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INTERVISTE

TAU EDITRICE

Intervista a Tau Editrice: programma culturale e prossime uscite

Tau Editrice, nata alla fine degli anni Novanta, si fonda sull’obiettivo di promuovere la crescita spirituale e la formazione cristiana dei suoi lettori, ispirandosi ai valori cattolici e spirituali di san Francesco, san Benedetto e del beato Jacopone da Todi. In questa intervista, la casa editrice ci apre le sue porte, parlandoci della sua redazione, dei rapporti commerciali, del proprio programma culturale e delle prossime uscite, fino a trattare l’annosa e fondamentale questione del rapporto fra cartaceo e digitale.

Intervista a Tau Editrice: programma culturale e prossime uscite

La nostra collaboratrice Alida Airaghi ha intervistato la casa editrice TAU; per la redazione risponde Michela Serangeli. La casa editrice ci apre le sue porte, parlandoci dei rapporti commerciali, del proprio programma culturale e delle prossime uscite, fino a trattare l’annosa e fondamentale questione del rapporto fra cartaceo e digitale.

  • Quando è nata la vostra casa editrice, con quali programmi e finalità? Come avete scelto nome e simbolo di TAU?

Tau Editrice è nata alla fine degli anni ’90 grazie all’iniziativa di un piccolo gruppo di persone accomunate da un percorso di fede condiviso. Il progetto iniziale era la pubblicazione di brevi sussidi divulgativi per le parrocchie, soprattutto opuscoli da utilizzare durante le Benedizioni delle Famiglie. Da questa esperienza locale la casa editrice è cresciuta, ampliando le sue attività e collaborando con nuovi autori, fino a diffondere i suoi titoli anche a livello nazionale. Il nome e il simbolo di Tau derivano dalla lettera tau (o taw), ultima dell’alfabeto ebraico, che nella sua forma latina (Ʈ) ricorda la croce di Cristo. San Francesco d’Assisi, infatti, scelse proprio questo segno come firma e sigillo, vedendolo come simbolo di umiltà, salvezza e amore.
Questo profondo legame con il simbolo cristiano riflette la missione della casa editrice, radicata nei valori spirituali dell’Umbria di san Francescosan Benedetto e il beato Jacopone da Todi.

  • Qual è la specificità editoriale che vi caratterizza? L’esplicito riferimento al cattolicesimo che vi definisce limita le vostre scelte programmatiche a un ambito totalmente confessionale?

L’esplicito riferimento al cattolicesimo non rappresenta un limite per Tau Editrice, ma piuttosto definisce una nicchia altamente coinvolta e motivata. La nostra specificità editoriale si fonda sull’obiettivo di promuovere la crescita spirituale e la formazione cristiana dei lettori, sempre ispirati ai valori cattolici. Attraverso le nostre pubblicazioni, miriamo a contribuire alla diffusione del Vangelo e a sostenere la fede, mantenendo un forte legame con la dottrina e il Magistero della Chiesa Cattolica.
Questo impegno ci consente di produrre contenuti originali che rispondono a un pubblico desideroso di approfondire il proprio cammino di fede, senza limitarci esclusivamente all’ambito confessionale ma valorizzando al massimo il nostro orientamento spirituale.

  • Quante persone fanno parte della vostra redazione, e su quanti collaboratori esterni potete contare?

Il nostro team editoriale è composto da quattro risorse principali: due persone si occupano della redazione e del coordinamento, una gestisce la comunicazione e un’altra è responsabile della parte commerciale. Inoltre, collaborano con noi internamente tre grafici editoriali che curano la parte visiva delle nostre pubblicazioni. A questo si aggiungono le risorse che si occupano di logistica e amministrazione, garantendo un’efficace gestione operativa.
Per quanto riguarda i collaboratori esterni, contiamo su una rete di autori e altri professionisti che ci supportano nella creazione dei contenuti e nella crescita del nostro progetto editoriale.

  • Quali sono le vostre pubblicazioni che hanno ottenuto più riconoscimenti di critica e di pubblico, e secondo voi per quali motivi? E quali sono i prossimi tre titoli che avete in cantiere?

Tra le nostre pubblicazioni che hanno ottenuto maggiore riconoscimento, sia dalla critica che dal pubblico, spiccano quelle di alcuni autori di punta come Luigi Maria Epicoco, Franco Nembrini e Francesco Cristofaro. Questi scrittori sono considerati dei veri e propri punti di riferimento e non solo per l’editoria cattolica. Le loro opere hanno riscosso un grande successo per la capacità di unire profondità spirituale e chiarezza espositiva, rendendo i temi religiosi accessibili a un vasto pubblico.
Oltre a questi autori affermati, siamo orgogliosi di supportare tanti altri scrittori, più e meno emergenti, che stanno portando avanti percorsi significativi in libreria. Crediamo fermamente nella nostra vocazione di far crescere questo tipo di autori e di accompagnarli nel loro percorso editoriale.
Per quanto riguarda i titoli in uscita, abbiamo in programma entro la fine dell’anno tre libri di grande interesse:

