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INTERVISTE

CIAPPI

Silvio Ciappi e la poesia

Silvio Ciappi, psicologo e criminologo, laureato in Giurisprudenza a Siena e poi in Psicologia a Roma, si è specializzato successivamente in criminologia clinica, psichiatria forense e psicoterapia. È docente di materie criminologiche e psicologiche in diversi atenei italiani e scuole di specializzazione e ha svolto corsi di formazione e seminari per conto del Consiglio Superiore della Magistratura, per il Ministero della Giustizia e in molte università straniere. Si è occupato di reati violenti, di psichiatria e psicopatologia forense, di psicologia clinica e giuridica, di sociologia della devianza e di tematiche legate alla prevenzione dei delitti e alla sicurezza. Ha svolto consulenze forensi per alcuni dei più importanti casi di cronaca giudiziaria italiana. Nel 2021 è stato nominato Consulente della Commissione Parlamentare d’Inchiesta sulla morte di David Rossi, manager MPS. Ha svolto missioni internazionali in America latina, Africa ed Asia in tema di prevenzione della criminalità, giustizia riparativa, politiche sociali e valutazione dei sistemi giudiziari per conto della Commissione Europea e di altre istituzioni e centri di ricerca italiani e stranieri, occupandosi di narcotraffico, terrorismo internazionale, diritti umani, politica criminale e della giustizia. È stato uno dei primi studiosi a occuparsi di giustizia riparativa in Italia con esperienze di mediazione dei conflitti anche all’estero. È noto soprattutto per l’applicazione del metodo narrativo in ambito psicopatologico e per i suoi contributi centrati sull’analisi dell’approccio narratologico e traumatologico alla spiegazione del crimine. È anche scrittore e autore di romanzi noir (Il Missionario e L’uomo dei lupi).

Tra le sue opere:

Periferie dell’impero. Poteri globali e controllo sociale, Derive&Approdi, Roma 2003 (con contributi di Zygmunt Bauman, Joseph Stiglitz, Luciano Gallino, Alex Zanotelli, Naomi Klein ed altri; Idoli della Tribù. Politiche della sicurezza e controllo sociale, Piero Manni Editore, Lecce 2004; Orrori di provincia. Serial killer, assassini e pedofili dell’Italia profonda, Mondadori, Milano 2005; Il Vuoto dietro. Esercizi di anticriminologia, Rubbettino, Catanzaro 2010; Anime nude. Finzioni e interpretazioni intorno a 10 poeti del Novecento, Mauro Pagliai Editore, Firenze 2011; Ritratto di una mente assassina. Trauma, attaccamento e dissociazione in un killer seriale, Franco Angeli, Milano 2015; Coca Travel. Viaggio sentimentale di un criminologo lungo le rotte dei narcos, Oltre, Genova 2016; L’uomo che non voleva morire. Storia di un pescatore di anime, Gabrielli, Verona 2017; La Mente Nomade. Metodo narrativo-relazionale e costruzione dell’identità in psicopatologia, Mimesis, Milano 2019; Manuale di Criminologia, Nel Diritto Editore, Molfetta (BA) 2021; Odio. L’altra faccia del dolore, Giunti, Firenze 2023; Predatori. Dahmer, Bilancia e altri serial killer, Giunti, Firenze 2023; Il Branco. Storie di giovani, di violenza e di noia nel mondo orizzontale, Giunti, 2025, in corso di pubblicazione).

 

·       In una formazione giuridica e psicanalitica così severa e impegnativa come la sua, che spazio ha potuto ritagliarsi l’allusività della parola poetica? A quando risale il suo interesse per la letteratura, e come viene incrementato anche oggi?

E’ stata di fondamentale importanza sia la letteratura che la poesia nel mio percorso di studi. Consideri che ho un percorso di studi universitario, purtroppo per pochi esami non fondamentali non terminato, in lettere classiche. Ritengo che la potenza della parola poetica sia fondamentale. In fondo tutta l’attività psicologica non è che una variazione tecnica sul tema della poesia. Devi trovare la parola giusta, quella che permette al paziente una visione più realistica di se stesso. Le parole creano. Guarda un po’ l’etimo. La parola poesia deriva dal verbo greco ‘poieo’ che significa ‘fare’, ‘costruire’. Si, ma in sostanza cosa si ‘costruisce’ con la poesia? Fabbrichiamo parole cariche di senso, le uniche a portarci dritte nel nostro mondo interiore e descrivercelo meglio, diamo un nome ai sentimenti e se le cose hanno un nome acquistano una identità. I versi possono essere il modo di medicare i nostri mali. Esistono anche parole che facciamo fatica a pronunciare. Scopo di una terapia è farle venire fuori anche se spesso hanno un costo improponibile. Oggi più che mai c’è bisogno di parole e l’insegnamento della letteratura e della poesia può essere d’aiuto per le giovani generazioni. Aiutarle a credere che il mondo che li circonda oppure quello che hanno dentro possa essere descritto e che c’è stata gente che riesce a farlo, i poeti, i cantanti, gli scrittori, e che se vogliamo possiamo farlo anche noi. Anche i social potrebbero essere d’aiuto in questo. Non basta sapere come quando e cosa ha fatto Leopardi, quando piuttosto comprendere cosa si agitasse nella testa di quel ventenne quando si immaginava quell’infinito, il suo, il nostro, in cui perdersi.

·       In un volume del 2011, Anime nude, si è occupato di interpretare dieci poeti novecenteschi. Chi di questi ha avuto un riverbero maggiore in lei, culturalmente e sentimentalmente?

Indubbiamente Anna Achmatova e la grande poesia russa hanno avuto una grande influenza su di me. Nel libro mi sono immaginato quell’incontro unico tra la grande poetessa russa e Amedeo Modigliani, quel loro amore, benché lei fosse lì in viaggio di nozze e lui uno spiantato pittore italiano alla ricerca di fortuna. Mi sono immaginato quell’amore che era fin dall’inizio un amore impossibile, ma si sa solo gli amori possibili sono quelli che restano. Parlo dell’amore perché è il corrispettivo dell’odio, l’altra faccia nella quale possiamo relazionarci con l’altro. E il tema della relazione è fondamentale. Abbiamo bisogno di un altro che ci riconosca, solo tramite il riconoscimento dell’altro riusciamo a sviluppare una identità: tu mi guardi, tu mi parli, io mi riconosco. Siamo al tempo stesso attori e spettatori della vicenda umana.

 

·       Nella sua vastissima esperienza di scandaglio della psiche e dell’animo umano, ritiene che la poesia possa rivestire un ruolo non solo di scavo e consapevolezza interiore, ma anche di recupero di sensazioni positive rimosse, riparatrici del dolore, ancoraggio esistenziale?

