Mostra: 61 - 70 of 76 RISULTATI
INTERVISTE

READERFORBLIND

Casa editrice Readerforblind: intervista alla redazione

Casa editrice Readerforblind: intervista alla redazione
La nostra collaboratrice Alida Airaghiha intervistato la redazione della giovane casa editrice romana Readerforblind, nata inizialmente come rivista online nel 2015 e specializzata nella narrativa breve. I fondatori del progetto sono Dario AntimiAdria Bonanno e il giornalista e scrittore Valerio Valentini. Ma dietro il nome di readerforblind si nasconde anche un intero team di persone preparate e appassionate: Margherita Macrì, in redazione; Roberta De Marchis, all’ufficio stampa e comunicazione; Emilio Fabio Torsello, alla gestione e ai contenuti Social; Valentina Russo che si occupa della grafica.

Ecco come nasce la casa editrice “readerforblind”: sapete che il nome si ispira a un famoso racconto di Raymond Carver? Il perché ce lo svela la redazione nell’intervista che segue.

  • Quando e dove è nata la vostra casa editrice, con quali programmi e finalità?

La casa editrice nasce ufficialmente nel dicembre del 2020 e nel marzo del 2021 esce la nostra prima pubblicazione, I superflui di Dante Arfelli. Abbiamo passato l’intero lockdown del 2020 a studiare e pensare il progetto. Nasciamo a Ladispoli; abbiamo pensato all’eventualità di spostarci a Roma, ma alla fine abbiamo deciso di restare in provincia. Amiamo il nostro territorio e qui una casa editrice neanche c’era. Quindi abbiamo pensato: “Perché no?”. Non ci siamo pentiti, in qualche modo è stato un atto d’amore.
Prima di allora, readerforblind era una rivista online di narrativa breve, insomma, avevamo un sito e pubblicavamo racconti. Lo facevamo dal 2015, ma con il passare degli anni sentivamo di volere di più. Quello della casa editrice è sempre stato un sogno; alla fine è arrivata la giusta motivazione per realizzarlo.

  • Avete scelto un nome originale per le vostre edizioni: potete spiegarcene origine e motivazione?

Readerforblind ce lo portiamo dietro dall’inizio, da quando il progetto era una rivista. È un omaggio a Raymond Carver; nel racconto Cattedrale c’è questo annuncio sul giornale: “Cercasi lettore per cieco” – Readerforblind. Viene da lì. Portare avanti per cinque anni una rivista di racconti significa che il racconto lo ami, e parte del nostro amore verso questa forma narrativa deriva proprio da Carver. Quando il progetto è mutato e da rivista è diventato casa editrice, abbiamo deciso di mantenere invariato il nome, un po’ anche per ricordarci da dove – e da cosa – veniamo.

  • Quante persone fanno parte della vostra redazione e in quante collane si suddivide la vostra produzione?

In redazione siamo circa una decina, e saltuariamente ci avvaliamo delle competenze di collaboratori esterni. La nostra produzione si suddivide attualmente in tre collane: le polverii superflui e le polveri black edition.
Le polveri è la nostra prima collana. Qui trattiamo titoli di narrativa pubblicati nel corso del Novecento e non più ristampati da allora. Nei Superflui ci concentriamo su nuove voci contemporanee e nelle Polveri black edition trattiamo invece opere di grandi autori e grandi traduttori della letteratura.

  • Quali sono le vostre pubblicazioni che hanno ottenuto più riconoscimenti e secondo voi per quali motivi? Quali sono i prossimi tre titoli che avete in cantiere?

Tra i titoli che hanno ottenuto più riconoscimenti troviamo sicuramente I superflui di Dante Arfelli e Cristo fra i muratori di Pietro Di Donato.
Arfelli è stata in parte una sorpresa, innanzitutto perché era il primo titolo e non ci aspettavamo una tale risposta da parte del pubblico e della critica. Abbiamo pubblicato I superflui, per un caso totalmente fortuito, nel centenario della nascita dell’autore; probabilmente c’era grande attesa circa il ritorno di Arfelli nelle librerie, quantomeno da parte di una nicchia affezionata di lettori.
Per quanto riguarda Pietro Di Donato, invece, il discorso è diverso: anche in questo caso c’era probabilmente una certa attesa, ma crediamo che il successo di Cristo fra i muratori sia dovuto al tema che il libro tratta: la storia è d’ispirazione autobiografica ed è raccontata da Paolo (personaggio appunto riconducibile a Pietro Di Donato), che all’età di dodici anni perde il padre per un incidente sul lavoro. Quello delle morti sul lavoroè un tema molto sentito nel nostro paese, ed è vergognoso che oggi come allora si muoia in tali circostanze. Dall’inizio dell’anno ci sono già state sette “morti bianche”. In soli tre giorni, e siamo all’11 di gennaio.

Nel nostro piccolo, pensiamo sia importante partire dalla sensibilizzazione per creare una sorta di consapevolezza generale, e crediamo che negli ultimi anni questo stia accadendo: sempre più persone non sono disposte ad accettare condizioni di lavoro che non garantiscono sicurezza e sempre più persone si stanno battendo per un cambiamento, perché morire di lavoro non è accettabile.
Circa i prossimi tre titoli che abbiamo in cantiere possiamo dirvi che il 27 gennaio uscirà Nella città l’inferno di Isa Mari per la collana Le polveri. A febbraio, nella collana I superflui, pubblicheremo Il corpo della medusa di Luca Martini, già autore, fra gli altri, di Manuale di sopravvivenza per bambini invisibili (Pequod, 2018) e Mio padre era comunista (Morellini Editore, 2019). Per il terzo titolo ci concentreremo nuovamente su Le polveri, ed è previsto per marzo. Su questa pubblicazione non possiamo dirvi di più, ma ne sentirete parlare presto!

  • Attraverso quali canali preferenziali riuscite a pubblicizzare i vostri prodotti e che traguardi vi proponete di raggiungere, a livello di mercato e di incidenza culturale?

Fin da subito abbiamo improntato la comunicazione e la distribuzione su tutti i canali possibili, non trascurando nessuno e cercando di essere presenti tanto nel “reale” (con un rapporto diretto con le librerie indipendenti, con un rapporto diretto con la promozione e con un aggiornamento costante con i buyer delle centralizzate) quanto nel digitale, attraverso lo shop sul nostro sito, la presenza su tutte le piattaforme digitali e una gestione dei social dinamica, ma allo stesso tempo istituzionale. Tutto ciò ci ha permesso di interfacciarci con un pubblico composto da lettori giovani e meno giovani e da lettori occasionali e grandi lettori. Il mercato delle riscoperte, sulla carta, era focalizzato sul grande lettore che ricercava da anni libri oramai giudicati introvabili, ma grazie a questo mix di comunicazione reale e digitale abbiamo constatato che siamo riusciti ad arrivare a una fetta di lettori più giovani (anche anagraficamente) e, appunto, più occasionali; lettori che hanno dedicato ore di lettura a libri di cui magari non sarebbero mai venuti a conoscenza. Questo grazie al lavoro dei librai indipendenti ma anche di catena, che hanno sposato da subito le nostre scelte editoriali.
Questo è anche un po’ quello a cui aspiriamo con il nostro lavoro: far conoscere a più gente possibile grandi autori ingiustamente dimenticati nel tempo e nuove voci contemporanee valide che troppo spesso passano in sordina.

  • Vi ritenete più o meno ottimisti riguardo al futuro del libro (cartaceo o digitale) nel nostro paese, dato che la lettura è sempre più minacciata da altri e più aggressivi mezzi di comunicazione?

