RITRATTO DI POETESSA: CHANDRA LIVIA CANDIANI

Ho conosciuto Chandra Livia Candiani in una giornata primaverile del 1986, quando si è presentata nel nostro appartamento zurighese in compagnia di Vivian Lamarque, dei suoi giovani editori reggiani Giorgio Messori e Beppe Sebaste, e di un suo amico. Erano venuti per festeggiare in terra elvetica il quarantesimo compleanno di Vivian, e noi li avevamo accolti con una merenda accompagnata da una tentatrice torta di panna e fragole. Chandra mi era parsa da subito un po’ intimidita: minuta, silenziosa, se non a disagio appena spaesata, quasi interrogativa nel guardarsi attorno e nel soppesare meditabonda e lontana da qualsiasi intenzione giudicatrice le nostre chiacchiere, le nostre prevaricanti esibizioni di loquacità. Le mie bambine, Daria e Silvia, avevano allora sette e un anno, e Vivian, presentando Chandra alla più grande, l’aveva così avvertita: «Vedi questa ragazza? È un folletto!» E in effetti, con la sua espressione di infantile stupore, i capelli corti, biondi e dritti sulla testa, il corpo agile e inquieto, Chandra ben si prestava a incarnare una vaporosa figurina boschiva. Quando poi la Polaroid rese a noi, increduli e divertiti, una foto di gruppo in cui il viso del poetico folletto risultava coperto da una luminosa bolla a raggiera, una sorta di sole o simbolo azteco, mia figlia fu convinta definitivamente della straordinarietà extraterrestre della nostra ospite. Per più di venticinque anni non ci siamo riviste o risentite, ma mesi fa le poesie di Chandra Livia Candiani sono apparse, insieme alle mie e a quelle di altre dieci poetesse, nel volume einaudiano Nuovi Poeti Italiani n.6, curato da Giovanna Rosadini. Ed è stato commovente e rivelatore leggere i suoi versi, introdotti da una presentazione particolarmente affettuosa e partecipe. La curatrice infatti così la tratteggia: «Personalità schiva e appartata… un talento genuino e prolifico… leggerezza è il termine che la contraddistingue. Ci sono, nella serenità e nello spirito compassionevole e lieve della poetessa, una profonda sapienza e saggezza, nutrite di consapevolezza psicanalitica e ricerca religioso-filosofica».

Effettivamente da moltissimi anni Livia Candiani, nata a Milano nel 1952 da famiglia di origini russe, si è convertita al buddhismo, ha passato lunghi periodi di tempo in India e vive nel capoluogo lombardo traducendo dall’inglese testi buddhisti: ma non appena può si ritira in un monastero sulle colline del Northumberland, ai confini con la Scozia. Il suo nome elettivo, “Chandra”, significa “Luna”, e del suo interesse per la meditazione e la spiritualità sono pervasi tutti i suoi testi. Che ora possiamo avvicinare, proprio partendo dall’antologia einaudiana uscita nel giugno del 2012. Dopo aver esordito con la pubblicazione di libri di fiabe (Fiabe vegetali, 1984, e  Sogni del fiume, 2001), Chandra Livia si è concentrata soprattutto sulla poesia, e dalla sua feconda produzione -in gran parte tuttora inedita- sono stati editi nell’ultimo decennio quattro piccoli volumi. I testi presenti in  Nuovi Poeti Italiani n.6 sono tratti dalle raccolte Versi d’asino, Il sonno della casa, Bevendo il tè con i morti e Pianissimo per non svegliarti.
Dalle venti composizioni antologizzate nel volume Einaudi si trae, è vero, una prima impressione di sottile e discreta lievità, che tuttavia viene subito contrastata, ad una lettura più attenta, dalla consapevole rivelazione di una vena meditativa più profonda e malinconica, di una assidua e sincera ricerca di significati ultimi, di verità illuminanti: «Noi siamo i vetri / non c’è un dietro per noi / da cui poter guardare / parvenze di altri, / siamo rivolti a tutte / le intemperie / dell’anima e dell’aria», «Noi siamo l’incisione / tra spazio e tempo / taglio netto e profondo / dormiamo così / calpestati da chi sale / e chi scende bare / e culle mattine e notti / feroci e opache, / i testimoni delle scale: / gocciola in silenzio / su di noi la paura dei passaggi».

Se il “noi” di una fratellanza universale, di un comune destino cosmico che unisce tutte le creature viventi, e le lega a tutte le generazioni passate e future («resta / questo filo teso di contati / respiri sopra l’abisso. / Che ci ama. / Tutti.») è il sentimento prevalente della riflessione filosofica di Chandra Livia, la sua storia personale, di gioia-amore-sofferenza-lutti non viene occultata da una retorica sentimentale livellatrice, ma viene assunta e esplicitata nelle sue luci e nelle sue ombre: «dunque la gioia / è questo sangue che bussa / ai polsi, questo amico / dei rintocchi», «Sono matassa di smarrimenti / senza disegno, sono calce / viva sotto pelle / di tamburo che vibra / a ogni sfioramento sono / bambino sbucciato / corso via perdutamente e poi caduto / a terra, come sparato, / al cuore».

