Mostra: 41 - 50 of 57 RISULTATI
POESIE

PASSEGGIATE NEL BOSCO

I rami si muovono appena,

‒ docili al vento –

come a ricordare il peso

delle foglie d’estate,

della neve d’inverno:

adesso che nudi

sopportano solo memoria,

a stento speranza di verde.

E la lievissima pena

di uccelli provati dal volo.

**

Camminiamo tra gli alberi,

nel bosco.

Vedi come sono forti, più di noi.

E sicuri di sé, più di noi:

dell’albero vicino e fratello,

di quello amico.

Noi due non ci tocchiamo,

non parliamo.

Scuri e soli.

Tu davanti, io dietro.

E penso che sarebbe bello

vivere come gli alberi, forti.

Noi due distanti, assorti.

 

**

Scabra la corteccia

alla mia mano, che piano

l’accarezza: mentre lenta

scende la resina,

come colla si rapprende.

Il legno ruvido spurga

la sua linfa, segno di vita.

Attenta a non sporcarmi

le dita, lascio un pegno di me

nel ramo che si spezza.

 

**

La terra durerà sempre,

e sempre uguale. Non invecchia.

Coperta di foglie e di muschio

respira piano, sonnecchia quasi

come fosse un animale in letargo.

Noi invece cambiamo:

ogni stagione, ogni mattina

siamo diversi.

Mi dai la mano, poi mi respingi.

Ti fingi attento ai miei passi

come insegnassi a una bambina

a non cadere; dopo poco ti allontani.

Così persi tra noi,

così vicini e strani.

Passeggiamo nel bosco,

come due anziani qualsiasi.

Ci sosteniamo

con un leggero fastidio,

rughe sul viso, capelli bianchi.

Di te conosco tutto,

so che ti stanchi.

 

**

L’elegante betulla è spoglia.

Solo una foglia, esitante, resiste.

Un poco trema, appesa a un nulla;

e aspetta triste il suo ultimo volo.

 

**

Quanti anni avrà il pino

più alto del bosco?

Così saldo piantato nella terra,

senz’altro più vecchio di noi,

e più sicuro dei suoi domani.

Bianco di neve, in pace

col suo destino.

Tu appoggiato al suo tronco duro

rimani chino, riprendi fiato:

in guerra col tuo corpo stanco

mentre lui greve tace.

 

**

L’aria buona

ci riempie i polmoni,

ci sfiora le guance;

fredda penetra nei nostri giacconi

e sugli alberi

smuove le frasche.

Dalle tasche tiriamo fuori

due arance.

Mangiamo agrumi, aria,

assenza di rumori.

 

**

Nel loro silenzio è

il nostro cammino: indifferenti

al respiro opaco

che ci esce dalle labbra.

Zitte sentinelle del bosco,

non si scuotono al tonfo leggero

delle pigne cadenti,

ritte torri vegetali. Padroni

del cielo e della terra, i pini

assaporano un mite trionfo.

 

**

Il cielo non è consolante,

minaccia la pioggia, la neve.

Un velo di nebbia si tende

tra i rami dei pini, ci bagna

la faccia: ti rende distante

mentre avanzi piano

e io ti seguo, come si deve.

 

**

In questo silenzio interrotto

solo da qualche sfrigolio di frasche,

dal sordo cadere di pigne,

o dallo stormire dei rami

dell’imponente noce davanti a noi,

ascolto di sotto in su il tuo rado parlare,

la tua voce che mi sprona.

Le fa eco lontano il pigolio di un tordo.

E io vado, cammino, ti raggiungo:

così buona da baciarti la mano

senza dire niente.

 

**

Percorriamo un sentiero da altri

tante volte battuto. Raramente è piano,

sgombro di rovi, o sassi, o buche.

Camminiamo verso un traguardo lontano,

a passi brevi, lentamente.

Nuovi nello sguardo perso sul bosco.

E poi arriviamo, lievi,

con un pensiero taciuto.

 

 

 

