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POESIE

LA FOTOGRAFIA

I

Dovrebbe essere contenta che

la spolvero, la sposto a centimetri,

la porto in giro per la stanza:

lei che non ha piedi, non ha mani.

Dovrebbe fare un cenno col capo,

mostrarmi che gradisce. Invece

chiara nei suoi occhi di vetro

mi rimprovera i passi la voce,

di me che posso.

 

II

 

A volte facciamo che io sto ferma

come un’istantanea appesa alla parete;

lei si muove, lava i pavimenti,

accarezza la mia bambina.

Fa come se fosse me (io che per tanto

ho ripetuto i suoi gesti).

Quando è stanca torna al suo posto,

mi lascia capire che per oggi basta.

 

III

 

Non può difendersi, né sottrarsi

agli occhi severi di chi la esamina,

la prende tra le mani come fosse una cosa,

le controlla i denti i capelli.

Sta immobile, costretta all’autodifesa

di chi si finge morto.

Io la guardo solo quando mi chiama,

appoggiandomi addosso lo sguardo

per dirmi vieni a salutarmi.

 

IV

 

È come se dicesse

non ci sono, invece c’è: è lì, tutti la vedono:

c’è. Si teme assente dopo che

ha riempito ogni atomo della sua presenza.

«Ma di chi parli? ‒ ironizza

tacendo ‒ di una che non esiste».

Però mi guarda come se

fossi io a non esistere.

 

 

In L’appartamento, “Nuovi Poeti Italiani 3”, Einaudi, Torino 1984

 

 

POESIE

LE MURA DI VERONA

Si raffredda la tua mano nella mia.
Sei proprio freddo, e pallido. Di marmo.
Mi spaventa il tuo respiro che va via
e il cuore fermo, ogni fibra in disarmo.

Mia anima, mi senti? Non fuggirmi,
non mettere alla prova il nostro bene.
Hai giurato fino a ieri di aderirmi
per sempre, mia roccia, mio lichene.

La tua bocca, adesso, le tue mani
sono quelle di un morto, non più mie.
Se verrà, lo maledico, il domani,
i suoi incubi, le sue dicerie.

Svegliati, caro, dimmi che hai scherzato.
Non ferire così i miei quindici anni,
i quaranta che avrò, ed un passato
breve, il futuro di nuovi capodanni.

Dimmi che avremo figli col tuo viso
e i miei occhi, che leggerò
in loro accennato il tuo sorriso.
In quello che diranno ti vivrò.

Sei così bello e giovane, un ragazzo.
Mio ragazzo mio sposo mio bambino,
che mi amavi col terrore di un pazzo
a cui hanno ipotecato il destino.

Sei stato la mia alba, il mio risveglio.
Puoi essere la notte, il sonno eterno?
Allora dormi, se per noi è meglio
che vivere a Verona, nell’inferno.

Ma che inferno dolcissimo è stata
questa città che ci ha fatto incontrare.
Oltre le mura della nostra borgata
non c’è mondo che ci possa salvare.

Qui c’è la piazza dei nostri appuntamenti
confusi tra la folla del mercato,
le mie rincorse, i tuoi pedinamenti
negli incontri casuali sul sagrato.

Il nostro fiume che procede lento
tra le arcate del ponte di sassi,
intorno ai campi di avena e frumento
dove tremando precedevo i tuoi passi.

Potessi rinnegarlo, io, il mio nome,
e tu tuo padre, la tua discendenza.
Riuscissimo a capire perché e come
si può sporcare anche la trasparenza.

E’ la nostra città che ci uccide,
così gentile e onesta come pare;
la gente che saluta e poi deride
chi nella vita non si sa adeguare

ai balletti agli inchini ai pregiudizi,
agli odi di borgata e di famiglia,
alle virtù esibite, ai tanti vizi
che anche il fango trasformano in fanghiglia.

Sono i potenti e le gerarchie,
i vecchi amici che ci hanno diviso
inventandosi trame, strategie,
per accerchiare il nostro paradiso.

