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INTERVISTE

ACITELLI

FERNANDO ACITELLI, CANTORE DI ROMA E DEL CALCIO

 

Nato a Roma nel 1957, laureato in Lettere Moderne e in Filosofia, ha pubblicato opere in versi e in prosa. Tra le raccolte poetiche: Gli amplessi di Saint Just (1994); La solitudine dell’ala destra (1998); Il bacio dei coniugi Arnolfini (2001), Hogarth (2008), Cantos Romani (2012), Accattone ((2015). In narrativa: I vecchi esultano la sera (2007), Miagola Jane Birkin (2009).

  • Ci può parlare in breve dell’ambiente familiare e culturale in cui è cresciuto e si è formato?

È la Roma degli anni ’60, ariosa, gioiosa, spontanea, in certi scorci ancora belliana sui gradini di certe chiese a Trastevere; una città composta da tante piccole drammaturgie che, tutte insieme, formavano un affresco prezioso. È stata la Roma popolare, colorata e vociante, post bellica; quella dei cortili silenziosi con ballatoi e cessi arrampicati, ricoperti di muschio. Lo stupore all’ascolto di melodie degli anni ’30: qualche superstite disco di Rabagliati da un grammofono. Il timore nei cortili era mandare ariette degli anni ’30. Il giovanotto in canottiera sul balcone, muscoloso per natura. Lei signorina guizzante, già impiegata, puntuale al mattino alla fermata del tram. Una Roma di sguardi sinceri anche nella stentatezza del vivere, anzi, ancor più votati alla sincerità proprio in virtù di tale condizione. Una Roma di strade sgombre, di spazi ampi; una Roma “del quartiere”, che pareva fosse cinto da mura se tutto si svolgeva al suo interno: il panettiere, lo stagnaro, il barbiere, il bar, il cinema di seconda visione, il Due Allori, l’Impero, l’Alfieri, l’Arena Flora e poi il Diana; quindi la sala biliardi, la merceria, la bustaia, la sarta in un negozio sulla strada, le osterie con pergolato dove i vecchi si stordivano con litri di Frascati; un quartiere con le sue eleganze se nelle cartolerie, a Natale, vendevano anche le statuine del presepe. E poi l’universo del mercato dove ogni paura sembrava attenuarsi per l’umanità che grondava dai venditori. Lo sentivo con mia madre, per mano. E tutt’attorno, accanto ad una edilizia economica e popolare con casette basse e giardinetto sul davanti, incominciavano a vedersi i primi palazzoni, proprio come quelli di Don Bosco, a Cinecittà, in certi scorci di Mamma Roma. Anche quei silenzi all’inizio de Il sorpasso di Dino Risi li ho sentiti molto anche se il mio quartiere non era quello alto borghese della Balduina. Ricordo i silenzi d’agosto con la città vuota: uno spettacolo ammirare quella desolazione rovente. Girare da solo nel quartiere era un’avventura entusiasmante. Una Roma umana, non ancora oltraggiata. Una Roma bellissima perché prima del genocidio, della mutazione antropologica come avrebbe sottolineato Pasolini pochi mesi prima di essere ucciso, riferendosi alla nuova dittatura del consumismo. Una Roma in cui la famiglia era al centro di tutto. Eccola in sequenza quella che mi riguardava: mio padre, reduce di guerra ed ex internato nei campi di concentramento e mia madre, l’angelo del perimetro sacro della casa. Io e mia sorella a stupirci che fosse tutto vero dinanzi a noi.

  • Quando e come si è avvicinato alla letteratura, e quali sono stati gli autori che più hanno influenzato la sua scrittura?

Sono nato in mezzo ai libri. Ogni sera mio padre rientrava con un libro o più fascicoli delle varie enciclopedie che iniziava e portava a termine. Il ricordo vivo è che lui apre la porta e in mano ha quel tesoro. Dopo cena a me e mia sorella dedicava molto tempo e ci insegnava il disegno in cui lui era bravissimo. Con i pastelli specialmente. Lo ammiravamo come fosse un eroe. Da subito amai  le enciclopedie, ci rimanevo pomeriggi interi e rimandavo alla sera i compiti. Ero colpito subito dai nomi e dai volti dei personaggi storici. Vedevo immediatamente la loro data di nascita e di morte. M’interessava molto sapere quanto avevano vissuto e cosa avevano combinato. Le illustrazioni e le fotografie aiutavano moltissimo. È ad esse che devo molto. La mia passione per i volti, gli sguardi e quindi l’interpretazione dei tipi umani, credo che sia iniziata in quelle sere alla metà degli anni ’60 insieme a mio padre. Mia madre ci lesse tutto il libro Cuore: io e mia sorella avevamo quattro e cinque anni. Quando mia madre arrivava al racconto Dagli Appennini alle Ande io e mia sorella iniziavamo a piangere. Mio padre leggeva prima di coricarsi: abatjour accesa e vai con le biografie, i libri suoi preferiti. Antichi e moderni faceva lo stesso. Lo imitai: con fatica avanzavo nelle Vite parallele e, come terminavo un’esistenza, mi sentivo grande. Il primo romanzo che lessi fu Capitani coraggiosi di Kipling. Poi vennero Tom Sawyer, I ragazzi della via Pal e L’isola del tesoro, Zanna bianca nelle edizioni a fascicoli della Fabbri Editori con copertina di pelle blu e dorature sul dorso.

  • Lei è stato definito “cantore di Roma e del calcio”. In che modo queste due passioni hanno nutrito la sua produzione letteraria, e insieme a quali altre espressioni artistiche o esperienze esistenziali (cinema, arte, teatro, lavoro, politica…)?

L’altra passione di mio padre era il calcio. Negli anni ’30 era stato bravo nei Boys della Lazio. Aveva smesso subito perché il tempo spensierato mancava. La Roma – frattanto era il 1927 – iniziò la sua storia al Campo Appio, a poca distanza da casa nostra. Mio padre non si perdeva una partita. Giocò per un breve periodo nella Lazio ma tifava Roma perché il primo campo dei giallorossi era vicino casa e lui, fanciullo, stava sempre lì. Giocò a calcio anche durante la guerra: mio padre partì per il servizio di leva nel 1937 e, terminata il periodo canonico di ferma, tornò per un breve periodo a casa; poi nel 1940 fu richiamato alle armi e tornò in Italia nel febbraio del 1946: fronte greco-albanese, Africa settentrionale, fatto prigioniero a Tunisi, poi condotto a Casablanca; da lì in nave fino a New York, poi a Washington, quindi in treno prima nei campi di concentramento di Lordsburg (New Mexico) e poi a Hereford (Texas). Le sue lettere dagli scenari di guerra – a parte il VERIFICATO PER CENSURA – sono delle lezioni di stile e descrivono un animo nobile. Questi fatti devo narrarli, magari di volo, perché hanno influenzato tutta la mia vita. Quanto al sentirsi definire “cantore di Roma e del calcio”, è un onore: se lo sapesse mio padre! A lui devo tutto. Le antichità di Roma erano le nostre traiettorie quando lui era libero: musei, Foro romano, chiese, marmi, scheggiature, busti d’imperatori. E poi gli anfiteatri. La via Appia Antica, la regina viarum, la posso vedere ad ogni ora del giorno salendo al terrazzo condominiale. Le tombe romane, sulla via Latina, la via arcaica dell’Urbe, sono a cento metri da casa. Sto tra le rovine, nella Storia. Sono un reperto anch’io. Succedeva questo quando ero piccolo: giocavo a pallone all’oratorio che stava proprio lungo la via Latina e lì, dopo le varie partite, scambiavo le figurine Panini giocando pure “a soffietto” per vincere. Quindi avevo degli eroi in mano, i calciatori appunto. Uscendo dall’oratorio c’era un infinito verde ondulato, quello che oggi è il più grande parco archeologico d’Italia, quello della Caffarella: lì, dopo la pioggia, la terra faceva riemergere monete romane, corniole, lacrimatoi, ampolle. Ogni moneta mostrava il profilo d’un imperatore. Una fortuna per me girovagare in cerca dei reperti. Il cortocircuito in me avvenne allora: figurine Panini in una mano e profili d’imperatori romani nell’altra. Il gioco era fatto. La solitudine dell’ala destra, si può dire con certezza, nacque quando non avevo nemmeno dieci anni, lungo la via Latina. Dovevo soltanto aspettare e accumulare dolore e trovare la forma. Passare alla parola scritta è stato abbastanza facile: sono stato e sono un instancabile camminatore e Roma l’ho attraversata a piedi in lungo e in largo; tutto questo non poteva che lasciare un segno in me. Camminando, superando quartieri, sentendo conversazioni, vedendo le case antiche accanto alle costruzioni moderne, comunicandomi con il passato, ecco che la parola, almeno agli animi sensibili, sopraggiunge. Inoltre: soprattutto il cinema mi affascinava ma intendo per lo più il luogo: era un miracolo vedere l’umanità che si sbracava lì dentro, nei cinema di 2° e 3° visione. Mi perdevo ad osservare tutti gli individui presenti in platea quasi tralasciando la pellicola che scorreva sullo schermo. Che miracolo erano i cinema di 2° e 3° visione a Roma tra la fine degli anni ’60 e tutti li anni ’70!… Avrei anche dormito lì dentro, insieme a chi mi aveva colpito tra perdigiorno, vagabondi, poveri che forse erano finiti là dentro per non pensare alla loro magra esistenza. Avevo il mito della cassiera ma non perché bella o provocante ma perché lei in un cinema di periferia era uno scrigno d’immagini per me, come pure l’uomo che strappava i biglietti. Lei stava al suo posto fino all’ultimo spettacolo e prendeva l’autobus per tornare a casa, l’ultima corsa. Bellissimo! Quasi sempre, nel raccontare, finisco in un cinema. Quanto all’arte, devo dire che la pittura mi è sempre stata accanto: anche lì, fondamentali sono state le visite con mio padre in chiesa e musei: ricordo soprattutto la Galleria Doria-Pamphilj e poi la Galleria Spada. Sono traiettorie che ancora m’appartengono. Per chi come me pensa per immagini e tiene a distanza i concetti, la pittura è amica fedele.