  1. Un libro testimonianza di Claudia Koll, che promette di toccare profondamente il cuore dei lettori attraverso la sua esperienza di fede.
  2. Un manuale di psicologia spirituale per la gestione della crisi di coppia, un progetto innovativo e curioso: un libro double face, per lei e per lui, scritto da venti influencer cattolici sotto la supervisione di una stimata psicoanalista.
  3. Il Testa di Catto, un’opera narrativa ironica e dissacrante ma rispettosa, che esplora con umorismo e talento le curiosità della Chiesa cattolica, scritto da un gruppo di giovani autori talentuosi.
    Siamo entusiasti di queste prossime uscite e crediamo che possano incontrare l’interesse e l’affetto dei nostri lettori.
  • Attraverso quali canali preferenziali riuscite a pubblicizzare i vostri prodotti, e che traguardi vi proponete di raggiungere, a livello di mercato e di incidenza culturale?

Per pubblicizzare i nostri prodotti utilizziamo principalmente i social network e il web, che ci permettono di raggiungere un vasto pubblico in modo immediato e coinvolgente. Inoltre, le ospitate e le interviste con i nostri autori sui principali media di settore rappresentano un canale fondamentale per far conoscere le nostre pubblicazioni. Anche il punto vendita stesso si rivela un ottimo strumento di comunicazione, in quanto permette un contatto diretto con il lettore.
I traguardi che ci proponiamo di raggiungere a livello di mercato includono un consolidamento della nostra presenza nelle librerie e una crescente diffusione dei nostri titoli online.
Dal punto di vista culturale, miriamo a diventare un punto di riferimento per chi cerca contenuti che promuovano la crescita spirituale e la riflessione cristiana, contribuendo così all’arricchimento del dibattito culturale nel nostro Paese.

  • Vi ritenete più o meno ottimisti riguardo al futuro del libro (cartaceo o digitale) nel nostro paese, dato che la lettura è sempre più minacciata da altri e più aggressivi mezzi di comunicazione?

Anche se ci verrebbe da rispondere in modo pessimistico, osservando che la gente sembra leggere sempre di meno, in realtà i dati più recenti dell’AIE ci indicano che il settore editoriale è in crescita: si vendono più libri. Quindi, c’è effettivamente chi continua a leggere, o perlomeno ad acquistare libri (se poi li legga o li usi per fermare la porta, questo non possiamo saperlo!).
Il dato più interessante, però, riguarda i canali di vendita: il settore online sta superando le librerie fisiche e questo è un vero peccato. Le librerie sono luoghi di incontro, luoghi da visitare, in cui sostare, in cui soffermarsi, magari senza avere un’idea precisa di cosa si stia cercando. E poi, come per magia, trovare il libro che proprio si stava aspettando. Tutto questo non c’è nelle vendite online, e questo limita molto anche le occasioni di vendita e di contatto con il pubblico.
Siamo comunque ottimisti riguardo al futuro del libro cartaceo rispetto al digitale. Il cartaceo è un oggetto da vivere: si sottolinea, si consuma, si regala ed è parte di un’esperienza più tangibile e coinvolgente che, a nostro avviso, continuerà a trovare il suo spazio e la sua importanza nel mondo della lettura, a discapito del libro digitale che, probabilmente, resterà prerogativa della scolastica.

INTERVISTE

VALIGIE ROSSE


 
INTERVISTA ALLA REDAZIONE DELLA CASA EDITRICE “VALIGIE ROSSE”

Nata dal premio musicale intitolato al cantautore Piero Ciampi, la casa editrice Valigie Rosse è ispirata da un progetto audace e coraggioso: ricercare originali voci poetiche, italiane e straniere, di cui valga la pena amplificare la voce attraverso volumi che associano alla grande cura editoriale una stampa di particolare pregio.
Le pubblicazioni della casa editrice Valigie Rosse, oltre a plaquette di poesia, accolgono anche opere di narrativa, graphic novel e volumi che raccolgono testimonianze di storie vere e di progetti culturali.

  • Quando e dove è stata fondata la vostra casa editrice, per iniziativa di chi, e con quali motivazioni e finalità?