La poesia è un potente antidolorifico, se mi permette la battuta. Lenisce il dolore nel momento in cui riesce a dare voce al borbottio interiore. Come ha scritto un autore che a me piace molto, siamo dieci per cento biologia e novanta mormorio notturno. E in quel mormorio notturno ci stanno immagini, sensazioni, parole. Prendi il dolore. Il dolore per essere in qualche modo contenuto deve essere narrato. Il dolore che non può essere narrato diviene annullamento, frammentazione, svuotamento interiore e rischia di diventare solo una perdita senza sofferenza, che può essere colmata anche attraverso la vendetta, la rabbia, lo scontro rivolto contro se stessi o contro l’altro. Il dolore è più sopportabile se invece lo inseriamo all’interno di una storia. Ma al tempo stesso non possiamo vedere la nostra storia, le orme che abbiamo lasciato sui sentieri, abbiamo bisogno di un’altra prospettiva e in questo può essere d’aiuto lo psicologo-narratore: noi siamo anche il racconto che altre persone fanno di noi. Un po’ come Edipo, come Ulisse, sono gli altri a raccontarci chi siamo. Accade anche che le parole del dolore a volte siano impronunciabili. La parola poetica ci permette questo. E’ uno sguardo obliquo sul mondo. Come diceva un grande filologo russo, Viktor Sklovskij, ci permette di ‘spacchettare’ il mondo e di dargli un senso diverso, inusuale. Mi verrebbe da dire: ‘hai mai pensato tu lettore a cosa accadrebbe se iniziassi a vedere il mondo, le persone che ti circondano secondo un altro angolo visuale? Provaci’. Le parole servono anche a ricucire, sono le parole-riparatrici che ci permettono una riscrittura interiore e che ci aiutano a saper stare al mondo nel disordine del vivere, affinché la vita non sia montalianamente che solo uno scialo di triti fatti.

            

·       Avendo frequentato carceri minorili e penitenziari, ha avuto occasione di rilevare se i reclusi abbiano confidenza con la poesia, come lettori o addirittura come produttori di versi, più o meno estemporanei?

Sì, a volte accade. Paradossalmente il tempo lento della reclusione fa sì che ci si possa addentrare, fuori dal tumulto della quotidianità, a fare i conti con se stessi. Siamo spesso troppo impegnati in letture ‘alte’ di noi quando invece sarebbe meglio conoscere l’inesauribile superficie delle cose prima di spingersi a cercare ciò che sta sotto. I luoghi della segregazione possono paradossalmente permetterci di fissare lo sguardo verso piccoli particolari, dettagli dell’esistenza, impressioni sensoriali che in altre circostanze ignoriamo. Il mestiere di vivere diviene un viaggio attraverso le piccole cose del nostro mondo, un viaggio nomade alla ricerca di quelle sillabe nascoste che ci hanno rappresentato e che ci invitano a vivere. La poesia è un dar voce alle nostre esperienze sensoriali, è cammino interiore che può riparare il nostro cielo di sentimenti.

 

·       La visione romantica del poeta come déraciné, asociale, dissidente, risponde a realtà, in questi nostri tempi di premi salottieri, festival, competizioni ed esposizioni mediatiche? La poesia rimane voce indocile, estranea e indifferente alle lusinghe del potere?

Deve a mio modo di vedere starsene lontana dalle sirene del potere la poesia, ma anche le scienze dell’anima. La poesia è un modo umile di approcciare il mondo. Intendo dire non si prefigge una costruzione moralistica, non ha da insegnare o mostrare niente se non invitarci a raccontarci, a prenderci dieci minuti ogni dieci giorni, ma quei dieci minuti ci vogliono, nei quali facciamo i conti con noi stessi. Certo ci vorrebbe un altro che ci aiutasse a recuperare questo momento di quiete, di abbandono del quotidiano, che ci possa far recuperare un certo senso di tranquillità, ma se non c’è l’Altro può divenire una immagine di noi interiorizzata, l’Altro-poetico con il quale dialogare. Le parole-simbolo della poesia possono guidarci in questo movimento interiore, sono parole-stimolo che possono aiutarci a vederci in una duplice funzione: quella del vedere e dell’essere visto, quella del parlare e dell’ascoltare, del chiedere e del dare. Siamo un colloquio, un mormorio, con l’Altro che ci abita a metà strada tra l’essere e l’apparire. Tutto questo non ha niente a che fare con l’esibizionistica e moralistica voglia di apparire. Nel mondo della società-spettacolo come ha ben evidenziato Richard Sennett nel suo ultimo libro, anche la cultura e la poesia rischiano di spettacolizzarsi. Le discipline che frequento di più, la psicologia e la criminologia, lo stanno già facendo da tempo e i risultati sono noti a tutti: volgarizzazione dei contenuti, scienze ridotte a mere istruzioni per l’uso, riduzione della complessità per un linguaggio social o televisivo che sia diretto, efficace in modo che possa essere divulgabile e masticabile da una socialità ridotta spesso a branco, fisico o digitale che sia.

 

© Riproduzione riservata             «Gli Stati Generali», 8 novembre 2024

 

INTERVISTE

CONOCI

GIUSEPPE CONOCI, FONDATORE DELLA CASA EDITRICE ANIMA MUNDI

 

 

INTERVISTE

CRISCUOLO

Intervista a Giordano Criscuolo, fondatore di Eretica Edizioni

Intervista a Giordano Criscuolo, fondatore di Eretica Edizioni

Ha pubblicato i romanzi Le parole che non scrivo (2005), Come su un solco di Morrison Hotel (2009), 1000 anni con Elide (2010), All’aurora sulle stelle e altre storie del sottosuolo (2011), Il meraviglioso vinile di Penny Lane (2015), Fiabe sorprendenti per principesse e disobbedienti (2021), Un fatto strano (2023).

 

  • Spinto da quali stimoli intellettuali ha deciso di dedicarsi all’attività editoriale? Che funzione ha avuto nella scelta della sua professione l’ambiente familiare e culturale in cui si è formato?

A sette anni lessi L’Inferno di Topolino e ne fui rapito, illuminato. Capii subito che le lettere avrebbero forgiato la mia vita. Mi chiudevo nella mia stanza, tiravo le tende e, alla luce soffusa di una candela, sfogliavo la Divina Commedia.
Non la comprendevo ovviamente, ma ne ero affascinato. Quelle illustrazioni di Gustavo Dorè, quelle terzine così misteriose, così armoniose… una magia. Tentavo di scrivere anch’io qualcosa e avevo chiesto a mio padre di prestarmi le penne e il calamaio che, conservate amorevolmente, usava ai suoi tempi a scuola: ero entrato nella parte del poeta, ma non sono mai riuscito a scrivere un verso. Eppure per me non era importante scrivere qualcosa, era importante stare lì in quel momento, alla luce di quella candela, fermo, sognante, in attesa. Casa mia era piena di libri e smarrito tra quelle pagine ingiallite ero il bimbo più felice del mondo. Attenzione: io non ero un genio, sia chiaro, quei libri non li leggevo (leggevo i fumetti, non riuscivo a pronunciare la C di ciliegia, correvo con gli amici, guardavo Mazinga e UFO Robot, mi facevo male), semplicemente i libri li sfogliavo e rimandavo coscienziosamente la lettura a quando sarei diventato grande. Mia madre era insegnante, mio padre pittore.
A casa mia si leggeva di tutto, mio padre aveva una cultura vasta, complessa, sofisticata. Studiava i filosofi, lo zen, la medicina cinese, la fitoterapia. Aveva un alambicco da Mago Merlino e, da appassionato erborista, distillava tutte le piante medicamentose e balsamiche del nostro territorio. Ambienti del genere lasciano un segno indelebile, ricordi possenti.

  • Ci può illustrare brevemente la struttura e la storia delle edizioni Eretica, spiegando le motivazioni di un nome così particolare?

