Mostra: 31 - 40 of 73 RISULTATI
INTERVISTE

GANCITANO

MAURA GANCITANO E LA POESIA

Maura Gancitano (Mazara del Vallo, 1985) è una saggista e opinionista italiana attiva soprattutto nell’ambito della divulgazione, con collaborazioni giornalistiche e partecipazioni a dibattiti politici e televisivi. È co-fondatrice di Tlon (insieme al marito, Andrea Colamedici), un progetto di divulgazione culturale e casa editrice; ideatrice della Festa della Filosofia presso le Triennali di Milano e Roma, organizzate in media-partnership con Rai Scuola, e di Prendiamola con Filosofia, maratona streaming di divulgazione culturale nata su sollecitazione del Ministero della Salute; autrice di vari podcast, tra cui Pensare Europeo, in collaborazione con il Parlamento Europeo, e Scuola di Filosofie, raccolta di monografie sulla storia della filosofia del Novecento, prodotto da Audible. Con il saggio Specchio delle mie brame (Einaudi) ha vinto il Premio Rapallo 2022, ex aequo con Bianca Pitzorno.

Ma chi me lo fa fare?, Milano, HarperCollins 2023; Specchio delle mie brame, Milano, Einaudi, 2022; Il gioco del pensiero, Bologna, Zanichelli, 2022; L’alba dei nuovi dèi, Milano, Mondadori, 2021; Prendila con Filosofia, Milano, Harper Collins, 2021; Liberati della Brava Bambina, Milano, Harper Collins, 2019; La società della Performance, Roma, Tlon, 2019; Lezioni di Meraviglia, Roma, Tlon, 2017; Tu non sei Dio. Fenomenologia della spiritualità contemporanea. Roma, Tlon 2016; Malefica. Trasformare la rabbia femminile, Roma, Tlon 2016.

***

Platone nello Ione, nel Fedro, nel Simposio e nel X libro della Repubblica dava un giudizio poco positivo dei poeti, ritenendoli folli posseduti da sentimenti irrazionali, che lo stato dovrebbe esiliare dai suoi confini in quanti produttori di illusioni, credenze false e pericolose. Oggi prevale l’opinione che la poesia non serva a niente, ma – come disse Montale all’assegnazione del Nobel – perlomeno non sia nociva. Condivide questa posizione?

La visione di Platone era calata nel tempo di profonda trasformazione in cui viveva. A quanto ne sappiamo, aveva l’impressione che le storie e l’atmosfera create dai poeti rendessero gli uomini deboli e fossero diventate nocive per il percorso di conoscenza. Platone era in realtà un grandissimo amante della poesia e dell’opera di Omero in particolare, e per questo ha probabilmente scelto di inventare nuovi miti, che contengono alcune tra le immagini più poetiche che l’essere umano abbia mai prodotto. Credo quindi che il suo rapporto con la poesia fosse molto dinamico, come quello con la scrittura. Al di là di questo, ad ogni modo, io credo che la poesia sia essenziale per creare uno spazio di meraviglia nella vita. Forse anche perché viviamo tempi di grande crisi, ma per ragioni speculari a quelle di Platone: oggi la poesia è necessaria per recuperare una certa distanza da una visione del mondo cinica e estremamente materiale.

Secondo Richard Rorty la poesia è creazione del perturbante, “perché il perturbante è il risultato dello sradicamento di una parola dal suo gioco linguistico originario”. Tra i compiti del poeta, quello di porre domande e creare inquietudine è importante quanto quello descrittivo, immaginoso, consolatorio e addirittura ludico?

Sicuramente. C’è una frase di Emily Dickinson che viene spesso usata per esprimere questa sensazione: “Se quando leggo un libro, ho l’impressione che mi si scoperchi il cranio, allora so che quella è poesia. È l’unico modo che io conosca di avvertirne la presenza”. La poesia può avere uno scopo puramente ludico, ma rappresenta comunque un tentativo di manipolare le parole per creare meraviglia, e la meraviglia è sia lo stupore, sia il terrore. È il caso, per esempio, di Wisława Szymborska, autrice di moltissime poesie introspettive e perturbanti, per le quali ha vinto il Nobel nel 1996, ma che insieme al suo amico poeta Stanisław Barańczak componeva dei limerick, delle brevi forme poetiche umoristiche che prendono il nome da Limerick, un paesino irlandese. Che ti faccia ridere, piangere o pensare, la poesia non può comunque lasciarti indifferente.

 

Heidegger ha studiato e commentato Hölderlin non solo dal punto di vista letterario e filosofico, ma anche con una particolare adesione emotiva. Ci sono altri pensatori che hanno letto i poeti arricchendone i testi non solo a livello ermeneutico, ma anche di percezione sensibile?

È sempre accaduto che la filosofia cercasse di spiegare la poesia, di interpretarla, di costruirle intorno delle categorie. Eppure, credo che l’interesse di chi fa filosofia nei confronti della poesia nasca dallo stato di meditazione a cui la sua lettura può condurti, che quando si scrive di filosofia è fondamentale. In ogni caso, un elenco di filosofi e filosofe appassionati di poesia sarebbe infinito. Basti citare l’amore di Walter Benjamin per Baudelaire, che ebbe una grande influenza sulle sue riflessioni filosofiche, o quello di Maria Zambrano per Federico García Lorca e San Giovanni della Croce, di Julia Kristeva per Stéphane Mallarmé. Un altro esempio di connessione tra poesia e filosofia: nel 1948 Sartre scrisse l’introduzione all’Antologia della nuova poesia nera e malgascia di lingua francese curata dal poeta senegalese Léopold Senghor, e il suo interesse per quella poesia assume un preciso significato politico e di condanna nei confronti del colonialismo.

 

Che giudizio dà dei filosofi che scrivono versi? Ne ha letti, le sembrano interessanti? Nietzsche, per esempio, gigante del pensiero, aveva scritto liriche mediocri…

Non credo si possa dare un giudizio unitario: esistono filosofi e filosofe che sono capaci di scrivere con più registri e in cui convivono spinte diverse, come nel caso di Sartre, mentre in molti altri casi la scrittura filosofica è il canale principale di espressione, e altri tentativi possono non riuscire o sembrare forzati. Sono modi diversi di usare le parole, e del resto scrivere poesia può essere un’arte che ha senso in sé e si conclude con il suo gesto, non è necessario che sia esteticamente notevole. È anche la ragione per cui molti filosofi e filosofe scrivono poesia, ma decidono di non pubblicarla. Ci sono stati poi alcuni casi, come quello di Edith Stein, in cui la via poetica e mistica ha accompagnato una conversione totale della propria vita.

Legge poesia? Preferisce gli autori classici o quelli contemporanei, gli italiani o gli stranieri? Si è mai cimentata personalmente nella scrittura in versi?

La leggo, anche se in scarsa misura rispetto a saggi e romanzi. Mi piace moltissimo la lingua italiana, quindi amo quella poesia del Novecento (Spaziani, Montale, Luzi, Sanguineti), ma ci sono stati dei momenti in cui ho cercato di avvicinarmi ad altre atmosfere poetiche, come quella americana. I miei preferiti sono forse Mark Strand, Anne Carson e Frank Bidart. Nella lettura della poesia non amo le costruzioni troppo complicate e rarefatte, ho bisogno di figurarmi nella mente quello che il poeta ha immaginato, quindi ci sono anche poesie che non mi sono accessibili, che non riesco ad apprezzare. Quanto a me, ho scritto molte poesie da giovanissima, ma quella di scrivere poesia non è un’urgenza che sento. Mi godo il privilegio di poter essere una pura lettrice.

 

© Riproduzione riservata               «Gli Stati Generali», 25 febbraio 2024

 

INTERVISTE

GARDINI

NICOLA GARDINI, POETA, NARRATORE, SAGGISTA, TRADUTTORE E PROFESSORE DI LETTERATURA ITALIANA E COMPARATA A OXFORD 5 domande allo scrittore Nicola Gardini

 

 

  • Quanto deve la sua formazione culturale all’ambiente familiare e sociale in cui è nato e cresciuto? Quali studi ha compiuto e dove?

Sono figlio di operai, sono cresciuto, fino alla vigilia del liceo, tra figli di operai. Libri in casa non ce n’erano, se non quelli che la scuola comandava, ma c’erano le storie di famiglia, e c’erano i dialetti dei miei, il mantovano del papà e il molisano della mamma. E pure echi di lingue straniere: il tedesco della loro emigrazione e l’americano di una sorella della mamma, che si era trasferita a Mount Vernon, alla periferia di New York, negli anni Cinquanta. Diciamo che gli ingredienti base della mia immaginazione erano già tutti lì: le lingue, la varietà, il viaggio, lo spaesamento, la solitudine del bambino che vuole imparare e fuggire… La scuola ha fatto il resto, che è moltissimo. La scuola mi ha dato il latino e il greco, la filosofia, la storia dell’arte… Oggi vedo anche quanto sia stato formativo studiare biologia e chimica e astronomia e trigonometria. I miei, pur non avendo chissà quali mire per me, capirono che avevo propensione per lo studio e mi assecondarono. Andai nella scuola dei ricchi, il liceo classico (il Manzoni di Milano), e poi mi iscrissi a lettere classiche, incoraggiato proprio dai miei, che non mi vedevano iscrivermi a economia e commercio, come avevo la tentazione di fare. Dopo la laurea mi trasferii in America e alla New York University presi un dottorato in letterature comparate.

  • Sente più consona al suo carattere la produzione in versi o in prosa? E quale delle due le ha procurato maggiori soddisfazioni in termini di pubblico e di critica?