Valigie Rosse, prima che come editore, nasce come collezione di libri. Valigie Rosse è infatti il nome della sezione di poesia del famoso premio musicale intitolato al cantautore livornese Piero Ciampi. Nel 2010, in occasione del trentennale della morte dell’artista, Riccardo Bargellini (grafico), Valerio Nardoni (traduttore) e Paolo Maccari (studioso e critico letterario) presentano al premio un progetto molto proteso nel futuro: una collezione di libri, che potesse un giorno diventare una casa editrice.
Il nome di Piero Ciampi è legato soprattutto alla qualità dei suoi testi e della sua personalità fortemente poetica, indipendente, legata alla concretezza, mai aulica eppure delicata. La collezione di Valigie Rosse nasce dunque come ricerca di poeti di cui – a nostro avviso – valesse la pena amplificare la voce. Non viene premiato né un esordiente né un poeta già affermato, il premio Valigie Rosse – se così si può dire – è una sorta di primo premio alla carriera. Ogni anno vengono premiati due poeti, uno italiano (di cui si pubblica una plaquette inedita) e uno straniero, che viene per la prima volta tradotto in italiano.
Il progetto, di carattere no-profit, vanta un’indipendenza assoluta, ed è stato finanziato inizialmente grazie al contributo di 30 amici, a cui fu fatta questa promessa: dato che abbiamo coperto le spese, impiegheremo i proventi delle eventuali vendite nella pubblicazione del secondo libro… che vi regaleremo entro Natale. Così fu: oggi la collezione è composta di quattordici libri ed è un grande onore che sia stata segnalata sul numero 50 della rivista Testo a Fronte.

  • Quante persone collaborano al vostro progetto?

La redazione è attualmente composta da sette persone, che vi si dedicano spassionatamente: Riccardo Bargellini, Lisa Cigolini, Valerio Nardoni, Tiziano Camacci, Alessio Casalini, Silvia Bellucci, Tommaso Barsali.

  • Quali collane sono presenti nel vostro catalogo? Pubblicate anche ebook?

I nostri libri sono tutti stampati in offset. Alla prima collana se ne sono aggiunte altre tre: Gli asteroidi (una collana di libri di testimonianza, inaugurata con il libro di un utente del centro residenziale Franco Basaglia di Livorno, che ha richiesto due anni di lavoro); Beauty Case (di favole poetiche per bambini); e Fuoricampo (che accoglie progetti di promozione culturale, come “Ho visto il film”, dello scrittore Dario Pontuale, che contiene venti ritratti di libri). Tutte le collane sono attive ed hanno al momento un libro in lavorazione.

  • Qual è stato il vostro libro che ha riscosso più successo, di pubblico e di critica? In che modo riuscite a pubblicizzare i vostri prodotti? Le fiere e le kermesse editoriali servono, o è più efficace la comunicazione sui social?

I nostri due libri di maggior successo sono “Quando piove ho visto le rane” (2015) di Azzurra D’Agostino, e “Commiato da Andromeda” (2011) di Andrea Inglese – sono esaurite le 400 copie numerate in cui pubblichiamo i nostri libri – che proprio quest’anno è in parte confluito nel primo romanzo dell’autore “Parigi è un desiderio” (Ponte alle Grazie). Il successo di critica e pubblico è stato forte e immediato; anche la promozione è stata molto divertente: Andrea Inglese aveva infatti realizzato anche uno spettacolo ispirato al libro, in collaborazione con il gruppo Sara dei Vetri, che nel 2011 aveva vinto il Premio Ciampi.
Le kermesse sono senza dubbio utili, abbiamo partecipato al Pisa Book Festival per tre anni, ma i costi sono troppo elevati rispetto alle vendite, e abbiamo desistito.
La comunicazione sui social è importante ma anche inevitabilmente velata di apparenza; nel nostro caso, dato che promuoviamo progetti di libro, sono più importanti i contatti con le librerie, con i gruppi di lettura, con i promotori di iniziative culturali. Da pochissimo abbiamo inaugurato una collaborazione con la Scuola Carver, dedicata alla scrittura creativa.

  • Che tipo di difficoltà incontrate nel diffondere la vostra attività, e cosa vi augurate per il vostro futuro di editori?

Speriamo che la risposta non sembri troppo banale: i nostri problemi maggiori sono di ordine economico. La nostra motivazione (ognuno di noi fa altro nella vita) è quella di realizzare cose belle. Dal momento che ci siamo recentemente costituiti come Srls, per poter dare maggiore possibilità di visibilità e diffusione ai nostri libri, la gestione diventa molto più complessa e presuppone dei costi vivi ben superiori a quelli tipografici.
Il futuro verso cui stiamo spingendo questa attività è quello della sostenibilità di progetti culturali realmente indipendenti. Abbiamo maturato delle competenze che potrebbero permetterci questo lusso: in lavorazione abbiamo un libro bellissimo di filastrocche per bambini, di cui vorremo donare metà tiratura all’Ospedale Meyer, che l’ha già valutato ed ha concesso il patrocinio. Credo che ci riusciremo.

