ELIAS CANETTI, AFORISMI PER MARIA LOUISE – ADELPHI, MILANO 2015
Del piccolo volume pubblicato da Adelphi nel 2015, Aforismi per Maria Louise di Elias Canetti, più della metà è occupato dalla splendida postfazione di Jeremy Adler, che ne illustra le vicende di composizione e ritrovamento, inserendolo all’interno della produzione letteraria e filosofica dell’autore austriaco. Elias Canetti scrisse gli aforismi dedicati alla pittrice Marie-Louise von Motesiczky tra il 1941 e il 1942, probabilmente facendogliene dono il giorno del suo trentaseiesimo compleanno, il 24 ottobre 1942. Il manoscritto, ritrovato tra le carte della destinataria dopo la sua morte, era vergato con inchiostro blu scuro, con titolo e dedica in giallo, e presentava le pagine forate in due punti all’estremità superiore, legate da un cordoncino dorato che gli conferiva l’aspetto di omaggio solenne e gratificante.
Per stessa ammissione dell’autore, questi 129 appunti (così preferiva definirli, anziché aforismi, massime, bozzetti o riflessioni), erano stati composti come “valvola di sfogo” durante l’onerosa e opprimente stesura del suo capolavoro, Massa e potere, durata quarant’anni e conclusasi con la pubblicazione nel 1960. Non rappresentano comunque un’opera secondaria, bensì si definiscono come un concentrato della sapienza, cultura, sapidità che ha caratterizzato l’opera omnia dell’autore, ponendolo nella scia di produzione di massime e frammenti che da Karl Kraus risale a Nietzsche, La Rochefoucauld, Montaigne, Pascal, fino ai presocratici. “L’appunto, in Canetti, va inteso come scrittura aperta, una scrittura che si muove liberamente fra l’immediatezza del diario e il rigore della riflessione. È in questa tensione che si dispiega la forma breve”, puntualizza Adler nel suo commento.
Elias Canetti, nato in Bulgaria nel 1905 da famiglia ebrea colta e benestante, ebbe come lingua materna il ladino, ma in seguito imparò il tedesco, che utilizzò per scrivere tutte le sue opere, quindi il bulgaro, l’inglese, il francese, lo spagnolo: acquisizioni rese necessarie dalle frequenti peregrinazioni in tutt’Europa. Visse infatti a Manchester, Vienna, Francoforte, Berlino, Parigi, Londra, Zurigo, dove morì nel 1994 e dove è sepolto, accanto alla tomba di James Joyce. Si laureò in chimica, materia in cui conseguì anche un dottorato, senza mai praticarla a livello professionale. Sposò nel 1934 la scrittrice sefardita Veza Taubner-Calderòn, donna affascinante con cui ebbe un sodalizio affettivo e culturale profondo e tormentato, conclusosi con il suicidio di lei nel 1963. Conobbe e frequentò gli intellettuali più importanti della sua epoca: Brecht, Babel’, Grosz, Musil, Berg, Alma Mahler. Fu traduttore, autore teatrale (Nozze, La commedia della vanità, Vite a scadenza), romanziere (Autodafé), saggista (oltre al già citato Massa e potere, anche Le voci di Marrakech). Naturalizzato cittadino britannico, nel 1971 Canetti sposò in seconde nozze la museologa Hera Buschor, dalla quale ebbe l’unica figlia Johanna. Nel 1981 ricevette il premio Nobel per la letteratura, “per opere contraddistinte dalla visione ampia, dalla ricchezza di idee e dalla potenza artistica”. Forse il suo lavoro più rappresentativo rimane l’autobiografia divisa in tre parti (La lingua salvata, Il frutto del fuoco e Il gioco degli occhi), pubblicata fra il 1977 e il 1985.