Ogni mezzo di comunicazione è a sé, e sono diversi. Che in Italia si legga poco purtroppo è una realtà, ma chi non legge non lo fa perché Netflix gli propina un numero indefinito di serie tv tutte insieme – probabilmente queste stesse persone non avrebbero letto o non leggevano nemmeno vent’anni fa. Crediamo che l’intrattenimento non sia solo intrattenimento fine a sé stesso – molte attività provengono da forme artistiche; c’è un tempo per tutto, ed è giusto sia così. In quanti nelle ultime settimane hanno chiuso un cerchio guardando l’ultima stagione di The Walking Dead? È difficile che questo abbia impedito alle persone di leggersi un libro se questo era ciò che volevano fare. Insomma, una cosa non esclude l’altra. Tra l’altro, durante il lockdown del 2020, ci fu una lieve inversione di tendenza. Durante quelle settimane molta gente aveva a disposizione diverse ore di tempo libero e questo tempo proveniva dal non lavorare o dal lavorare da casa, non dalla mancanza di altre forme di intrattenimento.
Anche l’utilizzo dei social, da questo punto di vista, non ci preoccupa più di tanto; nonostante il tempo speso sui social sia sempre maggiore, difficilmente immaginiamo che le persone smettano di seguire le proprie passioni per questo. Se usati bene, inoltre, possono essere un ottimo strumento per seguire case editrici e progetti editoriali validi, in un modo così diretto e interconnesso che è sorprendente, e di certo non auspicabile fino a qualche anno fa.

Concludiamo con un altro spunto di riflessione: alcuni lettori hanno il brutto vizio di giudicare malamente chi legge meno, e questo è il miglior modo per allontanare le persone dalla lettura, anziché avvicinarle.

 

SoloLibri.net › Intervista-redazione-Readerforblind       12 gennaio 2023

 

INTERVISTE

RIGOTTI

FRANCESCA RIGOTTI, FILOSOFA E DOCENTE UNIVERSITARIA

Filosofa, saggista e docente universitaria, Francesca Rigotti ha insegnato a Göttingen e Zurigo e dal 1996 insegna all’Università della Svizzera italiana a Lugano. La sua ricerca è caratterizzata dalla decifrazione e dall’interpretazione delle procedure metaforiche e simboliche sedimentate nel pensiero filosofico, nel ragionamento politico, nella pratica culturale e nell’esperienza quotidiana. Ha ricevuto nel 2016 lo Standing Woman Award.

I suoi libri sono tradotti in tredici lingue. Tra le sue pubblicazioni più recenti, andando all’indietro: “Una donna per amico” (con Anna Longo, Napoli-Salerno, 2016), “Manifesto del cibo liscio” (Novara, 2015); “Onestà” (Milano, 2014); “Senza figli” (con Duccio Demetrio, Milano, 2012); “Partorire con il corpo e con la mente. Creatività, filosofia, maternità” (Torino, 2010), “Gola. La passione dell’ingordigia” (Bologna, 2008); “Il pensiero delle cose” (Milano, 2007; Premio Capalbio); “Il pensiero pendolare” (Bologna, 2006); “La filosofia delle piccole cose” (Roma, 2004) e “Il filo del pensiero” (Bologna, 2002, Premio di Filosofia Viaggio a Siracusa). Il suo ultimo libro è “De senectute” (Einaudi, 2018).

  • L’ambiente familiare e culturale in cui è nata e cresciuta come ha contribuito alla sua formazione intellettuale?

Sono cresciuta in una famiglia meridionale trapiantata a Milano, di alto rigore morale ma di scarsi impulsi intellettuali. In casa mia c’erano forse tre libri. Però grazie a mia sorella maggiore scoprii ben presto il piacere della lettura (le regalarono l’Enciclopedia dei Ragazzi Mondadori alla quale potevo attingere, che miniera!); in qualche modo individuai anche l’esistenza della biblioteca di quartiere, nello stesso edificio della scuola, e allora lì fu una immersione totale. E poi, altra benedizione, il liceo classico.

  • Quali sono stati gli autori classici e contemporanei che più hanno inciso nella configurazione del suo profilo filosofico?

Tra coloro che ho potuto frequentare di persona, citerei senz’altro Mario Dal Pra, mio docente all’Università, Salvatore Veca, Remo Bodei. Tra gli autori contemporanei, sicuramente e sopra ogni altro Hans Blumenberg e tutti i suoi straordinari studi di metaforologia e di storia culturale; ma anche Jacques Derrida e Martin Heidegger, e il modo che avevano entrambi di estrarre saggezza dalle parole. Tra i classici, Kant, sia il Kant morale sia il Kant gnoseologico.

  • In che modo il femminismo ha influenzato le sue scelte esistenziali, lavorative e intellettuali?

Sono diventata femminista a tre anni, quando è nato il mio fratellino minore, nel constatare che della sua nascita tutti gioivano mentre della mia (seconda femmina…) tutti – raccontava la saga familiare – si erano rammaricati. Poi a lui venne regalata l’automobilina rossa a pedali che io avevo sempre sognato. Per fortuna è comunque diventato una bravissima persona. Ho pagato alcune scelte femministe piuttosto duramente, allorché per esempio si pensava che avrei dovuto scegliere una professione da donna che mi permettesse di assistere e coadiuvare la carriera dell’uomo, cosa alla quale mi opposi con tutte le mie forze.

  • Le è stato difficile conciliare la sua vita familiare con il suo impegno di studiosa?

Tenendo presente che i figli sono venuti in quattro (maschio, femmina più due gemelli maschi nel giro di cinque anni) non è stata proprio una passeggiata, in più in un paese straniero. Però il compito è stato equamente ripartito con il loro padre e mio compagno (straniero) e questo ha semplificato ogni cosa.

  • A quale tra i suoi libri si sente più legata emotivamente, e quale l’ha più gratificata dal punto di vista del successo editoriale?

Il libro che amo di più è “Il filo del pensiero. Tessere, scrivere, pensare”, che uscì con Il Mulino di Bologna nel 2002. È incondizionatamente il mio preferito, anche se non ha avuto il successo editoriale de “La filosofia in cucina”, ristampato varie volte e tradotto in moltissime lingue, l’ultima il portoghese per l’edizione brasiliana, pochi mesi fa. Un testo che parla dell’uso, nel linguaggio filosofico, delle metafore derivate dalla preparazione del cibo, del tipo impastare i pensieri, per intenderci.

  • Nel suo ruolo di docente universitaria, trova che i giovani con cui si confronta quotidianamente siano più o meno motivati nei riguardi del sapere di quanto lo fosse la sua generazione? E cosa teme o spera per il loro futuro?

Noi avevamo soltanto la lettura, anche come svago, mentre i ragazzi di oggi hanno molti più stimoli e possibilità. Spero che li usino bene. Quando vedo a lezione i loro occhi interessati (non di tutti, diciamocelo, tanti li puntano soltanto sullo smartphone) penso che ce la faranno, nonostante il fatto che le de-formazioni (chiamate impropriamente ri-forme) introdotte nella scuola – non solo italiana, io insegno in Svizzera e abito in Germania – facciano di tutto per soffocarne gli slanci.

 

© Riproduzione riservata

https://www.sololibri.net/Sei-domande-a-Francesca-Rigotti.html       23 febbraio 2018

INTERVISTE

RIMI

Poesia e scienza: sei domande a Margherita Rimi
POESIA E SCIENZA: SEI DOMANDE A MARGHERITA RIMI

 

Margherita Rimi è nata a Prizzi (PA) e risiede in provincia di Agrigento. Poetessa, medico e neuropsichiatra infantile, svolge da anni una intensa attività di prima linea per la cura e la tutela dell’infanzia e dell’adolescenza, lavorando in particolare contro le violenze e gli abusi sui minori e a favore dei bambini portatori di handicap. Tra le sue raccolte in versi, sono da segnalare: “Per non inventarmi” (Kepos, 2002), “La cura degli assenti” (LietoColle, 2007), “Era farsi. Autoantologia 1974-2011”, (Marsilio, 2012; Premio Laurentum, 2012 e Premio Brancati Zafferana, 2013; Segnalazione Speciale Stefano Giovanardi, 2013); “Nomi di cosa. Nomi di persona” (Marsilio, 2015). Nel 2014 le è stato conferito il Premio Città di Sassari alla carriera, e nel 2016 ha ricevuto un riconoscimento dall’Unicef-Italia.

  • Nella sua formazione culturale è nato prima l’interesse per la poesia o quello per la scienza?