 

© Riproduzione riservata

www.sololibri.net/Intervista-editori-ValigieRosse.html    11 gennaio 2016

INTERVISTE

VALLORTIGARA

GIORGIO VALLORTIGARA E LA POESIA

Giorgio Vallortigara (Rovereto 1959) è professore ordinario di neuroscienze all’Università di Trento ed è stato Adjunct Professor presso la School of Biological, Biomedical and Molecular Sciences dell’Università del New England, in Australia. Si è particolarmente interessato alla cognizione numerica e alla predisposizione biologica al riconoscimento di agenti animati in vari modelli animali. È autore di più di 300 articoli scientifici su riviste internazionali e di libri a carattere divulgativo: Cervello di gallina (Bollati-Boringhieri, 2005), Cervelli che contano (Adelphi 2014), Pensieri della mosca con la testa storta (Adelphi 2021), Il pulcino di Kant (Adelphi 2023). Oltre alla ricerca scientifica svolge un’intensa attività di divulgazione, collaborando con le pagine culturali di varie testate giornalistiche e riviste.

 

 

  • Nel volume Lettere dalla fine del mondo. Dialogo tra uno scrittore che voleva essere uno scienziato e uno scienziato che voleva essere uno scrittore, pubblicato da La nave di Teseo nel 2021, lei affermava che tre attività umane le stanno profondamente a cuore oltre alla scienza: l’arte, la musica, la scrittura. Tra di esse, quale predilige con particolare partecipazione emotiva?

Senza dubbio la scrittura, anzi più precisamente la lettura. Sono un lettore vorace di romanzi ma anche di poesia. Non trovo che ci sia una differenza fondamentale con l’attività scientifica perché anche nella scienza si tratta di narrare delle storie. Certo la plausibilità della narrazione scientifica deve essere fondata sui fatti e la sua oggettività risiede nella intersoggettività delle osservazioni e degli esperimenti. La narrativa letteraria rappresenta invece un punto di vista unico e originale, quello del narratore. Forse per questo io la considero privilegiata rispetto al lavoro dello scienziato. Il tema della narrazione mi interessa anche dal punto di vista scientifico. Perché gli esseri umani sono così affascinati dalle storie? Si tratta evidentemente di un fenomeno biologico, perché è un universale della natura umana: dovunque ci sono stati esseri umani ci sono stati aedi, cantori, raccontatori di storie e poeti. La passione per le storie è ovviamente al servizio (o il sottoprodotto) della cosiddetta teoria della mente, la nostra peculiare abilità di interpretare i comportamenti degli altri individui attribuendo loro degli stati mentali (lui crede che, lei desidera che…), ma forse è anche un modo per fronteggiare la finitudine delle nostre vite. Come diceva Pessoa, «Leggo perché la vita non mi basta».

 

  • Sempre nella stessa stimolante conversazione con Massimiliano Parente, sosteneva che lo sguardo scientifico non distrugge la bellezza delle cose, ma semmai rende più consapevoli della loro ragion d’essere. Le capita di osservare un fenomeno naturale, un insetto, un albero, e soprattutto di leggere una poesia senza indagarla con la curiosità dello scienziato, ma semplicemente lasciandosi trasportare da una sensibilità di carattere sentimentale?

L’aspetto che lei chiama sentimentale in effetti è il più razionale, perché ha a che fare con l’esperienza cosciente, quindi inevitabilmente è anche quello dello scienziato. Il tipo di sguardo cui lei allude è forse quello dei sogni o della rêverie, dove è l’inconscio a farla da padrone. Lì pare essere collocata la fonte della rivelazione creatrice – che si esprima poi in un brano musicale, in un romanzo, in un esperimento scientifico o in una formula matematica poco importa. Il vero mistero, come ha notato recentemente lo scrittore Cormac McCarthy, è perché l’inconscio debba usare questi mezzi indiretti per comunicare: la metafora, l’allusione, l’immagine fugace… Non potrebbe fornirci in chiaro i suoi messaggi?

  • Scrittori e poeti: quali sono quelli a cui ritorna più frequentemente, con attenzione grata?

Sono sempre a disagio con questo tipo di domande, perché non voglio essere indelicato con qualcuno degli autori che amo scordandomi di menzionarlo. Quindi, solo perché forzato a farlo, dico due nomi: Borges per la prosa e Montale per la poesia. Perché? Forse perché tutti e due hanno «parlato» la scienza senza saperne alcunché, il che è quasi magico! Invece parlo più volentieri dei libri che ho appena letto o che ho sul comodino in questo momento. L’ultimo (e finale) McCarthy, Stella Maris (Einaudi) che è strepitoso, e la raccolta di Tutte le Poesie (Einaudi) di Giovanni Raboni, che confesso non conoscevo (“Le volte che è con furia che nel tuo ventre cerco la mia gioia è perché, amore, so che più di tanto non avrà tempo il tempo…”), ma anche ho trovato incantevole Ultima estate a Roccamare di Alberto Riva (Neri Pozza). Poi quei poeti che (inconsapevoli?) parlano a noi scienziati, per esempio Andrea Bajani in Dimora naturale che si fa neurobiologo (“In queste settimane tutti parlano / dei polpi, avrebbero il vantaggio / di un cervello non localizzato, / distribuito dappertutto. Pensavo / fossimo gli unici imperfetti / condannati dalla massa cerebrale. / Sono umani in stato terminale: / il farabutto si è metastatizzato”) o Gilda Policastro che si fa statistica matematica (“Non esce quel numero, / nessuno lo estrae: sceglie te / la statistica, il numero che sei / quando a decidere è l’ultimo crunch”). Potrei proseguire, meglio se mi fermo…