  • La Roma del passato e quella presente, lo sport nobile e quello corrotto: un confronto sempre deludente e insanabile?

Non è più tempo per le poesie scritte con il lapis o i foglietti ritrovati  di Kavafis. Quel tempo l’ho amato e pendo ancora verso di esso ma s’è dissolto: la mia inattualità è una certezza. Ho scritto tanto con i mozziconi di matita e ancora lo faccio per resistere: m’accantuccio da qualche parte – chiesa, vicolo, piazzola, ufficio postale – e sogno che la favola bella sia ancora nel paesaggio; in verità davanti ho tutte quinte sceniche che crollano. Il linguaggio s’è fatto acrilico e le vite inautentiche sono ovunque. La schedatura della società tecnologica ha tolto ogni mistero: ovunque si vada c’è una telecamera e l’essere rintracciabile con un codice è spaventoso. Dov’è finito l’uomo? La verità è che non credo negli individui e non ho speranze.

  • Dai suoi versi si intuisce una sensibilità attenta nei riguardi della fede e della spiritualità, della solidarietà verso gli ultimi e del rispetto per l’ambiente e la cultura. Sono valori trasmissibili, secondo lei, anche attraverso la poesia, o risultano obsoleti e indifferenti per il pubblico dei lettori?

Il mio mondo è quello dove s’innalzano gli ultimi e dove si stenta a vivere: questo lo vede benissimo e lo introietta soltanto il camminatore solitario. C’è una vicinanza ad essi perché anch’io vivo con poco e oggi la possibilità di finire sotto le arcate della Stazione Termini è possibile per tutti. Quanto allo scrivere, le disperazioni non si cercano e non si trovano nel computer, semplicemente si vivono. I reduci da qualcosa sono i miei compagni di strada: la loro chioma arruffata, il cappottone, la fragilità nello sguardo, gli improvvisi sorrisi, l’assenza d’una busta paga, d’un libretto sanitario. Possono contare soltanto su se stessi. E poi non sono in contatto. Per me sono queste figure a mandare in onda filmati d’un privato Ancien Régime dove anche Dio era presente. I disperati, i monologanti, i dormienti dentro vecchi vagoni sono l’idea del “senza orario”, del giorno pieno veramente, dell’abbandonata ossessione del tempo. Esistenze uscite dalla vita. E poi stravedo per le camere ammobiliate dove il sogno si solleva: lì dentro non si sarà mai raggiunti da messi comunali, da raccomandate e neppure da quegli ultimatum propri della Tecnica. La vera poesia nasce dalla disperazione e non nei salotti o nel tepore senza fine del benessere. La poesia (che si sente anche quando scrivo in prosa) mi sostiene; è l’unico puntello vero, ma non credo serva a mutare le tante crudeltà che s’allestiscono ogni giorno in gran silenzio.

 

© Riproduzione riservata        www.sololibri.net/intervista-FernandoAcitelli.html      29 novembre 2016

   

 

 

 

INTERVISTE

AIRAGHI

Mamma seria 1

ALIDA AIRAGHI

  • Raccontaci qualcosa di te. Che tipo di lettore sei?

Essendo di indole piuttosto riservata e silenziosa, già da bambina dedicavo molte ore delle mie giornate alla lettura. Le fiabe di Andersen, “I ragazzi della Via Pal”, “Pattini d’argento” erano i libri che preferivo. E invece non ho mai sopportato la narrativa “rosa”, per signorine. Nell’adolescenza poi, sulla spinta del mio amore per i cantautori italiani e francesi, mi sono avvicinata alla poesia, in specie a quella del nostro novecento. Durante gli anni universitari a Milano, i miei interessi si sono rivolti soprattutto alla filosofia, alla teologia, e alla letteratura: e lì tuttora rimangono incardinati. Leggo molte ore al giorno, soprattutto il pomeriggio, mai prima di addormentarmi perché ho la fortuna di piombare in un sonno profondo non appena mi metto a letto. Sottolineo i testi, prendo appunti, se mi imbatto in qualcosa che non conosco o non capisco cerco di approfondire l’argomento su internet o in una enciclopedia.

  • Quali sono i tuoi generi letterari preferiti?

Tra i libri di filosofia, mi oriento soprattutto verso la filosofia antica (materia in cui mi sono laureata) e quella del novecento: René Girard, Pierre Hadot, l’esistenzialismo, Simone Weil, Pareyson. Non amo né la psicanalisi né lo strutturalismo. Leggo libri di teologia, anche se (ahimè!) non posso definirmi credente: Mounier, Heschel, Buber, Quinzio, Mancuso, Vannini. Da qualche anno mi sto appassionando anche alla scienza, ma solo da dilettante volonterosa. E poi divoro tanta poesia, spesso corretta e guidata da testi di critica letteraria. Sono invece abbastanza restia ad affrontare la narrativa italiana contemporanea, che trovo alquanto deludente.

  • Di quali scrittori per nessun motivo al mondo perderesti una nuova uscita editoriale?

Non presto molta attenzione alle novità librarie, né alle classifiche delle vendite. Anzi, in genere sono un po’ prevenuta nei riguardi dei best-seller, perché penso che il successo di un titolo dipenda frequentemente – più che dalla qualità della scrittura – da precise strategie editoriali, da campagne mediatiche che poco hanno a che vedere con il valore letterario. E poiché sono tardigrada (non solo fisicamente, ma anche mentalmente) mi capita di soffermarmi a lungo sulle stesse pagine, o di tornare a rileggerle più volte, nei mesi e negli anni; perciò non seguo le mode, né Fabio Fazio.

  • Se ti chiedessero una lista di libri da leggere assolutamente nella vita, quali consiglieresti?

In narrativa, amo i grandi romanzieri russi, e poi Mann (I Buddenbrok, La montagna incantata); gli scrittori di cultura ebraica (Singer, Schulz, Malamud, Yehoshua); i francesi: Camus, Bernanos, Céline. Di recente ho riscoperto con ammirazione Garcia Marquez. Tra gli italiani Moravia, Sciascia, Calvino, Ortese, e tra i più giovani mi pare originale Giuseppe Genna. E i poeti? Eliot (il più grande…) e Rilke; Saba, Penna, ovviamente Montale, Caproni, Luzi, Giudici. I giovani mi sembrano poco innovativi, abbastanza estemporanei nello stile e spesso intercambiabili tra di loro. Più interessati a festival, performance ed esibizioni varie che alla poesia stessa.

  • Come hai conosciuto Sololibri e cosa ti piace del nostro sito?

In passato ho collaborato a diversi quotidiani e riviste, italiani e svizzeri, avendo insegnato a lungo a Zurigo. Da qualche anno pubblico le mie recensioni su alcuni blog, e così mi sono imbattuta in Sololibri, che mi piace perché presta attenzione anche ai volumi datati, alle riletture, e spazia tra generi differenti. Inoltre mi sembra più “democratico” di altri siti letterari, spesso ristretti a circoli elitari, in cui ci si scambiano complimenti vicendevoli, o stroncature illividite e ingiustificate. Ho provato a mandare un mio articolo, è stato subito accolto: grazie!

  • Qual è il libro sul tuo comodino al momento?

Sto leggendo, in colpevole ritardo, Benito Cereno di Melville. Me l’ha raccomandato mia figlia Daria, anglista. L’altra mia ragazza, Silvia, dottoranda in storia del cinema a Londra, mi consiglia invece i film. Mi fido molto del loro giudizio.

  • Tra le tante novità uscite (o che usciranno) nel 2015, c’è un libro che ancora non hai letto ma che non ti lascerai sfuggire?

Non saprei cosa dire, vista appunto la mia refrattarietà alle novità. Forse il nuovo, atteso romanzo di Harper Lee, o l’ultimo Yehoshua…

 

© Riproduzione riservata    www.sololibri.net/Intervista-ad-AlidaAiraghi.html

24 novembre 2015

INTERVISTE

AIRAGHI

Alida Airaghi, “la poesia è una rivelazione”

Ma da dove gli viene / quest’amore per la vita, questa / disperata passione di essere nel mondo? // In fondo al cuore crede / che domani sarà meglio, / che qualcosa accadrà, di grandioso. // Il riposo arriva la sera. Respira la spenta / trepidazione della notte, / e si addormenta come un bambino: // come dopo aver detto una preghiera.». Uno stralcio di versi da Tarcisius, scritta rileggendo Le ceneri di Gramsci e Il pianto della scavatrice, poesia folgorante in Omaggi, nuova (singolare) raccolta di Alida Airaghi, edizioni Einaudi. I versi di tredici poeti (Gozzano, Saba, Ungaretti, Montale, Penna, Pavese, Caproni, Angeli, Luzi, Zanzotto, Pasolini, Giudici, Pagliarani) rivivono nei versi della poetessa veronese che «traendoli» dalle relative composizioni li ha «confusi» con i propri. Ciascun “omaggio”, scrive Jean-Jacques Marchand nella postfazione, presenta una prospettiva nuova della percezione dei sentimenti e dei ricordi dell’autrice. «Nella carne dei giorni», la Airaghi «sceglie l’eletta poesia», indaga «l’incredibile», destandoci ai bagliori dell’amore. E «tutto è vivo» anche nella sezione “Il viaggio”, «tardivo omaggio al passato», all’amata Zurigo.

“Ma un cuore vero trema di una strana / gioia di vivere anche nel dolore”. Con i suoi versi chiedo: di fronte al dolore del mondo la funzione “riparatrice” della poesia è sempre viva?