Non è il mio amore che ti ha fatto male
ma il loro odio, la loro supponenza.
Il troppo bene non è mai mortale
come l’invidia, come la maldicenza.

I tronfi monsignori senza dio
che domani diranno la messa
non sanno quanto tu sei stato mio
senza toccarmi e con quale promessa:

ma vedi, io mi stendo qui vicino
e tengo nella mano la tua, viva,
pronta a seguirti in un lungo cammino.
Arriveremo insieme a un’altra riva.

 

In  Le mura di Verona, Lietocolle, Faloppio 1998 e in  Un diverso lontano, Manni, Lecce 2003

POESIE

LEZIONE DI SOLITUDINE

(Yo quiero estar donde estuve.
Pedro Salinas, La voz a ti debida, LIX-26)

I

Non mi trovava
mio cugino Carlo
quel pomeriggio che giocavamo
a nascondino, ed ero l’ultima
da recuperare. Gli altri
correvano per aiutarlo:
a spiare negli anfratti
del prato, nel parcheggio
vicino, tra gli alberi e la siepe.
Ma dimentica di loro
e di tutto
giacevo nel fosso
a guardare il cielo
che mi perdonava.
I bambini come matti urlavano
insulti a perdifiato,
e io tacevo.

II

Sotto il melo nell’orto
leggevo Pattini d’argento
in assoluta solitudine
e soddisfatto esilio,
immersa nella pagina
(nella polpa d’arancia
che sorbivo), se non fosse
intervenuta abietta l’inquietudine,
l’improvviso spavento
di scoprire sul tronco dell’albero
un bruco, un verme, o un millepiedi
(forse un drago per magia
rimpicciolito), così vicino
alla mia guancia, guardarmi
nudo e inerme,
ma attento e infastidito:
io colpevole di lesa maestà
e disdicevole intrusione
in domicilio, costretta
a scappare via.

III

Lo aspettavo seduta sul muretto,
e lui tra tanti pensieri appena mi guardava.
I suoi operai lo temevano:
non indossava la tuta
ma una bianca camicia,
una cravatta. Allora mi affrettavo
al suo fianco, orgogliosa.
Così alto, importante. Esplodeva
la sirena della fabbrica,
inchinandosi.
Mio dio, che mano grande
aveva mio padre! E come la mia
nella sua si sentiva sicura:
ma anche, perdendosi,
aveva paura.

IV

«È lei la figlioccia? »
chiedeva il parroco alla mia madrina.
«Così diversa dalle sorelle!» proseguiva,
e io bambina pronta alla cresima
confondevo figlioccia e figliastra,
soffocando nel cuore l’antico sospetto,
di essere figlia adottiva.

V

Il mio primo dolore
me lo ricordo bene.
A tavola, con gesto sbadato,
rovesciai l’acqua dal bicchiere,
sporcai la tovaglia,
e avevo quattro anni.
Il rimprovero della mamma
fu solo un pretesto
alle lacrime.
Non per quello piangevo,
ma per l’improvvisa rivelazione
che tutto passava e finiva:
quel pranzo, il bagnato,
la gente del mondo,
ogni aiuto futuro.
Saremmo invecchiati e poi morti
– nessuna eccezione.
Quello a cui non si deve pensare,
invece a me era venuto in mente.

VI

Non lo sapeva nessuno
in casa,
che se si guardavano le tende
del salotto dal divano
le pieghe in alto nascondevano
il profilo di un signore:
fronte, naso, mento.
Se a un soffio di vento
si muovevano,
il signore sorrideva.
Nessuno lo sapeva.
Solo io
premevo quel segreto
nel mio cuore.

VII

A Messa mi sentivo colpevole
perché non riuscivo a stare attenta,
e vagavo con gli occhi
con la mente su fiori facce affreschi,
sui ceri sottili che imploravano
una grazia a San Tommaso:
forse ogni fievole candela
misurava la vita dei fedeli presenti!
Quelle lunghe i bambini, e quella
quasi spenta la vecchia addormentata
al primo banco. Chissà poi che l’età
non c’entrasse, e invece per caso
una strana malattia,
un tremendo incidente.
Spaventata spiavo dove fosse
la candelina mia.

