ANTONIO CASU, I CASI DELLA VITA – PUBBLICATO IN PROPRIO, REGGIO EMILIA 1976
Reggio Emilia è una città strana, estremamente politicizzata, quindi con una coscienza civile e anche culturale notevole, che mantiene tuttavia “sacche” provinciali di sottocultura, e zone intere che invece vivono di un patrimonio folkloristico ancora vivace e particolarmente sentito: anche qui si pubblicano raccoltine poetiche edulcorate, frutto di cattive letture e aspirazioni frustrate. Ma ci si pubblica anche altra roba. Io che vado a Reggio ogni tanto ho trovato in una libreria del centro un libretto (cm.10 X 12) color canarino, scarno e patetico anche nel prezzo -500 lire-. Sulla copertina Casu Antonio – I casi della vita, titolo onnicomprensivo, che sa tanto di buon senso antico, di famiglia patriarcale. Come se la sapienza del mondo – quella vera sostanziale – fosse raccolta in queste non so quante pagine, non c’è il numero, né indice, né presentazione, (forse per risparmiare sulle spese di stampa). Alla fine,una specie di avvertenza: «Autore di queste rime poetiche è il signor Casu Antonio residente a Pratofontana Via Don Leuratti 12 Reggio Emilia». E allora voglio scrivere qualcosa di queste rime poetiche, come le chiama il suo autore; non “poesie”. La struttura è semplice e ripetuta uguale in tutte, rima ABABABCC nelle più complesse, rispettata a ritmo quasi ossessivo (“mangiare, male, dolore, sudore, morire, ecc.”). Do un esempio di questa estrema cura e attenzione per la rima: «La festa della Vergine Maria / che si ricorda annualmente / bisogna fare pregatoria / che ci dia salute totalmente / ognuno con la sua familia / senza essere indifferente / insieme con Gesù / che il benessere ci dia di più».
Da qui potrei riallacciarmi al discorso religioso che è un filo sotteso per tutta la raccolta, una fede limpida nei dogmi, un’avversione per il nuovo e anche per il pensiero corruttore, un abbandonarsi alla preghiere imparate da piccoli senza mettere in dubbio niente, seguendo la morale sana e severa dei vecchi. Questo “rimatore” parla sempre di cristiani che devono sopportare e amare e pregare per ricevere il frutto delle loro pene («ma Dio ce la dia la salvezza / d’avere compassione del brutto destino / bisogna avere buonigno cuore / per grazia del Signore», «Non bisogna perdere la speranza / quando si ha la fede del Signore / nessuna cosa viene in mancanza / e può sanare quel dolore / ci sono dei miracoli in abbondanza / tutto merito di valore / sono casi che succedono in vita / prima di essere finita») esalta figure di sacerdoti e di perpetue, onora i papi e specialmente GIOVANNI RONCAGLIA – per la rima con battaglia-, fa del moralismo severo contro la dissoluzione dei costumi, contro la legge Merlin, si scaglia indignato contro la malavita le rapine e i sequestri, dedica una decina di rime agli agenti di pubblica sicurezza uccisi, recrimina su Mario Tuti e sulla strage di Piazza Fontana. Politicamente, è difficile definirlo: come dalla Sardegna si è trasferito alla terra che ci ha dato il fascio e i comuni rossi, così passa dal rimpianto nostalgico per i tempi del duce all’esaltazione di Berlinguer e del glorioso PCI; deplora la disoccupazione, la cassa integrazione, i ghetti industriali, ma non arriva ai più che leciti collegamenti tra le varie manifestazioni della corruzione politica, o si limita a generiche accuse contro il malgoverno. Vengono in mente i cantastorie siciliani, anche per i bozzetti di vita contadina, per il gusto del macabro e del particolare pietoso: adora la cronaca nera, uccisioni stupri vendette: si sente che questa è materia sua, su cui sa lavorare meglio, su cui sa stendere giudizi più recisi. La ritiene forse oggetto di poesia, ma anche questo gusto ha alle spalle una solida tradizione di ballate, di cantilene nutrite del piccante che offre la vita quotidiana. E’ un reazionario questo signor Casu? Forse. Meglio, si fa portavoce di contenuti in sé reazionari, ma lo fa con un’innocenza e un’ingenuità che si avvicinano alla poesia. Nelle sue rime c’è una morale triste ma profondamente umana, e quello che più conta, radicatissima tra la gente di campagna: l’ossequio al passato, all’esperienza del già vissuto. Un anziano contadino che scrive rime del genere è chiaro che non vuole fare un’operazione culturale (anche se indirettamente la fa), non è un operatore, un tecnico della parola. Scrive perché qualcuno lo legga e respiri un po’ l’aria di un mondo arretrato e lontano quanto si vuole, però vivo, ancora legato a leggi severe: forse non capirebbe questo articolo, certo non capirebbe la gente de La Tenda. La poesia per lui è l’equivalente della canzonetta da intonare dopo il lavoro dei campi, o della predica a messa, o del bollettino della radio: con in più la rima. Eppure ha delle intuizioni vergini, conia parole che potrebbero essere invidiate dalla nostra avanguardia, e non lo fa per sfizio per hobby per ricerca linguistica. E’ il suo mondo e sono le sue parole, è una morale che sa di fieno. Finisco con due poesie (queste sì a buon diritto) che si commentano da sole: «Se le pensioni hanno aumentato / aiutando il consumatore / tante volte considerato / ma sempre con minimo valore / come una elemosina sempre fatto / non considerando il valore / che nella nazione lui ha dato / mi riferisco al contadino / che lui è l’ultimo poverino», «Se volete che la terra dia frutto / bisogna darla a chi lavora / il benessere viene compiuto / ognuno deve avere la sua dimora / così abbandonato è dappertutto / e la vogliono lasciare più ancora / tutto dipende dai terrieri / che lasciano incolti i poderi».
«La Tenda», anno IV, n. 7, luglio 1976