Chandra Livia Candiani (Milano 1952) è poetessa e traduttrice di testi buddhisti; tiene corsi di meditazione e conduce seminari di poesia nelle scuole elementari, nelle case alloggio per malati e per i senza casa. I suoi libri più noti sono «Io con vestito leggero» (Campanotto 2005); La bambina pugile ovvero la precisione dell’amore (Einaudi 2014); «Bevendo il tè con i morti» (Interlinea 2015); «Ma dove sono le parole?» (Effigie, 2015); «Fatti vivo» (Einaudi 2017); Il silenzio è cosa viva (Einaudi 2018).
Ci puoi raccontare brevemente delle tue origini familiari e degli studi che ti hanno plasmato come poeta?
Sono la quarta e ultima figlia di una famiglia dolorosa, genitori difficili da definire senza usare parole gravi e figli segnati dall’abbandono a se stessi e da quella che Herta Muller chiama ‘la sottrazione quotidiana dell’ovvietà delle cose’. Un’infanzia in cui inventarsi la vita e un modo di stare al mondo senza essere troppo scherniti ed esclusi non è stata facile da sostenere ma è stata un buon terreno per la poesia. Mi ha insegnato la solitudine del lavoro, la gratuità del dono, l’attesa della parola vera. Ho fatto con fatica gli studi classici, troppi pesi sulle spalle per andare bene a scuola, troppa estraneità a un sapere che non si collegava alla vita interiore e descriveva un mondo per me difficile da abitare. Mi sono iscritta a filosofia, mi sembrava più adatta per coltivare il pensiero che veglia sotto ogni poesia che non lettere. Ma non ho terminato gli studi. Ci mettevo tantissimo tempo a preparare un esame, avevo bisogno di riflettere su ogni cosa che leggevo, e poi sono andata via di casa giovanissima e lavorare e studiare era troppo faticoso per me. Ho lavorato tanto con i bambini e anche questo ha formato la mia poesia. Raggiungere i bambini senza infantilizzazioni è un traguardo forse irraggiungibile e mi dà tuttora devozione per la parola.
Ho letto tanto fin da piccola, senza un metodo, cercando chi cerca. I poeti russi più di tutti, oltre a Rilke, mi hanno impresso una direzione poetica della trasfigurazione dei fatti della vita privata in segni da decifrare e in parola per rispondere all’esistenza che scorre con noi.
A quando risale il tuo incontro con il buddhismo e come ha nutrito e continua a nutrire il tuo rapporto con la spiritualità?
Verso i trent’anni ho incontrato in India la pratica della meditazione. In India, che pure è il paese della materia per eccellenza, tutto irradia energia dell’anima, anima individuale e anima del mondo, denso silenzio che fa da sfondo al traffico quotidiano. In India, si sta a casa, una casa ancestrale, eppure i disagi fisici sono spesso estremi. Meditare è significato per me nascere nel corpo, prima ero un’astrazione senziente. Mi ha dato un contenitore e una sensibilità non più alla mercé degli altri, ma collegata a un centro di silenzio dentro di me e dentro gli alberi e gli animali, le rocce e le acque, dentro il mondo della vita, quel mondo che in città è quasi sepolto dal mondo dei ruoli e delle personalità, delle prepotenze.
Il Buddhismo non è una religione a cui aderire, non ha dogmi, né verità rivelate. Nella mia scuola, il Theravada, si dice che il Dharma, l’insegnamento, la realtà, è ehipassiko, che alla lettera significa ‘vieni e vedi’, cioè si tratta di esplorare in prima persona, non si eredita alcun sapere che non sia vagliato dall’esperienza individuale. Nessuna visione in cui dover forzatamente entrare ma percorrere un sentiero per risvegliarsi e guardare con i propri occhi ripuliti dalla polvere del pre-giudizio.
Grazie dell’ampiezza di questa domanda che sottintende che la spiritualità è un percorso proprio che può nutrirsi degli affluenti delle religioni e delle visioni ma deve poi sfociare in una vastità senza separazioni, nomi, definizioni, muri.
Praticare l’essere vivi e vulnerabili, incontrare la vita partendo da un cuore pulsante e da una mente e un corpo svegli significa anche sapersi proteggere e agire con giustizia. Non è difficile per me sentire l’unità e la bellezza commovente del cosmo, quello che ho da imparare è lo stare al mondo, avere una vita quieta e attenta, dormire, mangiare, abitare, lavorare.
Secondo te, quali sono le parole che salvano, nel rapporto con sé stessi e con gli altri?
Respiro, silenzio, ascolto, tenera follia, poesia, spazio, mistero, bontà schietta, vero, sogno.
La tua è una poesia gentile, attenta alle cose, ai gesti, agli esseri viventi più umili e in qualche modo indifesi. Ritieni che questa tua disposizione empatica all’ascolto sia più una dote caratteriale o una precisa scelta etica e ideologica?
Penso che ci sia un’attenzione alle creature mute o ammutolite che è nata dalle esplorazioni infantili. Sono stata una bambina e un’adolescente molto silenziosa e vedevo tutto ed è arrivato presto il desiderio di offrire la voce a chi non ce l’ha. Era una simpatia, in senso elementare, una risonanza con gli invisibili e gli inascoltati perché ero un’invisibile e un’inascoltata e non volevo cambiare condizione, volevo ‘parlare’ questa.
Poi, certamente il Buddhismo ha contribuito a farne un atteggiamento consapevole, non rivendicativo o ostile verso chi non è umile o indifeso, ma un essere al fianco di chi lo è, perché tra indifesi ci si può intendere, ogni tanto, e perché è bello fare spazio e imprestare la voce.
E poi mi sembra che la poesia sia la quintessenza dell’ascolto e forse è quindi venuta prima l’attitudine al mettersi in ascolto e dopo la ricezione delle parole.
In una recente intervista hai definito la poesia “un contatto con le ferite, ma anche con la luce che le attraversa”. Più ferite o più luce, nel mondo e nella tua esperienza esistenziale? Da chi o cosa attendere salvezza?
Mi sembra che ferite e luce siano insieme, quando le ferite sono accolte, ospitate con rispetto, allora la luce ci passa attraverso e possiamo vedere e far trasparire qualcosa che va oltre il male, perché una ferita è una crepa nelle certezze, è un varco verso l’insondabile. Forse ci sono state molte più ferite che luce nella prima parte della mia vita, anzi diciamo fino ai cinquant’anni. Poi mi sono affrancata dal farmi male senza saperlo attraverso gli altri e ho percorso la Via che porta a se stessi e all’abbandono alla vastità. Sto camminando e c’è luce, c’è anche tanto buio, ma se lo abito, lo respiro, lo ‘attendo’ , si riempie di lucciole.
L’ho attesa tanto dall’esterno la salvezza, da un incontro, da un libro, da una religione, da un pensiero. Non è arrivata così. Quando ti lasci andare senza alcuna sicurezza, ma solo perché non hai più altra scelta, allora… Non so, c’è un soffio, una mano, quando non pretendi più l’aiuto esterno e ti tuffi, c’è proprio la sensazione di una smisurata mano.
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https://www.sololibri.net/intervista-Chandra-Livia-Candiani.html 28 settembre 2018