Non faccio differenza tra i versi e la prosa, non più di quanta debba farne un cuoco di fronte alle necessità specifiche che detta la preparazione di piatti diversi. Sempre di cucinare si tratta, cioè di scrivere.
La mia poesia e la mia narrativa mi gratificano in relazione ai modi della loro disponibilità e della loro presenza pubblica. “Le parole perdute di Amelia Lynd”, uno dei miei romanzi feltrinelliani, è quello che forse ha avuto più fortuna. Ha vinto il premio Viareggio nel 2012, e adesso è uscito in America, per New Directions, una splendida casa editrice, nella traduzione di Michael Moore. Però anche la mia saggistica mi dà molta soddisfazione. Il mio libro “Lacuna”, uscito da Einaudi nel 2014, ha ricevuto un credito immediato da più parti, sia tra gli scrittori sia tra gli accademici. Forse ne verrà tratta addirittura un’opera musicale. Anche certe mie poesie sono state musicate e trasformate in bellissime canzoni da Carlo Fava (credo che le potremo sentire presto in un suo nuovo album). Un compositore, Gianfranco Messina, sta lavorando alla trasposizione musicale di certe mie liriche, un lavoro molto interessante e sensibile, che tiene conto dei miei principi metrici e retorici. Ma pure il libro ispirato alla malattia mentale di mio padre, “Lo sconosciuto”, pubblicato da Sironi nel 2007, ha avuto grande seguito. Molti lettori mi hanno scritto parole meravigliose. Non parliamo dell’impatto dei miei “Baroni”, il memoir in cui racconto la mia formazione e gli anni di Palermo, dove ero professore di letteratura comparata, e la fuga dall’accademia italiana… Insomma, ogni libro ha il suo successo, più o meno immediato, più o meno evidente… La poesia, va detto, circola meno; la gente non la trova sui banchi delle novità in libreria. E allora non sai mai da quanti sei letto e da chi. In verità, un poeta è sempre più letto di quanto creda. Comunque, cerco di non misurare il successo pubblico dei miei lavori sulle prove della loro riuscita commerciale. Lo scrittore che decide il proprio valore in base alla risposta del mercato è matto. Il mercato è un fantasma; è diretto da forze che non guardano al valore artistico e all’impegno morale della scrittura… Non parliamo dei recensori, che, pur non contando quasi più nulla nelle macerie attuali di una gloriosa ex repubblica delle lettere, comunque tendono a influenzare l’andamento dei libri in modo sfavorevole, leggendo male e poco, limitandosi al riassuntino… Qualche eccezione c’è, naturale. Il che non significa che uno scrittore, e parlo anche per me, non abbia o non debba avere l’ambizione di essere letto dal maggior numero possibile di persone. Questo mercato universale è in lui, è un’agorà interiore, che accompagna il lavoro, passo passo. È il mondo intero, al quale comincia a parlare da quando il libro prende la sua vera forma. Se questo non avrà riscontro nella realtà delle vendite o della comunicazione giornalistica, non è importante.

  • Ha accennato ai suoi romanzi… C’è un tema che li unisce?

Le vicende cambiano, anche i protagonisti e i luoghi, seppure Milano torni in quasi tutti. Possiamo dire, alla fine, che mi interessa studiare le difficoltà sociali e interiori di un individuo dinamico, bambino, adolescente, giovane uomo… La trasformazione prende la forma di una ricerca linguistica, di un’interrogazione sul senso delle parole e del linguaggio. Nel mio più recente, “La vita non vissuta” (Feltrinelli, 2015), un uomo cerca di dare un nuovo senso alle parole e alla stessa letteratura di cui è imbevuto (è professore di latino all’università) dopo essersi scoperto infettato da un virus inguaribile. Mi interessa criticare la società, le convenzioni, la nostra Italia smarrita nella passività e nell’indifferenza; mi piace indicare nei libri una via, e nell’autoconsapevolezza; mi piace cercare le radici di una qualche verità, scavando nelle memorie degli individui e della lingua che parlano. In “Fauci”, un romanzo buffo che ha per protagonisti due ragazzi di diversa mentalità, la ricerca linguistica mi ha portato a reinventare situazioni da melodramma e da opera lirica.

  • Partendo da alcune riflessioni sul suo ultimo libro, “Tradurre è un bacio“, vorrei chiederle quanto ha inciso la sua attività di traduttore sulla sua produzione originale e in particolare qual è stato il primo poeta che ha tradotto, quale l’ultimo e quale il più “necessario”.

Tradurre è già un modo per essere scrittore, se si traduce poesia, soprattutto. Tradurre Emily Dickinson mi ha sicuramente influenzato moltissimo; perfino nella vita quotidiana. Dopo averla tradotta non solo mi sono ritrovato a comporre cose alla sua maniera, ma non ho più guardato un fiore nello stesso modo. Ma di certo ci sono tante influenze di cui non sono al corrente, o che scopro solo per caso, talvolta, rileggendomi. Altro che. Ho tradotto centinaia di poeti. Se escludiamo le traduzioni che facevo a scuola, il primo poeta che ho tradotto – se ricordo bene, ma sicuramente ricordo male – è stato Ralph Waldo Emerson, nel 1990, su richiesta dell’editore Crocetti. Ah, no: avevo appena finito di tradurre le “Heroides” di Ovidio, poi pubblicate da Mondadori. Avevo già venticinque anni. Mi sembra strano che io non abbia tradotto qualcosa prima. Ci deve essere. Ma non ricordo. L’ultimo tradotto, tra i pubblicati, è il libro di Catullo, uscito da Feltrinelli un paio di anni fa. Ma ogni settimana traduco qualcosa, dal latino o dall’inglese. L’altro ieri ho tradotto una poesiola di Frost. Il più necessario? Il Virgilio dell’ “Eneide”, un poema in cui non manca niente. Ma di quello non ho tradotto niente. Invece ho tradotto le prime due “Bucoliche”, che tengo per me tra le molte traduzioni non pubblicate.

  • In che modo la sua passione per la pittura si riflette sulla sua scrittura? Quali artisti predilige?

La pittura credo che sia collegata in modo particolare con la poesia; ha qualcosa del comporre metrico. E la poesia senz’altro mi ha aiutato a crescere come pittore. Quello che poi ho appreso dal dipingere l’ho riportato nella scrittura; insomma, lo scambio è continuo, simmetrico, speculare, difficile capire in quale direzione operi ormai. Ho in cantiere proprio un libro di versi sul dipingere. Anzi, è finito. Ma aspetto ancora un po’ a pubblicarlo. Vorrei che uscisse con immagini di miei dipinti. Gli artisti mi piacciono tutti, da Giotto a certi amici viventi. Da alcuni ho imparato il modo per trovare la mia strada: Nicolas De Stael, Manet, Munch, Turner, Constable, Matisse, Goya, El Greco, Fantin-Latour, Monet, certi pittori cinesi, come Shitao… Non sto parlando di influenze: parlo di esempi di artisticità, di archetipi, di individui in cui l’arte appare nella sua forma più perfetta e incontestabile.

 

© Riproduzione riservata         www.sololibri.net/5-domande-scrittore-Nicola-Gardini.html     22 febbraio 2016

INTERVISTE

GIUDICI

giudici

GIOVANNI GIUDICI, POETA

  •  Ritieni che si possa fare un discorso di classe all’interno del fenomeno poetico? In altre parole, credi che la poesia sia un’espressione culturale borghese?

Se parto dalla mia esperienza, devo constatare come nell’ambiente in cui sono cresciuto l’occuparsi di poesia (e in generale di cultura) venisse immediatamente considerato un tradimento, un privilegio rispetto alle esigenze materiali, di mantenimento, che assorbivano chi mi circondava. C’era quindi un rifiuto popolare istintivo verso l’arte ritenuta il prodotto dello sfruttamento che la classe dominante esercita su quella dominata. Ma io credo che tutta l’arte, e quindi anche la poesia, non siano espressioni particolari di una classe, svolgano semmai una funzione vicaria, di sostituzione di qualcosa che non si ha e magari non si potrà mai avere. In termini cristiani, sono convinto che se non ci fosse stato il peccato originale, non ci sarebbe stato bisogno dell’arte; cioè in una società utopisticamente perfetta non ci sarebbe bisogno di scrivere poesie, e l’arte avrebbe un senso solo come divertimento, passatempo. Invece, allo stato attuale dello sviluppo borghese, è assurdo parlare di morte dell’arte proprio perché essa svolge più che mai adesso la sua specifica funzione.

  • Sì, ma la società non è tutta borghese, e in concreto si dovrebbe un po’ riesaminare il rapporto poesia-classi subalterne.

Lukacs insegna che la poesia se è veramente tale si riscatta dalle sue origini ideologiche e dai suoi condizionamenti economici e culturali. Io penso che il più corretto atteggiamento di classe nei confronti dell’arte non sia il suo rifiuto come valore borghese, bensì lo sforzo e la lotta riappropriativa da parte delle classi dominate. Chiaro che la riappropriazione fondamentale è quella politica ed economica, ma parallela a questa conquista deve essere quella culturale e espressiva.

  • Intanto però di continua a delegare la scrittura a chi rappresenta anche culturalmente la borghesia.

Credo che sia confortante che molti giovani, molte donne scrivano, e non per condizionamenti quali l’ambizione, il voler pubblicare, il successo. Tutte cose molto borghesi. Ma per parlare di sé, per divertimento o per protesta, per reclamare un riconoscimento.

  • Qual è il tuo giudizio sulla poesia “sociale” o di protesta?

