiderio di armonia o di completarsi in un altro da sé. Un Platone recuperato anche da Freud, nelle sue indagini sulle pulsioni di piacere e morte. E Aristotele, nell’Etica Nicomachea, ventilava tre possibili strade da percorrere per costruire una vita felice: seguire l’istinto del piacere, praticare un’esistenza politicamente attiva, o scegliere la meditazione contemplativa. Inaspettatamente, lo Stagirita, filosofo della concretezza e della materia, indicò proprio nell’esercizio del logos l’unica maniera per esercitare pienamente le proprie potenzialità di uomini: “Siamo fatti per conoscere, pensare, capire, qui è la nostra vera natura”, chiosa Mauro Bonazzi. Solo attraverso il pensiero riusciamo a essere immortali e divini, partecipando all’ordine, alla verità e alla bellezza del tutto. L’intuizione aristotelica verrà ripresa da Plotino e Spinoza, e da gran parte della filosofia spiritualistica. Ma sarà Nietzsche, invece, a scardinare l’utopia di una realizzazione filosofica dell’esistenza, proclamando la morte di Dio e l’inconsistenza della vita umana. Nell’universo descritto dalla scienza moderna, privo di un centro definito, animato da miliardi di elementi cosmici, l’uomo ha perso il suo ruolo dominante, il bene e il male non trovano più alcuna fondazione oggettiva, e non si pone nessun limite etico alla ricerca scientifica. Il materialismo di Epicuro e Lucrezio sembra aver prevalso sugli interrogativi religiosi, e l’unica realtà conseguibile è la felicità quotidiana da vivere nel presente, senza temere il futuro e la morte, valutando positivamente la natura che ci circonda e di cui siamo fatti, prendendo atto e accettando di essere “creature di un sol giorno”.
Eppure, proprio in questa nostra fragilità, nella fugacità del tempo determinato che ci è dato di vivere, risiede la possibilità straordinaria che abbiamo di poter fare progetti, impegnandoci in un disegno collettivo e solidale di salvezza.
© Riproduzione riservata 24 gennaio 2020
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