Dopo il liceo, affascinato dalle arti di mio padre, mi iscrissi alla facoltà di Erboristeria. La realtà, però, era diversa dalla mia idea romantica e umanistica di verde, natura e pozioni magiche. L’esame di Chimica generale e inorganica mi mise di fronte a un bivio… senza pensarci due volte scelsi la strada del ritorno e rincasai. Una sera, mentre combattevo con i miei pensieri (che ne sarà di me? cosa farò della mia vita?), mio padre entrò nella stanza e mi disse: “Tu canti, suoni, scrivi, leggi. Vuoi iscriverti a Ingegneria?”. Capii allora che il mio mondo era quello delle Lettere e mi iscrissi a Discipline Letterarie. Quel nuovo percorso, dopo varie tribolazioni, mi ha portato a fondare Eretica. Porto il nome della Casa Editrice nel mio. I miei genitori mi chiamarono così in onore di Giordano Bruno. Il nome me lo suggerì mia moglie e rappresenta me stesso con tutta la forza che le parole riescono ad avere.

  • Quante collane sono presenti nel vostro catalogo? Pubblicate anche ebook, e se sì, ritenete che il formato elettronico possa rappresentare un’alternativa vincente rispetto al libro cartaceo? Avete un blog, e come è organizzato?

Attualmente abbiamo una collana di poesia, una di poesia e pittura/fotografia, una di narrativa contemporanea e infine la collana Piccola Biblioteca Eretica, con la quale pubblichiamo grandi autori noti e meno noti del passato.
L’anno scorso abbiamo provato a pubblicare diversi titoli in formato elettronico, ma le vendite sono state del tutto deludenti. Per questo motivo, senza escluderli del tutto per il futuro, abbiamo deciso di sospendere la pubblicazione di ebook. No, non abbiamo un blog ma una bellissima pagina su Instagram.

  • Quali sono le vostre pubblicazioni che hanno ottenuto più riconoscimenti di critica e di pubblico, e secondo lei per quali motivi?

Chi ha polvere spara e I grandi scrittori non mangiano di Donato Montesano e il romanzo Una ferita in fondo al cuore di Anna Danielon sono titoli che hanno venduto molto. Si tratta ovviamente di racconti e romanzi scritti benissimo, letture che riescono a incantare i lettori.
Il vero motivo del loro successo, tuttavia, sta nella smisurata passione di chi li ha scritti. In questi anni abbiamo pubblicato opere bellissime di autori che alla fine si sono dimostrati disinteressati e che a pubblicazione avvenuta sono letteralmente scomparsi. La promozione degli autori, e non solo di quegli autori che pubblicano con piccole Case Editrici come Eretica, ma anche di quelli che hanno la fortuna di pubblicare con i colossi, è vitale.
È tutto. Bisogna inviare i libri ai giornalisti, ai blogger, ai premi letterari, parlare del proprio libro sui social. Una piccola casa editrice da sola può fare veramente poco. La pubblicazione di un libro non è un punto di arrivo ma di partenza.

  • Attraverso quali canali preferenziali riuscite a pubblicizzare i vostri prodotti, e che traguardi vi proponete di raggiungere, a livello di mercato e di incidenza culturale, dato che la lettura è sempre più minacciata da altri e più aggressivi mezzi di comunicazione? Le fiere e le kermesse editoriali servono, o è più efficace la pubblicità sui social e sulla stampa tradizionale?

Per promuovere i nostri titoli, ci avvaliamo principalmente dei Social Network, sfruttando quei pochi mezzi che abbiamo a disposizione.
Sebbene Fiere e Saloni siano indubbiamente importanti, per noi della piccola/media editoria possono rappresentare a volte una spada a doppio taglio: da un lato offrono visibilità, dall’altro si rivelano spesso poco sostenibili dal punto di vista economico. I costi degli stand sono sempre elevati, senza contare quelli relativi agli alloggi, ai B&B, ai viaggi, eccetera.
Pur potendo sembrare monotono e ripetitivo, ritengo che il vero “salone del libro” risieda sul nostro comodino, accanto al letto.


© Riproduzione riservata SoloLibri.net            29 novembre 2023

INTERVISTE

CRISOSTOMIDIS GATTI

PAOLA CRISOSTOMIDIS GATTI, POETESSA E BLOGGER

Paola Crisostomidis Gatti è nata a Messina e ha vissuto in diverse città italiane. Attualmente si divide tra Roma e Firenze. Dopo la Maturità Classica si è laureata in Giurisprudenza, per lavorare poi presso la Presidenza del Consiglio dei Ministri. È stata premiata in vari concorsi letterari e le sue poesie sono state pubblicate su antologie e riviste. Attualmente cura le rubriche “Si alza il vento” e “Una poesia al giorno” sul blog RMagazine. Nel 2017 ha pubblicato da Giuliano Ladolfi editore Istanti lunghi come coltelli.

 

  • Quando e seguendo quale metodo di studio ti sei avvicinata alla poesia?

Ricordo di aver scritto le prime poesie a dieci anni, frequentavo la quinta elementare a Pisa e avevo già cambiato città sette volte. Mio padre è un generale dell’esercito, ogni anno o al massimo due dovevamo trasferirci e ricominciare. Probabilmente sentivo un malessere da tirare fuori, anche se per molto tempo non ne ho avuto la consapevolezza, pensavo che spostarsi fosse la normalità. Grazie al liceo classico che ho frequentato a Firenze ho potuto approfondire i poeti delle antologie scolastiche e la letteratura greca e latina. Nonostante abbia poi studiato giurisprudenza e lavorato in una struttura del governo, ho cercato di ampliare le mie conoscenze poetiche leggendo soprattutto molta poesia straniera e i poeti “alternativi”, cioè quelli che a partire dagli anni ’70 hanno cominciato a rompere gli schemi classici della poesia.

  • Quali sono i poeti che più hanno influenzato la tua scrittura? E a quale corrente letteraria ti senti più vicina?

Il liceo classico ha sicuramente avuto un’influenza importante sulla mia scrittura, mi ha sempre affascinato l’uso del mito come spiegazione di valori etici e la lettura dei lirici greci per la sintesi perfetta dei versi.
Pavese è stato il regalo più amato durante l’adolescenza, gli anni del liceo sono passati leggendo le sue Poesie del disamore. L’incontro con le poetesse Sylvia Plath, Antonia Pozzi, Marina Cvetaeva e Alejandra Pizarnik è stato determinante. Donne che hanno sofferto, che la poesia ha aiutato finché il dolore non ha reso la loro vita insopportabile.
Non so a quale corrente letteraria mi sento vicina, probabilmente alla corrente più intimista, come espressione di sentimenti e stati d’animo. Credo molto nella poesia come forma di autocura perché riesce a circoscrivere il proprio stato d’animo, ad accettarlo e a trasformarlo in linguaggio poetico in modo che i sentimenti negativi non facciano più sentire il male di vivere:

“La poesia ha questo compito sublime di prendere tutto il dolore che abbiamo nell’anima e di placarlo, la poesia è una catarsi del dolore”. (Antonia Pozzi)

  • Le tue vicende biografiche e l’ambiente culturale in cui sei inserita, che ruolo hanno avuto nella tua produzione letteraria, rispetto ad altri interessi culturali (filosofici, religiosi, politici)?