Non ci credo molto, forse perché penso che tutta la poesia sia sociale e di protesta, nel senso che esprime insoddisfazioni e contraddizioni che non sono contingenti, che non si eliminano in nessun sistema politico. Il comunismo non potrà ovviare, per esempio, all’infelicità in amore. Come ho già detto, in me c’è questa radice cristiana per cui sento che l’uomo deve scontare un peccato originale, e la civiltà risulta dagli sforzi per ridurre le conseguenze di questo peccato. Il comunismo in questo senso dovrebbe essere il gradino più alto raggiunto nel processo di civilizzazione. Per tornare alla poesia, personalmente la considero e la pratico come un’ambizione romantica di sopravvivenza. Ma essa rimane sociale come attività, come produzione di certi risultati. E’ quindi un esercizio, e come tale insegnabile, magari già dalle scuole elementari. Penso però che si debba assolutamente scoraggiare la mitologia di una poesia intenzionalmente sociale, perché se si bada ai soli contenuti si ottiene una normatività burocratica nel cui ambito c’è spazio per qualsiasi cialtrone. Ne è un esempio la storia letteraria dell’ URSS dopo il 1930.

  • C’è anche una poesia che non è sociale nelle intenzioni, ma vive e si nutre di una situazione drammatica o alienante. Cioè senza fingersi sociale, lo è veramente.

Sì, più che una poesia, il fatto stesso che si scrivano poesie, non importa se belle o brutte; come nel caso di certa poesia operaia, o più genericamente di lavoro, prodotta in condizioni ambientali agli antipodi delle condizioni culturali che hanno accompagnato, nei ceti colti, il farsi della tradizione poetica e letteraria in genere. E’ un dato che depone a favore della necessità della poesia come fatto compensativo, e ribadisce in modo profondo, anche in termini “spirituali”, la radicale (in senso marxiano) carenza e necessità di umanità. Siamo in presenza di un’umanità, la nostra, decapitata.

  • La poesia, quindi, come uno dei tanti bisogni di cui si parla?

Poesia come sintomo del bisogno di umanità totale, che in quanto tale non sarà mai colmato.

  • Il QdL ha aperto un dibattito su questi temi. Se si riuscisse a metter in piedi una pagina letteraria a scadenze fisse, o meglio ancora, una pagina creativa sulla quale i compagni potessero pubblicare le loro poesie, le loro fantasie, con quali criteri pensi sarebbe giusto organizzare questa pagina?

Certo non con criteri estetico-letterari di tipo tradizionale, ma con motivazioni in linea con la destinazione e la concezione del giornale. Si dovrebbero scegliere poesie di testimonianza, di informazione, pur tenendo ferma la distinzione tra lingua poetica e linguaggio comunicativo. E senza dimenticare che tra una poesia vera e la poesia-slogan o la poesia-bollettino, che nel contesto del QdL hanno un loro senso preciso, corre la stessa differenza che c’è tra un ritratto di Velasquez e una fotografia. Chiaro dunque che se arriva una poesia di Carla Fracci dedicata alla Scala, quella la si lascia pubblicare al Corriere della Sera: a ciascuno il suo, a ciascuno la “testimonianza” che merita.

«Quotidiano dei Lavoratori», 29 gennaio 1978

INTERVISTE

GRASSO

La poesia italiana oggi: intervista a Elio Grasso
ELIO GRASSO, POETA

 

 

 

Elio Grasso è nato a Genova nel 1951. Poeta, critico, ha pubblicato molte raccolte di poesia, tra cui “Teoria del volo” (Campanotto, 1981), “L’angelo delle distanze” (Edizioni del laboratorio, 1990), “La soglia a te nota” (Book, 1997), “Tre capitoli di fedeltà” (Campanotto, 2004), “Varco di respiro” (Campanotto, 2015). Del 1988 la silloge “Il naturale senso delle cose” (nell’antologia di Vanni Scheiwiller “All’insegna del pesce d’oro”, 1989, Premio Montale per l’inedito).
Ha tradotto T.S. Eliot, una scelta dei Sonetti di W. Shakespeare, 18 poesie di E. Carnevali. Ha curato un’antologia dallo “Zibaldone di pensieri” di Giacomo Leopardi (“Un solido nulla”, Pirella, 1992). Per Effigie ha pubblicato nel 2015 il romanzo “Il cibo dei venti”.
Scrive soprattutto per le riviste Steve, Poesia, Italian Poetry Review, Gradiva. È stato tradotto in inglese, in francese, in rumeno.

  • Da quale realtà familiare e ambientale proviene, e in che modo tale realtà ha influenzato le sue scelte culturali? La tradizione letteraria ligure ha influenzato la sua scrittura?

Figlio di un operaio, gruista alle acciaierie Italsider di Genova Cornigliano, ho sentito la spinta industriale e meccanica degli anni Sessanta. A Genova gli altiforni, i fumi e le colate di ghisa fusa, i cantieri navali con le grandi navi transoceaniche. Tutto questo, in mezzo ai libri di Sbarbaro, Barile e Montale, e alla miriade di romanzi di fantascienza accumulati nella stanza da mio padre, i classici di quegli anni: Asimov, Clarke, Bradbury, Van Vogt, Sturgeon. Allora credevo che nel 2000 le macchine avrebbero seguito piste aeree fra torri altissime, e che centinaia di astronavi sarebbero partite in rotta verso le colonie marziane. Più tardi avrei incontrato le grandi presenze straniere che hanno attraversato le strade liguri o fatto scalo nelle stazioni ferroviarie genovesi: Rimbaud, Nietzsche, Dickens, Valery, Shelley, Byron, Pound, Laughlin, Hemingway.

  • Attraverso quali percorsi di studio e di lettura si è avvicinato alla poesia, e quali sono i poeti classici e contemporanei a cui ritiene di essere più debitore?

Devo tutto l’amore per la poesia, le prime scoperte e innamoramenti, al mio professore di letteratura delle medie, Antonio Mancuso. Poi certo vennero Leopardi, Campana, Montale, Omero, Shakespeare, Rimbaud, la letteratura americana soprattutto in prosa, e Fenoglio, Vittorini e Calvino.

  • Quali sono le sue pubblicazioni più recenti? Verso quale direzione si sta dirigendo la sua ricerca creativa?

     I libri recenti sono Varco di respiro”, pubblicato da Campanotto, “E giorno si ostina”, uscito da Puntoacapo, e il romanzo breve “Il cibo dei venti pubblicato da Effigie. Non so se c’è un’unica direzione: dopo l’attraversamento dell’avanguardia novecentesca la mia poesia non è stata più la stessa. Ci sono stati incontri fondamentali, di diversissima origine: Adriano Spatola, Franco Beltrametti, Carlo Alberto Sitta, Alberto Cappi, Milo De Angelis, Giovanna Sicari, Nanni Cagnone. E l’opera di Edoardo Cacciatore.

  • Che opinione nutre della produzione poetica contemporanea nel nostro paese? Quali sono i nomi che considera più rilevanti, e come pensa si possa aiutare maggiormente a diffondere l’interesse per la poesia?

Il panorama della poesia italiana oggi è devastato dalla presenza in rete di una miriade di cosiddetti “sensibili” che nulla hanno a che fare con la vera poesia di ricerca linguistica e morale. E soprattutto dimentichi della memoria Novecentesca. Mi piace fare i nomi (basandomi sui libri che fino ad ora hanno pubblicato) dei pochi che reggono una degna attualità della poesia italiana: Fosca Massucco, Francesca Serragnoli, Paola Ballerini, Corrado Benigni, Mario De Santis, Raffaella D’Elia, Maddalena Bertolini, Sarah Tardino… Senza dimenticare alcuni poeti che attraversano attivamente la scena da più tempo: Anna Ruchat, Gabriela Fantato, Stefano Massari, Bianca Tarozzi, Alessandra Paganardi, Luigia Sorrentino, Lorenzo Chiuchiù, Daniele Mencarelli, Cristina Alziati. L’interesse per la poesia è qualcosa di astratto, verso un “poetico” che racchiude tutto dentro un mollusco informe. Alle presentazioni, regione del narcisismo spinto abitata da uomini in cerca di donne e donne in cerca di uomini, il passante casuale si aspetta soltanto il “personaggio”, credendo di assistere a un “reality” televisivo. Per questo di fronte al libro, alla raccolta di versi, il pubblico si arrende e va altrove.
Il pubblico reale della poesia dovrebbe essere almeno quello dei poeti, ma questi non acquistano libri. Si aspettano di averli in regalo. O li rubano. Io stesso mi comporto così.

  • Nello scrivere versi, crede incidano di più le esperienze esistenziali, con i loro contraccolpi emotivi, o invece la riflessione teorica, l’ideologia e il lavoro sui testi?

Posso dire della mia esperienza: la prima traccia è sempre esistenziale, carica di oggetti e visioni filmiche. Subito dopo entrano in campo le resistenze linguistiche, i verdetti personali su quanto scritto. Che quasi mai sono generosi. Pur avendo rimosso, nel corso dei decenni, gran parte di prove, riscritture ed eccessi, ho pur sempre pubblicato troppo.

 

© Riproduzione riservata    www.sololibri.net/poesia-italiana-intervista-Elio-Grasso.html

21 settembre 2016

INTERVISTE

GUARINONI

Intervista ad Anastasia Guarinoni: bibliotecaria, organizzatrice di eventi culturali, animatrice radiofonica
ANASTASIA GUARINONI: BIBLIOTECARIA,         
ANIMATRICE RADIOFONICA, ORGANIZZATRICE DI EVENTI CULTURALI

 

  • Da quanti anni fa la bibliotecaria, inserita in quale realtà e dopo aver seguito quale percorso di studi e professionale?