VIII

A scuola dalle suore,
più della maestra
e della compagna col braccio di legno
(«Tocca, non fa male, il mio risuona
e il tuo no!»), più degli odori
del refettorio o del boschetto
con la madonnina,
la mia salvezza era la finestra:
guardare fuori il cielo, sfiorare
con la bocca la brina sul vetro
appannato.
Oppure supplicare purezza nel confessionale,
«vade retro!» con sdegno al peccato
dei pensieri: perché ero una bambina
buona.

IX

Alle elementari
mi innamoravo dei ragazzini biondi,
col magone nel cuore: Silvano
che oggi fa il meccanico, Roberto
ansioso di arrivare in ritardo,
e poi Giuseppe, quello del bigliettino
(da grande ti sposo)
nascosto nella tasca del grembiule.
Li guardavo in silenzio dal mio posto,
i miei cari biondini; con tremante
emozione intuivo l’amore,
l’amore che è un dardo.

X

Con l’influenza allora
si rimaneva a letto
per una settimana o più.
Ogni tanto si affacciava alla stanza
Maria, a raccomandare pazienza:
«Mica stai per morire!»
Poi appariva lei con la minestra
in brodo, lo sciroppo,
un’altra scusa o una carezza.
Quasi quasi infermiera
e mai severa se stavo male,
con una tenerezza nella voce
che pensavo di non voler guarire:
subito dopo andava via,
e mi sentivo gesù bambina
in croce, alla sua porta chiusa.

XI

«Faccio male al lenzuolo
se lo graffio con le unghie
dei piedi, faccio male
alle giunture dei marciapiedi
se le calpesto
al suolo, faccio male
alle zanzare se le uccido,
al mio angelo custode
se non sono gentile,
alla mamma al papà
se li deludo, al mendicante
se non sono generosa.
Una cosa, per favore,
una cosa sola tra le tante
sbagliate e accusatorie
che mi salvi in eterno,
non mi porti all’inferno».

 

In Bloc Notes n. 64, maggio 2014 e in L’attesa, Marco Saya edizioni, Milano 2018

POESIE

LITANIA PERIFERICA

È ancora buio quando mi alzo
e spalanco le imposte sul sagrato,

butto ai gatti del cibo, poi scalzo
mi inginocchio a pregare, grato,

«mio Signore e mio Dio», come Tommaso
per un giorno da inventare tutto mio

(sacro per fede o dannato per caso;
rischio e peccato): purché sia io

a decidere, prego, se salvarmi
o bruciare nella colpa; io.

Chiedo davanti al letto di farmi
santo, davanti al muro bianco,

poi veloce mi lavo mi vesto, stanco
già di primo mattino, troppo presto.

Scendo le scale, scaldo il latte
e ripeto ogni pensiero ogni gesto

ogni giorno. La cucina è fredda,
è sola come me, e mi spingo «Vattene

in chiesa che è la tua casa vera».
Ma come buia gelida. Dall’altare

che preparo con candele di cera,
–  bianchi teli, acqua, vino, pane –

osservo entrare poche donne, vecchi,
sempre le stesse facce, uno spretato

pentito, con in mano fiori secchi
da infilare in un vaso, impacciato.

Poche frasi dico, all’omelia,
incoraggio a una giornata piena

di buona volontà, che sia
donata all’Altissimo, e serena.

«Mio Signore e mio Dio», chiedo
venia della mia scontentezza,

della paura, del bene che intravedo
e non so perseguire con saldezza.

Poche facce rugose mi osservano:
quanto importi a loro di Cristo,

se quello che predico serva
non riesco a intuire, e non insisto.

A messa finita si intrattengono
nei banchi, raccontandosi fatti

e misfatti del paese, escono
malevoli ma benedetti, compatti

nello scordare il cielo, il sole.
Mi fermo a scambiare due parole

col postino, col vecchio maresciallo,
su chi vive chi muore chi tradisce:

uno cambia mestiere, l’altro giallo
di invidia calunnia e ferisce.