Destinataria del testo di cui trattiamo era la pittrice Marie-Louise von Motesiczky (1906-1996), come lui ebrea, ma discendente da un casato facoltoso e aristocratico, frequentatrice della Vienna più illustre. Si erano conosciuti a Londra, entrambi esiliati dall’Austria nazista, e rimasero uniti per tutta la vita in una relazione amorosa e intellettuale, tollerata da entrambe le mogli di lui. Bellissima, alta, elegante, emotivamente fragile, Marie-Louise condivideva con Elias lo stesso spirito curioso, la stessa indipendenza culturale da fedi religiose o appartenenze politiche, e interessi coltivati sia in un’assidua frequentazione personale (nella casa di lei rimase sempre a disposizione di Canetti un’intera stanza con annessa biblioteca) sia un vivace epistolario, arricchito da fotografie e ritratti, alcuni dei quali riprodotti nel libro adelphiano. “Tutto si può uccidere: una persona, un’opera, un nome e persino un dio, ma non un amore vero”, recita uno degli aforismi dedicatele dall’amante.
La maggior parte degli appunti (scritti in uno stile veemente e appassionato, utilizzando toni spesso caustici e grotteschi) ruota intorno ai tre temi fondamentali su cui si è sostanzialmente basata l’intera riflessione teorica di Elias Canetti: Dio, la morte, la guerra.
La divinità cui si ispirano non ha tratti specificamente ebraici, cristiani, buddisti: piuttosto assume un’identità oppressiva, ingiusta o tuttalpiù indifferente rispetto alle sorti del genere umano, che d’altra parte non risulta meritevole di grande considerazione da parte di alcun essere supremo. “Guardati in particolare da tutte le filosofie che cercano di ricondurre la vita a un unico principio. In questi casi si tratta sempre di una riduzione della vita; del suo impoverimento e della sua meccanizzazione; di una sorta di tirannide divina; il dio può anche essere un apprendista”, “Il Dio della Bibbia è interessante, non è mai esistita una creatura tanto assetata di potere: punisce solo il traditore, premia solo il servo fedele; ed entra in scena con la pretesa di possedere tutto, perché tutto lui ha creato”, “Gli amici di Dio sono irrimediabilmente disperati per la sua grandezza”, “Dio è morto perché il suo nome è stato profanato, adesso lo invochino pure quanto vogliono”.
La morte ispira a Canetti un odio e un rancore inestinguibile, poiché avvertita come una condanna iniqua, stupida, ingiustificabile, ed espressione massima della sopraffazione materiale e metafisica. Quasi istericamente, non ne accetta l’inevitabilità: “Fintanto che esiste la morte, tutto ciò che vien detto è detto contro di lei”.
Altrettanto feroce è il suo disprezzo verso la guerra, manifestazione di brutalità, idiozia, primitivismo bestiale. Quando questi aforismi venivano scritti, infuriava il secondo conflitto mondiale, Londra veniva bombardata quotidianamente, si inaspriva la persecuzione contro gli ebrei, l’assedio di Stalingrado sembrava non avere fine. Canetti ne parla mettendone in luce gli aspetti più truci e sanguinari. “Combattono fra le dita dei piedi, nell’ombelico, dentro le narici, combattono nel didietro, sotto le ascelle, dentro le orecchie e in bocca, non c’è luogo nascosto, non c’è palmo, non c’è poro, nelle cui profondità non combattano l’uno contro l’altro all’ultimo sangue”, «Mi ha rubato l’orecchio sinistro. Gli ho preso l’occhio destro. Mi ha fatto cadere quattordici denti. Gli ho cucito le labbra. Mi ha bollito il didietro. Gli ho rivoltato il cuore. Ha mangiato il mio fegato. Ho bevuto il suo sangue. – Guerra”, “Ha salvato dalla guerra il mignolo del figlio minore”, “Chiunque riderà a guerra finita, sia messo a morte per averla dimenticata con tanta leggerezza”, “Si aboliscono tutte le armi, e durante la prossima guerra non sarà consentito altro che mordere”, “Durante l’ultima guerra i tedeschi portavano ancora i guanti; a maglie di ferro, a dire il vero, e con quelli ti colpivano in faccia; ma li chiamavano pur sempre guanti”.
Disgusto, rabbia, amarezza, condensati nel più feroce e amaro di questi appunti: “L’uomo è la misura di tutti gli animali”, che modifica ironicamente la celebre tesi di Protagora.
© Riproduzione riservata «Gli Stati Generali», 3 gennaio 2023