La poesia aiuta, di certo, a superare il dolore. Esattamente come la musica, un’amicizia, un amore, o qualsiasi altra esperienza vivificante, può riuscire a curare le ferite, ad alleviare i momenti di infelicità. Ciascuno di noi si aggrappa a una zattera per salvarsi nella burrasca. Per me è sempre stato difficile giustificare la sofferenza, soprattutto quella innocente, immeritata. E più quella degli altri che la mia, al punto che spesso non riesco nemmeno a guardare un tg per intero, e mi accontento di leggere i titoli di testa. In questo senso, la voce dei poeti mi è servita, già dall’adolescenza, come un rifugio, un porto sicuro cui approdare. Se abbia la stessa funzione riparatrice, consolatrice, ma anche di supporto e rafforzamento a livello collettivo, sociale e politico, non sono sicura di poterlo affermare. In passato abbiamo avuto una poesia civile capace di catalizzare entusiasmi e ribellioni, una sorta di collante comune: dalla metà del secolo scorso credo che questa funzione venga svolta con più verità e successo dalle canzoni. La poesia più che mai rimane un’arte di nicchia, con scarsa capacità di pungolo e traino nella società.

Qual è l’incarico (odierno) della poesia?

Terribile pensare, o anche solo sperare, che la poesia debba avere qualche incarico. Oggi, poi… Basta la sua gratuità, il suo non essere a servizio d’altro che della sua stessa parola, a renderla rivoluzionaria. Non asservirsi, e non servire, nel senso di non essere serva. Mi pare già moltissimo, in una società che utilizza tutto e tutti per affermare la sua inscalfibile potenza masticatoria e omogeneizzante. Il rifiuto di “servire” scardina.

La poesia, necessita più di ascoltare o di essere ascoltata?

Presumo che la poesia necessiti di silenzio, come la preghiera. Ma temo che questa mia convinzione derivi soprattutto da un mio tratto caratteriale. Nutro dei dubbi riguardo alla necessità e alla moda dei festival, delle letture ad alta voce, della spettacolarizzazione: mi sembra che il pubblico che assiste a queste manifestazioni sia interessato all’evento sociale, a conoscere il personaggio-autore, più che a fare risuonare dentro di sé l’eco della poesia. Tanto è vero che alla fine i libri di versi non si vendono, non li legge quasi nessuno. Anche il Vangelo lo leggono in pochi, persino tra i praticanti.

Per Brodskij la poesia è “straordinario acceleratore mentale”, per Airaghi?

Mah. Mi piace moltissimo fruire della poesia, quasi più che scriverla. Siccome però sono tardigrada, mentalmente e fisicamente, in genere un bel verso non mi accelera un bel niente! Semmai mi stordisce, mi immobilizza: quasi come una paralisi improvvisa. È una rivelazione.

È corretto dire, come scrisse Andrea Emo, che “la vera poesia è quella che dice assai più di quello che dice”?

Credo che Andrea Emo, di cui sono grande ammiratrice, avesse ragione. Una poesia non deve mai dire tutto, deve nascondere la sua intenzione più segreta: altrimenti diventa una pagina di diario, che è altra cosa. Spetta poi al lettore scoprire significati suppletivi, magari anche illusori, falsi, che il poeta nemmeno conosceva o celava addirittura a sé stesso. Ci sono poesie a cui io davo un determinato significato, e poi leggendo diverse interpretazioni critiche, mi accorgevo di essere completamente fuori strada. O magari si sbagliavano i critici, chi può dirlo? Una splendida composizione di Clemente Rebora, ad esempio, recita così: “Nell’ombra accesa / Spio il campanello / Che impercettibile spande / Un polline di suono – / E non aspetto nessuno”. Ho sempre pensato che Rebora alludesse al raccoglimento del fedele al momento dell’elevazione eucaristica, e che il trillo fosse quello del campanello che accompagna tale momento. Poi ho letto invece che l’attesa riguardava l’arrivo della donna amata. Forse? Chissà. Harold Bloom ha scritto che “L’arte di leggere una poesia inizia dalla comprensione dell’allusività”.

“La dolcezza è cosa rara. / Chiara e lieve se accarezza.”, ancora i suoi versi per chiedere: quando una poesia può dirsi compiuta?

Non so se riesco a rispondere in maniera appropriata a questa difficile domanda. Perché io ho tempi di incubazione lunghissimi, e poi scrivo di getto, in genere con poche correzioni. Anche per i poemetti più estesi degli “Omaggi” (Luzi, Caproni, Pasolini, Zanzotto, Pagliarani…) è stato così: preparazione meticolosa e stesura veloce, quasi in trance. Alla fine mi accontento se arrivo almeno parzialmente a raggiungere il risultato che mi ero prefissa; comunque il giudizio finale spetta al lettore, credo.

La forma quanto incide sull’essenzialità della parola poetica? Quest’ultima per preservare la propria efficacia comunicativa deve “esprimersi” usando il linguaggio del tempo in cui nasce e vive?

Non vorrei arrivare alla rigidità di Valéry, per cui in poesia il contenuto “è” la forma, ma non riesco ad apprezzare la casualità, l’esibito disordine, il pressapochismo e l’improvvisazione di molta poesia contemporanea. Non sono mai stata una fan nemmeno della beat generation. Temo che a volte l’eccesso di disinvoltura linguistica, un’esasperata trasgressività sintattica, l’incomprensibilità lessicale o il gioco fine a sé stesso cerchi di sopperire a una reale mancanza di ispirazione o di effettiva capacità costruttiva del verso. Non basta scrivere quello che passa per la testa andando a capo spesso, esagerando nei puntini di sospensione o negli spazi bianchi, involgarendo il messaggio con termini scurrili, per pensare di aver prodotto qualcosa di originale, disturbante, sovversivo, nuovo. Ogni poeta vive il suo tempo, scrive con la lingua del suo tempo; non c’è nessun bisogno di inventarsene una futuribile. Alla mia età purtroppo non so trovare arricchente il rap, il poetry slam, né la canzonetta di San Remo: mi sembra un livellamento pericoloso del gusto, una banalizzazione troppo facile e scontata. Dopo il Gruppo 63, di cui rimangono ormai solo stanchi e inefficaci epigoni, abbiamo imparato che il mondo (l’economia, la politica, il potere mediatico) non viene nemmeno lontanamente scalfito dall’insubordinazione letteraria.

Quale (e per quali ragioni) poeta e i relativi versi non dovremmo mai dimenticare?

Non dobbiamo dimenticare mai, proprio mai, nessun poeta che sia tale. Né i suoi versi. Ricordo spesso le parole di Montale al momento del conferimento del Nobel: “Ho scritto poesie, un prodotto assolutamente inutile, ma quasi mai nocivo e questo è uno dei suoi titoli di nobiltà”. Se la poesia non salva il mondo, tuttavia può aiutare a conservarlo, a dargli coraggio. Tutti i corollari che circondano oggi la scrittura poetica (editori, premi, classifiche, rivalità) sono inessenziali, una leggera foschia che l’appanna per breve tempo. E il poeta è un temerario che risveglia in noi qualcosa di assopito, di svogliato, di poco attento: gli dobbiamo gratitudine. Io sento una riconoscenza infinita verso i Maestri.

Pensando al suo “Omaggi” le chiedo: com’è nata l’esigenza (il “dettato”) di questo “libro profondamente autobiografico” dal “taglio” originalissimo?

La prima silloge degli “Omaggi” l’ho composta nel 1995, su invito di Eugenio De Signoribus che stava preparando un numero speciale di Hortus in onore di Giovanni Giudici. Io già dagli anni universitari provavo un’ammirazione sconfinata per La Bovary c’est moi, e in quel periodo stavo leggendo un libro che secondo me è tra i più grandi della letteratura novecentesca: La montagna incantata. Mi è venuto naturale fondere insieme gli amori sofferti e delusi della protagonista di Giudici e di Hans Castorp, e in tal modo è nato il primo dei miei “Omaggi”. In seguito ho scritto la lirica iniziale su Montale, e poi per anni più niente. Ho provato a inviare a Einaudi il dattiloscritto completo nel 2013, con l’aggiunta di un capitolo inedito che rielaborava i miei ricordi elvetici (ho vissuto e insegnato a Zurigo per molti anni, e le mie due figlie sono nate lì), e Mauro Bersani mi ha proposto di farlo uscire nel 2017. E così è stato. Vorrei aggiungere che non frequento il mondo letterario, e non ritengo sia necessario conoscere personalmente editori e scrittori per poter pubblicare. L’omaggio a mio marito Siro Angeli, e alla sua Approssimazioni all’arte poetica, mi è parso doveroso e giusto, sia perché penso che la sua figura intellettuale sia colpevolmente dimenticata, sia perché da quando gli scrissi a sedici anni avendolo trovato in un’antologia scolastica, fino alla sua morte, mi ha insegnato tantissimo, con l’esempio severo della sua moralità e del rispetto che si deve alla parola.

Riporterebbe tre poesie dal suo “Omaggi” per salutare i nostri lettori?      

Ecco tre poesie tratte da “Omaggi” con cui desidero salutare e ringraziare chi mi legge o vorrà leggermi. Rivivono versi di Montale, Penna, Giudici.

 

Molti anni, e uno più duro sopra il lago
su cui s’illuminano aurore e attese.
Arrivasti improvviso, a diradare
la mia nebbia di sempre.

Imprimerli potessi, ridestarli
in uno schermo d’immagini
schiarite… E con te cancellare il vissuto
per niente, azzerarlo.

Con il cielo coperto, l’erba ormai alta
(la panchina azzoppata,
e cartacce e lattine). Ero sola
in un’ora di quasi pomeriggio
a tentare nel vuoto un pensiero di bene.
L’ amore era lontano o era in ogni cosa?