Mi offrono il caffè nel bar centrale.
Sono il notaio, un commercialista,

l’artigiano arricchito, il dentista.
Ridono, parlano, dicono male

delle mogli degli altri, di ragazze
disperate, perdute, forse pazze.

Scommetto che non sanno più baciare,
fare una carezza, dire “amore”.

Scommetto che potrebbero tremare
se solo una gli sfiorasse il cuore

con lo sguardo, ma hanno paura;
cerco con gli occhi un po’ di azzurro fresco

di una sognata, tardiva primavera,
invece è ottobre, nebbia e brina

sui prati, già freddo da galera.
«Mio Signore e mio Dio», dov’è nascosto,

tra le nubi, gli intonaci, nel fango.
Facesse un segno, mi desse una risposta,

a me che corro, spero dispero: piango.
Ma sta zitto anche lui, e tace tutto

e non so cosa fare in queste ore
di mattina, che non c’è un lutto,

confessioni, estreme unzioni, niente.
L’oratorio deserto, anche la sacrestia.

Potrei forse trovare qualcuno all’osteria
del gallo, ma poi dicono che bevo.

Torno a casa, mi sistemo in poltrona
a scegliere brani e letture che devo

proporre alla festa della santa patrona.
Se venisse mia sorella a prepararmi

il pranzo, brontola sempre, sbadiglia
che era meglio per lei assicurarmi

un pasto caldo, un letto in famiglia.
E’ una tortura, ma intanto avrei una donna

intorno, una voce, una presenza:
invece questo vuoto, quest’assenza

a cui penso, che sfioro con mani di sogno
ad occhi aperti, somigliante alla Madonna

della prima cappella a sinistra.
Così l’avrei scelta se avessi potuto,

la mia assente dalla voce di velluto.
Mi scaldo il riso dell’altra sera,

e mangio e bevo con la tivù accesa
dopo un segno di croce fatto in fretta

con lo sguardo incollato allo schermo,
spietato in immagini del mondo

senza dio, o con un dio che è fermo,
lontano dalla vita maledetta.

«Ma muoviti, intervieni, fatti vivo.
Cosa prego altrimenti, come scuso

l’inscusabile male, il male assurdo,
se non c’è una ragione, un motivo…»

Mi addormento sul popolo curdo,
sullo Zaire e le intercettazioni.

Ho le prove delle prime comunioni
alle quattro, alle cinque l’incontro

con il gruppo degli adolescenti
(a guardarli come sono irrequieti, scontenti,

senza idee, senza scogli né slanci,
vien voglia di frustarli, o accarezzarli).

Poi di nuovo una messa, poi la cena
quasi sempre aspettando un invito

che non viene, e sulla schiena
la fatica del giorno finito.

Il rosario per poche vecchine
assonnate, per le altre beghine

così incattivite negli occhi, nei
bisbigli votivi ai defunti e agli dei.

Infine ancora solo, o finalmente;
fuori la notte e dentro, se non fosse

che in fondo al cuore, in fondo alla mente,
in un sospiro, in un colpo di tosse,

c’è quest’ansia del nulla, del tutto,
di farmi testimone di Cristo

per essere quello che voglio, che vuole,
non più quello che fingo. Sono, esisto.

Dieci minuti veri nella cappella
a sinistra, con la madonna, i santi,

il crocefisso, dieci minuti suoi.
Ed è sfiatato, è innamorato

il segno di croce che tento
«mio Signore e mio Dio», per quanto

indegno e umilissimo servo, io.
Io.

 

In Litania periferica, Lietocolle, Faloppio 1996 e in Litania Periferica, Manni, Lecce 2000

POESIE

MARTINI, PRAVO, VANONI

OMAGGIO IN VERSI A TRE SIGNORE DELLA NOSTRA CANZONE

 

MIA MARTINI

 

I

Diamantino limpido sincero

tu, almeno: terso.

Temevo non ci fossi,

scioccamente ti pensavo impossibile.