 

  • Commentando un po’ ironicamente, e da profana, il suo ultimo libro (Il pulcino di Kant, Adelphi 2023), in cui esamina approfonditamente la nascita e l’evoluzione della conoscenza nel cervello umano e animale, le chiedo se ritiene la predisposizione verso la scrittura poetica una dote innata o acquisita. Perché in alcuni adolescenti si manifesta spontaneamente, senza predisposizioni di tipo culturale assimilate in ambito familiare o scolastico, e altri invece sono totalmente sordi al richiamo della poesia?

Credo sia innata, ma ammetto di non averne le prove. Un po’ tutti questi talenti – per la musica, la matematica, la poesia – si manifestano precocemente e sovente in assenza di istruzioni specifiche. I poeti sono “nati imparati”, come si dice a Roma. Questo naturalmente non ci esime dal dovere di cercare di far accostare alla poesia i giovani a scuola e gli adulti anche altrove. Un mio collega, Emanuele Castano, uno scienziato cognitivo che si occupa degli esiti della familiarità con la lettura della narrativa letteraria di contro a quella di intrattenimento, ha mostrato come nel primo caso si affini sensibilmente la nostra capacità di cogliere e leggere gli stati mentali degli altri. Però c’è qualche controindicazione, perché non necessariamente questa acutezza psicologica rende più felici le nostre vite personali. I poeti lo sanno.

 

  • Ci può citare qualche verso che ricorda a memoria?

Nulla di terribilmente originale, ma tutte le mattine quando, passeggiando, specie in autunno, mi capita di avere il barbaglio dei raggi del sole negli occhi, mi viene automatico di recitare Montale: E andando nel sole che abbaglia / sentire con triste meraviglia / com’è tutta la vita e il suo travaglio / in questo seguitare una muraglia / che ha in cima cocci aguzzi di bottiglia. Oppure, per immaginare di essere fieramente un uomo del Mezzogiorno anziché sommessamente tridentino, con accento imbarazzante recito senza cantarlo il testo di Luna Rossa di Vincenzo De Crescenzo: Vaco distrattamente abbandunato / ll’uocchie sott’ ‘o cappiello annascunnute / mane ‘int’ ‘a sacca e bávero aizato / Vaco siscanno ê stelle ca só’ asciute.

 

 

© Riproduzione riservata             «Gli Stati Generali», 17 novembre 2023

 

INTERVISTE

VENTRE

Cinque domande a Daniele Ventre

 

DANIELE VENTRE, POETA E TRADUTTORE

 

Daniele Ventre è nato a Napoli nel 1974. Nel 2010 ha pubblicato una versione dell’Iliade, che ha vinto il premio Marazza per la traduzione poetica. Nel 2012 è uscita il suo libro di versi  “E fragile è lo stallo in riva al tempo”. Fa parte della redazione del blog letterario Nazione Indiana.

  • Da quale realtà familiare e ambientale proviene e in che modo tale realtà ha influenzato le sue scelte culturali?

Provengo da una famiglia di insegnanti. Ovviamente, la presenza di una biblioteca piuttosto cospicua e fornita ha orientato i miei interessi piuttosto presto.

  • Che studi ha fatto e dove? Ha avuto esperienze formative anche all’estero?

Ho studiato e conseguito il dottorato all’Università degli Studi di Napoli; non ho avuto esperienze formative all’estero. Un’ anomalia nel “pedigree” del versificatore tipo, ma è così.

  • Attualmente di cosa si occupa, sia a livello professionale, sia per ciò che riguarda la sua produzione letteraria?

A livello professionale, insegno lingue e letterature classiche nei licei. Per quanto riguarda la mia produzione, lavoro ora per lo più sulla traduzione di Virgilio: sto inoltre riordinando alcune raccolte di poesie, fra cui testi in dialetto e in lingue morte, e sto cominciando a raccogliere materiali per un romanzo in prosa.

  • Quali sono le sue pubblicazioni più recenti e da quali poeti (classici e moderni) ritiene di essere stato più influenzato?