Dove sarai, mi chiedo, in quale tempo
e spazio fuggita, nascosta al mio bene
divenuto insopportabile? Partita senza dirmelo,
che era l’ultima volta e davvero, stavolta.
Se l’avessi saputo, avrei preparato un addio
come si deve, e non il saluto di sempre:
e ti avrei imparato a memoria, il vestito,
le scarpe, le parole taciute. Storia
della mia vita, non può essere che senza
preavviso, senza ripensamenti, tu sia finita.

 

© Riproduzione riservata                Grazia Calanna, L’estroVerso, 2 marzo 2018

INTERVISTE

AIRAGHI

Versus: Airaghi-Celeste | L’Altrove

Il nostro viaggio attraverso la poesia femminile italiana inizia oggi con due poetesse: Alida Airaghi e Clery Celeste. Ecco l’intervista doppia:

Domanda tanto facile quanto difficile: Che cos’è per voi la poesia?

Airaghi: Da Platone in poi sono state proposte moltissime definizioni della poesia. Una, molto rigorosa, che mi ha particolarmente colpito è quella di Kant: “La poesia è l’arte di dare a un libero gioco dell’immaginazione il carattere di un compito dell’intelletto”. Più pacatamente Bachelard affermava che la poesia ha una funzione di risveglio, e ha il compito di trasformarci. Concordo con entrambi.

Celeste: Per me la poesia è qualcosa di sacro e come tutte le cose sacre non le puoi possedere, non le contieni, ma ti attraversano. Poesia quindi non è un qualcosa di fisso e statico ma è dinamica, arriva e non sai mai quando o per quanto tempo potrà andarsene via da te.

E come definireste la vostra?

Airaghi: Il mio scrivere in versi si è ovviamente modificato in più di quarant’anni di esercizio, che io amo chiamare artigianale piuttosto che artistico. Quando ero giovane intendevo la scrittura poetica come scavo interiore, ricerca emozionale, o addirittura testimonianza civile e denuncia politica. Oggi, più ammorbidita dall’età, e più consapevole della limitatezza dei miei strumenti espressivi, ma anche malinconicamente certa che la poesia non ha grandi margini di presa sul pubblico, e non è utilizzabile pragmaticamente, penso di dover ubbidire soprattutto al richiamo di un lavoro assiduo sulla parola, che dovrebbe riuscire a coniugare insieme pensiero, immagine e musicalità. Una carezza a ciò che esiste, e che è sempre più importante e più alto della nostra persona individuale. “Trasformare le proprie agonie private e personali in qualcosa di ricco e strano, di impersonale e universale” raccomandava Eliot.

Celeste: Quando scrivo cerco e spero che i miei testi possano essere comuni anche agli altri, che anche solo una parola possa appartenere ad altre persone. Cerco di creare una poesia che sia non prettamente personale e individuale ma in cui altre persone con diverse esperienze di vita possano riconoscersi e sentirsi meno sole, parte di qualcosa. Credo comunque che la letteratura in generale serva e debba tendere a questo: ritrovarci simili, meno soli.

Quale eredità vi ha lasciato la poesia femminile italiana?

Airaghi: Ho letto e leggo molta poesia italiana, e credo ci siano state grandi voci di poete nel nostro ’900: Bemporad, Guidacci, Rosselli, Romagnoli, Pozzi. Tra le viventi Anedda, Gualtieri, Calandrone suscitano in me interesse e partecipazione, così come mi entusiasmano le voci maschili di importanti maestri: Montale, Luzi, Caproni, Giudici, Pasolini.

Celeste: Sinceramente ho sempre letto di tutto, senza soffermarmi sulla identità dell’autore, che fosse uomo o donna poco mi importava perché credo che la poesia possa affrontare qualsiasi tema a prescindere dalla sessualità dell’autore. Certo, ci sono molte autrici donne che stimo, che rileggo e che apprezzo per la loro forza poetica e la loro indipendenza di stile.

Ed esiste una poesia prettamente femminile in Italia?

Airaghi: Spesso anche solo leggendo poche righe si riesce a riconoscere il sesso di chi le ha scritte. Ma mi sembra falsante creare categorie distintive tra i poeti. Non so dire perciò se esista una corrente di “poesia femminile”, che avverto come classificazione ghettizzante. Senz’altro esiste ed è esistita una poesia femminista, di rivendicazione e di lotta.

Celeste: Non credo che esista una poesia di genere in Italia, sarebbe secondo me anche anacronistico dividere la poesia in maschile e femminile. L’arte se è arte vera deve essere capace di affrontare anche temi che appartengono a sfere femminili o maschili, il poeta se è tale deve riuscire ad andare in profondità a qualsiasi argomento. La poesia in tal senso quindi deve essere, a mio avviso, universale. Più che poesia femminile si può secondo me ora trovare delle linee comuni tra generazioni simili, non tanto come stile ma come tematiche. Trovo ci sia molta più individualità ora, ognuno cerca di avere una sua voce, un suo ritmo preciso.

Si dice sempre che la poesia salverà il mondo. Ma da cosa?

Airaghi: Dostoevskij scriveva che sarà la bellezza a salvare il mondo, e credo avesse ragione se per bellezza vogliamo intendere non solo tutta l’arte (figurativa, musicale e letteraria), ma anche lo splendore naturale che ci circonda. Penso però che il mondo possa e debba essere salvato dalle brutture e dalla cattiveria non tanto e solo dall’arte, ma da tutti gli uomini e donne di buona volontà. Non sempre i poeti sono corretti, nobili e disinteressati: perché mai dovrebbero essere migliori dei medici, dei contadini, degli operai, delle cuoche?

Celeste: Non so se la poesia salverà il mondo, di sicuro però può salvare singole persone. La poesia mi ha salvato diverse volte, è l’unico luogo in cui ci si può permettere di essere veri e sinceri oltre il dolore e la ferita, forse a volte arriva prima il verso della comprensione razionale di quel che si vive. Dal testo quindi la conoscenza. Dove l’onestà e la coerenza determinano direi la buona riuscita di un testo. Se un autore mente, scrive cose che non ha provato, direttamente o indirettamente, scrive senza una urgenza e una necessità profonda, il testo secondo me potrebbe risentirne, risultando meno vero. I lettori sentono quando c’è coerenza e verità nei testi. L’arte in generale ha prima di tutto una funziona catartica per chi la fa, poi per chi la riceve. Non salverà il mondo, ma salva molti.

Quale poeta non può mancare nella vostra lettura?

Airaghi: Leggo e rileggo Rilke e Eliot.

Celeste: Tirare fuori i nomi: la domanda più difficile, si rischia sempre di dimenticare qualcuno. Vi scrivo quindi qualche nome di autori che leggo e rileggo volentieri senza un ordine preciso. Stefano Simoncelli, poeta e persona che stimo, Mario Benedetti, Gian Mario Villalta che ammiravo già moltissimo e poi ho conosciuto di persona pubblicando il mio primo libro, Milo De Angelis, Cristina Campo, gli autori della tradizione dialettale romagnola come Baldini, alcuni testi di Guerra e Annalisa Teodorani, la Szymborska ovviamente, Cortazar, Magrelli, Francesca Serragnoli ma ce ne sarebbero tanti altri.

Quali sono, invece, gli scrittori che vi hanno segnato?

Airaghi: Come citarli tutti? I classici russi, gli esistenzialisti, Thomas Mann, Garcia Marquez, Marguerite Yourcenar, Isaac Singer, Joseph Roth, Yasunari Kawabata, Virginia Woolf, i grandi filosofi… Amo leggere in generale tutto quello che mi ridesta dentro non solo un sussulto emotivo, ma anche un forte invito alla riflessione, all’approfondimento di temi o pensieri trascurati.

Celeste: Cito nuovamente Milo De Angelis, Magrelli e Benedetti: sono i primi contemporanei che ho letto quando avevo 15 anni e mi stavo avvicinando alla poesia. Mi colpì moltissimo la struttura del verso, i temi affrontati, la musicalità, la cura delle parole. Sicuramente mi hanno segnato i testi di Francesco Tomada per questa sua semplicità del dire anche le cose più dolorose, questa naturalezza che non è incuria ma deriva da un lavoro profondo di sé e dei versi. Nino Iacovella, Christian Tito e Alessandro Silva per un tipo di poesia sociale e civile insieme. Cortazar, già citato, per la sua espressione dei sentimenti potenti, come amore, rabbia e abbandono. Ce ne sarebbero tanti altri, questi i primi a cui ho pensato.

Abbiamo fatto leggere ad Alida Airaghi una poesia di Clery Celeste tratta da “La traccia delle vene” (LietoColle, 2014)

Tutto si riconduce a un cercarsi
di complementari gruppi sanguinei
tra foreste di vetro e provette
siamo uno scambio di liquidi
il nostro baciarsi è solo il gusto
di un semplice trasferirsi di fluidi
e tutto il resto non si sa da dove passi
se dal mio cuore
arriva poi al tuo
o si perde per strada, tra questo traffico
che ci opprime l’asfalto nelle ore di uscita
dalle fabbriche il cemento
e tutte le altre sostanze radioattive
come farfalle le vedo volare.

Ecco il suo commento:

Della poesia di Clery Celeste ho apprezzato la contrapposizione tra il mondo dei sentimenti e delle esperienze private e l’ambiente urbano, inquinatore di anime e corpi, che fa da sfondo all’incontro tra due amanti. La mortificazione dell’atto sessuale in una negatività riduttiva (“siamo uno scambio di liquidi”), amplificata dall’osservazione della realtà soffocante (cemento, asfalto, fabbriche, sostanze radioattive) cerca poeticamente uno spiraglio di luce e positività nell’immagine finale delle farfalle in volo.