Come sei vero, invece.

Gente intorno mi chiamava illusa,

gente matta invidiosa.

Non sa che sei cielo, universo;

altra cosa da lei, altra specie.

 

II

In questa agonia a cui mi hai costretto,

attesa perpetua disattesa:

mio male, e malinconia.

Eppure vedi, aspetto, sono qui.

Voce sperata, il passo sulle scale,

obolo di presenza, carezza di pensiero.

Piccola come sono, pronta

a baciare persino la tua assenza,

l’eco del minuetto

che concedi alla mia croce.

 

III

Infine arriva, atteso,

il giorno triste dell’addio,

mio uomo minimo

che facevo grande.

Invece tanto fragile e cialtrone

mi sei crollato addosso invertebrato.

Posso, devo, voglio confessarti

(in questa nostra ultima occasione)

che è stato solo un grosso malinteso.

 

 

PATTY PRAVO

 

I

Dovessi perderti,

dovessi per ipotesi restare sola

(col cuore spaesato, con la stessa paura

di un bambino svegliato da un incubo):

me ne starei comunque

a custodire il mio bene,

il mio orfano amore.

Lo farei crescere con la cura

che si deve a una causa persa,

a una parola promessa.

 

II

Cosa potrebbe capitare,

se decidessi

di rifarmi viva…

Tutt’al più un non saluto,

tacita indifferenza, tremito

impudico delle dita:

o arriveresti allo sputo?

Abusiva presenza al tuo cospetto;

meglio evitare,

Eccellenza.

 

III

Potenza del ricordo.

Ruvida la tua giacca

mi pungeva la guancia

nell’abbraccio, noi due

appoggiati alla macchina ferma.

«Camminiamo un po’», dicevi.

Ma eri il tu di allora

o il lui di adesso?

Che idea folle replicare

il momento con uno che non sei.

La mia guancia

sulla sua giacca ruvida:

se suggerisce «Camminiamo, vuoi?»,

io taccio.

 

 

ORNELLA VANONI

 

I

Le luci, le macchine,

la sera che arriva.

Vetrine schizzate di pioggia

mi vedono riflessa, esitante

da ore.

Non verrai più, ho sbagliato

anche oggi ad aspettare.

Speranza che mi muore tra le dita,

mia vita sottomessa.

 

II

In giornate come questa

ti vengono in mente cose strane,

se tenti un bilancio che non quadra.

Fai il conto di perdite e ricavi

elenchi esperienze e delusioni

recuperi i tuoi santi e il loro dio.

Via con la testa, non senti mani e piedi,

lasci che vinca la malinconia

della morta

stagione invernale.

Speravi nel domani?

Sì, forse ci speravi,

facendoti del male.

 

III

Con lei?

Non credo riuscirai a dimenticarmi.

Da me così lontana (ha un altro passo

e un’altra voce; non ti vuole

nemmeno tanto bene).

Già ti vedo, titubante a scusarti

se ti sbagli e la chiami col mio nome,

confondi date musiche parole.

«Sono dettagli e non sostanza»

le dirai. Che scusa atroce.

 

 

 

 

Queste poesie sono un omaggio a tre Signore della nostra canzone: Mia Martini, Patty Pravo, Ornella Vanoni. I versi citati sono tratti dai seguenti testi:

Minuetto, Almeno tu nell’universo, Piccolo uomo

Se perdo te, Tutt’al più, Pazza idea

L’appuntamento, Domani è un altro giorno, Dettagli

 

 

«Il Pickwick», 4 maggio 2020

In Rime e varianti per i miei musicanti, Marco Saya Edizioni, Milano 2020

POESIE

MESI

Se marzeggia, aprileggia,
son cose che svaniranno

Carlo Betocchi, Realtà vince il sogno

 

