DARIO BORSO, TRE QUADERNETTI INDIANI – EXORMA, ROMA 2019
Nonum prematur in annum, raccomandava Orazio. Ma Dario Borso (filosofo e germanista, uno dei nostri più stimati traduttori dal tedesco) ha moltiplicato per sei il suggerimento del poeta latino. Infatti solo dopo cinquant’anni ha osato far uscire dal cassetto e affidare alle stampe questo libro di viaggi e memorie, Tre quadernetti indiani.
Ventenne, durante un pellegrinaggio laico in India, si era imbattuto per caso al Crown Hotel di Delhi in un coetaneo milanese, Pietro Spiga: entrambi reduci da un altro tour iniziatico negli Stati Uniti, erano partiti insieme alla volta del Nepal. Dario poi, ammalatosi di malaria, era stato ricoverato in ospedale a Calcutta, quindi aveva raggiunto da solo Madras, iniziando a scrivere un resoconto dei suoi inquieti, affascinati, illuminanti itinerari fisici e mentali. Tornato in Italia, aveva chiesto all’amico Pietro di illustrare con disegni a china le sue narrazioni, e tali schizzi (incorniciati in quadri neri ‒ punteggiati, zebrati, stellati, animati da facce paesaggi animali vegetali) sono riprodotti nell’edizione romana di Exorma.
Un mese intero – ottobre ‒, passato girando da una città all’altra (Mamallapuram, Kovalam, Quilon, Alleppey, Cochin, Mahé, Hampi…) a piedi, in treno, in corriera, su ferryboat e barconi; incontrando i personaggi più incredibili provenienti da ogni parte del mondo; ascoltando musica orientale monocorde (“le voci indiane si rincorrono su tempi estenuanti senza mai raggiungersi”); fumando hashish e mangiando funghi allucinogeni, che producono in testa “tante storie sconnesse, come un film muto impazzito”; cibandosi di vivande piccanti e bevendo intrugli alcolici; leggendo e citando brani e poesie occidentali, oppure recuperando miti, leggende, divinità indù (Shiva, Kali, Parvati, Zarathustra, Ganesh, Krishna) indicanti nuove strade da percorrere, nuove mete intellettuali da raggiungere.
A ragione Valerio Magrelli nella prefazione scrive che Borso nel suo diario ha inteso coscientemente privilegiare l’aspetto visivo (e io aggiungerei coloristico) delle descrizioni, con i cieli di volta in volta blu inchiostro, “rosso porpora con increspature giallognole” o “di un grigio fosforescente elettrico”, nubi violacee, lune bianchissime, arcobaleni doppi e fulmini saettanti nel buio. Mare, spiagge, deserti, giardini, templi, città caotiche e affollate. Donne e uomini mezzi nudi o avvolti in vesti variopinte. Frutti (“ananas col suo bel ciuffo verde, una noce di cocco abbronzata ma pelosa, una papaya smunta e allampanata”). Animali minuscoli come le lucciole, zanzare e scarafaggi, o enormi come gli elefanti, e poi anatre, sorci, scimmie, vacche, tigri, capre, cammelli. E un’avventurosa Sylvie francese da amare con dolcezza, s’il vit…
Un turbinio di percezioni, suoni odori visioni che si accavallano, insieme alle parole (“Si sta seguendo un filo, si formula una frase, ed ecco che una parola qualsiasi, anche un avverbio, anche una particella, sale sul palco e chiama altre sorelle a improvvisare”). Eppure, in questo vortice di impressioni, chi narra mantiene non solo un suo stile composto, limpido, curato e quasi classico, ma addirittura rispolvera una propria disposizione meditativa, razionalmente critica, che lo porterà negli anni a insegnare filosofia nelle università milanesi. Così contesta l’ascetica severità di Wittgenstein in favore di una fisicità materiale più esuberante: “Non è detto che su ciò di cui non si può parlare si debba tacere. Si può sempre gridare, pregare, cantare”. Infatti, “certe cose dell’India costringono all’infanzia: la luce che va e viene spesso e volentieri, le ghiacciaie di legno e i furgoni con i blocchi del ghiaccio, i dodge polverosi dalle sponde tremolanti, gli altoparlanti in strada che trasmettono a tutto volume come al cinema parrocchiale nelle domeniche d’estate…”: allora gli anni bambini passati nel paesino veneto tornano alla memoria, insieme all’alito della mamma ritrovato nel giro lento del ventilatore, al parlare svelto di lei e a quello burbero del padre, al negozio da fruttivendolo di famiglia (“‒Mamma, mamma, hanno appeso le ciliegie all’albero! ‒. Finora le avevo viste solo da noi, in bottega”).
La breve postilla finale di Chandra Livia Candiani sottolinea lo sguardo mai giudicante, mai arrogante, con cui Dario Borso si volge all’India, rendendocela com’è: superficie indulgente su cui galleggiare, senza pretendere di scendere in profondità, puntando gli occhi agli orizzonti.
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https://www.sololibri.net/Tre-quadernetti-indiani-Borso.html 18 dicembre 2019