EMMANUEL CARRÈRE, A CALAIS – ADELPHI, MILANO 2016

Tra un bestseller e l’altro, Emmanuel Carrère ha trovato il tempo (due settimane) di recarsi a Calais – nell’inferno della cittadina francese sulla Manica, dove da molti mesi si accampano migliaia di disperati provenienti dalle zone più povere e tormentate dell’Africa e del Medio Oriente -, con il proposito di scrivere una sorta di pamphlet giornalistico su ciò che si trovava a osservare intorno a sé.
L’intenzione che lo ha motivato a redigere questo reportage sul campo è stata quella di “rivolgere lo sguardo alla città e ai suoi abitanti”, di sondarne gli umori e le rabbie, di verificare l’esistenza o meno di episodi di razzismo o intolleranza, di documentare lo sfinimento economico dei settantamila abitanti “costretti” ad accogliere “settemila disgraziati ridotti allo stremo, che dormono in tende di fortuna, nel fango, al freddo e che ispirano, a seconda del carattere di ciascuno, apprensione, pietà o sensi di colpa”.

In effetti, quello di recarsi nella cosiddetta “Giungla”, dove sono ammassate famiglie intere che vivono “un incubo di miseria e di insalubrità, in cui succedono cose terribili, regolamenti di conti e stupri”, è l’ultima cosa che Carrère fa, procrastinando ai momenti finali del suo soggiorno l’impatto con la sofferenza. Prima, cerca di comprendere quanto profondo sia il malessere dei residenti francesi, ridotti alla disoccupazione e a un’inerzia rassegnata, con la loro fiorente attività turistica andata a rotoli e con la secolare industria del merletto completamente decaduta.

Il famoso scrittore visita il teatro cittadino, siede ogni giorno nel caffè più frequentato di Calais – il Minck -, passeggia nelle piazze e lungo le banchine del porto, chiacchiera con giovani e vecchi, interroga intellettuali e commercianti, poliziotti e giornalisti, annusando passioni e ossessioni, animosità e slanci solidali. Viene anche contestato dagli attivisti pro e contro migranti, stufi di essere esaminati come cavie nei loro comportamenti e nei loro stati d’animo. “Perché in questa città niente va per il verso giusto. Tutto si è fossilizzato, i radical chic chiusi nella loro bolla di vetro, i fessi nei loro casermoni di periferia, i politici nel loro grottesco habitus politichese, i professionisti del filo spinato tutt’intorno alla circonvallazione e nella zona dell’Eurotunnel. È avvilente, caro Carrère…”

Pare non esistere più nessuna prospettiva futura, nessuna soluzione per riportare Calais, i suoi abitanti e i suoi poveri ospiti a una vita che abbia le sembianze della normalità: per lo meno, Emanuel Carrère non sa proporre nulla. Si limita ad accusare il trattato di Le Touquet firmato da Francia e Inghilterra nel 2003 di aver provocato un disastro insanabile: “Sembra di essere in un film di guerra o in un videogioco postapocalittico… È tutto un roteare di lampeggiatori, ululare di sirene, rincorrersi di uomini”.

Non basta più la comprensione generosa, la generosità fraterna per calmare gli animi avvelenati da una parte e dall’altra: non basta scriverne, nemmeno se si è una celebrità letteraria.

 

© Riproduzione riservata     www.sololibri.net/A-Calais-Emmanuel-Carrere.html    27 luglio 2016