ALDO CAROTENUTO, I SOTTERRANEI DELL’ANIMA – BOMPIANI, FIRENZE-MILANO 2023
Lo psicanalista Aldo Carotenuto (Napoli, 1933–Roma, 2005) è stato uno dei massimi esponenti dello junghismo internazionale: tra i suoi numerosi volumi, Bompiani ha scelto di ripubblicare un testo fondamentale nell’indagine del rapporto che lega la creazione artistica con il malessere psichico: I sotterranei dell’anima, edito per la prima volta nel 1993, e ora riproposto: con il sottotitolo Tra i mostri della follia e gli dèi della creazione e la cura di Erika Czako. Czako è stata allieva di Carotenuto, e oggi è un medico che si occupa dell’assistenza ai malati oncologici terminali: nella sua intensa prefazione al volume ricorda che il suo maestro aveva fondato nel 1992 il Centro Studi di Psicologia e Letteratura, ancora operante, sulla base della convinzione che la psicoanalisi sia un esercizio più prossimo all’arte che alla scienza, e lo psicoanalista un soggetto dotato dell’ipersensibilità e della vulnerabilità dell’artista. L’autore propone in questo testo un viaggio affascinante e inquietante negli angoli bui dell’anima, filtrato dalle pagine di alcuni capolavori della letteratura mondiale di tutti i tempi, in particolare da quelle di Fëdor Dostoevskij e Joë Bousquet.
Esiste un pregiudizio millenario, espresso già da Platone e poi ribadito soprattutto dai romantici, che individua nell’alterazione mentale la fonte dell’originalità creativa: il folle come poeta, il malato come profeta visionario. In realtà la sofferenza psichica, e ogni patologia che ne deriva, isterilisce e non nutre, poiché non è in grado di comunicare e di produrre incontro. I grandi psicanalisti del ’900 manifestavano una visione riduttivistica della creatività artistica, ritenendola determinata da processi di frustrazione o sublimazione (Freud), di riparazione di un danno subito (Melanie Klein), di compensazione (Adler), di depressione (Segal). Più generosamente aperti verso la disposizione artistica si sono dimostrati Jung e Neumann, che ritenevano l’arte frutto di una tensione, di una trasformazione messa in atto dialetticamente tra la personalità individuale dell’artista e quella storica della collettività.
Carotenuto sostiene che la grande letteratura sa attivare nel lettore dinamiche profonde, tali da consentirgli la scoperta di parti di sé rimaste nell’ombra, mettendolo in grado di affrontare i propri demoni, trasformandone totalmente la visione della vita. Lo specifico dell’arte consiste nella trasfigurazione estetica del dolore, che viene così traslato sul piano delle sensazioni configurate da immagini. L’uomo del sottosuolo di Dostoevskij ha segnato, nell’ambito della letteratura ottocentesca europea, un profondo mutamento della prospettiva narrativa, non più fondata su una rappresentazione oggettiva della vita sociale dell’epoca, ma sulla soggettività dei protagonisti. La focalizzazione da parte dello scrittore sulla dimensione interiore dei personaggi diventerà poi una peculiarità del romanzo novecentesco, come in Kafka e in Joyce. Il sottosuolo diventa metafora dell’inconscio, luogo demonico citato in tutte le mitologie, sede dei morti e di mostri, ma anche luogo di germinazione, di gestazione e di maturazione delle creature prima di affacciarsi alla luce. Il viaggio nella propria interiorità coincide sempre con il calarsi nella solitudine, nell’allontanamento dagli stimoli del mondo esterno: il protagonista dostoevskijano è consapevole della propria diversità, patita come sofferenza e malattia dell’anima, e lo afferma esplicitamente: “Sono un malato… Sono un malvagio. Sono un uomo odioso… Non sono un uomo attraente … Io sono solo, mentre loro sono tutti… In tutta la mia vita non mi è mai riuscito di portare a termine nulla”. Questo sentimento di inadeguatezza nei confronti degli altri, verso cui nutre sentimenti contrastanti e negativi, lo induce a trarre appagamento dal proprio male, dal proprio devastante nichilismo. Sentendosi incompreso, perseguitato dalla società, proietta su di essa il suo disagio, un vero e proprio odio: “Non posso soffrire la gente. La gente mi dà fastidio”. Carotenuto riconosce in questo atteggiamento masochistico un evidente intento autopunitivo, comune a molti pazienti che si rivolgono all’analista perché prigionieri del loro castello interiore abitato da fantasmi, ma insieme ammaliati dalle ombre sinistre e dagli angoli sordidi in cui si rifugiano, fino a trarre da questo disgusto di sé un piacere perverso. Nella sua rabbiosa sfida a un’esistenza senza progettualità e senza futuro, l’uomo del sottosuolo si definisce “un infelice topo”, dando di sé quest’immagine: “Niente sono riuscito a diventare: né cattivo, né buono, né ribaldo, né onesto, né eroe, né insetto. E ora trascino la vita nel mio angolo, tenendomi su con la maligna e magrissima consolazione che un uomo intelligente non può in verità diventar nulla e che solo gli sciocchi diventano qualcosa”.