L’amore per la biblioteca, anche come spazio fisico, è nato quando ero bambina, negli anni ’70: la frequentavo per i corsi di lingua, i cineforum e la lettura di quotidiani e riviste; i libri a disposizione lì erano pochi e per nulla interessanti, ma i regali dei familiari e gli scambi con gli amici colmavano la carenza. Crescendo sono rimasta legata all’ambiente e durante l’università ho volontariamente regalato alla piccola biblioteca del mio paese molto del mio tempo libero. Dopo la laurea in Economia, messa subito nel cassetto, e molti lavori precari, decisi, a più di quarant’anni, di frequentare il corso regionale per bibliotecari. Da circa dieci anni lavoro nella biblioteca di Provaglio d’Iseo (BS), con un contratto a tempo indeterminato stipulato con una cooperativa che gestisce servizi di biblioteca.

  • Come riuscire a far leggere di più le persone e in particolare i giovani? Verso che tipo di letture si orienta il pubblico della sua biblioteca?

Si impara a leggere da piccoli, ma la passione è altra cosa. Oggi molti sono gli stimoli, molta l’attenzione posta ai bambini e molti i libri per loro (ho ben due stanze stracolme di libri per l’infanzia), ma rimane nel vago come e perché una persona legga appassionatamente e un’altra no. La prima regola, per chi svolge la mia professione, è dedicare molto tempo alla “promozione alla lettura”; si incontrano intere classi a scuola e nella biblioteca stessa, si propongono letture animate, giochi con i libri, gare di lettura, gruppi di lettura anche per i più giovani. Sono tante le attività con i più piccoli, nella speranza, ma senza la certezza, che qualche cosa resti. E qualcosa resta. La narrativa di genere la fa da padrona: gialli, thriller, romanzi rosa e d’evasione, le saghe fantasy, letture per distrarsi e “non pensare”. Poi la televisione fa impennare i prestiti dei titoli che propone nelle sue trasmissioni, e anche i giornalisti che scrivono di attualità (i cosiddetti instant book) sono ben piazzati. Io cerco di stare attenta alle richieste dei lettori, li accontento, li sostengo ma… non riterrei di fare un buon lavoro se non ci mettessi del mio. Per cercare di caratterizzare e variare la collezione libraria pongo una cura particolare nell’acquisto di libri editi da piccole case editrici che ritengo di qualità, e a questi volumi affianco le novità di grido. Nessun sentimentalismo in ciò, non vedo la professione di bibliotecario come una missione: semplicemente cerco di dare un tocco personale al mio fare.

  • Da qualche anno sta organizzando sul lago d’Iseo (BS) un festival di poesia. Ci può parlare delle difficoltà che ha incontrato nella realizzazione di questa iniziativa, e dei risultati ottenuti?

La poesia me la porto in mano da anni come una valigia, alcune volte è pesante altre leggera, ma mi ha accompagnata in ogni momento della vita. Da tempo sentivo il bisogno di ripagarla, di inventare qualcosa che ne celebrasse la bellezza, anzi la raddoppiasse. Per esempio una festa con i poeti mentre si passeggia nel bosco, si naviga sul lago o si ammira un fiore, intrecciando paesaggio interiore e paesaggio esterno. Ecco nato allora InCerti Luoghi, Festival di poesia del paesaggio, calato in un delizioso borgo lacustre, baricentro di un ampio territorio della provincia bresciana che abbraccia la Franciacorta e la Vallecamonica. Il lago, il parco, i sentieri, le chiesette, la darsena, le vie e le piazze sono i nostri fondali, le nostre casse di risonanza per la poesia. A luglio è terminata la seconda edizione ma già preparo la terza. Un compito, per me, di grande piacere e soddisfazione, di stimolo propositivo, di sforzo immaginativo, di tenacia garbata. La fiducia di persone ed enti (soprattutto privati, ma anche di qualche ente pubblico) mi fa piacere, ma quello che mi sostiene di più è il riscontro di chi segue il festival e mi sprona a riproporlo l’anno dopo rinnovato nel contenuto ma non nella formula: poesia e paesaggio vanno bene a braccetto.

  • Ha inoltre ideato una trasmissione radiofonica per Radio Onda d’Urto, in cui propone agli ascoltatori interviste con diversi poeti. Sono incontri che raggiungono la sensibilità del pubblico e arricchiscono la sua?

La rubrica che conduco per gli ascoltatori di Radio Onda d’Urto, costola bresciana di Radio Popolare, si intitola Naufraghi e l’idea del titolo viene da: «…e il naufragar m’è dolce in questo mare». Mi pareva che questo verso di Leopardi fosse familiare anche a chi non “mastichi” poesia: l’immagine di un gruppo di naviganti (gli ascoltatori della puntata) che nel largo e burrascoso mare della vita vedono la loro salvezza nella terra (la poesia), mi è parsa azzeccata. Tra poco, dopo la pausa dell’estate, riprenderò la rubrica, che consiste nell’intervistare in diretta telefonica poeti contemporanei italiani: fino a giugno sono stati poeti che conoscevo personalmente, ma ora ho preparato una scaletta di autori che conosco solo attraverso la loro poesia. Quello che propongo non vuole essere una lettura dotta o esegetica dei testi (non ho strumenti e competenze adeguate), si tratta semplicemente di ascoltare i poeti che leggono i loro versi, di invitarli a parlare per conoscerli un po’ più da vicino. I poeti come amici e la poesia come lettura di tutti i giorni. Giocando con un antico proverbio si potrebbe anche intitolare: una poesia al giorno toglie il medico di torno.

  • Quali sono i poeti che ama più leggere? C’è un verso di un poeta italiano che ricorre più spesso nella sua memoria?

…portami il girasole impazzito di luce.

E’ un verso di Montale che mi fa rabbrividire, che mi inebria. Ma amo anche tutto quello che è russo, slavo, posto ad est, e Anna Achmatova è per me una musa.

 

© Riproduzione riservata     www.sololibri.net/Intervista-ad-AnastasiaGuarinoni.html    17 settembre 2015

INTERVISTE

HAJDARI

Intervista a Gëzim Hajdari: la poesia, l’impegno, l’esilio

Intervista a Gëzim Hajdari: la poesia, l'impegno, l'esilio

Gëzim Hajdari è nato nel 1957 in Albania da una famiglia di ex proprietari terrieri i cui beni sono stati confiscati durante la dittatura comunista di Enver Hoxha. Nel corso della sua intensa attività di giornalista ed esponente politico dell’opposizione, ha denunciato pubblicamente i crimini della vecchia nomenclatura e dei regimi post-comunisti albanesi. Dal 1992 è esule in Italia. In Albania ha svolto vari mestieri (operaio, magazziniere, ragioniere, militare, insegnante di letteratura), mentre in Italia ha lavorato come contadino, zappatore, manovale, aiuto tipografo.
Bilingue, Hajdari scrive e traduce in albanese e in italiano, ha pubblicato numerose raccolte di poesia, libri di viaggio e saggi, vincendo prestigiosi premi. Con l’editore romano Ensemble, presso cui cura la collana di poesia Erranze, sono usciti tre libri di versi (Nûr: eresia e besaDelta del tuo fiume e Cresce dentro di me un uomo straniero, appena edito), testimonianza della sua realtà esistenziale di esule e rifugiato, sradicato non solo nel vissuto personale, ma anche intellettualmente.

  • Puoi raccontarci da quale ambiente familiare provieni, che studi hai fatto e attraverso quali percorsi sei arrivato a interessarti di poesia?