I

La magia di un mattino
a gennaio, quando il gelo
immobilizza il fiato
e ghiacciano i vetri delle auto
in sosta. Dal cielo scolorito
di acciaio scende acqua
e nevischio; impigrito un uccello
o affamato
si apposta nell’erba
di un finto giardino,
imbiancato da un velo di brina.
Proprio lì
un operaio aspetta
sulla dura panchina,
bestemmiando l’inverno straniero
detestato.
Quando passa il suo amico
e gli fa un fischio
il ghanese si alza. Insieme
vanno via.
Fa freddo,
un bellissimo freddo perdonato.
***
II
Butterfly di paese, affronta
freddo e nebbia di febbraio
nella mattina che non la lascia sola:
sconta sotto il cappotto
un futuro destino, lo tocca
con tremore e tenerezza,
e vola col pensiero
al guaio che è successo.
Bimba dagli occhi pieni
di malia, c’è un bene piccolino
che l’aspetta.
Ma deve andare a scuola.
***
III
Nell’azzurra mattina di un marzo
medievale (ma no! era solo l’altr’anno!),
un frate poeta con sandali e saio
celebrava innamorato il suo cantico
delle creature: grato al cielo
e rapito da sé, di tutti pietoso,
saltellava per via come fosse
su un prato. Gaio
di una sua contentezza pasquale,
chiedeva all’aria marzolina
di fargli compagnia. L’umile fraticello
festoso,
giullare del creato.
***
IV
Era aprile, a mezzogiorno.
I bambini uscivano dalla scuola elementare
come escono i bambini, correndo,
con voglia di gridare.
Uno solo esitava, dietro gli altri:
nella mano il berretto,
e una scarpa slacciata.
Guardò i grandi in attesa
cercando qualcuno;
nessuno lo aspettava.
Si chinò sulla scarpa, trafficò
con le stringhe.
Fingendo indifferenza, gettò intorno
un’ultima occhiata.
Era aprile, e un bambino negletto
imparava quanto pesa l’assenza.
***
V
Al mondo residuale
opporre minimi equilibri
personali, e chiarezza di sguardo:
come fa maggio, limpido
pulito, ripresentando
la sua stranita gioia,
la sua sghemba allegria
alla vita più scialba,
all’intristita malinconia:
mitezza di un mese
saggio, aurorale.
***
VI
Sole di mezza estate danzante
sui tetti di città,
bambini che si spruzzano
alla fontana dei giardinetti,
e rombo di motori ansanti;
giovani braccia
nude, ciabatte strascicate,
colori, risa e grida.
Fertile vita, brulicante
vita che si abbatte
sulla vita come un pugno
affettuoso
nel giugno arioso della città.
***
VII
Un vecchio pomeriggio di sabato
e una vecchia signora
zoppicante: trascina il suo luglio
asfissiante nelle corsie
del supermercato,
a cercare un po’ di fresco
ventilato, qualche umana
presenza. Ma imparare, bisogna,
che l’aria si può avere,
più cristiana:
di parole gentili, di scarsi
sguardi, conviene fare senza;
rassegnarsi.
***
VIII
Il manichino in un campo d’orzo,
nel più caldo agosto,
fermo di pomeriggio a spaventare
i passeri, saldo nel suo avamposto
di comico terrore per ali e piume,
col suo cappello giallo facendo schermo
al sole, al sudore inesistente,
mentre alti nel cielo gli mandano
segnali di sfida, liberi voli:
addio, capitano del niente!
***
IX
Nostalgia dell’estate
alla fine, quasi amore
di una stanca adolescenza:
loro due timorosi di baci
a salutare il mare,
l’ormai umida sabbia,
con la stridula domanda
dei gabbiani: “Ve ne andate?”
Oh sì, è settembre, si ritorna
in città, senza allegria.
Lo sposo in età le sfiora
le mani, e vorrebbe parlare.
Ma lei ordina “taci”,
e aggiunge “mieloso!”.
***
X
Sera fresca di ottobre;
non fredda, ma mossa dalla brezza
ottobrina, dopo un sole
al tiepido tramonto.
Dalla strada in salita si sente
il trillo di una bicicletta,
le ruote in frenata sulla ghiaia.
La vicina affacciata alla finestra
saluta il suo ragazzo
che torna da una sfida
in palestra: sale in fretta le scale,
affamato, con la tuta sudata.
Già da fuori impaziente
“è pronto?”, le grida.
Poi entra, vincente;
sua madre lo accarezza.
***
XI
Silenzio della brina invernale,
novembre di trincea:
nebbia serale fitta, trafitta
dalle luci dei fari
di macchine di camion
e motorette; si bloccano
sul ciglio di fossi
a caricare anime, perdute
intirizzite: lì accanto accese
braci, barbagli rossi
delle sigarette.
***
XII
Intorno al pino natalizio
si stringe la famiglia infelice
litigiosa, a cercare una tregua
benedetta, nella nevosa
atmosfera dicembrina.
È sera, quasi notte,
la bambina più piccola
finge contentezza, il figlio
grande aspetta non sa cosa.
Marito e moglie sperano
nel nuovo giorno,
nel nuovo anno,
nel nuovo inizio.
In Il Pickwick, 18 febbraio 2018
e in Consacrazione dell’istante, Animamundi ed., Otranto 2022
POESIE

