YVES BONNEFOY, EDWARD HOPPER. LA FOTOSINTESI DELL’ESSERE – ABSCONDITA, MILANO 2018
L’originalità di questo piccolo volume appena riedito da Abscondita è costituita dal fatto che il più grande poeta francese della seconda metà del ’900, Yves Bonnefoy, rilegge qui un eccezionale protagonista dell’arte americana del secolo scorso, Edward Hopper.
Lo rilegge e ce lo presenta come solo può fare un poeta: poeticamente.
Ripercorrendo la pittura di Hopper dagli esordi e nelle sue trasformazioni, Bonnefoy la illustra psicologicamente e filosoficamente, ma attraverso lo sguardo profondamene morale e elegantemente severo della sua scrittura. I rimandi puntuali ai quadri trovano riscontro nelle illustrazioni del volume, inevitabilmente manchevoli e approssimative perché in bianco e nero: tuttavia in commercio si trovano molte e pregiate pubblicazioni, a cui il lettore può ricorrere per meglio verificare l’attendibilità del commento critico.
Nel sottolineare la cesura che i tre soggiorni parigini, avvenuti tra il 1906 e il 1910, avevano prodotto nell’arte e nell’esistenza di Edward Hopper (in appendice, il volume riporta un’accurata nota biografica), Yves Bonnefoy indica proprio nella scoperta francese della luminosità l’evento epifanico che rivoluzionò il suo stile pittorico. «La luce era diversa da tutto quello che avevo conosciuto. Anche le ombre erano luminose, di luce riflessa. Persino sotto i ponti vi era una sorte di lucentezza», aveva scritto l’artista, confessando che gli ci sarebbero voluti dieci anni per rimettersi dall’Europa, la cui atmosfera lieve e rasserenante l’aveva depurato dall’oscura pesantezza culturale statunitense, regalandogli «uno sguardo felice», una solidità più consapevole del suo stare nel mondo.
Tornato a New York, Hopper mise a frutto questa nuova acquisizione, di cui scopriamo tracce nel famoso quadro Squam Light del 1912, indicativo di una trasmutazione d’animo, «di un ritorno della coscienza allo spazio aperto del mondo». Per una decina di anni dipinse paesaggi dai colori chiari, dai confini dilatati, ma privi di figure umane, caratterizzati dalla ricerca silenziosa di un rapporto con la natura e con l’illimitato. Intorno agli anni ’20 abbandonò la pittura en plein air in favore di una presenza costante di figure umane, soprattutto femminili. Persone immobili, in piedi o sedute, con lo sguardo fisso verso una lontananza indefinita, chiuse in una taciturna incomunicabilità carica di aspettativa: più che a rappresentarne la specificità, Hopper sembrava interessato a raccontarne astrattamente l’idea di isolamento, abbandono e silenzio. È il caso dell’ometto triste seduto sul marciapiede (Sunday, 1926), della giovane moglie che sfiora un tasto del pianoforte mentre il marito, immerso nella lettura del giornale, la ignora (A Room in New York, 1932), della ragazza col cappello ferma sui gradini di casa, aspettando chissà cosa (Summertime, 1943), o dell’altra che nuda accanto al letto disfatto si volge alla luce della finestra come a un richiamo celeste (A Woman in the Sun, 1961). Il loro corpo è materia impenetrabile, fisicità enigmatica, su cui il pittore esercita la sua fredda analisi compositiva, in un neutrale processo di spoliazione dell’ambiente e dei sentimenti.
Tutti i personaggi paiono estraniarsi da ciò che stanno vivendo, quasi sperando in una sorpresa che li inquieterà, oppure chiusi in un torpore da cui non vogliono essere risvegliati. Soprattutto le figure femminili sono imbozzolate in una realtà che non comprendono e da cui non sono comprese, nella società urbana e desolata dei treni, delle autostrade, dei bar o dei motel, bloccate nella fissità di un
istante che si assolutizza. «Annunciazioni senza teologia e senza promessa», commenta giustamente Bonnefoy: donne in attesa di una condanna, e non di una glorificazione.
«Non vi è cosa più vana del domandarsi chi siano quegli esseri che Edward Hopper mette in scena, o cosa accade tra loro e cosa sta per accadere. Occorre piuttosto rivivere con lui la sensazione che nessuno può comprendere nessuno, e osservare che se ha fissato sulla tela una situazione e non un’altra, è solo perché ha creduto di riconoscere nell’uno o nell’altro dei suoi protagonisti lo stesso senso di solitudine e di isolamento che egli prova, e insieme un’aspirazione, un brusco turbamento dell’anima che spesso non lo dubitiamo ‒ angosciano lui stesso».
Così come le persone, suggellate nelle loro barriere di indicibilità, anche gli interni sono vuoti, nudi, privi di oggetti e di mobili, immutabili in una loro luminosità deserta: splendide nel loro misticheggiante chiarore ci appaiono le stanze di Rooms by the Sea, 1951, e di Sun in an Empty Room, 1963. Hopper avverte qui che una presenza umana costituirebbe un ostacolo, disturbando l’intuizione dell’assoluto, che solamente la luce può trasmettere, nel silenzio.
© Riproduzione riservata «Il Pickwick», 10 marzo 2018