Sono nato e cresciuto in un ambiente familiare in cui si armonizzano gli spiriti di due grandi tradizioni culturali, quella epica e quella mistica dei bektashi. I miei antenati appartengono ai rapsodi dell’antica stirpe malësor (montanara) delle Bjeshkëve të Nëmuna (Montagne Maledette) delle Alpi, nel nord del paese, dove ha regnato per cinquecento anni il Kanùn, (Codice Giuridico Orale Albanese) e la besa (la parola data, la promessa presso gli albanesi). Il mio nonno paterno era il rappresentante dei bektashi nella provincia di Darsia e del teqé (piccolo tempio). Bektashi è una confaternità mistica che fa capo all’ordine dei dervisci (darwish) di Jalāl ad-Dīn Rūmī: un ponte di dialogo tra l’Islam e Cristianesimo. Mia nonna paterna era una guaritrice di morsi di serpenti nel villaggio, mentre la cugina di mio padre, Zadè, che abitava vicino a casa nostra, era una sciamana, diceva che comunicava con kecka (belle spose danzatrici che apparivano di notte alla riva dei torrenti) e gli xhin (djinn: anime malvagie che escono di notte e hanno una potenza soprannaturale sugli uomini e sulle cose). Zadé annientava le fatture che gli xhin facevano ai contadini, facendo una controfattura.
Nella nostra famiglia si festeggiano sia le feste islamiche che quelle cristiane.
Mio padre conosceva a memoria le leggi del Kanun, i versi dell’epica leggendaria albanese e i versi mistici di Khayyam e Saadi di Shiraz. Sono stati proprio l’epica albanese e la mistica araba che hanno plasmato il mio essere e la mia identità di uomo fin da bambino. Ogni sera, prima di dormire, io dovevo recitare cento versi a memoria davanti a mio padre.
Questo patrimonio culturale inestimabile veniva tramandato di generazione in generazione e di padre in figlio nella nostra stirpe montanara.
Nel villaggio natale, Hajdaraj (Lushnjë), ho terminato le elementari, mentre ho frequentato le medie, il ginnasio e l’istituto superiore per ragionieri nella città di Lushnjë.
Ho studiato Lettere Albanesi all’Università “A. Xhuvani” di Elbasan e Lettere Moderne a La Sapienza di Roma. Senza aver avuto mai avuto una borsa di studio e senza seguire mai una lezione universitaria: ho dovuto lavorare come operaio per quasi quindici anni per potermi mantenere. Durante la sciagura comunista, mio nonno paterno venne dichiarato kulak e mio padre (membro della Resistenza durante la Seconda guerra mondiale), che lavorava come funzionario nell’ufficio del catasto per conto del Ministero dell’Agricoltura, fu licenziato, e per il resto della vita ha lavorato nella cooperativa agricola del regime di Enver Hoxha. Da quando confiscarono i nostri beni di famiglia, la povertà non ci si è mai tolta di dosso. Quando morì mio padre, mi ha lasciato in eredità solo una penna di sambuco con la quale aveva scritto il diario della sua vita durante gli anni di terrore, quando tornava dalla campagna come pastore di buoi, distrutta poi da mia madre Nur per paura che fosse sequestrata dal Sigurimi.
Mio padre Riza era un uomo colto, istruito e molto severo. Era un grande lettore dei classici russi, inglesi e francesi. Ogni sera, dopo cena, raccontava a noi cinque bambini seduti intorno al focolaio le saghe che aveva letto durante le pause dei lavori in campagna. Mentre mia madre è una donna semplice e generosa come la madre terra. Lavorava scalza nei campi, inverno ed estate per un pezzo di pane. La sera, stanca e sfinita, mi pregava di toglierle le spine nere con l’ago dai piedi insanguinati. Avevo otto anni. Mi alzavo di buonora per portare la piccola mandria di capre al pascolo, poi andavo alla scuola elementare del villaggio. Quando frequentavo le medie e il Liceo vendevo il latte delle mie capre nei suoi quartieri, prima di andare a scuola. Tornavo nel villaggio facendo due ore a piedi, nei pomeriggi andavo nei campi a lavorare per comprare il pane quotidiano, e i libri per studiare. Erano gli anni del terrore di Stato. Condanne, fucilazioni, lavori forzati in nome della lotta di classe. Nella città di Lushnje, all’età di dodici anni, ho assistito per la prima volta all’arresto di un “nemico del popolo” nel boulevard da parte di Sigurimi (polizia segreta del regime) e l’impiccagione di un giovane “traditore” della patria.
Davanti la mia scuola passavano le camionette della polizia cariche di deportati, nella città di Lushnje c’erano undici campi di internamento. Il destino mi ha reso uomo in un età molto precoce.
È stata proprio la durezza della vita che ha segnato il mio destino d’uomo e che mi ha spinto a scrivere la prima poesia. Avevo undici anni.

  • Quali sono i poeti e i narratori che più hanno influenzato la tua scrittura?

Oltre l’epica albanese e i mistici arabi, direi Omero, Dante Alighieri e Virgilio, la poesia classica femminile cinese, Isidore Ducasse, Whitman, Blok, Esenin, Mandelstam, Trakl e Senghor.

  • Che tappe ha avuto e ha tuttora il tuo impegno politico e civile?

Nell’inverno del 1991 sono stato tra i fondatori del Partito Democratico e del Partito Repubblicano della città di Lushnjë, partiti d’opposizione, e sono stato eletto segretario provinciale per i repubblicani nella suddetta città. Ero cofondatore del settimanale di opposizione “Ora e Fjalës”, nel quale ho svolto la funzione di vice direttore. Più tardi, nelle elezioni politiche del 1992, mi presentai come candidato al parlamento nelle liste del PRA, ma non risultai eletto. Nel corso della mia intensa attività di esponente politico e di giornalista d’opposizione in Albania, ho denunciato pubblicamente e ripetutamente i crimini dell’ ex-regime di Enver Hoxha, nonché la corruzione e gli affari sporchi tra mafia e i politici dei regimi corrotti post-comunisti di Tirana. Anche per queste ragioni, a seguito di ripetute minacce di morte, sono stato costretto, nell’aprile del 1992, a fuggire dal mio paese. Durante il mio esilio italiano sono stato presente politicamente nella vita quotidiana dell’Albania e in quella italiana tramite le mie opere, Poema dell’esilio, la prima edizione nel 2005, e la seconda edizione ampliata nel 2007, edita con Fara Editore, nonché Gjama, Genocidio della poesia albanese, 1945 – 1990, “Mësonjëtorja” (Tirana 2010).
Senza dimenticare le mie interviste e le mie conferenze impegnate in Italia e all’estero. Dal 2001 al 2005 ho attraversato Tanzania, Mali, Uganda, Etiopia, Ruanda, il sud del Sudan, Filippine, insieme al fotoreporter Piero Pomponi (World Focus), visitando campi profughi, zone di guerre dimenticate, malati di ebola, di AIDS, di malaria. Ne testimoniano i miei libri, San Pedro Cutud. Viaggio nell’inferno del tropico (Fara 2004) e Muzungu. Diario in nero (Besa 2005). La mia casa a Frosinone per diversi anni ha ospitato missionari africani dell’Uganda e Ruanda, che venivano in Italia per raccogliere medicine per i malati dei loro dispensari nei loro paesi.

  • Credi che la poesia possa avere ancora un ruolo nella trasformazione democratica della società?

La vera poesia, che viene dal “basso”, dalla vita, da un percorso umano e interiore intenso e profondo, caratterizzato dall’onestà intellettuale di fronte alla pagina bianca, illumina il lettore con l’immenso, ispira uomini e donne con il senso della bellezza e della virtù, che potrebbero un domani svolgere un ruolo nella trasformazione più che democratica, direi spirituale e visionaria della società, senza le quali non si ci può essere una trasformazione democratica. Questo tipo di poesia profetica sopravvive a se stessa e ai secoli.
Invece la poesia sterile, che nasce dalle serre di scrittura, dalle cattedre, dalle accademie e dalle stanze dell’editing, sperpera il denaro pubblico, avvelena la mente dei lettori, uccide la vera arte, diventando così complice della politica nel degrado sociale, spirituale e civile della società. Questo tipo di poesia inesistente viene imposta ai lettori dalla critica, dai media e dall’industria culturale. I nostri antenati si cibavano di grandi valori culturali e pretendevano molto dai loro artisti.

  • Quali sono state le maggiori soddisfazioni e delusioni che hai vissuto in Italia? Se potessi tornare indietro, emigreresti ancora nel nostro paese, e cosa rimpiangi di più dell’Albania?

Io penso che ogni poeta contemporaneo, se vuole conoscere il proprio talento per la poesia e la propria capacità intellettuale, dovrebbe fare un’esperienza italiana e formarsi in Italia, paese che non ha uguali nel mondo e, al tempo stesso, di strani paradossi. Da un lato c’è Dante Alighieri, il sommo Poeta che incombe e schiaccia tutti coloro che osano misurarsi con lui e la sua Divina Commedia. Dall’altro lato c’è l’establishment della poesia ufficiale, chiusa, quasi una setta, che conserva con gelosia e cinismo la purezza e il primato della poesia italiana, scambiando favori editoriali e premi letterari. Il vero “razzismo” e si può dire, non è nei confronti dei migranti, quest’ultimi sono trattati bene, anzi anche troppo bene. Il vero “razzismo” in Italia è verso i veri poeti esuli. Finché sei un migrante semplice e timoroso, le istituzioni mostrano un senso di pietà, ma nel momento in cui diventi un poeta e intellettuale “eretico”, allora la politica e l’establishment non ti perdonano né il successo, né l’”eresia’”.
Fare il poeta in Italia è una grande sfida più che in qualsiasi altro paese europeo. Un poeta straniero che riesce a sopravvivere e a creare grandi valori letterari in Italia è un eroe e, al tempo stesso, un martire. I miei amici poeti-esuli in Italia, Heleno Oliveira, Thea Laitef, Hasan Atiya Al Nassar, Egidio Molinas Leiva, che hanno creato grandi valori letterari, non sono mai stati accolti dai poeti della “lingua alta” del bel paese. Se ne sono andati giovani, in povertà, solitudine e disperazione. Thea Laitef rimase per mesi all’obitorio di Roma perché nessuno poteva pagare le spese funebri, Hasan Atiya Al Nassar morì in un ospizio, Egidio Molinas Leiva lo gettarono in una fossa comune al Verano. Ali Mumin Ahad fece in tempo a fuggire in Australia.
Io resisto ancora tra le colline della Ciociaria e le brughiere britanniche.
Dell’Albania rimpiango il fatto di non essere mai invitato a leggere o a presentare la mia opera, nell’arco di sessantatré anni. Anzi il mio contributo letterario viene ignorato volutamente dalla cultura di potere di Tirana.


© Riproduzione riservata      30 giugno 2020    https://www.sololibri.net/Intervista-Gezim-Hajdari-poesia-impegno-esilio. html

 

INTERVISTE

IL PICKWICK

Intervista alla redazione del magazine

Il Pickwick


Intervista alla redazione del magazine Il Pickwick
  • Quando è nato il vostro blog e con quali finalità? Per quale motivo l’avete chiamato così?