MOTTETTI DA UN LAGO VENETO

(Omaggio a Eugenio Montale, rileggendo i Mottetti)

 

Lo sai: devo riuscire a non pensarti.
Come il remo che batte nel lago, insistito
e crudele è il tuo nome,
la parola cortese mia eco
nell’aria di vetro
di Assenza.
Paese di limoni e d’acqua ferma,
vele improvvise nel gelo di un mattino:
eccoli, i segni
si confondono tra i passi addormentati
dei turisti. E cerco un varco, freccia
senza bersaglio come sono,
tenuta prigioniera dal tuo arco.
***
Molti anni, e uno più duro sopra il lago
su cui s’illuminano aurore e attese.
Arrivasti improvviso, a diradare
la mia nebbia di sempre.
Imprimerli potessi, ridestarli
in uno schermo d’immagini
schiarite… E con te cancellare il vissuto
per niente, azzerarlo.
***
La speranza di pure rivederti
sopravviveva, illusa;
e mi chiedevo se dove nascondevi
il tuo timore, in un altrove
a me non noto, anche lì
un sole senza caldo
ti investiva di luce:
(a Torri, nei pressi del castello,
scolaresche indugiavano annoiate,
sorbivano gelati).
***
Perché tardi? Da sempre sono qui,
o così sembra alle mie dita inquiete
che tormentano le tasche
del vecchio impermeabile. È giorno fatto.
L’oscura primavera smuove appena
l’acqua del lago attento.
Nulla finisce, o tutto, se immobile
decido di non esserci.
***
Ti libero la fronte dai capelli
ormai radi, grigi, che svelano i tuoi anni
silenziosi e lontani, incisi
dai segni della morte e del passato.
I miei sono più cupi
dello spazio gettato tra me e te.
So solo questo, adesso:
che t’ignoravo e non dovevo.
***
Al primo chiaro, quando
indiscreto un raschio
di motore penetra il sogno
(ma distorto e fatto labile),
a liquefarlo
nel pulviscolo d’oro
delle imposte malchiuse;
al primo buio, quando
ogni opera, ogni grido
smuore timoroso
e il piovasco si dilegua
sul selciato impassibile:
al chiaro e al buio, mie sole realtà
se tu pietoso ricompari e le fai vere.
***
Non recidere, forbice, quel volto,
solo nel pensiero che si ingombra
di altri occhi, e mani, e voci
che non sono le sue. Inessenziali.
È l’ora… Cerco il segno
smarrito, il pegno solo
che di lui renda l’ombra, almeno,
a ogni angolo più intensa.
***
…ma così sia. Parlo d’altro
ad altri, e li confondo
con la fioca litania
di frasi vane. Brina sui vetri.
S’ostina in cielo un sole
freddoloso, rischiara l’acqua
a stratti, offrendo luce a quell’assorto
pescatore d’anguille dalla riva.
In Omaggi, Einaudi, Torino 2017.
POESIE

NOMINARE GLI DEI

Una riga tremante Hölderlin fammi scrivere

Andrea Zanzotto, La Beltà

1.