Non c’è un prima e un dopo: la curiosità per la scienza (intesa come bisogno di esplorazione della natura, degli animali e dell’uomo) e quella per la letteratura (come passione per le parole, interesse per la lettura) sono nate quasi incrociandosi, legate alla curiosità della conoscenza e del mondo. Alle Elementari sottolineavo parole, frasi e scrivevo, nei margini bianchi dei libri, delle parole chiavi, che richiamavano l’argomento: per me utili per imparare meglio e prima. I libri che dovevano tenersi per disciplina puliti, io li imbrattavo e di questo mi vergognavo: quelli dei miei compagni erano lindi. In adolescenza, grazie alle lezioni di validi professori del Liceo Classico (ad Agrigento) sono stata più consapevole della grande passione sia per la letteratura, che per gli argomenti scientifici. Nella scelta universitaria, poi, tra Lettere e Medicina ha prevalso la Medicina, l’aspetto umano della cura e del prendersi cura dei malati. Pensavo nella mia giovinezza di salvare tante vite umane, ed è capitato qualche volta nella pratica del mio lavoro in Pronto Soccorso. Ma la letteratura era là, non mi lasciava. Insieme ai libri di medicina leggevo tanti testi letterari, e testi di psicologia che, per tipologia e contenuti, si avvicinavano alla conoscenza dell’animo umano.

  • Quali sono i poeti e i narratori che hanno avuto un ruolo più rilevante nell’avvicinarla alla scrittura?

Mi hanno avvicinato alla scrittura, prima di tutto, i libri scolastici e qualche classico per l’infanzia (“Giannettino”, “Pinocchio”, “Alice nel paese delle meraviglie”). Successivamente i classici greci e latini, la Divina Commedia, la Bibbia, la letteratura russa (Gogol’, Čechov, Tolstoj, Dostoevskij). Tra le autrici ho trovato molto particolare la scrittura di Ágota Kristóf e Herta Müller. Letture fondamentali sono state le “Operette morali” di Leopardi, le opere di Pirandello, Sciascia, Vittorini, Giuseppe Pontiggia. Tra i poeti Bacchini, Porta, Enzensberger, Birgitta Trotzig, Ana Blandiana, solo per citarne alcuni.
Ad avvicinarmi alla scrittura non sono stati solo i testi di letteratura, ma anche di argomenti medico-scientifici e anche diversi autori psichiatri e psicoanalisti (Winnicott, Alice Miller, Ferenczi).

  • In che modo la sua professione medica e la sua produzione letteraria si influenzano reciprocamente?

Penso che in tutti e due ci sia un primario bisogno di verità e di conoscenza, una ricerca di bellezza. Nel mio lavoro c’è la bellezza di prendersi cura dell’altro, nell’ascolto e nello scambio, nella costruzione di una relazione e nella conoscenza reciproca; e c’è anche un andare verso la verità attraverso la parola. Non si procede, però, solo con tecniche medico-scientifiche e psichiatriche, si tratta di un processo che coinvolge anche l’aspetto umano. E nella mia produzione letteraria è lo stesso, vi è la ricerca di una verità umana e della bellezza: nella scelta della parola, nella disposizione dei versi, nell’ascolto del sentimento e del pensiero, del suono, nella costruzione di significati e di senso. È così che, nella creazione poetica, avviene pure una forma di conoscenza, non solo di se stessi, ma anche di un sapere che va oltre il dato di circostanza. Penso che l’arte e la poesia vadano oltre la scienza stessa, oltre la contingenza, perché tendono a cogliere aspetti di eternità e universalità dell’essere umano. Ma lo spirito con cui mi pongo di fronte a tutti e due è lo stesso. Il lavoro con i bambini malati ha affinato la mia sensibilità anche linguistica e la mia capacità di comprensione sia razionale che emotiva. I bambini stessi hanno rappresentato una guida nella mia ricerca di verità. Imparando ad interagire con loro, ho imparato come una nuova lingua, che è divenuta parte della mia ricerca poetica. C’è un dialogo continuo tra poesia e scienza: parte del linguaggio medico-scientifico e psichiatrico viene assunto dalla parte poetica, viene integrato alla lingua e al sapere della poesia. Ma lo scambio non è meramente linguistico o di trasferimenti di parole settoriali e tecnicismi vari dall’uno all’altro campo, sic et simpliciter dalla medicina alla poesia; sarebbe solo un abbellimento, un vezzo, un artefatto, una ostentazione del sapere scientifico, sfruttando la poesia. Tra il sapere medico-scientifico, psichiatrico e la poesia c’è uno scambio attraverso cui passano valori umani e sentimenti, studi, conoscenze e tecnica, esperienze e percezioni, scelte etiche e di pensiero, consapevolezza di libertà. E, lo ripeto, una comune spinta verso la verità. La medicina impara dalla poesia e la poesia dalla medicina. La poesia ha fatto suo un dialogo tra il sapere letterario e quello scientifico, ma alla fine è la poesia stessa che assorbe gli altri linguaggi per farne una creazione artistica.

  • Ritiene che la poesia abbia una funzione non solo didattica e culturale, ma anche qualche utilità terapeutica nella sua attività di neuropsichiatra infantile?

Non uso la poesia come strumento tecnico nella terapia con i bambini. Ma le parole, poiché fanno parte del processo terapeutico, possono, nell’interazione e nel dialogo con il bambino, assumere una struttura e valenza poetica e artistica. Succede che tra me e il bambino nasca, a tratti, una vera e propria lingua poetica come una lingua comune, la quale sembra potenziare l’effetto terapeutico. Penso comunque che l’arte, in tutte le sue forme, possa giovare al trattamento di tante malattie. Del percorso terapeutico, dunque, possono far parte anche tecniche che appartengono all’arte (musica, poesia, narrazione, pittura, teatro) oltre che, naturalmente, i trattamenti psicoterapici delle diverse scuole.

  • Come vive il rapporto tra lingua scritta e parlata, tra italiano e dialetto? Secondo quali direttive trova più facile e arricchente esprimersi?

Non penso alla scissione tra lingua scritta e lingua parlata, né tra italiano e lingua siciliana o altre lingue. Li sento e li vivo insieme, come a dire che una sola forma non basta e che una sola lingua non basta. La poesia ha bisogno di tutto questo. Mi affascina molto la lingua parlata la parola parlata, parlata da chiunque, che sono spesso fonte di ispirazione: di parole o frasi, di suoni, da cui, attraverso una rielaborazione artistica, può svilupparsi un componimento poetico. Ricordiamoci che prima di imparare a scrivere abbiamo impariamo a parlare.
Nell’ultimo mio libro di poesia “Nomi di cosa. Nomi di persona” (edito da Marsilio, con risvolto di Amedeo Anelli e foto di copertina donata da Letizia Battaglia che ringrazio entrambi) ho utilizzato anche parole e frasi, oltre che in siciliano, in francese e inglese, come un’incisione, un innesto sull’italiano. Penso di avere potenziato e arricchito la mia lingua poetica. Questo non l’ho fatto per abbellire, per ornare o per esercizio estetizzante, ma per una necessità di ricerca linguistica, di sperimentazione; per dare più forza, più bellezza e varietà di suono alla mia poesia. Appunto quando una lingua non basta. Così accade anche con il linguaggio scientifico: il suo utilizzo è piegato alla poesia, alla sua arte della parola. È la poesia che comanda.

  • Quali sono i problemi che più la coinvolgono nel suo relazionarsi con i piccoli pazienti e con le loro famiglie? Ritiene che la medicina e la situazione sanitaria in Italia e in particolare in Sicilia godano di sufficiente attenzione da parte del potere politico? In che maniera si potrebbe rendere più efficienti ospedali e ricerca?

I problemi sono la carenza di figure professionali: l’assistente sociale, il pedagogista, con i quali si dovrebbe lavorare in equipe e nell’ottica di una integrazione multidisciplinare. In particolare nel caso della cura dei bambini è indispensabile anche un lavoro con i genitori. Nonostante la carenza di personale e altro, la situazione sanitaria italiana regge. Nel riordino del sistema sanitario, si sono introdotte delle regole proprie delle aziende private (l’attenzione ai costi e ai risultati). Mi auguro che la politica e i governi non dimentichino mai che la salute è un valore umano inestimabile e non un prodotto commerciale.