Il Pickwick nasce con i suoi primi articoli nel novembre del 2012, come testata giornalistica con tutti i crismi: sebbene la registrazione ufficiale al Tribunale di Napoli venga poi ratificata solo l’8 aprile successivo. Siamo nati per dar seguito a un’esperienza precedente, dalla quale alcuni di noi provenivano e che era un piccolo giornale online che si occupava quasi esclusivamente di teatro. Quando quell’esperienza si è conclusa – inaspettatamente – ci siamo ritrovati attorno al tavolino di un bar a decidere di imbarcarci in quest’impresa, spinti dalla voglia di continuare a scrivere di teatro, anche se sin da subito abbiamo deciso di provare ad allargare il nostro orizzonte alle altre forme di espressione culturale e artistica.
Il nome della testata è scaturito al culmine di varie riflessioni e proposte, in cui si cercava qualcosa che fosse sufficientemente indicativo delle nostre aspirazioni e finalità e Dickens, con la sua combriccola di curiosi esploratori di storie che faceva capo a Mr. Samuel, ha rappresentato un illuminante viatico; l’articolo determinativo (in italiano) davanti al nome ci è sembrato opportuno per dare un tratto distintivo, oltre che per scongiurare equivoci e confusioni con siti omonimi.

  • Di quante persone si compone la vostra redazione e su quali altre collaborazioni potete contare?

La nostra è una redazione variabile, alla quale hanno collaborato con tempistiche differenti e irregolari oltre centocinquanta firme. Attualmente, quelli che scrivono con buona o discreta assiduità sono una trentina, ma tra questi, il novero dei più attivi si può circoscrivere a una quindicina. Qualcuno ci ha lasciato, qualcun altro ha scritto uno o due articoli e poi s’è dileguato, qualcun altro ancora è arrivato appena ieri o arriverà domani.
Ci capita poi di collaborare con spazi teatrali, festival, istituzioni culturali e università conducendo incontri con gli artisti, col pubblico; talvolta è capitato che ci sia stato affidata la conduzione di qualche laboratorio, in cui abbiamo provato a ragionare coi partecipanti sulla relazione fra eventi e contesti, tra opera e sua percezione critica.

  • Come è articolato il blog e qual è la sezione più seguita dai vostri lettori?

Il giornale è strutturato per sezioni; quella trainante è senza dubbio il teatro, che seguiamo regolarmente e che ci ha consentito col tempo di avere un respiro sempre più nazionale. Le altre sezioni, che pure riscuotono un ottimo seguito, sono dedicate alla letteratura, all’arte, al cinema e alla musica. Abbiamo poi uno spazio aperto alla pubblicazione di narrazioni e versi inediti, che solitamente aggiorniamo con cadenza domenicale; in più, un’ulteriore sezione denominata “Espressioni” ospita di tanto in tanto tutta quella miscellanea non compresa nelle suddette sezioni (interviste, illustrazioni, articoli di costume o di qualunque altro argomento riteniamo possa essere interessante).

  • Che genere di pubblico aspirate a raggiungere?

Aspiriamo ad avere dei lettori. E abbiamo scoperto che esistono. Ci piace pensare che chi legge Il Pickwick lo faccia perché animato dalla curiosità e dalla possibilità di imbattersi in un punto di vista il più possibile originale e strutturato. Non aspiriamo a un pubblico in particolare – e con questo voglio dire che non scriviamo per i soli addetti ai lavori – ma cerchiamo di offrire un lavoro onesto e qualitativamente valido, a cui possa accedere un pubblico vario e stratificato. Non ambiamo a rinchiuderci nella riserva indiana di una élite culturale ma ad allargare il più possibile la fruibilità dei nostri contenuti, senza abbassarne il livello qualitativo.

  • La vostra sede è Napoli: che rilevanza ha la vostra attività nello spazio culturale della città?

La nostra rilevanza nel contesto cittadino è cresciuta progressivamente, in maniera anche veloce, allargandosi anche oltre i confini regionali. Il nostro lavoro viene riconosciuto e apprezzato, ne abbiamo continui riscontri. In città ci siamo guadagnati – crediamo di poter dire senza falsa modestia – una credibilità e un apprezzamento dovuti al tipo di attività che svolgiamo, alla scrupolosità che ci mettiamo, al profilo etico che ci siamo imposti.

  • L’argomento su cui focalizzate maggiormente la vostra attenzione è il teatro. Quali sono le maggiori problematiche che deve affrontare oggi la critica teatrale?

È una domanda che apre un discorso notevolmente complesso, su cui di tanto in tanto si riapre un dibattito inconcluso. A nostro avviso, i problemi fondamentali che vive attualmente la critica teatrale possono ricondursi a due fattori precipui: la difficoltà di essere un lavoro a tutti gli effetti e la perdita di credibilità di un mestiere che, non di rado, è svolto con opacità etiche e deontologiche; due aspetti che finiscono per svilirne la dignità professionale. Oggi “fare il critico” non è una professione, noi stessi che lo facciamo con l’abnegazione e la cura di un vero e proprio lavoro non riusciamo a trarne sostentamento diretto. La critica teatrale sta progressivamente scomparendo dalle pagine dei giornali cartacei e si sta trasformando in un mestiere che non c’è, una sorta di volontariato culturale per chi ancora si ostina a svolgerlo. A corollario di questo stato di fatto succede poi che, fra coloro che si occupano di critica, si iscriva anche chi nell’ambito del teatro svolge altre professioni, praticando situazioni di contiguità eticamente conflittuali e compromissorie con lo svolgimento del lavoro critico.

 

© Riproduzione riservata

https://www.sololibri.net/Intervista-redazione-il-pickwick.html   28 agosto 2019

 

 

INTERVISTE

IL PONTE DEL SALE

Intervista agli editori de Il Ponte del Sale
  • La vostra non è solo una casa editrice, ma anche – e forse soprattutto – un’associazione culturale. Quando e dove è nata, per iniziativa di chi, e con quali obiettivi?

Il Ponte del Sale – associazione per la poesia nacque nel 2003 a Rovigo per iniziativa mia e di altri poeti e scrittori veneti: Maurizio Casagrande, Luciano Cecchinel, Pasquale Di Palmo, Sergio Fedele e ne entrò subito a far parte mia moglie, Mariacristina Colombo, che cura la veste grafica delle diverse collane. Questi soci fondatori costituirono anche il nucleo redazionale originario poi variato, perché alcuni ne uscirono e altri (Luigi Bressan, Gabriele Codifava e Stefano Strazzabosco) ne entrarono a far parte. Avevo da qualche tempo (dal 1998) stretto una profonda amicizia con Bino Rebellato, editore e promotore di poesia in Cittadella negli anni ’50/’70 del Novecento. Bino era anche poeta (sublime poeta) e grazie a lui maturai l’idea che fosse possibile conciliare l’avventura editoriale con il fare della poesia: da lui compresi che possono essere la stessa cosa.
Promuovere pubblicazioni, incontri, letture, mostre; portare la poesia come presenza viva attraverso le voci poetiche più significative della contemporaneità, senza limitazioni di lingue e cultura; costruire occasioni di ascolto della poesia, in tutta la sua forza di matrice delle arti e custode dei saperi; condividere con gli altri un patrimonio di bellezza che allude ad una forma alta di humanitas: tutto questo poteva essere insieme espressione di dignità letteraria e prova di amicizia.

  • Quante persone coinvolge la vostra attività e con quali ruoli? Quanti volumi avete pubblicato fino ad oggi e quali hanno ottenuto maggiore successo di vendite e di critica?

L’associazione ha raccolto fin da subito l’adesione di un centinaio di soci, ma diciamo che sono una cinquantina a costituire i nodi della nostra rete, ai quali bisogna aggiungere i fabbri (i critici, poeti, musicisti, artisti e traduttori) coinvolti negli anni, ai quali mandiamo regolarmente notizie della nostra attività e i libri pubblicati. Proprio in questi giorni Il Ponte del Sale ha compiuto 100 libri, anzi 101. I libri più fortunati sono stati quelli di Beppe Salvia, le poesie di Benn tradotte da Giuseppe Bevilacqua, le Georgiche di Virgilio nella traduzione di Gianfranco Maretti Tregiardini e tutte le poesie di Simone Cattaneo ma farei torto ai libri forse più belli se tacessi quelli realizzati per Rimbaud, Comenio, Dante, Artaud e i libri della collana straniera: poeti meravigliosi come Šebek, Crnjaski, Arturo, Urzagasti, Duraković e Ryzij erano ancora inediti in Italia e ora grazie a noi e all’opera impagabile dei traduttori (verso i quali nutro una gratitudine immensa) sono accessibili nella nostra lingua. Senza contare Rovigo di Herbert, le poesie di Panero, di Gelman, Paz, la traduzione del libro sesto dell’Eneide di Heaney o il quaderno di scritture e sovrascritture di Giorgio Bernardi Perini.

  • Avete circoscritto la vostra operatività alla poesia, arte poco remunerativa in termini economici e di diffusione. Come mai questa scelta di campo d’azione così selettiva e controcorrente?

Ho almeno in parte già risposto alla domanda, aggiungo che il moto di naturale simpatia che si prova nei confronti di chi scrive poesia ci ha spinto a desiderare di diffonderla, a testimoniarne l’importanza culturale e a fare una casa della poesia, piccola ma adatta ai poeti e ospitale per tutti e specie per quelli meno noti e che meritavano di essere riconosciuti e apprezzati.

 

Pasquale Di Palmo e marco Munaro

(Pasquale Di Palmo e Marco Munaro)

 

  • In che modo promuovete le vostre pubblicazioni? Credete nell’utilità dei festival, delle kermesse, dei social, o vi appoggiate a metodi più tradizionali di comunicazione, quali le recensioni, le presentazioni nelle librerie, il passaparola tra i lettori?