Una mia poesia che potrebbe fare da corollario a quella sul bacio di Clery è questa:

Baciarti sulle labbra la parola
che a fatica pronunci, a fatica:
quasi avessi promesso di non dire.
Aspirarla con il fiato appena,
mescolarla al mio respiro, e confonderla.
Che non abbia paura, ascoltandosi,
di restarsene lì, irrimediabile, sola.

(da “Il silenzio e le voci”, Nomos 2012).

A Clery Celeste abbiamo fatto leggere una poesia di Alida Airaghi tratta da “Omaggi” (Einaudi, 2017)

Con il cielo coperto, l’erba ormai alta
(la panchina azzoppata,
e cartacce e lattine). Ero sola
in un’ora di quasi pomeriggio
a tentare nel vuoto un pensiero di bene.
L’amore era lontano o era in ogni cosa?

Il commento di Clery:

Un testo questo della Airaghi che mi ha lasciata col fiato sospeso fino all’ultimo verso, verso risolutivo e allo stesso tempo aperto. Una domanda che mi attraversa spesso nella quotidianità, soprattutto nel mio lavoro in ospedale quando ho a che fare con i pazienti. Una poesia che parte dalla dimensione naturale e “infinita” come il cielo e l’erba alta per arrivare a un’altra dimensione infinita ma che porta in basso come una voragine, quel vuoto dove si tenta un pensiero di bene. La caduta ce la suggerisce già al secondo verso, la panchina infatti è azzoppata. Sta già nelle cose l’incrinatura esistenziale. Il testo però è aperto, si chiude con una domanda da cui possiamo rientrare ogni volta. Era lontano o in ogni cosa?

 

© Riproduzione riservata                      «L’Altrove. Appunti di poesia», 28 maggio 2019

 

INTERVISTE

AIRAGHI

Poesia e musica: intervista ad Alida Airaghi

Poesia e musica: intervista ad Alida Airaghi, in libreria con “Rime e varianti per i miei musicanti”

Alida Airaghi è nata a Verona nel 1953. Laureata a Milano in Lettere classiche, ha insegnato a Zurigo per il Ministero Affari Esteri tra il 1978 e il 1992. Collabora oggi con riviste, quotidiani e blog.
Le sue pubblicazioni, in prosa e in versi, sono numerose. Ricordiamo, tra le seconde, Litania periferica (Manni, 2000), Un diverso lontano (Manni 2003), Frontiere del tempo (Manni 2006), Elegie del risveglio (Sigismundus, 2016), Omaggi (Einaudi, 2017) e L’attesa (Marco Saya edizioni). È stata inoltre inserita nelle antologie Einaudi dedicate ai Nuovi poeti italiani (1984 e 2012).

Lo scorso 13 ottobre, per Marco Saya edizioni, è uscito Rime e varianti per i miei musicanti, una raccolta dedicata ai testi di diciotto dei più amati interpreti italiani, da Battisti a Martini, da Gaber a Tenco, da Endrigo a Vanoni.
In questa intervista raccolta dalla nostra redattrice Eleonora Daniel, Alida Airaghi ci racconta del suo ultimo libro e del rapporto tra poesia e musica.

  • La sua nuova raccolta poetica è stata definita un omaggio alle canzoni della sua giovinezza. Può raccontare com’è nato Rime e varianti per i miei musicanti?

Nel 2017 avevo pubblicato da Einaudi un volume di poesie intitolato Omaggi, in cui accompagnavo versi miei a quelli di tredici poeti italiani del ’900. Ho pensato poi di ripetere l’esperimento con le canzoni d’amore che ascoltavo da ragazza, una sorta di divertissement più leggero, lontano da particolari ambizioni letterarie. Un “amarcord” un po’ nostalgico un po’ ironico, in uno stile diverso da quello che utilizzo di solito, molto giocato sulle rime, in modo da avvicinarmi all’intenzione musicale sottesa alla raccolta.

  • I diciotto interpreti ricordati sono tra i più amati del panorama musicale italiano di fine Novecento. Quando ha iniziato a scrivere aveva già chiara la rosa finale degli artisti a cui avrebbe dedicato un componimento?

Inizialmente ho composto alcune poesie dedicate a Sergio Endrigo, che nell’adolescenza ha avuto un ruolo fondamentale nell’avvicinarmi emotivamente al mondo delle canzoni d’autore. In seguito ho scritto dieci testi per ricordare Luigi Tenco, altro interprete che negli anni ho continuato a seguire con grande commozione. Poi mi sono trovata a recuperare nella memoria molte canzoni, di cui ancora dopo tanto tempo ricordavo esattamente le parole. Estrapolavo frasi intere, ricostruendo e inventando situazioni sentimentali nuove, perlopiù del tutto estranee al mio vissuto, ma suggerite dall’atmosfera creata da voci, armonie, associazioni spontanee. E quindi ho iniziato a scrivere relazionandomi ad altri cantanti, magari meno “miei”, ma comunque in vetta alle Hit Parade che ascoltavo al liceo: MorandiCelentanoMina. E ne ho tralasciati altri, che mi ritrovo tuttora ad ascoltare e imitare con un’adesione incurante della mia età: Bobby Solo, Little Tony, Anna Identici, Nada, Dino, i New Trolls, i Rokes, l’Equipe 84, i Pooh… La colonna sonora di una ragazzina di provincia, poco esperta di avanguardie musicali internazionali.

  • Per sentirsi legati a una canzone non serve conoscere l’intera produzione discografica del suo interprete. È vero anche per i cantanti che compaiono in queste pagine?

Certamente. Di alcuni di loro conosco pressoché tutta la discografia, di altri solo i motivi più famosi. La mia era una famiglia canterina, cantavamo sempre, in casa, nelle gite in macchina. I nostri genitori ci avevano insegnato i pezzi più in voga negli anni ’30 e ’40, poi anche i canti di guerra, degli alpini, o regionali. Io suonavo la chitarra, avvicinandomi lentamente anche alla musica classica, dal barocco di De Visée, a Carulli e Giuliani, fino a Villa Lobos e Tàrrega. Anzi, mi piace qui ricordare la mia cara maestra Gianna Creston, che è mancata recentemente e da cui ho preso lezioni fino a qualche anno fa. Credo che la musica abbia avuto un ruolo fondamentale nell’avvicinarmi alla poesia e oggi ascolto un po’ di tutto, Schubert, Mahler, Sibelius, Bartok, Pärt, Jarrett, Glass, Eno…

  • Le poesie partono direttamente dalle suggestioni dei testi, penso ai versi dedicati a Mia Martini e alla canzone Minuetto. Mi incuriosisce il rapporto tra musica e scrittura: era simultaneo? Scriveva durante l’ascolto o l’intuizione arrivava in un successivo momento di riflessione?

Mi capitava di pensare a canzoni che mi avevano colpito in passato, alcune quasi sconosciute, o completamente dimenticate oggi: lo Jannacci di Vincenzina, il Gaber di Così felice, il Tenco di Ti ricorderai. Le riascoltavo e mi scattava dentro il desiderio di ricamare su quei testi altre parole, di penetrarvi più profondamente, o magari di alterarne il senso, addirittura trasformandolo nell’occasione da cui aveva tratto spunto. È successo con Rimmel di De Gregori, con Che cosa c’è di Paoli. L’ha intuito molto bene Ranieri Polese nell’introduzione del libro.

  • Il legame tra canzone e poesia è inscindibile e spesso dibattuto (basti pensare al Nobel assegnato a Dylan nel 2016). Parlare di musica nei versi è un modo di portare questo legame su un piano altro, ancora più stretto?

Per quello che mi riguarda forse non intenzionalmente, ma in maniera istintiva sì. Credo che la musica pop-rock-rap abbia del tutto soppiantato l’importanza della poesia nella cultura popolare di tutto il mondo. Ha la funzione fondamentale di veicolare sensazioni, emozioni, messaggi e anche ideologie, ruolo che la poesia ha perso completamente, chiusa com’è in un suo piccolo spazio elitario, d’essai, quasi in bacheca. Quindi, ben vengano le commistioni, gli scambi, gli arricchimenti reciproci: sono positive sia per i poeti sia per i cantanti. Perciò ritengo sacrosanto il Nobel a Bob Dylan e altrettanto giusto quello di quest’anno a Louise Glück: ma chi dei due avrà più peso nella formazione e nella memoria individuale e collettiva?


© Riproduzione riservata SoloLibri.net    18 novembre 2020

https://www.sololibri.net/Poesia-musica-intervista-Airaghi-Rimevarianti– musicanti.htm

INTERVISTE

AIRAGHI

Intervista ad Alida Airaghi, in libreria con Consacrazione dell’istante

Intervista di Vincenzo Mazzaccaro

Alida Airaghi è nata a Verona nel 1953 e risiede a Garda. Dopo la laurea in Lettere classiche a Milano, è vissuta e ha insegnato a Zurigo per il Ministero degli Affari Esteri dal 1978 al 1992.
Collabora a diverse riviste, quotidiani e blog italiani e svizzeri.
Tra i suoi volumi di poesie: Il silenzio e le voci (Nomos, 2011), Elegie del risveglio (Sigismundus, 2016), Omaggi (Einaudi, 2017) e L’attesa (Marco Saya editore, 2018). In prosa ha pubblicato tre libri di racconti e due romanzi brevi.
Torna ora in libreria con Consacrazione dell’istante (AnimaMundi, 2022).

  • Buongiorno Alida, grazie della disponibilità. Le poesie contenute in Consacrazione dell’istante sono molto belle.
    Lei ha scritto già molti libri. Le chiedo com’è possibile calcolare il giusto equilibrio in poesia, com’è possibile individuare il migliore numero di poesie, senza che il lettore sia poi saturo di parole e senza la sensazione che sia rimasto qualcosa di improvvisato.