Sono cresciuta in un ambiente familiare stimolante. Mia madre ha studiato all’Accademia delle Belle Arti di Firenze, è una pittrice e proviene da una famiglia dell’alta borghesia calabrese composta prevalentemente da giuristi e letterati che già nel 1700 possedeva una delle più grandi biblioteche del meridione. Mio padre è nato e cresciuto nell’isola di Rodi, in un contesto multietnico e multireligioso, da un padre piemontese e una madre greca. Per questi motivi ho sempre vissuto la cultura come arricchimento morale e la diversità come complemento di crescita. L’avvicinamento alla letteratura e di conseguenza alla poesia è nato grazie alla passione per la lettura sviluppata durante le vacanze estive trascorse dai nonni materni dov avevo accesso a un’ampia scelta di libri.

  • In che modo il lavoro che svolgi come blogger arricchisce anche il tuo scrivere versi?

Sono pochi anni che mi occupo di poesia per il blog RMagazine.it, ma devo dire che questo impegno mi sta dando molte soddisfazioni soprattutto come riscontro all’esterno e come approfondimento di studio personale. La ricerca dei poeti che devo inserire settimanalmente nella mia rubrica “Una poesia al giorno”, mi permette di spaziare all’interno del mondo poetico senza limiti geografici e temporali. Sicuramente ci sono poeti che sento più vicini come impatto emozionale e come stile, ma riesco comunque a mantenere una mia unicità. La cosa più importante che ho capito abbinando il mio lavoro di blogger allo scrivere versi è che per avvicinarsi veramente alla poesia bisogna studiarla in modo approfondito e impegnato.

  • Ci vuoi parlare brevemente del libro che hai pubblicato nel 2017, e di quello che uscirà prossimamente?

Nel 2017 ho pubblicato Istanti lunghi come coltelli presso Giuliano Ladolfi Editore. L’idea del libro è nata in un periodo di grande sofferenza, avevo perso un amore e mio padre a breve distanza, dovevo elaborare due lutti contemporaneamente. La poesia è stata di grande aiuto, è sempre stata una compagna silenziosa, ma non la vivevo in modo costante a causa del mio lavoro. In quel periodo l’ho abbracciata e poi ho continuato a tenermela stretta. Mi ha aiutato a gestire il dolore, ho sempre avuto problemi nel farlo.
La raccolta è divisa in cinque sezioni che, come una storia, attraversano le varie fasi della mia vita passando dal dolore alla rinascita. Credo che il libro sia un incitamento a reagire di fronte alla disperazione. Il titolo, Istanti lunghi come coltelli, rappresenta l’attesa nelle sue forme più intime: l’attesa di un amore, di una carezza che non arriva, l’attesa che i cambiamenti portino il nuovo e allontanino i ricordi maceranti del vecchio. L’attesa soprattutto di una guarigione dal male di vivere. I coltelli invece feriscono, fanno male, come l’attesa.
Prossimamente uscirà la nuova raccolta L’imperfezione della solitudine presso Edizioni Ensemble. Cinque sezioni rappresentate da altrettante figure femminili che all’interno di un cerchio immaginario affrontano il passaggio dall’Unico all’Universale come naturale processo di evoluzione. “La grande solitudine interiore” di Rilke diventa imperfetta nel momento in cui nasce il bisogno dell’altro per sentirsi meno soli. Un bisogno che stravolge l’esistenza e porta a percorrere strade imprevedibilmente diverse. Partenza e ritorno a percorsi solitari come cura e amalgama all’universalità dell’amore.

  • Che futuro prevedi per la diffusione della poesia nel nostro paese? Festival, fiere, performance, letture pubbliche sono utili a incrementare l’interesse dei lettori?

Negli ultimi anni ho notato un interesse maggiore nei confronti della poesia da parte soprattutto dei giovani. Ci sono molti poeti nati tra gli anni ’80 e ’90 che sono dei veri talenti. Penso che ci sia un ritorno alla poesia, al piacere di leggerla e ascoltarla. Anche nelle librerie mi sembra che gli spazi dedicati si stiano allargando e si trovano finalmente molte raccolte di poeti contemporanei. Stanno aumentando i reading e le persone che vanno ad ascoltare i poeti. Grazie ai social, Facebook e Instagram, la poesia viene condivisa e letta. Sono convinta che per avvicinare la gente alla poesia bisogna portarla in giro, farla uscire nelle piazze, far capire che la poesia è come la musica e le altre forme d’arte.

© Riproduzione riservata    6 ottobre 2020

https://www.sololibri.net/Intervista-Crisostomidis-Gatti-Istanti-lunghi-coltelli. html

INTERVISTE

DE ALBERTI

ANDREA DE ALBERTI, POETA

Andrea De Alberti è nato nel 1974 a Pavia dove vive e opera. Suoi testi sono presenti nell’Ottavo Quaderno Italiano di Poesia Contemporanea, e in Nuovi poeti italiani. Del 2007 è la raccolta “Solo buone notizie” per Interlinea; del 2010 “Basta che io non ci sia” per Manni. Ha appena pubblicato con Einaudi il volume di poesie “Dall’interno della specie”.

  • Da quale realtà familiare e ambientale proviene, e in che modo tale realtà ha influenzato le sue scelte culturali?

In casa avevamo l’Enciclopedia Medica per mia madre. L’Enciclopedia del Tennis per mio padre. I Quindici per mia sorella e per me. Sono cresciuto sui Quindici e su molti vinili che ascoltava mio padre. Mia madre era figlia di osti. Mio padre era figlio di agricoltori. Mio nonno faceva il lattaio. Non so se questo abbia influenzato le mie scelte culturali, sicuramente mi ha fornito una prospettiva.

  • Attraverso quali percorsi di studio e di lettura si è avvicinato alla poesia, e quali sono i poeti classici e contemporanei a cui ritiene di essere più debitore?

A scuola ero bravo. Ho fatto il liceo e poi Lettere Moderne all’Università di Pavia. Il mio primo maestro è stato la mia professoressa del biennio al liceo. Leggevamo Gadda, Proust, Musil, Joyce, Satta, Mann e poeti come Montale e Ungaretti. Sono legato a Rilke e Rimbaud per quanto riguarda la mia giovinezza; Sereni, Luzi, Raboni, Baldini per la maturità. Una miscela di reale e surreale.

  • Il suo ultimo libro di versi, “Dall’interno della specie”, pubblicato nella prestigiosa collana bianca di Einaudi, in cosa si differenzia dai tre precedenti, formalmente e nei contenuti?

Ho abbandonato l’io lirico dei primi libri. Ho cominciato a distruggerlo per poi ricostruirlo in maniera celata e mascherata nelle nuove poesie. Ho accelerato anche il mio ritmo interiore, come se il cuore dovesse pompare più sangue in una corsa contro il tempo.

  • Pensa che sia importante, per la poesia, nutrirsi non solo di letteratura, ma radicarsi anche in altri ambiti culturali? Quali sono quelli che lei frequenta con maggiore interesse (musica, cinema, arte figurativa, scienza)?

Penso sia fondamentale. Ogni ambito può essere fonte d’ispirazione. Ogni tipo di altra scrittura. Nei Quindici c’era di tutto: dalla favola alla scienza. Penso siano state le basi della mia formazione. Una curiosità onnivora, le radici che si sono innestate nelle altre radici, quelle delle mie esperienze di vita.

  • Nello scrivere versi, ritiene incidano di più le esperienze esistenziali, con i loro contraccolpi emotivi, o invece la riflessione teorica, l’ideologia, il lavoro sui testi? E in che maniera la sua professione attuale vivifica o appesantisce la sua scrittura?