Nella propria lunga esperienza di analista, Aldo Carotenuto ha spesso osservato come in questi pazienti, che si sfiniscono in un processo di autoconoscenza e in “un dibattito incessante tra sé e sé e i propri immaginari interlocutori-giudici”, esista in realtà una grande ricchezza di visioni e fantasie interiori che spingono per uscire allo scoperto, e per farsi riconoscere dagli altri. Su questa occultata positività l’analisi deve operare, per permetterle una riemersione, come fa il pescatore di perle quando porta il tesoro recuperato in superficie.
Carotenuto, nella sua serrata indagine sul malessere masochista che si traduce in atteggiamenti autodistruttivi, prende in esame il meccanismo di identificazione con l’immagine paterna, che ha agito come elemento perturbante nella vita e nell’opera di Fëdor Dostoevskij. “Il rifiuto del modello genitoriale, il processo di differenziazione dalla potente immagine paterna” ha generato un soffocante senso di colpa, presente sia nell’esistenza dello scrittore sia nei suoi personaggi, spesso devianti dalla norma e dalla legalità (l’alcolizzato, il criminale, il giocatore, la prostituta…), e incapaci di adeguarsi al buon senso comune.
In chi rinuncia a confrontarsi con la realtà, in genere l’unica fonte di significato nell’interpretazione degli eventi diventa l’esercizio assoluto della ragione a discapito della dimensione emotiva e irrazionale, che viene negata e mortificata come indegna e umiliante, condannando in tal modo all’aridità dei sentimenti, alla paura delle emozioni, e a un’esistenza rigida e inappagante. “L’emozione coinvolge laddove la ragione controlla”. In tale pericolo è caduto l’uomo occidentale da quando ha negato a sé stesso l’energia vivificante e liberatoria che deriva dall’esercizio dell’immaginazione, della fantasia, dell’utopia in grado di superare i confini del reale, ipotizzando modelli e ideali di vita inediti.
La seconda parte del volume di Carotenuto prende in esame la vita e gli scritti di un autore all’epoca poco noto, e oggi rivalutato e riproposto da molti editori: il francese Joë Bousquet, che durante la prima guerra mondiale riportò una lesione alla colonna vertebrale, rimanendo paralizzato per i restanti trent’anni della sua vita. Costretto a vivere a letto, nella penombra della sua stanza, colpito nella carne e ferito nell’animo, seppe rispondere alla tragicità del suo destino in maniera creativa e feconda, universalizzando la sua esperienza, sublimando il proprio supplizio: “Ecco: distrutto a vent’anni, ho voluto attraversare l’ostacolo che l’infermità erigeva in me, renderlo trasparente… Volevo che la ferita avesse un senso”. Privato del proprio corpo, Bousquet accettò di vivere nella sofferenza e della sofferenza, mediante il corpo della scrittura, che divenne innanzitutto conoscenza soteriologica, metodo di salvezza, individuale e collettiva: “Se una simile afflizione non mi ha ridotto alla disperazione è perché mi è rimasta la voce… Scrivo per aprire con la solitudine un largo cammino verso gli altri”.
Aveva già sperimentato, prima dell’incidente, la fascinazione della morte, sia nell’uso adolescenziale di droghe, sia nel tormento di amori sconvolgenti e distruttivi, in una inquietudine che lo portò a offrirsi volontario per il combattimento in prima linea, quasi predestinato da una intenzionalità inconscia, in una ricerca di verità ultime, fisiche e spirituali. Riuscì a resistere, in seguito, alla tentazione del suicidio, mantenendosi attento e disponibile a ogni trasalimento del cuore, a nuovi innamoramenti, alla passione per la letteratura, all’incontro con diversi amici e intellettuali (tra cui Simone Weil) che lo visitavano con regolarità nella sua cittadina di Carcassonne. Secondo Carotenuto, “Ciò che trapela dalle pagine dei suoi diari, e che rende la lettura delle sue riflessioni così stimolante, è proprio la forza psicologica che esse emanano, che gli ha consentito non solo di convivere col suo dolore, ma di trasformarlo in materia poetica”.
Due scrittori, Dostoevskij e Bousquet, che hanno conosciuto e abitato i sotterranei dell’anima, con dolore, rabbia, frustrazione, affrontandoli e illuminandoli con diversità di sguardo e destino.
© Riproduzione riservata «Gli Stati Generali», 9 ottobre 2023