 

© Riproduzione riservata

www.sololibri.net/Poesia-scienza-MargheritaRimi.html       2 settembre 2016

 

 

 

INTERVISTE

RONCHI

 

 

 

INTERVISTE

ROVELLI

Carlo Rovelli e la poesia

Fisico e saggista (Verona 1956), dopo essersi laureato in fisica presso l’Università di Bologna, Carlo Rovelli ha svolto il dottorato all’Università di Padova. Ha lavorato nelle Università di Roma e di Pittsburgh, e attualmente è ordinario di fisica teorica all’Università di Aix-Marseille. I suoi studi vertono soprattutto sulla gravità quantistica. Si è anche occupato di storia e filosofia della scienza con il libro Che cos’è la scienza. La rivoluzione di Anassimandro (2011). Tra le sue altre opere: Che cos’è il tempo? Che cos’è lo spazio? (2010), Sette brevi lezioni di Fisica (2014, tradotto in 41 lingue, con una diffusione di oltre un milione di copie), L’ordine del tempo (2017, da cui la regista L. Cavani nel 2023 ha tratto l’omonimo film), Helgoland (2020), Relatività generale (2021) e Buchi bianchi (2023).
Collabora regolarmente con il Corriere della Sera, in particolare con il supplemento La Lettura. I suoi articoli sono apparsi sul supplemento culturale de Il Sole 24 Ore, e saltuariamente su la Repubblica, sul Guardian e sul Financial Times.

Professor Rovelli, ricorda quando è stato il suo primo approccio a un testo poetico, e quale è stata la prima poesia che ha imparato a memoria?

Forse la prima poesia che ho imparato a memoria è stata La Madre di Ungaretti. Penso sempre che sia stata una grande ricchezza aver imparato versi a memoria da ragazzo.

Le capita tuttora di leggere raccolte di versi, e preferisce gli autori classici o i contemporanei, gli italiani o gli stranieri?

Si, mi capita di leggere poesie. Preferisco i grandi classici. Amo molto Orazio per esempio. Ma leggo anche di tanto in tanto poesie contemporanee…

Sono noti il suo impegno politico, e l’adesione convinta al movimento pacifista. Tra i libri di poesia predilige quelli che danno voce a istanze civili, e in particolare di quali autori?

Trova che esista una corrispondenza tra l’intuizione artistica di chi scrive poesia e l’intuizione scientifica di chi ricerca lo svelamento di un mistero nella materia? In entrambi i campi non sono forse necessarie notevoli doti creative?

Penso che ci sia una vicinanza profonda fra la scienza migliore e la migliore poesia, perché entrambe sono modi per aprire uno sguardo nuovo sul mondo, per farci vedere qualcosa che prima non vedevamo, o vedevamo solo confusamente. Entrambe si aprono mondi.

Ha letto poeti che nella loro produzione si siano ispirati alla scienza? Recentemente Bruno Galluccio (fisico che si è occupato di telecomunicazioni e sistemi spaziali) ha pubblicato tre volumi nella collana bianca di Einaudi…

Esiste una diffidenza nei lettori sia verso il linguaggio poetico sia verso il linguaggio scientifico. Ritiene che tale difficoltà inerisca alla struttura specifica di entrambi i codici espressivi e alla scarsa dimestichezza con i metodi delle due diverse discipline, o a semplice disinteresse?

Penso che serva un apprendistato, un imparare, in entrambi i casi, che spesso non è semplice. Come tutte le cose che nella vita valgono la pena, serve fatica per arrivarci.

Si, molto spesso. Soprattutto i Canti di Leopardi. Ne ho imparati alcuni a memoria da ragazzo e quando sono solo, magari all’aperto, me li ripeto nella mente. E li trovo sempre meravigliosi. Il Passero Solitario per esempio, mi accompagna spesso…

 

© Riproduzione riservata          «Gli Stati Generali», 14 ottobre 2024

INTERVISTE

RUCHAT RONCATI

floraFLORA RUCHAT RONCATI, ARCHITETTO

  •  Non è del tutto scontato che una donna eserciti la professione di architetto arrivando a occupare una posizione di grande rilievo nel suo paese, proponendosi, quindi, come punto di riferimento. Che ruolo hanno avuto, nella sua formazione, se non nella sua vocazione, l’ambiente familiare e quello culturale in cui è cresciuta?

Tendo quasi istintivamente a smitizzare il concetto di “vocazione” nel senso di richiamo imperioso a esercitare una particolare funzione nella vita. Credo che molte delle esperienze che ci troviamo a vivere siano piuttosto frutto del caso, di una serie di circostanze spesso imprevedibili. Almeno, a me è capitato che le grosse scelte – quelle gravide di conseguenze anche esistenziali – si siano imposte quasi da sole: penso agli studi a Zurigo, ai primi lavori in Ticino, alla parentesi romana. Comunque, può anche aver avuto un suo peso il fatto che io sia nata da una famiglia di costruttori, e che quindi abbia respirato sin da piccola un certo tipo di problematiche (ma anche un vocabolario, una sensibilità) relative al mondo dell’edilizia. Intendiamoci, mio nonno era muratore, e ha vissuto tutto dall’interno il destino del ticinese emigrato costretto a mettere radici in vari paesi…

  • Il Ticino, appunto, tradizionalmente considerato fucina di architetti, che importanza ha avuto nel plasmarla: prigione o trampolino?

Mi ha ovviamente condizionata, nel bene e nel male: gli anni del liceo a Lugano sono stati molto intensi, fondamentali soprattutto da un punto di vista affettivo. Ma già allora provavo prepotente la voglia, la spinta a evadere, a uscire dai suoi confini, a confrontarmi con una realtà più vasta…Zurigo è stata una scelta obbligata: era in pratica l’unico sbocco per chi – ticinese – volesse andare all’università, perché la guerra, ma in particolare il fascismo, avevano interrotto il rapporto con l’Italia che si è ricucito solo molti anni dopo. Ho vissuto Zurigo, all’inizio, con un senso di estraneità pressoché totale: la barriera della lingua costituiva una specie di diaframma tra noi e l’esterno, ancora oggi mi accorgo di non possedere il tedesco pienamente… Ma la città mi coinvolge sempre di più, tant’è vero che ogni volta che mi si è offerta l’occasione di tornarci l’ho colta al volo.

Ritornando al periodo degli studi, parecchi problemi hanno condizionato tutti quegli anni. Ricordo comunque con gratitudine e rispetto in particolare la figura di Tami, ma anche quelle di Roth e Waltenspühl, miei docenti all’ ETH. Un primo concorso pubblico, che poi ho vinto, ha segnato il mio inserimento forzato nella professione, e il ritorno in Ticino. Qui – ed è la seconda fase del rapporto con il mio cantone – per dodici anni ho lavorato a una serie di progetti nel campo dell’edilizia scolastica e residenziale, sia da sola sia in collaborazione con altri colleghi. Oggi torno spesso in Ticino, ma quasi essenzialmente per godere di quelle amicizie e di quegli affetti (persone e spazi) che durano una vita…

  • Recentemente, in una conferenza all’ETH, ha esordito affermando che «parlare architettura» è più facile che «parlare di architettura». Premesso che sono convinta che lei sappia fare molto bene entrambe le cose, quali sono state le tappe più significative della sua attività?

Negli anni ’60 si viveva in un clima particolare, pieno di entusiasmi e di utopie. Lavorare nell’edilizia scolastica significava anche essere coinvolti in un grosso processo pedagogico, e quindi politico, che mediavamo attraverso la nostra unica arma: l’architettura, a cui allora attribuivamo un ruolo strutturale, convinti che anche attraverso il discorso architettonico si potesse cambiare il mondo. Ciò comportava prese di posizione, polemiche, spesso anche rischi economici. Di quel periodo vorrei menzionare i progetti dell’asilo di Chiasso, della scuola di Riva S.rVitale e dell’asilo di Viganello. Agli anni ’70 appartiene invece una realizzazione molto discussa, il bagno pubblico a Bellinzona, in collaborazione con Galfetti e Trümpy, che è stato in pratica il mio intervento conclusivo in Ticino. Nel ’75 mi sono trasferita a Roma, dove ho vissuto per un decennio, e questa esperienza ha soddisfatto una mia ansia di uscire dai confini della Svizzera, di confrontarmi con altre realtà che mi portavo dentro dall’adolescenza. Roma è una città che comunque non può lasciare indifferenti, incide a fondo. Vivere a fianco di tanti esempi di splendida armonia architettonica, stratificati in duemila anni di storia, è un continuo stimolo: e in confronto aiuta anche a ridimensionarsi, riducendo le ambizioni. Purtroppo a Roma, quando si tratta di produrre praticamente (mi occupavo soprattutto di progetti residenziali e di recupero nel meridione), il discorso si fa complesso, ci si scontra con difficoltà di ogni genere, dalle preesistenze archeologiche, ai vincoli normativi, alle pastoie politico-legali, a un’inerzia atavica che rende tutto più difficile, ma comunque sempre coinvolgente e in qualche modo possibile.

