FERDINANDO CAMON, UN ALTARE PER LA MADRE – GARZANTI, MILANO 1978

Ferdinando Camon ha scritto il suo quarto romanzo che, riallacciandosi a Il quinto stato (1970) e a La vita eterna, viene a concludere la trilogia del “ciclo degli ultimi” dedicata al mondo contadino della campagna padovana, mondo da cui lo stesso Camon proviene. E’ un libro sofferto, scritto e riscritto continuamente per tre anni, che prende spunto da una dolorosa circostanza autobiografica, la morte della madre, per intessere un lamento che è insieme elegia, preghiera, testimonianza. Il ricordo della madre, come esce da un susseguirsi di squarci, di immagini (lei che ride portandosi una mano sul cuore, lei che cerca di parlare in italiano, lei che si incipria prima di andare a messa: questi sono i ricordi più personali, quelli più individuali. In altri gesti, la madre sembra ripetere quelli propri di tutte le contadine: nel risparmiare su tutto, nel lavorare fino allo stremo, nella discrezione di chi rimane ultimo, diventa una figura esemplare, tipica dell’ambiente in cui vive); questo ricordo dovrebbe quindi essere il filo conduttore di tutta la narrazione. In realtà mi sembra che il motivo fondamentale sia la resa dei conti che il figlio tenta di fare con se stesso: tutto il romanzo è infatti un interrogarsi sulla morte e sulla vita (indicativo è il brevissimo, gnomico capitolo XII), sul mondo contadino che è stato abbandonato e sembra finire del tutto con la morte della madre, e sulla propria sradicatezza, quindi, sia dalla cultura dei campi, sia da quella della città. Di fronte a una civiltà contadina, che è cultura perché è creazione di mito e religione, l’inurbato si sente “espropriato” della sua dimensione più vera. Questo è il primo romanzo che Camon scrive in prima persona, ma riesce a parlare di sé solamente come “figlio”: della madre, certo, e anche del padre che pure è una figura straordinaria – ma soprattutto di un ambiente. Di una terra, di una gente, di una religione. Questo è infatti un romanzo cristiano: non direi nemmeno religioso, ma proprio cristiano. L’atmosfera è quella delle funzioni, delle processioni, dove non c’è posto se non per l’obbedienza, il rispetto, la fede, a volte l’esaltazione: «Se ciascuno avesse vissuto come vuole la società, che vita vergognosa avrebbe avuto. Cristo c’è, ed è ineguagliabile. Se non ci fosse Lui, vivere sarebbe un’insulsa pazzia».

È soprattutto un romanzo, l’abbiamo visto, contadino: e non, come si poteva dire per gli altri libri di Camon, perché ci sia contrapposizione polemica con il mondo borghese. Qui il mondo contadino diventa assoluto, non c’è più nemmeno il confronto con altre società, e l’immersione in esso diviene totale, tutta emotiva. La storia della morte della madre, che è una storia privata, diviene storia corale, oggettivamente partecipata da tutta la comunità contadina: l’altare che il padre aveva costruito in suo ricordo, diventa l’altare della chiesa del paese, e la madre ne risulta in qualche modo santificata. L’estraneità finisce per essere anche un’estraneità culturale nello stesso stile adottato da Camon: vengono abbandonati i vari registri usati nelle opere precedenti, e anche gli strumenti interpretativi più colti, quali la psicanalisi, la sociologia. La scrittura è tesa, concisa, lontana dagli sperimentalismi di La vita eterna o di Occidente, in qualche punto addirittura faticosa. Perché pensata in dialetto: «Scrivo queste cose in italiano, cioè le traduco in un’altra lingua. Colui che non gli è permesso di usare la propria lingua non può essere felice e sentirsi libero. Più scrivo, più mi lego. Questo sarà un libro breve, perché in fondo non è che un’epigrafe».

Il mondo borghese che ha sempre snobbato la civiltà degli ultimi, il quinto stato dei “fuori storia”, si vede una volta tanto snobbato: il libro è scritto rispettando fedelmente la struttura mentale del contadino, in una lingua che viene solo presa a prestito dalla cultura borghese, per poter costruire un altare di parole che testimoni la vita della madre anche a chi è estraneo al mondo di lei.

 

«Quotidiano dei Lavoratori», 13 aprile 1978