Recentemente è uscito un mio romanzo in versi, “Verso Itaca”, riscrittura del mito di Telègono, figlio di Odisseo e di Circe. Il libro mi è stato commissionato dalle Edizioni d’if, per cui uscì nel 2012 la mia prima raccolta di poesie. Un poeta che per me agli esordi ha contato molto è stato Gabriele Frasca. Quanto ai classici, dobbiamo mettere in conto tutta la poesia antica greca e latina; nel mare magnum delle letterature, un ruolo peculiare rivestono per me le epiche medievali dall’area ibero-romanza all’area slava, il teatro tragico francese classico, Baudelaire, Verlaine, Rimbaud e più ancora Mallarmé e ovviamente Eliot e Pound; pochi autori del secondo Novecento americano (Beat generation) e francese/francofono (Luca); la tradizione italiana fino al primo Novecento, e nel Novecento in specie Montale, le neoavanguardie & dintorni (Fortini, Sanguineti e Pagliarani, più che Pasolini), Luzi, il tanto (inopportunamente) disprezzato Quasimodo, Gatto o Sinisgalli, Zanzotto e Giudici; importantissimi sono stati per me anche Michele Sovente e Emilio Villa. La domanda è spinosa; gli incontri nella lettura di poesia sono molteplici e tutti influenti: un elenco che li comprenda rischia di suonare pletorico, monco, ridicolo. Per di più io diffido, quando si dice: “Trovo che Omero o l’Erodiade di Mallarmé o le poesie di Kavafis o gli esametri di Scialoja o Omeros di Walcott (cinque testi per me imprescindibili) siano il mio incunabolo”. L’esperienza di chi lavora sui versi è un’esperienza di lettore di versi. Di molti versi. Di un multiverso di versi.

  • Qual è il suo giudizio sulla poesia contemporanea italiana? Quali sono i nomi che considera più rilevanti e in che modo pensa si possa aiutare maggiormente a diffondere l’interesse per la poesia?

La poesia contemporanea italiana è piuttosto vitale, perfino nelle sue pulsioni suicide. Per diffondere l’interesse verso la poesia, sarebbe opportuna la creazione di una rete stabile, di una rete vera, meno vittimismo, meno autoritarismo residuale. Quanto ai grandi nomi, sono restio a farne, visto che le classifiche suscitano risentimento. Dirò che per me sono importanti personalità che appartengono a ambiti assai differenti: penso a Mariagrazia Calandrone, Antonella Anedda, Andrea Inglese, Marco Giovenale, Gilda Policastro, Michele Zaffarano, Andrea Raos, Lidia Riviello, che pure sento meno vicini alla mia maniera (alla quale alludo per mera necessità di orientamento), a Gabriele Frasca e Franco Buffoni; a poeti più in vista, come Franco Marcoaldi e Franco Loi; a poeti più defilati come Roberto Carifi, Mariano Bàino, Mimmo Grasso, Ariele D’Ambrosio, Bruno di Pietro, Viola Amarelli, Bruno Galluccio, Franz Krauspenhaar, Mariapia Quintavalla, Roberta Durante, Ferdinando Tricarico, Eugenio Lucrezi, Claudio Finelli, Carmine de Falco, Giovanna Marmo… Un altro canone umorale in ordine sparso.

 

© Riproduzione riservata     www.sololibri.net/Cinque-domande-a-DanieleVentre.html   10 febbraio 2016

 

INTERVISTE

VILLATICO

INTERVISTA A DINO VILLATICO

Dino Villatico (Roma, 1941), dopo aver trascorso l’adolescenza in Argentina, si è laureato in lettere a Roma, perfezionando gli studi musicali da autodidatta. Si è dedicato all’insegnamento di italiano e latino nei licei, e di storia della musica nei conservatori. Per 45 anni è stato critico musicale del quotidiano “La Repubblica”. Oggi collabora a “Il Manifesto” e a diversi blog online. Ha da poco pubblicato presso l’editore Giuliano Ladolfi il volume di versi Ecografia di un congedo. Dal 2013 vive a Fiano Romano.

 

In quale ambiente familiare e culturale è nato e cresciuto, e in che misura tale ambiente è stato    determinante per le sue scelte di studio e di lavoro?