Nell’85 mi è stata offerta la cattedra di Progettazione all’ETH di Zurigo, e ho accettato con qualche titubanza ma soprattutto con curiosità. Una scommessa! L’impegno didattico mi assorbe moltissimo, più del previsto, ma cerco di non trascurare il mio lavoro più propriamente pratico, confrontandomi e verificandomi continuamente con esso. Solo così penso sia possibile travasare onestamente qualcosa di proprio nell’insegnamento quotidiano; è facile altrimenti farsi spremere come un limone, e rimanere a secco…

  • Il lavoro di uno scrittore, di un pittore, è reso inconfondibile da stilemi personali, da segni di riconoscimento. Qual è il tratto che più caratterizza le sue opere?

Penso faccia stato la storia: gli infiniti esempi noti e meno noti che ci precedono costituiscono la linfa del nostro lavoro di «ricerca paziente». Evidentemente tra essi emergono figure che ci sono più consone e ci accompagnano costantemente allargando ( ma in qualche modo anche limitando, con le necessarie esclusioni) il repertorio di riferimento. È probabile che chi guarda un mio disegno, osserva una mia realizzazione, riesca a individuare una verità che mi appartiene. Anche se un architetto non è mai del tutto autonomo nel suo lavoro, deve rispondere delle sue scelte a un committente, ed è vincolato da precisi limiti e condizioni da rispettare… L’architettura è cambiata pochissimo, eppure è databile: ecco, il tentativo è quello di rispondere ai problemi di oggi con i mezzi di oggi, in un linguaggio attuale, vivo.

  • Esiste una specificità femminile nell’architettura?

Ci credo poco. In ciò che risulta dal lavoro direi di no: alla fine il progetto è lì, «in carne e ossa», o sulla carta, e il suo valore o il suo livello si giudica in assoluto, senza distinzioni di sesso. Esiste, invece, un modo diverso di lavorare: la donna è più insicura, quindi più capace di recepire positivamente la critica e di rimettersi in discussione, proprio perché da poco è arrivata a questo stadio produttivo. In genere non pretende di lasciare la sua traccia, le basta lasciare una traccia, senza avere la pretesa di inventare nulla. Inoltre c’è una grossa differenza nel gestire il proprio privato, che è indubbiamente più complesso e dispersivo per una donna che per un uomo, soprattutto nei riguardi della famiglia, della routine domestica…

  • Ci può illustrare la novità e il significato di questa mostra basilese che la vede tra i promotori?

La preparazione è stata un’esperienza piacevolissima per me – la prima di lavoro tra sole donne. Tre età, tre culture, tre stili, e nessun conflitto! Ci siamo poste l’obiettivo di comunicare, attraverso la manipolazione dello spazio concesso, alcuni aspetti indotti e/o congeniti della donna oggi, nei suoi ruoli diversi e compresenti, nel tentativo di lanciare al visitatore (senza distinzione di sesso) una provocazione a reagire, in bene o in male, forse a riflettere… La mostra è tutta lì da vedere, fino alla fine di giugno. È iniziata per caso il primo di aprile…Un pesce?

«Agorà» (Svizzera), 10 maggio 1989

INTERVISTE

SAYA

Pubblicare un libro di poesie: intervista all’editore Marco Saya
 MARCO SAYA, EDITORE E POETA

 

Le edizioni Marco Saya, attive a Milano dal 2012 (www.marcosayaedizioni.net), si occupano prevelentemente di pubblicare e diffondere poesia. Ecco un’intervista all’editore.

 

  • Brevemente, qualche cenno alla sua biografia.

Un passato da informatico e una vita parallela presente che trascorre tra un grande amore per il jazz, la scrittura poetica e una neo casa editrice. Sono nato a Buenos Aires. A tre anni sono stato dirottato a Rio de Janeiro, prima di approdare definitivamente a Milano a dieci anni. Dopo il diploma al liceo classico Giovanni Berchet e una lunga frequentazione universitaria presso la facoltà di Ingegneria Elettronica, mi sono dedicato per anni al jazz come chitarrista professionista, alla poesia con diverse pubblicazioni e alla collaborazione con numerosi siti letterari.

  • Quando e spinto da quali motivazioni ha aperto la sua casa editrice?

Ho aperto la casa editrice nel gennaio del 2012. Perché? Premetto che sono un editore che non chiede contributi all’autore. Normalmente sono sempre i soliti noti che pubblicano con i soliti editori nel solito scambio di figurine, tralasciando tutto un mondo di altrettanto ottimi poeti, spesso esclusi dal mercato dello scambio delle figurine. Non si tratta dunque di incrementare il numero di player nel catalogo della Panini, ma di dare voce a chi merita di essere selezionato e pubblicato secondo alcuni parametri in parte soggettivi, legati a un gusto personale, in parte indirizzati all’individuazione di un’univocità e ricerca della scrittura poetica che non sia omologata come tantissima poesia del 900. È inutile aprire una casa editrice che sia una copia sbiadita di tante altre, deve esistere per tutti la possibilità di dare voce a una creatività che non sia solo “imprenditoriale”!

  • Quali difficoltà trova oggi, sul mercato librario, un editore che si occupi principalmente di pubblicare poesia?

La prima difficoltà riguarda la distribuzione, ma è anche vero che sono pochissimi i lettori di poesia e dunque questo potrebbe essere un falso problema. Semmai ci dobbiamo domandare come poter incrementare il pubblico dei lettori. Personalmente mi affido e mi trovo bene con i distributori online. Per un editore il conto vendita presso un libraio non è, di questi tempi, un buon affare. Il libro, poi, si vende solo nel caso di una presentazione ben organizzata, e sottolineo il “ben organizzata”.

  • Qual è il suo giudizio sulla produzione poetica italiana attuale? Perché la poesia riscuote così poco interesse tra i lettori?

La poesia dovrebbe anche arrivare al lettore/lettore e non solo, come spesso avviene, al lettore/autore. Troppi scrivono e pochissimi leggono: e chi scrive, quasi sempre, non legge gli altri. Nei primi sette mesi di quest’anno sono usciti circa 2000 titoli di poesia. Come è possibile, a questo punto, giudicare la produzione poetica attuale? Aggiungo che, secondo me, manca anche una critica (a parte qualche rara eccezione) che sappia discernere e voglia indicare nuove vie. Spesso si preferisce rimanere nei tradizionali orticelli dei già collaudati. Come editore pubblico solo 12 titoli all’anno, sperando così di poter dare una buona visibilità all’autore/autrice tramite una serie di presentazioni: l’unico modo, a mio avviso, di far conoscere e promuovere degnamente un autore. Poi, come sempre, sarà il tempo e un lettore attento a decidere se l’editore avrà operato delle scelte che caratterizzino la poetica di quel determinato scrittore.

  • Lei scrive versi. Cosa ha pubblicato finora e quali sono i poeti che sente più vicini alla sua sensibilità?

Ho pubblicato diverse raccolte, l’ultima dal titolo Filosofia spicciola nel 2014. Amo soprattutto Montale e la sua ironia presente in parte della sua vasta produzione, e poi il suo modo di intendere la poesia come “filosofia dell’esistenza”, le risposte che suggerisce discretamente alle eterne domande, al quid irrisolto che ci accompagna nella nostra fragile consapevolezza umana. E poi Ungaretti, Zanzotto, Caproni, Fortini…Ma sono tanti i poeti che amo.

  • Concluda questa breve intervista con un suo verso che le stia particolarmente a cuore.

Basterebbe una sola poesia, / quattro versi che possano girare il mondo / con le proprie parole. / Di questo si tratta, / scrivere questi quattro versi.