Mescolandosi tra noi,

si sono persi.

Gli immortali, da non nominare,

pena la loro dissolvenza

imperdonabile.

Hanno tentato di nascondersi

(nei secoli, in paesi distanti):

mentendo.

Noi, pur riconoscendoli

dai loro parchi gesti

dalle vesti cucite in trasparenza,

abbiamo finto di niente,

come fossero proprio persone

normali.

Dovevamo denunciarli, forse,

chiuderli in qualche gabbia?

Al loro silenzioso anonimato

ci siamo abituati,

dèi clandestini

che volevano salvarci.

 

 

2.

Nei sentieri invecchiati del bosco

in disuso

vagano scorporati fantasmi

in bianco, oppure sono cervi

veloci senza orme, brucanti

foglie secche: si intrecciano

ramosi a scoiattoli inquieti

appesi a scortecciati

rami.

Se intorno danzano libellule

ronzanti appena: ebbene

sono loro! i nostri dei

defunti, signori di foreste

inservibili sfinite.

 

 

3.

Orgoglio del loro innottarsi

invisibili, abissi

di ombre funambole

su scie fosforose di traffico;

e zitti, e leggeri, e traslucidi

stupiscono gli incroci

stordenti, il tanfo

dei gas ammorbanti.

Così santi, innocenti

ambulanze di bene,

così spersi beffati

incompresi, loro

tanto diversi.

 

 

4.

Spaurito il viandante

costretto all’esilio timoroso

da sé, dai suoi folli parenti,

si allontana nei campi, più avanti

cercando un qualsiasi chiarore

un oriente divino

o sponda di lago clemente:

la culla del riparo

a cui grazia supplicare, e perdono.

Ma i celesti non aiutano

l’erba col fiato, i cigni

amorosi si sfidano feroci,

le gemme sui rovi invernali

non sanno sbocciare.

 

 

5.

Come agnelli condotti al macello

come pecore mute

non apriranno bocca.

Nel silenzio è la loro salvezza.

Dèi minorati e zitti

si aggrappano al taciuto

al mistero

perché qui,

non nel verbo corrotto,

c’è una cosa più grande

del tempio.

 

6.

Gloria di assolati meriggi

gioia che nessuno vi può togliere,

voi impalpabili passanti

che sfiorate radure,

le create luminose puramente

guardandole;

ce le rendete vergini

– improvvise nel folto del bosco

consolanti zampillanti

sorgenti, materni approdi:

il molto atteso abbraccio.

 

7.

Chi li manda, e da dove?

Si aggirano incogniti, quasi spiando,

guide beate di non vedenti

di anime imbrunite;

nostre stelle comete

lasciano scie nel cielo,

sassolini per terra,

accendono fanali nella notte.

Ma noi obliosi

erranti

li pensiamo ectoplasmi,

deridendoli:

inciampiamo nella loro

lentezza.

Noi

frettolosi ansanti

verso il traguardo

assente.

 

8.

Oltre Dio,

prima e dopo di lui.

Abitano la terra come ospiti

premurosi, discreti:

velati

sommessi operai

al telaio di millenni futuri

rammendano memorie.

Ce ne fanno dono.

Terribili, rifiutano

qualsiasi gratitudine

pretendendo soltanto

dal cielo l’azzurro,

dai fiori le aperte corolle.

 

9.

Quietamente chiamarli.

Forse risponderanno.

 

10.

Signori dei pianeti

custodi degli abissi,

sempre regali e altissimi

lievi beati e angelici,

nascondono nei sandali le ali

coprendo le aureole

coi baschi con i caschi

e diademi o parrucche o feluche.

Eccoli

che sfrecciano sui pattini

di vetro, volteggiano

svolazzano sorridono,

ci invitano

ci invitano

a diventare loro:

quello che conta

è diventare loro

solamente.

 

 

In CriticaMente, 15 settembre 2018 e in Consacrazione dell’istante, AnimaMundi ed., Otranto 2022