 Sono nato a Roma, giusto 80 anni fa, e mi sembra ieri che bambino assistevo al bombardamento dell’aeroporto di Centocelle.  Mi sembravano fuochi di artificio. Un contadino mi trasse dentro casa. Eravamo andati a procurarci cibo alla borsa nera. Poi da quella visione si sviluppò invece la paura del rumore degli aerei, che durò a lungo, quasi fino al mio primo viaggio in aereo, nel 1970, verso gli USA. La mia famiglia era una bella mescolanza regionale e internazionale: mio padre napoletano, matematico, mia madre ciociara, ma di padre veneziano e madre calabrese, bisavolo scozzese. Rami della famiglia a Verona, a Parma. Fin da bambino dunque l’orecchio abituato a diverse parlate. Quando andavamo a Verona a trovare una sorella di mio nonno, facevo da interprete per mio padre che non capiva i veronesi. E anche mia zia parlava veronese. A Parma feci l’orecchio con la parlata emiliana, più tardi sarebbe stata una guida per imparare il milanese e leggere Porta. Sia mio padre sia mia madre, che aveva studiato l’arpa, amavano la musica. Mia nonna suonava il pianoforte, e ho sentito da lei, il mio primo Chopin, il mio primo Beethoven. Ma lei amava soprattutto Mendelssohn. Un suo modo, durante il fascismo, per dimostrarsi contraria alle leggi razziali. Ma l’episodio più importante della mia infanzia e adolescenza fu il trasferimento in Argentina. Mio padre era stato nominato professore di geometria analitica all’Università di La Plata, per aprire una succursale a Bahía Blanca, oggi Universidad del Sur. L’impatto con la lingua spagnola fu decisivo, mi aprì la strada ad altre lingue. Già avevo l’esperienza dei dialetti: ne capivo e parlavo tre, napoletano, romano, veneziano. Ma capivo anche l’emiliano e il milanese. In Argentina studiai, a scuola, anche l’inglese. Il francese e il tedesco vennero all’università. Intanto, tornato in Italia, al liceo avevo appreso il greco e il latino, che non ho abbandonato più. Anzi mi esercitavo a scrivere esametri latini.

 

La sua esistenza è stata segnata da due grandi passioni: musica e letteratura. Quale delle due ha privilegiato professionalmente, e in che modo si sono influenzate a vicenda?

 A Bahía Blanca cominciai a studiare il pianoforte. Che proseguii in Italia, affiancandovi gli studi di composizione. A lungo restai incerto se dedicarmi alla musica o alla letteratura. Vinse la letteratura, e non terminai gli studi musicali. Anche se in privato, da autodidatta, li completai.

 

Quali sono stati (e sono tuttora) i nomi di riferimento che più hanno contribuito alla sua formazione intellettuale e umana?

 Che domanda complessa, alla quale è difficile rispondere. Intanto musica e letteratura hanno proseguito a interessarmi con sempre maggiore insistenza. I miei idoli musicali giovanili furono Chopin e Beethoven. A 18 anni ci fu l’impatto con Stockhausen, che mi sconvolse. Era il suo primo concerto romano, forse in Italia, salii sul palco, volevo conoscerlo. Dopo anni, in un nuovo incontro mi riconobbe: sei quel pazzo che è salito sul palcoscenico a chiedermi l’autografo. Restammo in contatto. Ma ancora più radicale fu l’influsso di Boulez, di Nono, di Berio. Mi onoravano della loro amicizia. In letteratura fu decisivo l’incontro con Vittorio Sereni. Gli scrissi dopo l’uscita de Gli strumenti umani, libro che mi sconvolse. Mi rispose. E ci vedevamo ogni tanto. Ma l’impatto più forte fu, per il romanzo, con Proust, per la poesia con l’ultimo Montale, quello di Satura, per intenderci, e con Dylan Thomas. Da giovane ebbi una vera e propria passione per Alfieri. Che m’introdusse al teatro. Shakespeare! Accadde anche qualcosa di strano: Dante l’ho sempre letto come un poeta di oggi. Il suo lavoro sulla lingua mi è sempre parso un modello. La mia tesi di laurea la scrissi su un poligrafo fiorentino del ‘500, Antonfrancesco Doni, anche musicista. E scoprii il madrigale. Ma anche l’Ariosto, e il Tasso, mai più abbandonati.

 

Nello scrivere versi, ritiene incidano di più le esperienze esistenziali, con i loro contraccolpi emotivi, o invece la riflessione teorica, l’ideologia, il lavoro sui testi? 

Tutt’e due le cose. Spesso l’idea nasce da un’esperienza, un’emozione. Ma anche una lettura, un episodio politico. Non scrivo tuttavia di getto. Ho un quaderno che porto sempre con me, butto giù gi schizzi, le idee, spesso nascono già formalizzate in versi. Un tempo ero ossessionato dal sonetto. Nelle altre lingue se ne scrivono ancora. Perché gli italiani sembrano rifiutarlo? Ho scritto per anni versi liberi. Poi mi è venuto naturale scrivere endecasillabi, non devo nemmeno contare, nascono da sé. Forse ciò si deve al fatto che scrivo in versi anche il mio teatro. Non solo monologhi, ma anche monologhi. Due li ho recitati io stesso, e con successo. Emozionante recitare l’addio di Petrarca a Venezia, la sua ultima notte nella città, proprio a Venezia, al Teatro La Fenice. Era uno spettacolo della Biennale Teatro. La musica la composero alcuni miei cari allievi del conservatorio, oggi miei cari amici. Una commedia, anch’essa in versi, fu recitata al Teatro Belli, a Trastevere: Con il passare degli anni. La regia era di Marco Maltauro. Piacque. Il teatro era pieno tutte le sere.