 

© Riproduzione riservata     www.sololibri.net/Pubblicare-un-libro-di-poesie.html

3 settembre 2015

INTERVISTE

SIMONELLI

MARCO SIMONELLI, POETA E PERFORMER
Intervista a Marco Simonelli, poeta, traduttore e performer
Marco Simonelli, poeta, traduttore e performer, è nato nel 1979 a Firenze, dove vive. Ha pubblicato diverse raccolte di poesia. Tra le più recenti: “Will. 24 Sonetti” (2009), “L’estate sta finendo” (2011), “Il pianto dell’aragosta” (2015). Nel 2012 Firenze Mare è apparso in “Poesia Contemporanea, XI Quaderno Italiano”.

 

  • Cosa ci puoi raccontare dell’ambiente in cui sei nato, ti sei formato culturalmente, e in cui oggi vivi e lavori?

Ho avuto la fortuna di avere due genitori che, fra le altre cose, mi hanno sempre incoraggiato a leggere. Culturalmente mi sono formato in una Firenze perennemente post-ermetica al cui clima un po’ opprimente ho reagito per opposizione. Oggi la scena letteraria fiorentina è animata soprattutto da narratori; i poeti, seppur affiatati, sono un po’ più defilati.

  • Attraverso quali letture e incontri ti sei avvicinato alla poesia?

Ho iniziato a leggere poesie da adolescente: dai maledetti francesi passai ai beat americani e ai futuristi russi, tipiche letture un po’ ribelli. Frequentavo altri giovani poeti, organizzavamo serate di letture a microfono aperto che in poco tempo divennero molto popolari. Era un’epoca pre-internet e per noi l’incontro era fondamentale: ci scambiavamo libri ed esperienze. Un incontro decisivo per me fu quello con Mariella Bettarini e i libri della sua casa editrice Gazebo: fu lei ad introdurmi alle tecniche di revisione di un testo poetico, mi insegnò il cosiddetto labor limae. Tramite Mariella entrai in contatto con poeti fiorentini di poco più grandi di me: Massimiliano Chiamenti, Elisa Biagini, Rosaria Lo Russo.

  • In che relazione si trovano la tua produzione poetica, quella di performer teatrale e l’attività di traduttore?

Si tratta di un rapporto di interdipendenza: la traduzione e l’interpretazione vocale di testi altrui è nutrimento fondamentale per la mia scrittura. A tutt’oggi, l’unico sistema che ho per valutare se un mio testo è riuscito o meno, è quello di leggerlo ad alta voce.

  • Quale dei tuoi libri ha avuto più successo, a quale sei più legato emotivamente, e a cosa stai lavorando adesso?

Direi “Sesto Sebastian”, un monologo drammatico del 2004 sul martirio di San Sebastiano che costituì per me un coming out in versi. È stato ristampato di recente in “Poesie d’amore splatter”, un’antologia dei miei testi più “performativi”. In questo periodo sto lavorando ad una nuova raccolta intitolata – per ora – “Le buone maniere” e si ispira ad una tradizione letteraria che da Bonvesin de la Riva e Giovanni Della Casa arriva fino a Donna Letizia: è una riflessione sulle regole del vivere civile aggiornate alla violenza dei nostri tempi.

  • Leggendoti, sembra che sulla tua scrittura agiscano influssi non solo letterari, ma anche – e forse soprattutto – cinematografici e musicali. È un’impressione esatta?

Sì, lo è: in realtà ciò che mi ha sempre affascinato è la contaminazione fra forme espressive di differente provenienza. Sono dell’opinione che un testo poetico possa e debba essere in grado di esprimere il tempo in cui vede la luce. Io sono nato nel 1979, la mia è stata un’infanzia prettamente televisiva. Nel 2007 realizzai un libro, “Palinsesti”, interamente costruito sfruttando la carica mitologica (e quindi anche comunicativa) dell’immaginario televisivo degli anni ’80. La mia intenzione era quella di creare un canzoniere che fosse anche un peana generazionale per la fine dell’infanzia. L’operazione puntava al riciclaggio di un immaginario sporco, innescava nel lettore coetaneo una sorta di riconoscimento immediato seppure surreale. Dal 2010 in poi la mia scrittura tenta di avvicinarsi all’altro in maniera più decisa e per raggiungere questo risultato mi avvalgo anche di tecniche narrative. La metrica poi, che per sua stessa natura interferisce coi processi mnemonici, cerca di mimare, nel suo costituirsi in strofe, vere e proprie inquadrature la cui dinamica viene impressa tramite il ritmo del verso.

  • Dai tuoi versi traspare un’adesione vivace, quasi fisica, alla vita in ogni sua manifestazione. Una partecipazione gioiosa e ironica a tutto quello che ti accade intorno. Vivere, amare, osservare, rincorrere la felicità, è più importante che scrivere. Giusto?

Direi che senza una naturale curiosità per le realtà che ci circondano e che incrociamo quotidianamente, difficilmente si arriva a scrivere qualcosa di valido. In qualsiasi corso di scrittura creativa, una delle prime lezioni che si apprendono è «Scrivi di ciò che conosci». Noi iniziamo a conoscere le cose nel momento in cui stabiliamo un contatto, nel momento in cui iniziamo a confrontarci con esse. Da questi contatti può accendersi la scrittura che a volte segnala solo l’inizio di un percorso di indagine: ciò che la scrittura scopre in genere è una vasta complessità in cui è facile (ma in fondo anche utile) perdersi.

 

© Riproduzione riservata

www.sololibri.net/Intervista-a-MarcoSimonelli.html    11 novembre 2016

INTERVISTE

SQUIZZATO

 GILBERTO SQUIZZATO, REGISTA E SCRITTORE

Gilberto Squizzato si racconta in quest’intervista.

  • Qual è stata la tua formazione culturale (studi, letture, maestri…), e radicata in quale humus ambientale?

Durante il liceo classico (frequentato in una media città di provincia benestante e borghese quasi come un intruso, dal momento che venivo da una modesta famiglia di operai, soffrendo pertanto il disagio dell’inferiorità economica e sociale, a cui reagivo trovando risarcimento negli ottimi risultati scolastici che mi consentivano di primeggiare sui pigri e demotivati figli del ceto dominante) ebbi la fortuna di avere come docente d’italiano uno splendido professore che fremeva di passione civile nell’introdurci al mondo della letteratura. Le sue memorabili ed estasianti (per me) lezioni su Dante, ma anche le emozionanti escursioni che andavano dal Gilgamesh sumero al mondo proto-biblico, fino a giungere alla contemporaneità uscita dalla Resistenza che egli aveva vissuto nelle sue Langhe sature di echi letterari, da Pavese a Fenoglio, mi aprirono all’orizzonte prima neppure immaginato degli studi letterari e, fatalmente, anche filosofici e teologici.
L’altra mia fortuna, da bravo ragazzo di Azione Cattolica che ero, fu quella di non iscrivermi alla Cattolica (allora dominata da una stantia neoscolastica uggiosa e pretesca) per inseguire un amore giovanile risoltosi nel nulla, che mi fece però il dono di precipitarmi un quel crogiolo fervido di passioni che era la Statale di Milano negli anni dal ’68 al ’73. Era la Statale in cui si era dovuto trasferire Mario Capanna cacciato dalla Cattolica, ma era anche un laboratorio superlativo di pensiero critico e di consapevolezza politica e civile: Pochi altri, se non i miei compagni di allora, ebbero la fortuna di avere come maestri, tutti in una volta, e di persona, personalità come Paci, Cantoni, Fergnani, Rovatti, Dorfles, Catalano, Berengo, Salinari, Antonielli, Ferrero, Brizio, Cazzaniga, Gambi, Rosci… Era il gotha della cultura italiana di quegli anni, lì riunito per singolare congiuntura, ma credo anche perché Milano era il territorio fecondato da quel gran seminatore di pensiero marxista (ma critico)
di Banfi. Ma non voglio neppure dimenticare che quelli gli anni in cui si studiavano Sartre, Althusser, il Freud di Musatti, Laing, Levi Strauss, Margaret Mead, Marcuse e Adorno…
Così vissi quella che credo essere stata una delle stagioni più fortunate dell’Università italiana ma anche immerso nel vortice di quel tumultuoso rivolgimento culturale e antropologico che fu il Sessantotto milanese: è in quel contesto che i fermenti di un fervore civile e politico così potente si fusero, in me, con quelli della novità prodotta nel mondo cattolico dal Concilio. Fu in quegli anni che venni in contatto con i miei autentici maestri spirituali: Turoldo anzitutto, che tuonava a Sotto il Monte ma anche con le sue poesie civili e teologiche dalle pagine della rivista Sette Giorni, e con lui Milani, Balducci, Franzoni, Mazzi, Lutte, La Valle, i tanti cattolici del dissenso (Gozzini, Masina…) che trasmigrarono nella sinistra aprendo un fecondo confronto fra le differenti antropologie che provenivano dal marxismo e dalla tradizione cristiana.