L’amore ha il suo spazio, importante, fondamentale, nel riconoscimento del proprio sé nell’altro, nella condivisione del tempo e dei sogni, nel dono di una reciproca generosità: «Io farina / tu pane / io goccia d’acqua / tu sete / io orlo / tu veste celeste. / Scambiami per un tuo pensiero, un difetto / nella tua smemoratezza, / un inciampo. / Inciampa in me / come in un parente avvinghiato». E alla base di questa capacità e volontà di affidarsi a tutto ciò che avvolge e accoglie il nostro piccolo io, c’è senz’altro questa tranquilla fede nella bontà di un ascolto trascendente: «La saggezza del giorno / si scioglie in pioggia, / sono ascoltata: / goccia per goccia / si stende il velo / pietoso / di un udito / che non ha premura / accoglie / il gradino / su cui si stende preciso il gatto / l’oro nero dell’olmo / l’asfalto lucido e stellato».
Le tre sezioni che compongono il volume che Livia Candiani ha pubblicato da Campanotto nel 2005, Io con vestito leggero, hanno in comune la levità delle atmosfere e delle parole, quasi avessero timore di ferire, o di incidere una realtà che la poetessa desidera solamente sfiorare: con la delicatezza di un soffio leggero, di uno sguardo appena posato, e subito rivolto altrove per discrezione. Si avverte addirittura qualcosa di volutamente svagato, distratto, programmaticamente inteso ad evitare il troppo di ogni passione, di ogni dolore. Ambienti e personaggi vivono la stessa, magica estraneità al mondo concreto delle figure di Lewis Carroll, lontane dalla pesantezza calcolata dell’età adulta. Così La Signora protagonista del primo capitolo «si è seduta sui rami», «è nata ieri / e già la polvere la insegue», «cade tra le pupille imprestate», «chiude i giorni / come fossero veli», «prepara il letto di foglie»: è una fata, forse, o una fantasia, o una promessa di bene. Vive circondata da alberi, foglie, cieli, nuvole e uccelli. Tutte «cose leggere e vaganti», direbbe Saba. Nella seconda sezione, Lettere mai scritte, la malinconia per ciò che non è avvenuto, ed è rimasto sospeso, irrealizzato, si fa più evidente, pur rimanendo circoscritta ad un’impressione sfumata di tristezza: «con quali passi / si finisce se stessi / in una lettera», «Anche una lettera d’affari / è nostalgia / di un impossibile parlarsi», «Come vorrei saper scrivere / una lettera ai boschi / a un fiume o a una / qualità del cielo», «Strano mettere la data alle lettere come fossero / valide solo per oggi».

Il capitolo conclusivo che dà il titolo all’intero volume, ha il merito di aprirsi a versi che offrono il ritratto più esaustivo della loro autrice: «m’inchino ai semafori / e accarezzo con le suole l’asfalto», «Sospendo il petto / ai fili del bucato /…è mia questa capacità / d’amare senza possibilità / d’oggetto», «non siamo rose / né uccelli / né il vento / ma l’attesa di soffiare / di volare / di sbocciare».
Ma c’è un’ ultima, fondamentale, raccolta di versi che Chandra Livia ha pubblicato nel 2007: Bevendo il tè con i morti ( Viennepierre, Milano), in cui i trapassati, sia quelli che abbiamo amato o appena conosciuto, sia quelli che appartengono alla memoria comune, alla fantasia, all’aria, recuperano una loro voce dimenticata o trascurata in vita, memento alla nostra distrazione quotidiana, affettuoso rimprovero per le nostre disattenzioni o temporanee insensibilità. Qui «celeste e terrestre si compenetrano», come suggerisce Giovanna Rosadini, e come appare evidente da questi esempi: «Verso sera / i morti siedono sui fili della luce / come gocce di pioggia / che è già caduta», «il morto che ha paura di vivere / si alza di notte / rassetta la terra / cambia l’acqua ai fiori / della tomba / si siede a guardare le stelle / da lontano. Sfugge / le rassicuranti chiacchiere / dei vissuti», «Non ai morti / si addice la tristezza / ma al bugiardo / perdurare dei vivi », «La morta / con il canarino sulla spalla / dice che come l’uccello / dalla gabbia / lei dal corpo / è sfuggita», «Il passo sboccia / da un’andatura del pensiero / forti come nuvole / passano i morti».

In questa Spoon River milanese, dagli esotici accenti orientaleggianti, Chandra Livia Candiani riflette la sua sensibilità ricettiva e premurosa, con una voce che si riconosce assolutamente femminile e lontana da paludate tradizioni letterarie del nostro novecento: più vicina semmai alla delicatezza delle liriche cinesi, a una storia millenaria di ascolto e aconfessionale preghiera.  La stessa discrezione partecipe che la tiene lontana dai circuiti editoriali e mediatici di produzione poetica tanto in voga oggi, e invece attiva conduttrice di seminari di poesia nelle scuole elementari. Forse proprio in uno di questi appuntamenti con i più piccoli, Chandra ha incontrato la ragazzina cui dedica i versi finali dell’antologia einaudiana: «Fatema, la bambina rom, ha scritto: / è bello / vedere l’aria felice». Ecco, questa sembra essere l’ambizione più assoluta della sua poesia: una condivisione gioiosa di purezza, di verità.

© Riproduzione riservata             «La poesia e lo spirito», 7 novembre 2012