È vero: ho pubblicato diversi libri di poesia, dal 1984 a oggi, e alcuni di narrativa, più moltissime recensioni. Questo ultimo volume è stato meditato e rielaborato nell’arco di dieci anni. La poesia, rispetto ad altre espressioni letterarie, è di per sé concisa, stringente, condensata. Dovrebbe tendere a ottenere il massimo di significato con il minimo possibile di parole (come hanno scritto in tanti, da Pound a Ungaretti a Simone Weil), caricando di sensi molteplici anche un solo termine. Deve essere evocativa, come suono e come pensiero: mentre la prosa tende a spiegare e a spiegarsi.

  • Come si presenta un libro di poesia? Come si può rispondere all’interesse momentaneo di un astante di passaggio? Sempre che lei abbia fatto delle presentazioni dei suoi libri.

Non ho mai fatto una presentazione di un mio libro, né una lettura dei miei versi in pubblico. Non partecipo a festival, o a premi letterari, né ho mai risposto a interviste radiofoniche, per una mia reale difficoltà emotiva ad affrontare qualsiasi evento che comporti un rapporto diretto con più persone. Immagino che le mie esitazioni espressive creerebbero imbarazzo in chi mi ascolta. Meglio evitare…

  • In un mondo come quello attuale, sempre più insensato, crudele e bisognoso di aiuto, che ruolo può avere la poesia? Come può la poesia comunicare l’attesa e la paura?

La poesia non serve a nulla, nell’immediato, non ha e non dovrebbe avere scopi concreti di convinzione, proselitismo, o porsi obiettivi di successo. È semplicemente una proposta fatta a chi la voglia accogliere: l’offerta di una sensazione, di una riflessione, scritta seguendo regole formali, di metrica, ritmo, musicalità, possibilmente con un certo spessore di originalità nel contenuto.

  • Ci sono parole che piacciono più di altre. Nel mio caso tra le parole che mi piacciono o mi sgomentano c’è “irredimibile”. Stranamente ne parla nella postfazione anche il critico letterario Dino Villatico. Io la trovo una parola senza speranza, che però contiene anche un’attesa. Come si scelgono le parole in una poesia?

Credo di aver usato questo aggettivo riferendomi al dolore. Sono convinta che un grande dolore, e forse anche un grande amore, non possa essere redimibile, giustificabile, riscattabile. Deve essere accettato, persino nella sua inspiegabile, irragionevole sofferenza.

  • Villatico parla di metrica e di un uso condiviso del costrutto poetico, ben diverso da quello degli “acapisti”, ossia coloro che ritengono di scrivere poesia solo perché vanno molto a capo. Come ci si difende dal dilettantismo? Dai “poeti della domenica”?

Tutti hanno diritto di scrivere, e se vogliono, di pubblicare. Nessuno però può pretendere di essere apprezzato, o premiato, indipendentemente dalla qualità della sua scrittura.

  • In questo periodo siamo sommersi da parole, da troppe informazioni. Prima e ancora per un virus che ci ha cambiato la vita, poi per una guerra che non si capisce quando cesserà o se si estenderà. Come può trovare la sua autenticità la poesia, travolti come siamo dalla necessità?

Proprio grazie alla sua gratuità, alla sua inutilità. Oggi tutto ha un prezzo, una funzione, serve a qualcosa. Lasciamo che almeno la poesia non serva a niente, non abbia uno scopo effettivo. Come un bel paesaggio, una parola innocua e gentile, una sinfonia o un brano di jazz, un balletto, un dipinto.
A cosa servono? A nulla, solo a rendere un po’ più felici coloro che ne fruiscono. A farli riflettere, rallentando la frenesia di un’esistenza che non si pone domande, e trascura la bellezza.

  • Nelle sue poesie c’è questa benedizione dell’istante che poi diventa altro, ma anche maledizione, perché tutto passa in fretta, da una nuvola in cielo, da un amore che sta finendo quando è ancora presente. Ci ritroviamo nel nulla. La parola Dio lei la usa pochissimo e sempre in un contesto che rimanda all’effimero. La poesia è anche una preghiera laica?

Ho intitolato il libro Consacrazione dell’istante proprio perché penso che dobbiamo saper godere, all’interno di una giornata, della meraviglia che ci viene offerta anche da un solo istante rivelatore. Tutto è effimero e transeunte, ma ogni attimo è prezioso. L’attenzione al momento che si vive è un atteggiamento profondamente religioso. Ho avuto un’infanzia e un’adolescenza quasi mistica, e anche se oggi non sono più credente, dedico molto tempo alla lettura e alla meditazione dei testi sacri. Le ultime due sezioni del volume, Nominare gli dei e Symbolum, sono dedicate all’attesa di qualche possibile intervento divino capace di salvare il mondo, e alle parole che accompagnano l’Elevazione Eucaristica, lette in un acrostico. Alcuni amici presbiteri mi hanno comunicato la loro commozione.

  • Mi chiedo se riceve spesso libri dove ci sono solo parole messe in fila? Di libri di poesie pubblicati a pagamento da un sedicente poeta? Sa trovare anche in questi volumi cose buone, accettabili? Come si comporta da lettrice di chi cerca un giudizio?

Ricevo libri sia da editori sia da autori, con la richiesta di occuparmene. Ho cominciato a scrivere recensioni a ventidue anni, ora ne ho quasi settanta e continuo a farlo, spero con la giusta considerazione e il dovuto rispetto verso chi scrive. Mi vanto di non aver mai ricevuto un compenso economico per questa mia attività critica. Sono addolorata quando mi capita di venire aggredita con offese, anche molto volgari, da un autore che non si ritenga valutato e compreso abbastanza. Penso sia giusto incoraggiare i più giovani, gli esordienti, ma anche esercitare il diritto al rifiuto, qualora il testo non sia convincente.

  • I libri di poesia, in Italia, sono letti da poche persone. Sembra quasi più facile scrivere una poesia (o presunta tale) che leggerla. Poi capita che un cantautore come Lorenzo Jovanotti scriva un libro che ha come titolo Poesie da spiaggia, dove mette insieme Saffo e Leopardi, Achmatova e tanti altri, con l’aiuto di Nicola Crocetti, e il libro diventa immediatamente un caso letterario che vende moltissimo. Come se le poesie di Leopardi scelte da un personaggio famoso diventino più belle, riconoscibili. Come se lo spiega?

Jovanotti, Ligabue, Giò Evan, Rupi Kaur, Francesco Sole, Guido Catalano hanno tutto il diritto di pubblicare quello che vogliono, con un’operazione di mercato che sia fruttuosa per loro e per gli editori. Non penso si ritengano poeti da Nobel, e se il pubblico li legge significa che li trova stimolanti. Anche una canzonetta da hit parade estiva va bene se aiuta a stare meglio. Da ragazza, sono stati i cantautori italiani ad avvicinarmi alla poesia “seria”.

  • Lei collabora come me a questo sito letterario, che negli anni è cambiato molto. Anche se mi vergogno a dire che siamo colleghi, considerato che non ho scritto niente di mio e potrei scrivere piuttosto male anche degli altri scrittori. Cosa la spinge a recensire i libri di altre persone?

Né io né lei siamo Gianfranco Contini o Harold Bloom, e non pretendiamo di esserlo, suppongo. Leggiamo libri e ne scriviamo perché ci piace farlo, e in qualche modo ci gratifica, senza altre oscure motivazioni. L’importante è lavorare con onestà e impegno: lo si deve agli autori, ai lettori e alle sedi presso cui pubblichiamo.

  • Credo che chi scriva di poesia debba studiare molto. Prima i costrutti poetici, le variazioni di stile, le figure retoriche, il reale significato di ogni parola, ma pure i sinonimi e i contrari della stessa parola. E che debba leggere molta poesia. Antica, moderna e contemporanea.
    Quali sono i poeti che legge, però, anche solo per diletto?

Sì, leggo molta poesia. Tutto il ’900, italiano e straniero. EliotRilkeMontale, la linea lombarda, Zanzotto, la neoavanguardia, e i più giovani. Mi sembra giusto e importante riproporre nei miei articoli nomi dimenticati (Sinisgalli, Risi, Benzoni, Sovente, Romagnoli, Cattafi…). Nel libro ho reso omaggio a Carlo Betocchi, poeta generoso e delicato. Studio anche manuali di critica testuale, di composizione del verso: presumo sia un dovere per chi fa poesia.

© Riproduzione riservata                    7 giugno 2022

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INTERVISTE

AIRAGHI

Intervista ad Alida Airaghi, finalista al Premio Strega Poesia: “La storia siamo noi, tutti responsabili di qualcosa”

Alice Figini Pubblicato il 08-05-2024

La poetessa Alida Airaghi è finalista al Premio Strega Poesia con la sua ultima silloge Quanto di storia, edita da Marco Saya Edizioni.

Definire Quanto di storia un semplice “libro di poesie” appare quasi riduttivo, perché in queste pagine viene effettuato un catalogo ragionato del nostro tempo, unendo a catena avvenimenti storici e memoria individuale attraverso la luminosità chiarificatrice del verso che isola il sintagma del senso. I versi di Alida Airaghi possono essere definiti una forma di “poesia civile”: nel raccontarci gli episodi della storia contemporanea l’autrice non nasconde indignazione e impotenza, anzi, ce le trasmette con viva emozione e partecipazione, facendoci provare la medesima volontà di riscatto per avvenimenti che, talvolta, sembrano travalicare la capacità di comprensione umana.