Nello scrivere versi si cerca sempre di tanare in una pozzanghera di fango e acqua una carpa dorata. Lo fai con le mani. La riflessione teorica e soprattutto il lavoro sui testi viene dopo ed è un duro lavoro. Togli il fango dal pesce e vedi che splende come un’ascia.
Lavorare in un’osteria è un osservatorio ma vedi le stelle quando le luci si spengono.

 

© Riproduzione riservata       www.sololibri.net/intervista-Andrea-De-Alberti.html     20 febbraio 2017

INTERVISTE

DI CESARE

INTERVISTE

ELLIOT

Piccoli editori crescono: intervista allo staff di Elliot Edizioni
INTERVISTA ALLO STAFF DI ELLIOT EDIZIONI

 

Nata come piccola casa editrice di progetto dalla rivista Elliot narrazioni e attiva da quasi un decennio, Elliot Edizioni – attualmente parte del gruppo Lit Edizioni – è oggi una realtà quanto mai effervescente della piccola e media editoria italiana, con un catalogo che si arricchisce ogni anno di circa 45 nuovi titoli e una curiosità rivolta non solo al mondo letterario ma anche al panorama artistico italiano e internazionale. Elliot Edizioni distribuisce equamente il suo impegno tra narrativa, saggistica e poesia, con frequenti incursioni nell’universo delle arti visive: oltre alla letteratura, con romanzi tra l’horror e il comico, infatti, numerose sono le graphic novel che portano il suo marchio, con titoli che vanno dal fumetto d’autore a quello ultrapop. Con un progetto editoriale temerario quanto basta per riscoprire grandi voci dimenticate del passato, Elliot Edizioni ha dimostrato tutta l’acutezza del suo fiuto con titoli come il “Metodo antistronzi”, una pubblicazione che, al di là del successo di vendite, rivela chiaramente l’intento divulgativo e il bisogno, mai scontato, di aderire e riflettere sulla realtà contemporanea e sulle sue inquietudini.
Conosciamo meglio il suo staff con questa intervista.

  • Quando e dove è nata la vostra casa editrice, e con quali motivazioni e finalità?

La Elliot è nata a Roma nel 2007, sulle orme dell’omonima rivista. L’idea era di riunire persone con esperienza editoriale in altre case editrici e provare a creare un nuovo progetto di ricerca di talenti del presente e di grandi voci dimenticate.

  • Quante persone collaborano al vostro progetto?

In Elliot lavorano otto persone con vari ruoli (Giulia Caminito, junior editor; Anna Voltaggio, ufficio stampa; Marzia Grillo e Gaia Rispoli, redazione; Irene Pepiciello, ufficio diritti; Chiara De Silvestri, produzione; Francesca Recchia, segreteria editoriale).
La direzione editoriale è affidata a Loretta Santini.
Poi ci sono due curatori di collana (Antonio Debenedetti e Giorgio Manacorda) e collaboratori vari (amici, simpatizzanti, traduttori…), che ci danno suggerimenti, idee, strade da percorrere.

  • Quante collane avete in catalogo? Pubblicate anche e-book?

Abbiamo sette collane di novità in cui rientrano la narrativa contemporanea (Scatti), i classici ritrovati (Raggi), la narrativa italiana del passato (Novecento), la saggistica (Antidoti), la poesia (Poesia, diretta da Giorgio Manacorda), i testi brevi (Lampi), la saggistica d’autore (Maestri, diretta da Antonio Debenedetti) e una collana di economica (Manubri). Per la quasi tutti i nostri libri abbiamo anche il formato eBook.

  • Qual è stato il vostro libro che ha riscosso più successo, di pubblico e di critica?

Quello che ha conciliato di più venduto e critica è “Ragazze di campagna” di Edna O’Brien, tra gli italiani però si sta facendo strada “La teologia del cinghiale” di Gesuino Némus che ha fatto incetta di premi (tra cui il Campiello Opera prima) e sta avendo grande successo tra i lettori.

  • Che tipo di difficoltà incontrate nel diffondere la vostra attività, e cosa vi augurate per il vostro futuro di editori?

La difficoltà maggiore è dovuta alla lenta ma progressiva riduzione dei lettori forti, appartenenti a una fascia sociale (giovani, piccola e media borghesia) in grave crisi dal punto di vista economico. Ci auguriamo che l’Italia possa riacquistare maggiore fiducia e serenità nel futuro, condizione essenziale perché le persone possano tornare a spendere anche in cultura, e non solo in libri.

 

© Riproduzione riservata    www.sololibri.net/intervista-Elliot-Edizioni.html

25 settembre 2016

INTERVISTE

FAZIO

RAFFAELA FAZIO, TRADUTTRICE E POETESSA

Raffaela Fazio, nata ad Arezzo nel 1971, risiede e lavora a Roma come traduttrice, dopo aver vissuto in vari paesi europei. Laureata in lingue e politiche europee (Grenoble) e specializzata in interpretariato (Ginevra), ha poi conseguito un diploma in scienze religiose e un master in beni culturali (Roma), interessandosi in particolare all’iconografia cristiana. È autrice di vari libri di poesia, tra cui: L’arte di cadere (Biblioteca dei Leoni, 2015), canzoniere amoroso; Ti slegherai le trecce (Coazinzola Press, 2017), rivisitazione della mitologia classica al femminile; L’ultimo quarto del giorno (La Vita Felice, 2018), scansione del tempo interiore; Midbar (Raffaelli Editore, 2019), rilettura di racconti e archetipi biblici; Tropaion (Puntoacapo Editrice, 2020), poetica del “polemos” esistenziale. Si è occupata anche della traduzione di Rainer Maria Rilke, le cui poesie d’amore sono state raccolte in Silenzio e tempesta (Marco Saya Edizioni, 2019).

  • In quale ambiente familiare e universitario ti sei formata?

Sono nata e cresciuta ad Arezzo. Mio padre (che ho perso quando avevo 24 anni), venuto da un sud molto povero (con sette fratelli e una famiglia contadina in Calabria), faceva l’avvocato. Mi piace ricordare di lui l’intraprendenza, la capacità di osare. Mia mamma, aretina, era professoressa di matematica e scienze alle medie. Ho sempre avuto un forte legame con lei. Di lei amo la paziente tenacia, la sensibilità, l’affidabilità. Ora che ci penso, credo che ad accomunare i miei genitori, molto diversi per temperamento, fosse il senso della correttezza, un’allergia innata alle scaltrezze che vanno oggi così di moda. Mio fratello, di cinque anni più grande di me, architetto e fotografo ora stabilitosi a Londra, è stato la mia “scuola di sopravvivenza”: ho dovuto affilare la mia ironia per rispondere alla sua, spesso inclemente. Anche mia nonna materna, ferrarese, ha influenzato la mia giovinezza: era combattiva, schietta, sempre pronta alla battuta. Questo è l’ambiente che ho lasciato, dopo la maturità. Mi sono iscritta direttamente all’università di Grenoble: là, per ottenere la laurea in “Langues étrangères appliquées”, ho seguito principalmente corsi di lingua, cultura e politica tedesca e inglese. Grazie ai programmi Erasmus previsti dall’università francese, ho frequentato il terzo anno in Germania, a Ludwigsburg, e il quarto anno in Inghilterra, a Cambridge. Mi sono così laureata e poi ho trascorso un anno a Londra, per lavoro. In seguito mi sono specializzata a Ginevra, alla Scuola di Interpreti e Traduttori. Dopo un altro anno in Germania, a Heidelberg, mi sono trasferita a Bruxelles, come interprete presso la Commissione europea. Il Belgio è stato l’ultimo paese straniero in cui ho vissuto, prima del rientro in Italia, che allora non credevo definitivo… ma che tale si è poi rivelato. Adottata da Roma, ho ripreso a studiare negli interstizi di tempo permessi dal lavoro (e dai figli): qua ho approfondito soprattutto le materie religiose e artistiche.