  • Cosa ti ha spinto a passare dagli studi letterari alla cinematografia?

Non ho mai abbandonato gli studi letterari (e filosofici) per il cinema, ma provai a fondere i due interessi che mi appassionavano così fortemente. Ma mi accostai al cinema non solo sotto il profilo della ricerca teorica: continuando a frequentare l’università decisi di imparare quel linguaggio sul set, diventando prima assistente e poi aiuto regista di diversi maestri, fra i quali, più che Lattuada, Argento e Monicelli, ebbi come maestro anche di politica e d’impegno civile Carlo Lizzani: lo stesso che era stato assistente e sceneggiatore di Rossellini e De Sanctis, che aveva partecipato alla Resistenza Romana, che si era formato nel primo nucleo clandestino del PCI di Trombadori, Alicata, Ingrao, che volendo diventare politico militante di professione era stato consigliato proprio dal partito a impegnarsi nella settima arte. Da Lizzani mutuai non solo la scelta per una cinematografia asciutta ed essenziale, ma anche la passione per la discussione sul linguaggio filmico letta con i paradigmi della politica, l’etica (oggi un po’ desueta) del cineasta engagé, come si diceva allora. Erano i tempi del nuovo cinema brasiliano di Rocha, di Pasolini, di Godard, per intenderci…
Finché la RAI bandì un concorso per registi destinati a operare nella neonata Terza Rete, superai la selezione e fui però assunto come giornalista: un’ottima occasione per imparare la sintesi e la tempestività nel racconto del reale. E da allora, archiviati i tre anni d’insegnamento di lettere nella scuola media superiore, mi diedi al servizio pubblico, provando a coniugare la lotta politica e la ricerca di nuovi linguaggi (docu-fiction, real-movie, fiction storica con documenti filmati autentici, ecc.)

  • Com’è nato il tuo interesse per la teologia, e in che modo ritieni di poterti definire cristiano?

Altra immensa fortuna: da ragazzo, all’oratorio, incontrai un giovane prete che piuttosto che buttarci nel campo di calcio preferiva metterci in mano la “Bibbia” e ci insegnò a studiarla.
Un’emozione violentissima e inestinguibile, che accese in me non solo l’interesse per la teologia (Kung, Moltmann, la teologia della Liberazione, Kaspers, Cullman, Schillebecx, per citarne solo alcuni, ma anche la lettura marxista del Vangelo di Belo e di Gutierrez, la demitizzazione di Bultmann, e poi via via la scuola americana di Altizer e Hamilton, il Jesus Seminar di Crossan, la teologia e l’ecclesiologia critica di base dei movimenti popolari del dissenso cattolico, per non dire di quel continente fascinoso che furono (e sono per me) gli studi biblici che incrociano antropologia, analisi delle forme, psicanalisi, storia, nuova archeologia… Un vero peccato che Massoneria italiana dell’Italia riunificata nel Regno abbia bandito dalle università italiane gli studi teologici e biblici, con il beneplacito del Vaticano che li volle rinchiudere e proteggere nei propri seminari e nelle proprie accademie (mentre in Germania, Francia, Svizzera, Stati Uniti, Olanda, paesi nordici, questi studi hanno fatto progressi enormi e abitato in profondità generazioni di coscienze. Così oggi abbiamo, in Italia, il popolo di fedeli più ignorante al mondo in fatto di Bibbia e i ceti culturali laici (di livello universitario) più digiuni di queste discipline, capaci solo di balbettare quando si cita una pagina del Vangelo e di chiudersi dentro gli schemi di un neopositivismo ottocentesco… Un disastro.
Da questo mio studio frenetico e da questo intensa esperienza dentro il laboratorio della teologia elaborata dalla base nel movimento dei cristiani critici ha preso forma il mio modo di credere, da cui sono scaturiti i tre volumi in cui ho provato, nell’ordine:

  1. a tradurre il Credo di Nicea (scritto con un armamentario concettuale e filosofico greco, ormai incomprensibile) in un linguaggio significativo oggi per i miei figli, nati e cresciuti nella cultura post-moderna, scientifica, tecnologica, digitale, nichilista;
  2. a indagare il senso più autentico della parola ambigua, abusata, maltrattata (Dio) di cui ignoriamo il significato originario, in direzione di una fede (apofatica) che rinuncia a ogni immagine del divino e preferisce il silenzio davanti al Mistero esistenziale che Gesù chiamava il Padre;
  3. a dimostrare possibile e liberante una fede laica che archivia l’immaginario religioso ormai inservibile dei millenni passati. Se sono cristiano. Sì, ma non essendo ebreo, e dunque non attendendo alcun Messia (Unto, Cristo in greco) preferisco oggi definirmi gesuano.

  • Ci puoi illustrare brevemente in cosa è consistito il tuo lavoro alla RAI? Che giudizio dai della programmazione televisiva attuale?

Prima il giornalismo, laboratorio efficacissimo per imparare a essere curiosi e preparati a indagare tutto, a provare a interpretare in tempo reale gli eventi, a costruirne una narrazione ipersintetica che obbliga a un linguaggio (visivo e verbale) preciso ed efficace. Poi il reportage e la direzione di un settimanale (Europa) che mi consentì di indagare gli ambiti più diversi (politica, storia, ambiente, società, cultura, arte…) del nostro continente. Più tardi, invitato da Guglielmi, mitico direttore della nuova RAI Tre, il “racconto del reale” in forma cinematografica, sperimentando di volta in volta anche forme di fiction sempre fedeli al reale e al dato storico. Sul collasso delle motivazioni e delle regole di un autentico servizio pubblico radiotelevisivo scrissi un saggio molto critico dieci anni fa che non bastò a mobilitare i dipendenti dell’azienda, i suoi sindacati e le aree più attente e consapevoli del Parlamento a una rifondazione dalle fondamenta della RAI, per sottrarla al livellamento verso il basso della qualità dei programmi e dei linguaggi, al servizio di una malintesa concorrenza con la TV commerciale. Se vuoi fare servizio pubblico NON devi inseguire il degrado e gli stilemi delle altre emittenti che hanno come scopo il profitto economico, ma fare ricerca, sperimentazione, innovazione (e informazione autenticamente libera e indipendente). Non vedo traccia, se non in qualche raro frammento dei palinsesti RAI, di queste logiche e finalità diverse e antitetiche.

  • Dopo anni di impegno come regista sei tornato alla scrittura. Con quali esiti, e quali obiettivi?

Senza mai rinunciare, in segreto, a coltivare saltuariamente le mie velleità liriche e/o di poesia civile, con il tempo mi sono reso conto del fatto che l’immagine può mostrare moltissimo, ma non riesce a dire tutto. Ci sono continenti del vissuto umano che solo la parola può provare a esplorare e raccontare. Un’affermazione forse ovvia, banale, ma è così, a pensarci bene. Pasolini (maestro supremo nella narrazione per immagini) non abiurò mai alla parola del verso, del romanzo, del saggio.
E così, sempre in segreto, mi sono scoperto bisogno di racconti romanzati, che mi hanno dato la soddisfazione di scoprire anche l’amore per la parola narrativa. Se e cosa valgano questi miei romanzi, proprio non lo so. Ci sarà pur un motivo se sono tuttora inediti.

  • Attualmente insegni al Centro Sperimentale di Cinematografia di Milano. Pensi che esistano in questo ambito possibilità concrete di lavoro e di successo per le generazioni più giovani?