La scrittura di Airaghi fissa sottoforma di date alcuni cambiamenti epocali che hanno travolto la nostra società – dalla strage di Piazza della Loggia alla caduta delle Torri Gemelle alla nascita di Facebook, sino alle guerre recenti in Ucraina e a Gaza – e lentamente li dipana attraverso i versi, come nel tentativo di disbrogliare una matassa intricata: dalla data, in un giorno qualunque inserito nel calendario, al senso storico e umano che toglie quel “giorno qualunque” dal suo apparente anonimato. È sempre l’umano a dare un senso alla Storia, forse senza gli uomini non esisterebbe neppure il concetto astratto di tempo né il tentativo di ordinarlo, calendarizzarlo, intrappolarlo in ore e minuti. In Quanto di storia il tempo assume un duplice volto: la memoria collettiva e la memoria individuale, proprio come ne Gli anni di Annie Ernaux, in cui viene narrata la vita di una donna che si incide nel solco di un’intera generazione lungo il filo di una storia condivisa.

La storia siamo noi, nessuno si senta escluso”, cantava Francesco De Gregori, Alida Airaghi ce lo rammenta attraverso versi che si fanno espressione dello “scandalo che dura da diecimila anni” narrato da Morante.

Ne abbiamo parlato in questa intervista toccando vari temi, dalla guerra alla pandemia, dai social network alla coscienza individuale.

  • Ha scelto di dare alle poesie il titolo di date storiche significative, che però forse non tutti i lettori riconoscono nell’immediato. È stata una scelta voluta? Voleva che fosse la poesia a svelare l’evento?

In un primo momento avevo affiancato alla data un titolo che identificasse l’avvenimento con più immediatezza, poi ho pensato che dovesse essere il lettore stesso a recuperare nella memoria la situazione collegata a un preciso, e spesso tragico, momento cronologico.

  • La silloge si muove entro i due poli della storia individuale: giovinezza e vecchiaia. La prima poesia si intitola Juvenilia e l’ultima De senectute, in cui si ritrae in due diverse età della vita. Scrive: “si cambia, si invecchia eppure restiamo gli stessi di sempre”. La vecchiaia è un artificio, in fondo si è per sempre giovani?

Sono convinta che ogni età abbia un suo dignitoso profilo, sia esso acerbo o maturo. Gli atteggiamenti giovanilistici degli âgée mi infastidiscono, mi sembrano alquanto patetici.
Personalmente, credo di essere sempre stata più “antica” che giovane, già da bambina e da ragazza. Posata, riflessiva, forse addirittura soporifera…

  • Mi ha colpito la scelta di mettere Giovanni Giudici in epigrafe. È una citazione che sottolinea la dimensione privata di quel grande calderone collettivo che è la Storia. Nelle poesie intreccia avvenimenti universali, ad altri più intimi e privati che tuttavia hanno lo stesso impatto di una guerra o di un disastro nucleare su una vita. Secondo lei quale dimensione prevale nella narrazione della storia: quella collettiva, oppure quella individuale? La Storia è un destino che schiaccia e a cui è impossibile opporsi?

Amo la poesia di Giudici, che riusciva a scrivere versi civili e privatissimi con lo stesso candido entusiasmo: parlava d’amore e di impegno sociale sentendosi parte di un tutto. Penso che così dovrebbe essere: siamo frammenti di un insieme, pur mantenendo la nostra individualità, la nostra minima rilevanza personale. E abbiamo comunque voce in capitolo, possiamo e dobbiamo esprimere i nostri sentimenti, le idee, le passioni, senza lasciarci travolgere dalla storia collettiva. Che io non vedo mai come un destino incombente e oppressivo, ma sempre nel suo svolgersi in una prospettiva di sviluppo, di miglioramento, a cui dobbiamo aderire positivamente.

  • Elsa Morante definiva la Storia come uno “scandalo che dura da diecimila anni”. Per Morante lo scandalo era il Potere, per lei è lo stesso?

Decisamente non amo il Potere, in nessuna delle sue espressioni: militare, finanziario, politico, religioso, e anche culturale. Credo abbia come obiettivo di manipolare e asservire l’individuo, violentando il diritto di ciascuno all’indipendenza di pensiero e azione. Ma non do invece un giudizio negativo della Storia, che – ripeto – considero come il risultato di una collaborazione umana verso il progresso, pur con tutti i tradimenti, gli stravolgimenti, le crudeltà e le ingiustizie di cui si può macchiare.

  • Definisce la morte di Borsellino una “congiura del silenzio” e allude alla sua agenda rossa scomparsa come metafora di una verità per sempre perduta. Questo silenzio, secondo lei, dura tuttora?

Mi sembra evidente che non sia mai stato alzato del tutto il sipario che copre tante stragi di mafia, le collusioni tra politica e alta finanza, i delitti efferati dei diversi terrorismi, le mistificazioni e la corruzione che serpeggiano nei palazzi del Potere.

  • Molte poesie sono dedicate alle stragi: dalla strage di Ustica a Chernobyl sino a Via D’Amelio. La poesia narra il dolore delle vittime, di coloro che non possono raccontarlo. La Grande Storia in fondo non è fatta di vincitori, ma di martiri?

Come canta De Gregori, “la storia siamo noi”, vincitori e sconfitti, eroi e disertori, tutti responsabili di qualcosa, nella buona o cattiva sorte. I martiri ci sono e ci saranno sempre, nei conflitti di ogni genere, sul lavoro, nella dedizione a un’idea, nella generosità del sacrificio. Luci nel buio, lampi di verità e coraggio, agnelli che aiutano il mondo a sopportare il male.

  • Nel libro tratta anche temi molto privati, tra cui una grave perdita. Inserire il proprio dolore nel solco della grande Storia aiuta, in qualche modo, a curarlo?

La morte di mio marito, nel ’91. La nascita delle nostre bambine, nel ’79 e nell’85. Due grandi gioie e un grande dolore. Felicità e sofferenza si compenetrano, e forse si compensano, continuamente. Il privato che ci coinvolge nel profondo spesso mette in secondo piano la Grande Storia. Che poi però riaffiora, ed è giusto sia così.

  • In 11 settembre 2001 si concentra sul crollo delle Torri Gemelle, forse nessuno prima le aveva immaginate come vittime, le aveva piante come vuoto, umanizzandole. Ci si concentra sempre sull’uomo che cade e di rado sulle due Torri. Pensa che le Twin Towers siano la metafora della crisi dell’Occidente?

Senz’altro il crollo delle Torri che sfidavano il cielo, nella loro pretesa onnipotenza, ha colpito l’immaginario universale, evidenziando la fragilità di un’America che si riteneva invincibile. L’orgoglio di Babele frantumato, ridotto in polvere: tutto quel fumo che nascondeva corpi carbonizzati… Come non ripensare al monito “ricordati che sei cenere”?

  • Dedica una poesia alla nascita di Facebook: il 4 febbraio 2004. La introduce come “un’idea vincente”, ma poi rivela il rovescio della medaglia. Qual è la sua opinione sui social network?

Non sono iscritta a nessun social, mi sembrano invadenti e schiavizzanti, nella loro presuntuosa e futile aspirazione ad imporsi, esponendo la quotidianità di chi li utilizza. Perché dovrebbe interessare ad altri dove passo le vacanze, che profumo uso, cosa mangio?

  • La storia contemporanea si muove tra tre avvenimenti terribili che lei narra in successione: la pandemia di Covid, la guerra in Ucraina e la guerra di Gaza. Racconta sempre le tragedie dal punto di vista dei civili, anche focalizzandosi sugli animali, vittime inermi del conflitto. Riporta gli eventi collettivi a una dimensione privata, individuale, che accresce l’impotenza. Scrive “nel vuoto del cielo che tace di un mondo saziato di pace”, non una preghiera ma una specie di atto d’accusa nei confronti della crudeltà innata degli uomini. L’uomo è per natura malvagio? Secondo lei non c’è nessun Dio?

Non credo in una Provvidenza che predilige un decimo della popolazione mondiale e condanna i restanti nove decimi alla fame, allo sfruttamento, alla mancanza di libertà. Soffrono i civili di Gaza, gli ebrei dei pogrom, la cagnolina della vecchietta ucraina: gli innocenti, gli innocui. Non esiste alcun Dio che possa giustificare quest’enorme ingiustizia. Ma credo nella possibilità di un riscatto finale, a cui dobbiamo contribuire tutti, come esseri umani. Nessuno nasce malvagio, la cattiveria si sviluppa nell’animo di chi si sente poco amato.

  • Nella poesia che chiude la silloge scrive “sappiamo di essere storia”. Cosa significa per lei “essere storia”? Qual è il suo rapporto con il trascorrere degli anni?

Pacificato, direi. Non sono ossessionata dal passare del tempo, dalle rughe, dalla morte. La vita inizia e finisce, è giusto lasciare spazio a chi verrà dopo di noi. Mi addolorano le morti precoci, di giovani che non hanno potuto realizzarsi come persone. In giugno compio settantuno anni, mi considero tra i privilegiati che hanno trascorso molto tempo sulla terra.
E non credo nell’immortalità individuale, in una mia esistenza in un qualsiasi opinabile al di là. Si spengono anche le stelle, finirà il sole, si polverizzeranno le galassie, Perché mai Alida dovrebbe vivere in eterno? Se sarò ricordata per alcuni anni da chi ho incontrato e amato, sarà già questo il mio felice paradiso. Tuttavia spero che l’umanità sopravviva in qualche modo, anche solo biologicamente, ridotta magari a un batterio (com’è stato all’inizio!) in cui sia compresa l’intera sua splendida storia millenaria: magari l’intelligenza artificiale ci aiuterà a capire come.

 

© Riproduzione riservata                  «SoloLibri», 8 maggio 2024

INTERVISTE

ANELLI

Organizzare la cultura: poesia e critica secondo Amedeo Anelli

 

ORGANIZZARE LA CULTURA: POESIA E CRITICA SECONDO AMEDEO ANELLI
INTERVISTE

ATMOSPHERE LIBRI

Intervista a Mauro Di Leo, editore di Atmosphere Libri

INTERVISTA A MAURO DI LEO, EDITORE DI ATMOSPHERE LIBRI

  • Quando e dove è nata la vostra casa editrice e con quali motivazioni e scopi?