  • Sei una poetessa e sei una studiosa. Ti sei occupata a livello professionale di lingue straniere, di traduzione e interpretariato, di scienze religiose e di iconografia cristiana. Quanto ha inciso questa molteplicità di interessi culturali sulla tua scrittura?

Credo che abbia inciso come ha inciso tutto quello che ho fatto nella vita e tutte le persone che ho incontrato. L’aver vissuto in contesti diversi ha forse ammorbidito la mia visione del mondo, mostrandomi che ogni situazione ha la sua dinamica specifica e che, prima di esprimere un giudizio, andrebbe conosciuta la cosa dal suo interno o almeno da molto vicino. Il cambiamento, la necessità di lasciare paesi e persino persone penso che mi abbia insegnato anche una certa tendenza all’essenzialità, per far tesoro di quello che davvero conta e per non disperdermi nel superfluo. Questo, naturalmente, è uno sforzo continuo, non un traguardo raggiunto una volta per tutte: ero e rimango una persona irrequieta! Nei miei studi, ho privilegiato quelli che mi hanno permesso di fare principalmente due cose: accogliere la diversità (le lingue straniere e le culture sottostanti), e andare a fondo di ciò che pare evidente, quasi scontato (gli studi biblici e iconografici). Come ho detto altrove (intervista su poesiadelnostrotempo), mi piace leggere la realtà come una grande “foresta di simboli”, attraverso i quali scoprire il “nuovo” anche dentro il “vecchio”, in un tessuto connettivo che unisce ogni cosa, senza annullare la specificità del singolo.

  • Quale tra i poeti italiani e stranieri ha regalato più linfa alla tua ispirazione?

Confesso che i poeti che mi hanno maggiormente nutrita sono i classici che ho conosciuto da bambina e da ragazza, anche se ce ne sono di nuovi e di nuovissimi che trovo sicuramente interessanti. Scoprire una voce stimolante mi dà la carica, di più, mi rincuora con un senso di fiducia. Ma i vecchi amori sono indimenticabili. Innanzitutto gli ermetici (da Ungaretti a Luzi) e i simbolisti francesi. Però ricordo anche che, alle elementari, Pascoli mi colpì per la capacità di addensare il mondo in un dettaglio, e Leopardi per quella, quasi opposta, di aprire il dettaglio alla sconfinatezza (solo in seguito ne ho apprezzato la disincantata resistenza). I romantici tedeschi e inglesi sono arrivati dopo. Sul mio comodino ora ci sono sempre Rilke, Tagore e Salinas. E sullo scaffale degli “irrinunciabili”, le mie poetesse: Antonia Pozzi, Emily Dickinson, Hilde Domin. Accanto, tre poeti francesi: Yves Bonnefoy, Francis Ponge e Pierre Reverdy. Tra le scoperte degli ultimi anni, la poesia polacca: oltre la Szymborska, Zagajewski, Twardowski, Herbert. La lista è naturalmente molto più lunga, e credo che non smetterà mai di crescere…

  • La parola della poesia, nei tuoi versi, sembra sia da coltivare e accogliere nel silenzio e nella meditazione. Che spazio ti sei ritagliata all’interno del mondo letterario contemporaneo, così freneticamente attivo e competitivo mediaticamente, sui social, nei festival, nelle letture pubbliche?

Fino a tre anni fa, ho vissuto la poesia in maniera molto privata, non solo per carattere, ma per motivi pratico-organizzativi. Ho iniziato a frequentare poeti in carne e ossa soltanto di recente, partecipando a letture e a incontri, anche se continuo a diffidare delle maratone poetiche e dei concorsi letterari, preferendo situazioni in cui c’è uno scambio da una parte “più personale”, nel senso del confronto dialogico, e dall’altra “meno personale”, nel senso di una valutazione oggettiva. A mio parere, nell’ambiente letterario odierno, anche a livelli più modesti, la difficoltà rimane quella di non farsi influenzare da criteri esterni al testo, come la simpatia (legittima) o l’antipatia per l’autore, oppure il nome già noto, considerato che spesso la visibilità, nel mondo dei social, non coincide con la qualità. Frequentare persone che hanno passioni (o quantomeno interessi) simili ai propri è piacevole e arricchente, anche per una crescita personale, ma è altrettanto importante non limitarsi all’orticello letterario e, soprattutto, non scordare che l’arte è sempre in debito con la vita, e che da essa non può prescindere.

  • Credi che la poesia, con la sua minima incidenza editoriale, possa ancora svolgere un ruolo etico e culturale motivante, collettivamente e individualmente?

La mia risposta è sì, ma ovviamente non è una risposta oggettiva, perché amo la poesia da sempre e la vado a scovare anche in nicchie o su scaffali impolverati. La poesia è il mio canale preferenziale nell’esperire il mondo e nell’esprimere me stessa nel mondo. Forse la domanda andrebbe fatta a chi non scrive poesia. Allora dico semplicemente: se la poesia, come qualsiasi altra forma creativa, riesce a mantenere viva (o a rianimare) la parte più “umana” della persona, avrà sempre un ruolo etico e culturale. Cosa vuole dire “umana”? Per me vuol dire relazionale e riflessiva, empatica e ingegnosa, capace di provare gratitudine, di farsi domande anche dolorose e di compiere un passo fuori dai propri confini.

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https://www.sololibri.net/Intervista-a-Raffaela-Fazio.html      20 dicembre 2019

INTERVISTE

FORLANI

FRANCESCO FORLANI, SCRITTORE E PERFORMER


Francesco Forlani è nato a Caserta nel 1967 e vive a Parigi; collaboratore di varie riviste internazionali, come Paso Doble, Atelier du Roman, Sud, La Revue Littéraire, ha pubblicato diversi libri di poesia e narrativa. Traduttore dal francese, ma anche poeta, cabarettista e performer, è stato autore e interprete di vari spettacoli teatrali. È redattore dei blog letterari Nazione Indiana e Generazione TQ. Tra i suoi libri: Métromorphoses (Nicolas Philippe, Paris, 2002), “Il manifesto del comunista dandy”, (La camera verde, Roma, 2007), “Il peso del ciao” (L’Arcolaio, Forlì, 2012), “Parigi senza passare dal via” (Laterza, Roma,Bari, 2013). Per la casa editrice Miraggi è tra i curatori delle collane Tamizdat (straniera) e Scafiblù (italiana)

  • Cosa ci puoi raccontare dell’ambiente in cui sei nato e ti sei formato culturalmente, e di quello invece in cui oggi vivi e lavori?

