JORGE LUIS BORGES, LA CECITÁ, L’INCUBO – MIMESIS, MILANO 2012
Jorge Luis Borges, maestro della letteratura fantastica, si interroga in queste due conferenze tenute a Buenos Aires nel 1977, e riproposte dalla casa editrice Mimesis nel 2012, sul buio di due condizioni, fisiche e mentali: La cecità e L’incubo. Riguardo al primo stato, la cecità progressiva che ha colpito l’autore in modo definitivo nel 1955, ma segnalandosi già dall’infanzia per una sindrome congenita ed ereditaria, veniamo informati del non-buio che circonda gli ipo-vedenti, «un mondo fatto di nebbiolina, una nebbiolina verdognola o azzurrina e vagamente luminosa», in cui si intravedono pochi colori: il giallo, il verde sfumante nel blu. Mai il nero, mai il rosso, raramente il bianco. Nella cecità Borges ammette di avere perso il mondo esterno, ma di averne conquistato un altro, altrettanto ricco e formativo: quello della letteratura, dei «lontani antenati» greci, scandinavi, anglosassoni, medievali.
«Ho sempre sentito che il mio destino era, anzitutto, un destino letterario… Uno scrittore, o meglio ogni uomo, deve pensare che tutto ciò che gli succede è uno strumento; tutte le cose gli sono state date per un fine e questo deve essere più forte nel caso di un artista».
Altri grandi hanno preceduto Borges nella cecità. Non solo i suoi predecessori nella direzione della Biblioteca Nacional Argentina, Groussac e Mármol; ma soprattutto Omero, Milton, Joyce, Prescott, forse maggiormente in grado di esplorarsi nell’anima proprio grazie alla loro menomazione: «Chi può conoscere meglio se stesso, se non un cieco?» L’altro buio raccontato da Borges è quello del sonno, che interessa ogni essere vivente, «la modesta eternità che possediamo ogni notte». E se alcuni poeti e narratori hanno ipotizzato che tutta la nostra esistenza sia un sogno, in molti affermano che questa sospensione della vita, quando sia animata dagli incubi, cada in possesso di un demone, come suggeriscono i termini inglesi e tedeschi, “nightmare” e “alp”. Lo scrittore argentino confessa quali siano i suoi incubi ricorrenti: il labirinto, lo specchio e la maschera, che metaforizzano tutti lo smarrimento, il rispecchiamento mendace, l’inganno. E aggiunge di essere affascinato dal sogno, anche nella sua versione più orrifica e drammatica, perché si tratta dell’«attività estetica più antica», di cui ciascuno di noi è artefice, e in cui «siamo il teatro, il pubblico, gli attori, la trama, le parole che udiamo». Sognando, diventiamo tutti pittori, poeti, registi, autori drammatici, strumenti di un sovrannaturale che non dominiamo e ci domina, liberandoci da una realtà opprimente e immodificabile.
© Riproduzione riservata www.sololibri.net/La-cecita-l-incubo-Borges.html 14 novembre 2016