La promozione della poesia avviene principalmente attraverso due canali: la distribuzione in libreria, on line o diretta (per singole librerie indipendenti o lettori) e la lettura col pubblico in festival, presentazioni, oltre che sui giornali (la rete di cui parlavo prima: critici, traduttori, poeti). La partecipazione a festival o rassegne in varie parti d’Italia e anche all’estero non ci ha impedito di costruire proprio in Polesine, per alcuni anni, un festival di poesia musica e arte particolarmente apprezzato (Verso il solstizio d’estate) e a Rovigo numerose occasioni di incontro: ricordo una memorabile Cittàpoesia con la partecipazione di 40 poeti e i nostri libri esposti nelle vetrine del centro. Abbiamo realizzato con giovani artisti alcuni book-trailer e cerchiamo di comunicare attraverso i social le nostre iniziative. Tanto ancora ci resterebbe da fare. La via è lunga e il cammino resta malvagio.

  • Quale aspetto particolare dei vostri prodotti librari vi rende maggiormente riconoscibili al pubblico: la qualità dei testi selezionati, la grafica, i contributi critici?

Abbiamo fin da subito puntato sull’eccellenza, a una bella poesia dare la veste più acconcia, la scena più propria. E non sono mancati anche qui i riconoscimenti. Un libro del Ponte del Sale si riconosce per la cura dei particolari. Abbiamo voluto portare nell’editoria contemporanea la sapienza e la tenacia dell’artigiano che tramanda nella sua bottega l’amore per la cosa ben fatta. Una bottega senza la quale non sarebbe stato possibile l’Umanesimo, il Rinascimento e nessuna opera del Duomo.

  • Come vi muovete in ambito regionale e cittadino? Potete contare su appoggi da parte delle amministrazioni pubbliche, e in che modo riuscite a mantenere attivo il vostro bilancio?

Fin da subito, oltre al fondamentale sostegno dei soci, ci siamo resi conto che non sarebbe stato possibile continuare nella nostra opera senza la collaborazione delle principali istituzioni del nostro territorio (ma anche di altre città), il Comune, la Provincia, la Regione, i Conservatori, le Accademie, le Università, le Fondazioni e le associazioni culturali più dinamiche e attive con le quali di volta in volta siamo venuti in contatto per singoli progetti. Il bilancio resta attivo grazie alla generosa condivisone di tanti che hanno creduto e credono nella bontà della parola di Hölderlin: riportare i poeti in città. E di Petrarca editore di se stesso: Se tu avessi ornamenti quant’ài voglia Poresti arditamente Uscir del boscho, et gir in fra la gente.

 

 

© Riproduzione riservata

https://www.sololibri.net/Intervista-editori-Il-Ponte-del-Sale.html      6 agosto 2019

 

 

 

INTERVISTE

L’ORMA

L’orma Editore si racconta in un’intervista

INTERVISTA AGLI EDITORI

La casa editrice romana L’Orma in pochi anni è riuscita a ritagliare un suo spazio di riconosciuto valore, grazie all’eleganza e all’originalità delle sue pubblicazioni: ci racconta in quest’intervista i tratti principali della sua linea editoriale, le collane, i riferimenti culturali e i maggiori successi messi a segno sul difficile mercato italiano.

  • Quando e dove è nata la vostra casa editrice, e sulla base di quali motivazioni e finalità?

L’orma Editore approda in libreria il 4 ottobre 2012, ma nasce almeno due anni prima nelle idee, nelle aspirazioni e nei bisogni dei suoi due fondatori, Lorenzo Flabbi e Marco Federici Solari. Nasce in particolare su un divano in un appartamento berlinese dove, da felici espatriati, abbiamo deciso di dare una forma più stabile, esterna e intellegibile a un’amicizia e a un sodalizio intellettuale che duravano da oltre dieci anni. Ci siamo detti che c’era spazio per portare in Italia grandi libri provenienti dai mondi culturali che, per competenze di studio ed esperienze di vita, conoscevamo meglio – le letterature di lingua francese e tedesca – cercando di elaborare un discorso culturale che rispondesse a una sete di «benfatto» e di complessità, e al contempo di chiarezza e di levità, che noi stessi provavamo.

  • Quante persone collaborano al vostro progetto all’interno della casa editrice, e a quali appoggi esterni vi affidate nelle proposte, nelle traduzioni e nei commenti dei vostri libri?

L’organico interno della casa editrice è costituito da cinque persone, con un’idea trasversale e comunitaria del lavoro in cui molte mansioni sono condivise: ci sono i due editori, la nostra caporedattrice Elena Vozzi con funzioni anche di social media manager e addetta alla produzione, l’ufficio stampa Chiara Di Domenico, che tra le altre cose ha curato per noi una splendida raccolta di lettere di Dino Campana, e Massimiliano Borelli, redattore e curatore, che è anche un inventivo e appassionato commerciale. La ricerca dei titoli costituisce uno dei grandi piaceri del mestiere di editore, che permette di alternare scoperte in proprio e scelte tra le tante belle proposte che ci arrivano dalle fonti più diverse: studiosi, agenti, traduttori, amici ecc.

  • Quante collane avete in catalogo? Pubblicate anche ebook? Che tipo di narrativa, di saggistica e di poesia intendete proporre?

Siamo una casa editrice che ragiona per collane, proprio nel senso che per noi questi spazi editoriali sono strumenti di pensiero che ci aiutano a costruire un percorso e un discorso attraverso i titoli che pubblichiamo. Ne abbiamo all’attivo cinque. Kreuzville e Kreuzville Aleph, le collane di letteratura francese e tedesca, il nome è una crasi di Kreuzberg e Belleville due quartieri, uno berlinese e l’altro parigino, che ci sembrano ben rappresentare la stratificata e complessa vitalità dell’Europa di oggi. I Pacchetti, libri pronti per essere spediti dove raccogliamo selezioni e traduzioni inedite degli epistolari di grandi autori, pensatori e personaggi storici cercando di raccontarli con un taglio particolare e talvolta iconoclasta. L’Hoffmanniana dove stiamo presentando in nuove traduzioni e con ampli apparati critici l’opera completa del grande narratore romantico tedesco E.T.A. Hoffmann sotto la direzione del germanista Matteo Galli e fuoriformato, dove si pubblicano, con le parole del suo direttore Andrea Cortellessa

“testi italiani irriducibili a convenzioni di genere, impaginazione, stile”.

Fatte salve le collane inevitabilmente legate alla materialità dell’oggetto libro (I Pacchetti e fuoriformato), tutte le altre sono presenti anche in ebook.
Come recitano le descrizioni programmatiche della Kreuzville e della Kreuzville Aleph, cerchiamo di proporre

«testi a picco sul reale che attingono alle enormi fucine di Francia e Germania, romanzi che incalzano il mondo con le armi dello stile e della lingua» e «libri che contengono in nuce tradizioni, ragioni e furori»

al cuore del contemporaneo per illuminare e rivelare le tendenze e le derive dell’Europa che siamo e che saremo.

  • Qual è stato il vostro libro che ha riscosso più successo, di pubblico e di critica?

Sicuramente Gli anni di Annie Ernaux, un romanzo straordinario, un’autobiografia impersonale, come la definisce l’autrice, capace di restituire la vita di una donna, di una nazione e dell’Europa tutta dal dopoguerra ai nostri giorni. È un libro che interpella il lettore interrogandolo sulla coerenza della propria vita. È una di quelle opere d’arte per cui valgono le parole di Rilke in Torso arcaico di Apollo:

“perché là non c’è punto che non veda / te, la tua vita. Tu devi mutarla”.

In Francia è considerato un classico contemporaneo e anche in Italia Annie Ernaux è stata accolta come una lettura imprescindibile.

  • Che difficoltà incontrate nel diffondere la vostra attività, e cosa vi augurate per il vostro futuro di editori?

La casa editrice sta andando bene e a pochi anni dalla fondazione abbiamo una visibilità e una diffusione davvero sorprendenti. Non sono pochi però i libri che hanno una vita difficile, riuscendo a raggiungere solo una parte limitata dei loro lettori potenziali, anche quando ricevono un’ottima accoglienza da critica e stampa. Siamo grati alle tante libraie e ai tanti librai che propongono con competenza ed entusiasmo i nostri titoli spesso scegliendoli, e così salvandoli, tra la legione di altre proposte che quotidianamente bussano per affollare i loro scaffali.
Per il futuro speriamo di riuscire a proseguire per un cammino di coerenza, un cammino, come diciamo noi, «a baricentro interno»: è un’espressione che usiamo per definire ciò che si fa per ragioni intrinseche, per convinzione, per piacere, per necessità interiore. Vorremmo continuare a condividere libri che, coinvolgendo e cambiando le nostre vite, ci auguriamo arricchiscano anche quelle degli altri.

 

© Riproduzione riservata    www.sololibri.net/Intervista-a-L-Orma-Editore.html     24 giugno 2016

INTERVISTE

LAGOMARSINI

SEI DOMANDE A CLAUDIO LAGOMARSINI

 

Claudio Lagomarsini (Carrara, 1984) si è laureato in Letterature e Filologie Europee all’Università degli Studi di Pisa (2008) e ha ottenuto il Dottorato di ricerca europeo in Filologia romanza all’Università di Siena (2012). Attualmente è ricercatore di Filologia romanza all’Università di Siena. Oltre a diverse pubblicazioni accademiche, suoi articoli di approfondimento sono usciti per Il Postminima&moraliaLe parole e le cose. Come narratore, ha pubblicato diversi racconti per Nuovi ArgomentiColla e retabloid, vincendo un contest organizzato dal Premio Calvino nel 2019. Da Fazi ha appena pubblicato il suo primo romanzo Ai sopravvissuti spareremo ancora.