Oh, certo, se vuoi diventare un ciarlatano (o un prestigiatore) del video, le occasioni sono immense. Le TV e la rete non chiedono (quasi) altro. Se poi teniamo conto delle prodigiose possibilità espressive fornite oggi dalle camere digitali ad alta definizione e dai programmi di montaggio che offrono un repertorio illimitato di effetti digitali, allora le chance risultano sconfinate. Se invece vuoi indagare seriamente il reale, scrivere cinematograficamente un racconto dignitoso, sperimentare nuove scritture, gli spazi di manovra si restringono enormemente.
Soprattutto si è persa, in Italia, un’autentica scuola di sceneggiatura filmica e televisiva. La TV del talk show è diventata in sostanza radio filmata in diretta, e il nostro cinema non può che guardare con rimpianto allo spessore narrativo e alla sapienza di altre stagioni che fecero la grandezza suprema del nostro cinema (anche quello di serie b, commedia all’italiana compresa). Oggi vediamo sullo schermo quasi solo commediole generazionali o pretenziosi esercizi di calligrafia. Ma chi sa scrivere oggi (se non pochissimi, rari autori) le sceneggiature di De Sica, Antonioni, Visconti, Petri, Scola, Rosi, Pasolini…
Sopravvive, a fatica, qualche vecchio maestro (Taviani, Bellocchio, Bertolucci). Per il resto (con l’eccezione di pochi come Sorrentino e Tornatore) chi sa scrivere cinema oggi in Italia all’altezza di quella scuola che ebbe sceneggiatori immensi (Zavattini, Sonego, Age, Scarpelli, Pirro, Benvenuti, Guerra…)?

 

© Riproduzione riservata    https://www.sololibri.net/Intervista-a-Gilberto-Squizzato.html          29 marzo 2018

INTERVISTE

TALAMO

Silvio Talamo. Un artista napoletano a Berlino

Silvio Talamo è un musicista, producer e cantautore napoletano, oggi residente e operante a Berlino. Il suo repertorio spazia tra musica elettronica e acustica, pop e techno. Come performer di successo si esibisce in teatri, trasmissioni radiotelevisive, club, festival e street stations. Ha pubblicato nel 2017 il disco Living in a Bubble, e quest’anno il libro Poesie/Gedichte in un’elegante versione bilingue delle edizioni ProMosaik.

In quale ambiente familiare e culturale sei cresciuto, e cosa di esso hai assorbito positivamente, cosa invece ti senti di rifiutare o rinnegare come zavorra e ostacolo alla tua crescita umana e professionale?

Per quanto riguarda la mia famiglia, mia madre dipingeva da giovane. Poi ha dovuto lasciare per la vista. Questa è l’unica relazione diretta che io possa trovare con la produzione artistica in famiglia. Ma quando si parla di ambiente io penserei a qualcosa di più vasto, oserei dire anche sociale. Non credo sia un momento facile per le arti e forse non lo era neanche venti anni fa, non so. Uno dei problemi che ho spesso avuto è rientrare in un genere, sembra una cosa importante per poter diffondere i messaggi. Un altro ostacolo lo troverei in  una competizione non sempre proficua, anzi addirittura debilitante sul piano della creatività. Le porte è sempre meglio aprirle… Ma se dobbiamo parlare di formazione il mio ambiente è stato più un ambiente di astrazione, con questo intendo dire che non ho fatto altro che creare connessioni tra esperienze culturali anche diverse, lontane, e me le sono portate appresso.

 

Dagli studi di filosofia a quelli musicali: attraversando quali percorsi, superando quante difficoltà e inseguendo quali miti ed esempi, sei arrivato ai risultati artistici attuali?

Ho iniziato scrivendo poesie verso la fine del liceo e il periodo iniziale dell’università. Poi insieme ad amici aprimmo una piccola associazione culturale, la sede ora a pensarci era molto “underground”, direi. Incominciammo a fare reading e poi, dopo qualche tempo, la cosa finì, ognuno prese la sua strada. Allora studiavo percussione oltre che Filosofia alla Federico II e la cosa che mi colpì fu mettere in relazione la voce, quella dell’allora lettore-performer, con la musica. Approfondii la strada del canto. Si aprirono universi nuovi e tutti risiedevano nel campo dell’oralità anche se in forme lontane. Mi interessai per qualche tempo all’etnologia e al folklore, così come alle produzioni delle avanguardie.

 

Verso dove si orienta oggi la tua ricerca musicale?

Ho scoperto le potenzialità che le strumentazioni elettroniche possono offrire. Credo che in questo ambito stia succedendo qualcosa di molto importante nel mondo. Per me il nuovo è lì: tra midi, loop, messaggi cc, onde sonore, sintetizzatori, software, sample…  È un lato che ha subito proprio negli ultimi anni una evoluzione gigantesca, a patto che il concetto di nuovo sia considerabile come una cosa interessante. Al tempo stesso continuo a usare la mia chitarra e il canto ovviamente, una strada quindi più tradizionale, in un certo senso. Mi piacerebbe sintetizzarle tutte! In fin dei conti è un lavoro sul tempo. Viviamo in un mondo dove non c’è solo compresenza di spazi culturali diversi ma anche di tempi. Il tempo si è spezzato, la sua linea è più simile ai labirinti di Borges o a qualche narrazione di fantascienza che ad un moto progressivo. Poi arriva il ritmo, il cerchio e quindi il nostro rapporto disperato con la natura. Il problema è che quando le cose vanno troppo veloci, la ruota sembra ferma, così come talvolta mi appare il nostro presente: simile a un limbo.

Oltre alla musica, ti dedichi anche alla poesia. Quali sono state le tue letture formative, e in che direzione ti poni dal punto di vista letterario? Più tradizionale o di avanguardia?

La poesia è fondamentale, quasi una salvezza. Nella mia adolescenza rimasi folgorato dal simbolismo francese. Mi piacque un certo romanticismo inglese. Ho letto con interesse le avanguardie, specialmente quella surrealista e poi la neoavanguardia italiana. Anche l’inafferrabile esperienza dell’ermetismo mi incuriosiva. Spesso si tratta di esperienze contrastanti. Ricordo i reading e le interviste che lessi di Allen Ginsberg e Gary Snyder. Mi interessava la lirica giullaresca con il suo carico di istanze antropologiche e para-teatrali. Ma il bello della letteratura è che è una materia illimitata, non finita e che risponde sempre con spessore in qualsiasi epoca o periodo storico si vada a cercare.
Posso dire che negli ultimi tempi, anche durante la stesura del mio libro, ho due autori presenti sulla mia scrivania: Dylan Thomas e le poesie di Friedrich Hölderlin. Ma sono stati importanti anche libri che non hanno direttamente una valenza, diciamo così, letteraria, nel senso proprio di letteratura. Cioè le elaborazioni sul montaggio cinematografico di Sergei Eisenstein, quello passato alla storia nella cultura popolare italiana per altri motivi, e il libro sull’alchimia di Carl Gustav Jung.
Alla questione se “tradizionale” o “avanguardia” però non saprei rispondere, non me lo domando neanche. Certo dall’Ottocento in poi le esperienze letterarie, quelle più tradizionali e quelle più di avanguardia, si sono sempre espresse attraverso una rottura, almeno quelle che interessavano a me.

 

In cosa Berlino ti ha avvantaggiato rispetto a Napoli, e come giudichi l’interesse e il calore con cui ti segue il pubblico delle due città?

Napoli è in un momento certamente migliore rispetto a quando l’ho lasciata, un buon momento che esprime anche buona volontà nel fare cose; molta vitalità nonostante tutti i problemi. Probabilmente, con il tempo, sarà portata a moltiplicare ancora più gli spazi dedicati all’espressione.  Torno a fare cose lì, quando è possibile.
Berlino è una grande città, un centro internazionale come pochi.  Qui a Berlino, che mi sembra quasi un’isola, c’è molto interesse sincero per l’arte. C’è una popolazione dove la percentuale di artisti e creativi è altissima, molti spazi per esprimersi e semplicemente la gente ascolta e non è interessata solo al puro intrattenimento. Nessuno si preoccupa se quello che fai è ordinario o no. È molto alternativa, underground. Intendiamoci, ritagliarsi uno spazio non è facile, anzi anche difficile ma al tempo stesso c’è posto per tutto. Io personalmente faccio molto. Vedremo se cambierà… Una cosa importante è che posso incontrare artisti di tutto il mondo e affacciarmi a molteplici linguaggi. Tutti vogliono fare, realizzare libri, registrazioni e spettacoli.

 

© Riproduzione riservata                    «Il Pickwick», 25 ottobre 2018