 

Si considera debitore verso qualche poeta in particolare? La sua approfondita conoscenza di diverse lingue e culture, antiche e moderne, come ha arricchito la sua sensibilità verso la pratica di scrittura?

 Sono molti i poeti dei quali mi sento debitore. Antichi e moderni. Per esempio, Lucrezio mi ha insegnato che si può fare poesia anche con il pensiero, che la poesia non è solo, romanticamente, effusione di sentimenti. Orazio non mi piaceva da giovane, oggi lo adoro, per la sua abilità metrica e per l’uso disinvolto della sintassi. Ammiro molto la capacità costruttiva di poeta. Non a caso vado matto, come Dante, per Arnaut Daniel o per il catalano Ausiàs March e per lo stesso Dante. Ma ero ancora studente e mi colpì una poesia di Dylan Thomas composta di solo due lunghissime strofe di circa 30 versi ciascuna, in cui le rime procedono a specchio. La seconda strofa ripropone a specchio tutte le rime della prima. E sto parlando di un grandissimo poeta. Questo lavoro “artigianale” della scrittura nelle altre lingue è vivissimo. Borges scrive sonetti.  Clancier scrive bellissime chansons.

Che giudizio si sente di dare, oggi, del panorama letterario e musicale italiano contemporaneo? Quali sono le personalità che considera più rilevanti, e attraverso quali mezzi ritiene si possa incrementare l’interesse per questi due ambiti artistici?

Difficile rispondere. In linea generale la letteratura e la musica italiana di oggi mi deludono. Come mi deludono le canzoni, se paragonate a ciò che si ascolta fuori d’Italia. Per esempio quest’innografia di Battiato mi irrita. È un musicista mediocre e un poeta inesistente. Se ne parla e se ne scrive come fosse Bob Dylan, lui sì grandissimo. Così mi delude anche il cinema che si fa oggi. Ma ciò detto, esistono anche in Italia voci nuove, interessanti. Alcune pur troppo scomparse, come Ferruccio Benzoni. Sotto silenzio per decenni, ora lo si riscopre. Ci sono giovani narratori bravissimi, che non si lasciano appiattire dagli editor. Faccio due nomi a caso: Luciano Funetta e Massimiliano Felli. Ma in genere la letteratura è governata dagli editor, che tendono a banalizzare tutto ciò che leggono, con il risultato che si pubblicano romanzi tutti uguali, tutti scritti con la stessa prosa di una sciatteria che grida vendetta. Quanto alla poesia, ci si illude, in genere, che sciorinando pseudoversi, che sembrano versi solo perché si va a capo, versi banali e sciatti, si sfugga alla trappola delle neoavanguardie. Il verso libero non significa liberarsi di un ritmo. Del resto, nemmeno la prosa è senza ritmo. I veri poeti, come sempre, sono pochissimi. E ce ne sono, comunque.

 

Di cosa si sta occupando attualmente, e quali lavori inediti progetta di pubblicare nel prossimo futuro?

 Cominciamo dalla fine. Ho un romanzo, finito 20 anni fa. Il suo difetto è che il protagonista sia Aristotele. Gli editori mi rispondono sempre allo stesso modo: avvincente, scritto bene, ma troppo colto, non troverà lettori. In Francia, per Gallimard (Gallimard! Come dire Mondadori, Einaudi), Christoph Ono-dit Biot ha pubblicato un romanzo, affascinante, il cui protagonista è un filologo classico, e cita interi passi di Omero in greco. Non credo che il lettore medio francese sia più colto del lettore medio italiano (o sì?), ma l’editore gli dà fiducia. Il romanzo è tra i primi in classifica. Perché da noi non è possibile? Poi c’è una serie di racconti, due già pubblicati, ma mi piacerebbe raccoglierli in volumi. Mi si dice che il racconto non va. Poi ci sono le poesie, tante. Sto lavorando a un nuovo romanzo. Di argomento contemporaneo. Ma preferisco tacerne. Avevo in progetto anche di scrivere il processo che l’Inquisizione intentò al figlio di Monteverdi, per sua fortuna finito bene, ma che costò al padre grande angoscia, due decenni prima era stato bruciato Giordano Bruno, e non erano passati che pochi anni dal processo a Galilei. Leggendo quelle carte si è colti dallo sconforto. L’anima nera, buia, sotterranea degli italiani: delatori, bugiardi, persecutori, sempre pronti a perseguire qualcuno. Il fascismo non si è inventato niente. A denunciare il figlio di Monteverdi all’Inquisizione fu un suo compagno di studi all’Università di Bologna, che aveva scambiato libri di anatomia – allora proibiti in Italia – per libri di negromanzia. Sembra qualcosa successo ieri. Ma per il momento mi sono arenato alle pagine di disperazione di un padre. Che forse è la nostra disperazione per un mondo che sembra accanirsi proprio su chi è incolpevole.

 

© Riproduzione riservata        «Gli Stati Generali», 26 maggio 2021

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