Atmosphere libri è nata nel 2010 con l’intento di pubblicare soprattutto letteratura straniera che non fosse quella scritta nelle maggiori lingue, cioè l’inglese, il francese e lo spagnolo. È pur vero che nel corso di questi anni (abbiamo pubblicato oltre cento romanzi), nel nostro catalogo sono presenti, seppure in numero esiguo, anche alcuni scrittori francesi, americani e spagnoli (tuttavia la maggior parte sono di lingua catalana), ma la nostra visione spazia verso mondi culturalmente lontani dal nostro, come l’Estremo Oriente e l’Europa dell’Est, in particolare la letteratura russa, o il mondo del Medio Oriente, senza preclusioni religiose, linguistiche e culturali tra arabi ed ebrei. Nel nostro catalogo ospitiamo scrittori israeliani e arabi in una comune visione, benché solo virtuale, di un mondo di pace. Forse, almeno la letteratura può mettere d’accordo mondi che sono in perenne conflitto tra loro. Cerchiamo di dare una visione obiettiva ai nostri lettori, tramite la scrittura romanzata, di come sono e come vivono le persone in un certo luogo. Molte volte si scopre che le problematiche di un giapponese sono le stesse che quotidianamente vivono un egiziano, un israeliano o un russo. Crediamo di essere diversi ma lo siamo sono nel colore della pelle e di altri particolari somatici ma non nella testa. Siamo sempre stati convinti che non si possa fare a meno della forza culturale di società lontane ideologicamente dalla nostra società. Non esistono maggiori libertà e progresso nello scambio interculturale tra i popoli.

  • Quante persone collaborano al vostro progetto?

Ci sono redattori, un grafico e altri soggetti che ci aiutano nel nostro percorso di crescita. Soprattutto, abbiamo lettori che ci stimano e ci leggono condividendo le nostre scelte.

  • Che genere di narrativa proponete e quante collane avete in catalogo?

Proponiamo una letteratura colta che proviene dal Giappone, Corea, Cina in una collana curata dal professor Gianluca Coci, dalla Russia (agiamo in collaborazione con il professor Mario Caramitti), Egitto e altri paesi di lingua araba in una nuova collana denominata biblioteca araba. Pubblichiamo anche letteratura più commerciale ma pur sempre valida che proviene dai paesi scandinavi. In questo caso, riteniamo che la lettura di un thriller norvegese o finlandese non sia solo di svago, ma rappresenti un modo per conoscere dei luoghi tanto diversi dai nostri, soprattutto dal punto di vista climatico, che tanto accuratamente sanno descrivere gli scrittori nordici. Inoltre, abbiamo una forte presenza di letteratura per ragazzi e adolescenti perché crediamo nel processo di crescita delle generazioni più giovani.

  • Qual è stato il vostro libro che ha riscosso più successo, di pubblico e di critica?

Abbiamo alcuni libri che hanno riscontrato il successo della critica e dei lettori (seppur sempre in numero esiguo): La giornata di un opricnik del russo Vladimir Sorokin, vincitore del Premio Von Rezzori come migliore romanzo straniero pubblicato in Italia nel 2014 e il romanzo per ragazzi Amici della giapponese Yumoto Kazumi, finalista in vari premi letterari, tra cui l’Andersen. Abbiamo anche ottenuto un buon riscontro con un classico autore giapponese, Akutagawa Ryunosuke, di cui recentemente abbiamo pubblicato dei racconti, tra cui diversi inediti, dal titolo La scena dell’inferno e altri racconti. Stiamo parlando del maggior autore nipponico dei primi anni Trenta del Novecento, il maestro del racconto breve.

  • Che tipo di difficoltà incontrate nel diffondere la vostra attività e cosa vi augurate per il vostro futuro di editori?

Abbiamo le difficoltà di tutti i piccoli editori che sono legate soprattutto alla scarsa visibilità nelle librerie. È impossibile contrastare la strapotere dei grandi gruppi editoriali e, se il libro non è presente in una libreria, il lettore è difficile che ti venga a cercare se non ti conosce. È assurdo che stiamo morendo le librerie indipendenti, le uniche che riservano un po’ di spazio agli editori indipendenti, anche quelli piccoli come noi. Le librerie del genere supermercato del compra-libri ormai rappresentano la maggioranza e vendono solo ciò che è commerciale e sia prodotto dai propri editori di cui fanno parte. Purtroppo, l’Italia non è un paese che dedica le proprie energie anche alla cultura. Ci sono pochi lettori perché non ci sono biblioteche scolastiche, non ci sono librerie con librai competenti, non ci sono aiuti e fondi per tutelare i librai e gli editori indipendenti, non ci sono associazioni di editori e librai indipendenti che sappiano dialogare. Speriamo di crescere tutti insieme e la speranza di Atmosphere libri è quella di farci conoscere da più lettori per confermare la nostra presenza culturale perché siamo consapevoli di offrire un prodotto diverso e interessante con cui confrontarsi. Nel nostro futuro, ci sarà una maggiore caratterizzazione come casa editrice che guarda ai romanzi per ragazzi e alla fiction dell’Estremo Oriente e della Russia. A breve, nel nostro catalogo, avremo scrittori già famosi in gran parte del mondo come Raja Alem, Abdo Khal, Viktor Pelevin, ancora Vladimir Sorokin, Murakami Ryu, Abe Kobo e diversi coreani.

 

© Riproduzione riservata     www.sololibri.net/Intervista-html     29 marzo 2016

 

INTERVISTE

BARBERA

GIUSEPPE BARBERA: AGRONOMO, DOCENTE UNIVERSITARIO, SCRITTORE
Cinque domande al professor Giuseppe Barbera

 

Giuseppe Barbera è professore ordinario di Colture Arboree all’Università di Palermo. Si occupa di alberi, sistemi e paesaggi agrari. Tra i suoi libri, “Tuttifrutti. Viaggio tra gli alberi da frutto mediterranei, fra scienza e letteratura” (Oscar Mondadori, Premio Giardini Hanbury, Grinzane Cavour. 2007) e il più recente “Abbracciare gli alberi” (Il Saggiatore, 2017).
Per il FAI ha curato il recupero della Kolymbetra nella Valle dei Templi e del giardino Donnafugata nell’isola di Pantelleria. È socio onorario AIAPP.

  • Ci può introdurre all’ambiente in cui è nato, cresciuto e ha studiato, raccontandoci quanto il suo milieu formativo ha contato nelle sue scelte professionali e culturali?

La famiglia di mio padre possedeva una vecchia villa nella Conca d’oro, circondata da limoni e mandarini. Ai tempi della scuola vivevamo però in città per trasferirci per le lunghe vacanze estive in quella che consideravamo una lontana campagna. Adesso e dagli anni del sacco edilizio di Palermo è circondata da orrendi palazzi di cemento ma il ricordo delle estati passate nel giardino, rimane indimenticabile. E certo ha contribuito ad orientarmi verso gli studi agrari in università. A quel tempo fu una scelta nata dal desiderio di sfuggire al destino che voleva che prendessi il posto del padre nell’azienda (una centrale del latte) paterna. Era il Sessantotto e volevo guadagnare tempo.

  • Nella sua attività di docente universitario, rileva una particolare sensibilità ai problemi ambientali tra gli studenti, i collaboratori e i colleghi?

Ormai la mia attività dura da molti anni e l’interesse degli studenti va e viene con le passioni politiche e culturali dei tempi. Diversa l’attenzione dei colleghi. In genere incapaci di andare oltre i saperi ristretti dell’agricoltura intensiva e incapaci di una visione sistemica. Per loro l’irrompere delle scienze ecologiche ha rappresentato un incomodo e nel migliore dei casi è stato strumentalmente colto per avanzamenti di carriera o pingui finanziamenti per attività di ricerca

  • Ritiene che le istituzioni, regionali e statali, siano sufficientemente attente alla salvaguardia della natura che ci circonda? Nel suo ultimo libro “Abbracciare gli alberi” sono evidenti i toni polemici e indignati riguardo alla corruzione e al disinteresse politico su questo argomento.

Certo che no! I loro interessi non vanno oltre ravvicinati orizzonti elettorali, ovviamente con qualche eccezione. La salvaguardia della natura, ma più ancora la necessità di perseguire un rapporto di collaborazione tra uomini, piante e animali e di non considerare l’umanità centro e misura del pianeta è a loro sconosciuta. Guardiamo al caso dei cambiamenti climatici. Tra non molti anni il clima sarà definitivamente sconvolto, molte aree diventeranno sterili e masse di disperati saranno in viaggio verso luoghi di sopravvivenza. Questo dovrebbe portare a politiche di grande respiro e lungo periodo e invece il tempo passa a vuoto.

  • Oltre alle numerose pubblicazioni accademiche, quali sono stati i suoi libri diretti a un pubblico non specialistico, e che riscontro hanno avuto tra i lettori e i critici?

Tuttifrutti” è stato il primo importante ed è stato giocoso scriverlo. “Conca d’oro” parla di me, del posto dove vivo e del mio lavoro d’agronomo e del mio impegno ecologista. Sono fiero di averlo scritto. “Abbracciare gli alberi”, in questa seconda edizione, è finalmente il libro che pensavo di scrivere.

  • Quali scrittori e poeti, antichi e contemporanei, ha trovato più affascinati e vigili rispetto al mondo naturale?

Sono un lettore onnivoro ma, essendo fortemente legato agli alberi e ai paesaggi mediterranei amo particolarmente gli scrittori siciliani. Mi viene da dire: tutti. Da Vittorini a Tomasi di Lampedusa, Pirandello, Sciascia, Verga e Brancati…

 

© Riproduzione riservata         www.sololibri.net/intervista-Giuseppe-Barbera.html       6 settembre 2017