Lo farò con un aneddoto. Tempo fa a Parigi, durante uno dei corsi che tenevo all’Istituto di Cultura, una studentessa mi rivelò di essere editrice per la Readers Digest. Cavolo! Di colpo come la Madeleine in Proust davanti agli occhi mi si sono presentati tutti i dorsi dei libri che facevano parte della nostra, in verità scarna, biblioteca familiare. Enciclopedie, fascicoli FMR, compendi di storia e di lingue. Questo per dire che sono nato in un ambiente letterario familiare più versato nell’oralità, com’era naturale che fosse in una famiglia numerosa come la nostra, che nella scrittura. Molto cantautorato, molta televisione, cinema. Ho questa scena in testa delle mie sorelle, Rosaria e Antonella, insieme a Gigliola De Sire del quinto piano e Antonellina De Maria, allineate e coperte dagli schienali al cinema San Marco, che singhiozzano durante la proiezione di (nell’ordine): Ultima neve di primavera, Il venditore di palloncini, Kramer contro Kramer. Credo che quella scuola un po’ obbligata mi abbia condizionato nel frequentare poco il dramma sentimentale, sia come autore che come lettore.
E in quegli anni zero conquistavo anch’io, numerandole, le prime scoperte a partire da quelle trasmesse da mio fratello Geppi con cui condividevamo letto a castello e camera, letteratura anni Settanta, ovviamente, però non solo ideologica, per cui ai “Quaderni dal carcere” di Gramsci erano affiancati i libri di Marquez, di Sciascia o di Peter Handke. Con l’entrata in collegio, alla Nunziatella di Napoli, ho scoperto la lettura, quella disperata e bulimica dell’adolescenza, quella per capirci in cui ti leggi tutto Herman Hesse, Nietzsche, Thomas Mann…

  • Attraverso quali letture e incontri ti sei avvicinato alla letteratura? Verso quali autori classici e contemporanei ti senti più debitore?

In questa lunghissima autogestione delle letture, per lo più suggerite dagli amori delle fidanzate e degli amici, fondamentali sono stati due incontri. Quello universitario a Napoli con professori e compagni veramente straordinari e la convivenza a Parigi con Massimo Rizzante. Dai primi anni napoletani sono nate le prime prove che poi sfociarono in un primo romanzo “Posti a sedere per la Primavera”, pubblicato da un giovane e coraggioso editore di Pompei, Ciro Sabbatino. Ricordo allora di avere trovato una matrice determinante in Heinrich Böll, nei poeti russi scoperti grazie all’amico filosofo Lucio Saviani attraverso la voce di Carmelo Bene in Quattro diversi modi di morire in versi. Esenin e Majakóvskij, uno contadino e l’altro metropolitano, entrambi sopra le righe, si sono sempre contesi il primato alla maniera dei Beatles e dei Rolling Stones. Con Massimo è stato veramente il passaggio alla cerchia dei dannati della letteratura, sia che si trattasse di critici come Bachtin o di classici come Dostoevskij e Kafka, lui sì mio maestro dalle prime alle ultime ore. Però lasciami dire, piuttosto che continuare con un name dropping che poi non porta davvero lontano, è attraverso gli incontri e le riviste (Atelier du Roman, Paso Doble, Nazione Indiana), è lì che ho imparato tutto e questo l’ho raccontato anche nel mio “Parigi senza passare dal via”. A proposito di Heinrich Böll ti racconto una cosa molto preziosa per me. Avevo trascorso un’estate vicino Gaeta da mia sorella Rosaria, e in quelle due settimane un’anziana scrittrice frequentava lo stesso luogo, il Prato, sospeso sul mare. Parlavamo di letteratura, di vita e le diedi da leggere il mio primo romanzo. Avevo vent’anni, lei una settantina. Quando me lo riportò mi disse che sentiva in me lo stesso passo dell’autore di “Opinioni di un Clown”. Apriti cielo! Molti anni dopo la ritrovai a Parigi. Era nella vetrina della libreria Gallimard, c’era il suo libro, “L’arte della Gioia”, eggià perché avevo passato molte ore con Goliarda Sapienza e non lo sapevo (queste cose non si sanno mai).

  • In che relazione si trovano la tua produzione narrativa, poetica e di performer teatrale?

Credo che queste come altre mie attività che contemplano la radio, il reportage, la critica saggistica, l’insegnamento, siano le componenti di una sola macchina desiderante (per citare la magnifica coppia a me cara Deleuze-Guattari). Una macchina esplorativa del mondo, ma sarebbe più corretto dire dei mondi che ho la fortuna di attraversare. In questa fase, poi ancora più particolarmente con il ritorno in Francia e il guado delle lingue, visto che il nuovo romanzo lo sto scrivendo in francese.

  • Quale dei tuoi libri ha avuto più successo, a quale sei più legato emotivamente, e a cosa stai lavorando adesso?

Sicuramente “Parigi, senza passare dal via” (Laterza) perché è il prodotto di una grande energia umana, a partire dalla sua costruzione avvenuta in un momento di elaborazione di lutto fino alla scrittura nervosa animata dal desiderio di realizzare un memoir degli anni parigini ma anche una rottura con certi modelli letterari. L’incontro con Anna Gialluca direttrice editoriale di Contromano è stato tra i più importanti della mia vita di autore prepostumo.

  • In cosa si differenzia il pubblico dei lettori italiano da quello francese? Ti senti più stimolato culturalmente qui da noi o oltralpe?

Dal punto di vista culturale è qui che sono nato, a Parigi, e questa nascita ha di colpo permesso di vivere a quanto avessi visto, letto, detto o ascoltato in Italia, dalla mia città d’origine Caserta a quella d’adozione Napoli per finire con quella del mio esilio decennale, Torino. È qui che ho imparato la differenza tra vita e carriera letteraria.

  • Che importanza ha avuto e ha tuttora la tua collaborazione con il blog Nazione Indiana? Ritieni che i blog letterari esercitino una reale funzione formativa e di stimolo intellettuale sui lettori?

Per me Nazione Indiana è l’esperienza più bella di benvenuto in Italia che mi potesse accadere insieme alle bevute con Enrico Remmert. Ero infatti appena rientrato in Italia per via di complicate vicende professionali e personali grazie alle quali avevo perso tutto quello che avessi a Parigi e a Torino è stato proprio Enrico ad accogliermi. Sul fronte letterario Andrea Inglese che era nel nucleo originario di Nazione Indiana dopo la spaccatura all’interno della redazione, che è possibile rileggere negli archivi del sito a proposito di “restaurazione”, aveva invitato me e altri autori con cui condivideva soprattutto esperienze di rivista e poesia (Baldus, Sud, Camera Verde…) a subentrare e così mi sono trovato a giocare a questo nuovo gioco letterario lanciandomi nel mucchio e spesso in direzione ostinata e contraria. Rispetto agli esordi più diretti, a gamba tesa anche se spesso maldestri, in questi ultimi anni è cambiato il passo, più da maratoneta che da velocista, oltre che un numero considerevole di redattori. Attualmente grazie anche alla grande esperienza accumulata e agli anni di amicizia maturati credo si possa parlare di gruppo vero e proprio. Comunque ho imparato e tuttora imparo molto da questa esperienza, soprattutto ad essere preciso, attento, perché il lettore di Nazione Indiana è un lettore preciso e attento.
Sicuramente tra le cose più belle di questi ultimi anni c’è stato anche l’incontro con i ragazzi della casa editrice Miraggi. Con Alessandro De Vito, Davide Reina e Fabio Mendolicchio ci siamo inventati due progetti, le collane Tamizdat e Scafiblù, e nel giro di due anni pubblicato autori stranieri e italiani degni della maggiore attenzione e assolutamente significativi per capire i nostri tempi.