Che peso ha avuto nella tua formazione culturale l’ambiente sociale e familiare di provenienza, e in particolare la tradizione letteraria toscana?


Ricordo che mio nonno recitava a memoria qualche verso di Dante. Non era un umanista ma un operaio, un omone spesso e duro come il marmo che lavorava, e il suo Dante era quello popolareggiante, diffuso tra i lavoratori di un’Italia arcadica che è morta o sta morendo con quella generazione. In casa sua non ricordo libri se non, appunto, una Divina Commedia che lui teneva nel comò. In casa dei miei, invece, c’erano molti libri, soprattutto classici, anche se mancava una curiosità letteraria propriamente detta. Da bambino sono stato spinto a impegnarmi a scuola, ma sempre nell’ottica di concretizzare gli studi in un lavoro. In effetti credo di aver sviluppato una passione autonoma per la letteratura piuttosto tardi, al primo anno di università. Mi ero iscritto a Ingegneria (vedi sopra alle voci “concretizzare” e “lavoro”) e nei ritagli tra una lezione e l’altra leggevo romanzi con una passione che a un certo punto mi è sembrata sospetta, quasi fosse un sintomo preoccupante. Alla fine del primo anno sono passato a Lettere, non senza che questo abbia causato conflitti in famiglia che solo adesso capisco e perdono fino in fondo. Per quanto riguarda la tradizione letteraria toscana, penso che abbia contato poco, prima di tutto perché sono cresciuto a Carrara, sul confine con la Liguria e non lontano dall’Emilia, motivo per cui, pur essendo toscano, non sento dentro di me tutta questa toscanità travolgente. E poi perché, almeno in una prima fase di ubriacatura, ho letto soprattutto autori stranieri. Forse il fatto di non avere alle spalle una tradizione regionale o locale è il limite ma anche il privilegio di crescere nell’orbita anziché nel centro di qualcosa.


Qual è stata la tua formazione universitaria, e di cosa ti occupi attualmente?


Quando mi sono iscritto a Lettere avevo l’intenzione un po’ vaga di fare l’insegnante. Via via ho messo a fuoco un interesse specifico per la ricerca. Questa cosa di poter fare ricerca in ambito letterario è stata sconvolgente, nel senso che non era per niente scontata per me, dato che non vengo da una famiglia di professori o di umanisti. Quando ho capito che cosa significava fare ricerca intorno ai problemi posti dal testo letterario e soprattutto quando, scrivendo la tesi, mi sono reso conto di quanto fosse appassionante, ho continuato su quella strada. Vale a dire che ho fatto un dottorato in Filologia Romanza e ho seguito l’iter più o meno accidentato (nel mio caso abbastanza veloce, in verità) che aspetta chi sceglie questo percorso. Tra borse e contratti vari ho abitato per sei mesi a Parigi e per quasi un anno a Losanna. Dal 2018 sono ricercatore all’Università di Siena, dove insegno Filologia Romanza. Mi occupo soprattutto di narrativa medievale francese e, più nel dettaglio, studio i cosiddetti romanzi arturiani. Al momento collaboro a un progetto di traduzione del ciclo di Lancillotto e del Graal, di cui Einaudi sta per stampare il primo volume. Oltre a questo sto per pubblicare l’edizione di una parte del ciclo di Guiron le Courtois, che oggi è un testo sconosciuto ai più, ma nel Medioevo ebbe una grande fortuna e un’enorme circolazione, tanto da essere tra le fonti privilegiate di Ariosto.

Quali sono stati gli autori italiani e stranieri che più hanno influenzato la tua scrittura?

Se si lasciano da parte i primissimi esperimenti (ad esempio un racconto che scimmiottava I nostri antenati di Italo Calvino), ho capito di volermi mettere a scrivere sul serio dopo aver letto i romanzi di Philip Roth. Mentre scrivevo le prime cose, ho percorso le tappe principali di ogni pellegrino a stelle e strisce, passando da Saul Bellow e Don DeLillo a David Foster Wallace e Jonathan Franzen. Se togliamo i romanzi medievali, tutto sommato mi considero un lettore mainstream: dopo la sbornia USA è stata la volta di Houellebecq, Bolaño, Marías, Murakami. Nessun autore di nicchia, insomma. Venendo agli italiani, i primi nomi a cui penso sono Walter Siti, Domenico Starnone, Sandro Veronesi e Alessandro Piperno. Non so in che misura queste letture mi abbiano “influenzato”. Per come percepisco io la cosa, è tutto un gran frullatore, alla fine si può essere influenzati senza saperlo anche da libri che non ci piacciono e, cercando la propria voce nella scrittura, si può scoprire di non avere niente in comune con autori molto amati. A me, ad esempio, piace moltissimo lo stile di Piperno, ma quando ho scritto cose alla Piperno mi sono reso conto che quello non era il mio passo.


I racconti che hai pubblicato prima del romanzo ne hanno costituito in qualche modo un prodromo?

Nei racconti pubblicati finora, che poi saranno una dozzina, ho fatto esperimenti di vario tipo, in alcuni casi molto distanti dall’atmosfera e dal mondo del romanzo. Ma ce ne sono due in cui in effetti riconosco un seme di quello che più tardi è diventato il mio esordio. Uno si intitolava Il grande Alessandro ed era il monologo di un ragazzo un po’ esaurito, che parlava del suo rapporto complicato con il compagno della madre, un uomo rozzo e cavernicolo, molto diverso da lui ma anche capace di esercitare un fascino misterioso. Nell’altro, che si chiamava Jenny, compariva una nonna bizzarra e sopra le righe, lontanissima dal modello della nonnina premurosa che prepara la merenda ai nipoti. Sia Alessandro sia la nonna sono rimasti in lievitazione per un po’ e, alla fine, li ho accolti nel romanzo, anche se li ho inseriti in un contesto nuovo e li ho fatti reagire con personaggi che non avevano incontrato nei racconti.

Di solito i lettori cercano riferimenti autobiografici nella produzione di un autore, spesso arbitrariamente. Quanto della tua storia personale è entrato nella composizione di Ai sopravvissuti spareremo ancora?

Nel protagonista, Marcello, c’è senz’altro qualcosa del ragazzo che ero io a diciassette o diciotto anni, e che in parte sono ancora: disorientato, insicuro ma a tratti altezzoso, timido e goffo ma capace di gesti coraggiosi. E il suo mondo ricorda quello in cui sono cresciuto, perché il comune di Carrara è frammentato in diverse aree residenziali che si sviluppano a valle del centro storico. La famiglia di Marcello vive appunto in una di queste schegge urbane, una bolla che è quasi una provincia nella provincia. Ecco, questo scenario è senz’altro un elemento autobiografico, ma allo stesso tempo ha una valenza più ampia. Anche altre province (si dice che l’Italia sia tutta una grande provincia…) hanno la stessa struttura, e anche le grandi città sono frammentate in zone o quartieri che hanno ciascuno una propria identità, oppure una non-identità rispetto a quella dominante del centro, sicché ogni condominio, ogni aggregato urbano fa storia a sé. Infine, come capita a Marcello, anch’io sono cresciuto in una famiglia divisa, anche se non disfunzionale, bizzarra e violenta come la sua. Questi ingredienti − crisi adolescenziale, provincia, conflitti familiari − mi sembravano allo stesso tempo abbastanza universali per essere raccontati e sufficientemente personali perché a raccontarli fossi proprio io.

Formalmente, in che modo il linguaggio cinematografico e dei media ha influenzato il tuo stile narrativo?


Qui si torna al discorso delle influenze e al problema del frullatore. Per fare un esempio, nel romanzo il film preferito di Wayne (il personaggio ereditato dal “grande Alessandro”) è un western contemporaneo con Terence Hill, intitolato Renegade − Un osso troppo duro (1987). Quel film l’ho visto davvero, non mi è piaciuto per niente e tuttavia mi ha indubbiamente “influenzato” se ci ho costruito intorno una scena del romanzo. Come molte persone, sono un consumatore onnivoro di forme narrative, perché oltre ai romanzi guardo film e serie di ogni tipo. A volte guardo anche cose che non mi piacciono ma che per qualche ragione trovo interessanti, specialmente nella costruzione dell’intreccio. Qualche giorno fa ho visto un episodio di Law & Order che aveva una sceneggiatura degna di Hitchcock. Peccato che fosse diretto male e recitato peggio. Per quanto riguarda le influenze formali, terrei conto anche di un’altra questione: a partire dalla prima metà del Novecento molta letteratura è direttamente o indirettamente influenzata dal linguaggio cinematografico. Leggere letteratura, allora, significa ricevere anche influenze cinematografiche filtrate nella letteratura stessa. Detto questo, alcune persone che hanno letto il mio romanzo hanno trovato delle analogie con Dogville di Lars von Trier,che in effetti avevo visto e apprezzato, anche se non ci stavo pensando mentre scrivevo. Poi ci sono tocchi di giallo, un genere che mi incuriosisce sia sulla pagina che sullo schermo. Negli scambi conflittuali tra i personaggi spero di essere stato efficacemente influenzato da Carnage, che non ho visto a teatro ma nella versione cinematografica di Polanski, e che considero un capolavoro: per più di un’ora quattro personaggi parlano in una stanza, senza che succeda niente di significativo e, nonostante questo, è impossibile distogliere l’attenzione da quello che si dicono e da come se lo dicono. Se nel mio romanzo − che appunto non è un romanzo costruito sulla trama ma sulle relazioni e sulla scrittura − avessi ottenuto anche un centesimo di quell’effetto, potrei dirmi molto soddisfatto.

 

© Riproduzione riservata                    «Il Pickwick», 3 febbraio 2020