 

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https://www.sololibri.net/Intervista-a-Francesco-Forlani.html   27 aprile 2018

INTERVISTE

GACCIONE

Intervista ad Angelo Gaccione, scrittore e drammaturgo

Alida Airaghi ha intervistato Angelo Gaccione, scrittore, drammaturgo e fondatore della rivista online Odissea.

Intervista ad Angelo Gaccione, scrittore e drammaturgo

Angelo Gaccione è nato a Cosenza e vive da anni a Milano. Narratore e drammaturgo, ha pubblicato numerosi libri di saggi, racconti, aforismi e testi teatrali. Fra i più noti ricordiamo Il sigaro in bocca, Manhattan, Disarmo o barbarie (assieme a Carlo Cassola); L’immaginazione editoriale. Personaggi e progetti dell’editoria del secondo Novecento (assieme a Raffaele Crovi); il bestseller Lettere ad Azzurra, La striscia di cuoio. A Milano ha dedicato quattro libri di successo: Milano, la città e la memoria; La città narrata; Poeti per Milano; Milano in versi. Nel 2013 Gaccione ha pubblicato tutto il suo teatro in un unico volume: Ostaggi a teatro. Testi teatrali 1985-2007. L’ultimo suo libro, finalista al Premio Viareggio di Poesia 2020, si intitola Spore. Da 19 anni dirige la rivista online di cultura “Odissea” a cui collaborano prestigiose firme della cultura italiana e internazionale. Per il suo impegno civile gli è stato conferito il Premio alla Virtù Civica.

 

  • Cosa ci può raccontare dell’ambiente in cui è nato e si è formato culturalmente, e di quello milanese in cui si è trasferito? Ha trovato difficoltà nell’adattarsi a due realtà tanto diverse?

Sono nato in Calabria, all’ospedale di Cosenza, perché il parto di mia madre si stava dimostrando problematico e pericoloso. Si dovette ricorrere al cesareo. Forse mi rifiutavo di venire alla luce per come andava il mondo. Giunti ad Acri ci portarono a casa a dorso di mulo, tanto era la nevicata. Ho lavorato e studiato qui, con le difficoltà di chi nasce povero come me. Ma mi incantavano i racconti degli anziani del quartiere, il modo come mia madre e le tante matriarche che ho frequentato sapevano narrare. I miei genitori erano comunisti e maturai in quel clima infuocato; eravamo gli unici in quartiere a non andare a messa e la nostra casa era l’unica dove il prete non entrava a benedire. Ma ero affascinato dalle processioni, dalle parabole del Vangelo. Libri in casa non ce n’erano, ma appena potei ne comprai a bizzeffe e li divoravo. E ne lessi tanti della locale biblioteca. L’Università l’ho fatta a Milano, alla Statale egemonizzata dagli stalinisti, ma io ero già uno sfegatato libertario. Feci molti lavori perché i miei non erano in grado di mantenermi. Divenni subito un lavoratore studente, e presi parte alle lotte e al dibattito degli anni Settanta e di quelli a venire. Mi è sempre mancato il cielo vasto della Calabria, e poi le rondini con i loro nidi sotto i balconi e le grondaie. Soprattutto detestavo l’umido milanese e la nebbia che ti mangiava le ossa, e il Natale non è mai stato il mio Natale in nessuna città. Chi nasce povero ha sempre difficoltà ad adattarsi, ma erano anni di grandi utopie e di gioiose esaltazioni collettive, ed io ero parte di quel sogno di trasformazione sociale e personale.

  • Attraverso quali letture e incontri si è avvicinato alla letteratura? Verso quali autori classici e contemporanei si sente più debitore?

La tradizione letteraria della mia terra d’origine era molto povera, ma in compenso ce n’era una orale straordinaria a cui si poteva attingere se si possedeva sensibilità e rispetto. La capacità a raccontare l’ho appresa da lì. E poi quando sì ha un cielo come il nostro e si vede in giro tanta miseria, la parola trova la sua urgenza e la sua strada. Sono debitore ai favolisti antichi, la spinta morale mi ha condizionato subito. Ma la durezza della vita è stata la mia scuola, come per certi autori russi.

  • In che relazione si trovano la sua produzione narrativa, poetica e teatrale?

Io uso volta a volta forme espressive diverse in base a quanto ho da dire: a volte mi occorre un articolo, a volte una poesia, a volte un racconto. Non è una scelta deliberata, è una necessità. Come racconto, La Porta del sangue non avrebbe avuto la stessa forza che ha acquisito facendone un dramma. Perché quello del massacro delle comunità Valdesi nella Calabria del Cinquecento ad opera dei Gesuiti è stata una vera e propria tragedia, uno sterminio.

  • Quale delle sue opere ha avuto più successo, a quale si sente più legato emotivamente, e a cosa sta lavorando adesso?

Il libro più venduto è stato Lettere ad Azzurra, migliaia di copie, forse perché mai uno scrittore uomo aveva affrontato il tema della maternità – territorio strettamente femminile – con tanta tenerezza. Emotivamente sono legato al volume di racconti L’incendio di Roccabruna per molte ragioni che preferisco tenere per me. Ho sempre meno tempo, “Odissea” se ne prende molto. Ho mandato in giro di recente la raccolta: Poesie per un giorno solo. Non so nulla per ora del destino di A teatro con amore e di La mia Milano in mano a due editori. Il prossimo autunno uscirà invece la raccolta di racconti: Sonata in due movimenti.

  • Ci illustri l’attività della sua rivista online “Odissea” e le motivazioni che l’hanno spinta a fondarla.

L’ho raccontata nell’introduzione al libro Satyricon in cui abbiamo raccolto tutti gli scritti che lo scrittore Giuseppe Bonura aveva pubblicato su “Odissea”. Li raccogliemmo in occasione del Convegno che si è tenuto su di lui a Fano e della targa ricordo che è stata messa in sua memoria. In sintesi potrei dire che si era reso necessario avere un organo di stampa che raccogliesse, attorno al suo progetto intellettuale, uomini e donne che si erano tirati fuori disgustati dall’andazzo politico e morale del nostro Paese. Per prendere posizione, tornare a parlare, produrre idee e metterle in circolazione. Disarmo, acqua pubblica, alberi, territorio, beni comuni, mafie, moralità civica e quant’altro, avevano bisogno di un luogo diverso per altre voci. Da diciannove anni – dieci di edizione cartacea – “Odissea” svolge questo compito, ma senza trascurare di parlare di libri, di letteratura, di musica, di arte, e di supportare le lotte di associazioni e comitati impegnati su fronti diversi. Spesso ne siamo protagonisti noi stessi, com’è accaduto per il “Comitato di Odissea per Turoldo” che si è battuto qui a Milano per fargli dedicare un giardino nel cuore della città, e per le tante altre iniziative che ci hanno visti protagonisti, spesso vittoriosi. Facciamo quello che un giornale deve fare, senza sconti, senza compromessi. Ora stiamo concentrando molte energie sulla salvaguardia di Costa San Giorgio, la collina di Boboli a Firenze, minacciata da speculazione, ma i fronti aperti sono tanti.

 

© Riproduzione riservata SoloLibri.net      21 novembre 2021