In Il silenzio e le voci, Nomos, Busto Arsizio 2011

POESIE

PEDRO DEL FARO

Lo chiamavano Pedro –  ma non era spagnolo –
per il baffo spiovente, la voce suadente, l’aspetto
gitano e marino, un destino di sole e di acqua
nel sangue, imbastito di scarne parole.
Da vent’anni viveva nel faro, che era sua moglie
e sua mamma perché ci passava le estati e i natali;
da solo. Ogni mese arrivava la barca a motore
a portargli coperte vestiti vivande: lui scendeva
le scale a spirale, caricava sei sacchi di roba
sulle spalle – farina per il pane, il vino, saponi.
E poi rimaneva in silenzio a mangiare,
assorto a pensare. Sull’isola gli scogli, sentieri
dirupati, brughiera di mirto e rosmarino.
Usciva di mattino, fischiava a un pescatore,
a un contadino che lavorava l’orto,
ma senza dire niente. Inutile parlare,
faticoso: non c’era abituato.
Piuttosto cantava, canzoni d’amore
che aveva imparato in gioventù.
Adesso che è maturo, quasi vecchio,
Pedro guardiano fa compagnia a se stesso
e non gli serve altro, non ha più voglie
rimpianti speranze. Le poche stanze
del faro sono reggia e monastero:
la minima cucina e il forno a legna,
la camera da letto, il cesso e un salottino.
Di giorno tutto bianco di luce,
di notte le stelle splendenti che quasi le tocchi.
Antares, Cassiopea come un diadema,
sapersi nulla scrutando l’orizzonte,
strizzando gli occhi a rincorrere i lampi
che dalla lanterna sorvolano il mare,
indagano il cielo. Ma c’è da fare,
sempre. Spazzare i pavimenti,
controllare le lenti e la pompa
dell’acqua, comunicare i dati
alla centrale, riempire i secchi
nella cisterna fuori, per lavarsi
e per bere. Eppure, sono cielo
e mare, la linea di confine che li segna
a occupargli la mente, i sogni
quando dorme: a fissare dall’alto
quella riga sottile gli viene da pensare
che la terra sia piatta, e non rotonda:
lunga, distesa, un deserto infinito
e paziente. Azzurro, blu cobalto,
giallo al tramonto, rosato all’alba,
di notte nero in quello spazio aperto
solcato a volte da una fila di navi,
più spesso vuoto e muto. Pedro
si perde, cerca l’aiuto di capodogli
e delfini, oppure un roteare di falchi,
gli stridi dei gabbiani per non sentirsi
abbandonato e solo,
che se morisse nessuno lo saprebbe.
Gli piace udire almeno la risacca,
uno sciacquio remoto prima di addormentarsi;
o quando legge il farfallio di mosche,
di falene, le rondini che sbattono
sui vetri, e il vento, il vento forte;
la burrasca, una buriana di scirocco
o grecale, qualsiasi cosa che lo faccia
star bene o male, ma vivo e vero. Da sveglio
col binocolo sugli occhi
non sa cosa si aspetta di scorgere lontano,
nel sulfureo bagliore di flutti giganteschi:
le ossa spolpate di un antico fenicio,
larvale spettro implorante vendetta
che un tempo era bello, era alto
e amava nella stiva ragazzi moreschi;
finì negli abissi del buio avvinghiato
a una trave (ah, temi, marinaio del mondo,
la morte per acqua!). O spera, il guardiano del faro,
di essere il primo a vedere in un’alba nebbiosa,
confuso col vento, lo sbuffo di vapore
alzarsi dal dorso della bianca balena
trafitta di fiocine, indomita, furiosa,
vittoriosa. E dietro di lei un vascello fantasma
che sfiora le onde, si alza, sprofonda,
poi vola su ali poderose tra le nuvole,
scompare come un sogno, è una fiaba
narrata davanti al camino da un vecchio
che accarezza a parole lui bambino.
Lui bambino non ancora Pedrito
pesava i suoi giorni sulla riva
ciottolosa, a lanciare sassetti
rimbalzanti sull’acqua, poi nudo
si tuffava a bracciate innervosite
dove non si toccava: e il faro
era lontano, a guardarlo, futuro
del futuro, promessa
di silenzio e di avventura, di freddo
e di paura; il faro del destino
di Pedrito bambino.
Che cresciuto e forte come un toro,
con le braccia abbronzate e il primo pelo
sulle guance sul petto tornito
ci portava le signore più grandi
straniere, imparava l’amore, le stringeva
sdraiato tra le chiglie delle barche
a riposo, e la luce del faro
sciabolava i capelli normanni vaporosi,
lo invitava ad osare ogni notte di più.
Così pensa i suoi ricordi compagnia
mentre è solo appoggiato con la testa
alla parete brufolosa inumidita
della stanza in cui conta le ore
di fronte alla finestra salmastra,
fumando sigarette stropicciate
tra le dita, e dalla radiolina
ascolta la voce distante
che racconta una partita indifferente.

 

In Lo Straniero n.180, giugno 2015 e in L’attesa, Marco Saya edizioni, Milano 2018

POESIE

RICORDANDO LUCIO BATTISTI

I

 

Rumori lontani nel bosco,

fruscio di foglie a terra

e rami calpestati.

Intorno nebbia, mentre tenace

il sole non si arrende.

Noi spaesati a cercarci,

ruvide labbra, parole stente.

Il canto di un fagiano

ci sorprende, stride,

nel quasi giorno dell’addio.

Non ti conosco più,

in questa guerra che ci divide,

nostro presente

senza pace, senza domani.

 

 

II

 

Mi tremano le mani

se penso alle stentate primavere

passate; finiti i soldi,

anche l’amore faticava.

Ma non ti rassegnavi:

“domani sarà meglio, domani

andremo fuori

a comprare scarpe libri vestiti;

tutta nuova ti voglio vedere,

regalarti dei fiori”.

Attrice comprensiva

rispondevo facendoti coraggio:

maggio giugno l’estate

indolente che arriva.

Passa un giorno, poi un anno.

Non cambiava mai niente.

 

 

III

 

Allontanarci e ritrovarci,

questo mi proponevi,

prudente e saggio

con paura di sprecarti

in troppo dare. Non mi prendevi

nemmeno per mano, vergognoso

degli sguardi della gente:

mentre io avrei voluto sollevarti

aldilà di colline, di boschi

e confini: spaziare immensi

azzurri, col coraggio

dei folli e dei bambini.

 

 

IV

 

Consolante il ricordo di noi

mi si affaccia,

se nello specchio ritrovo

il profilo imparato a memoria,

sul letto la traccia

del corpo abbracciato,

dal soffitto oscillante un filo

di ragno

avvolge nel velo la storia

che è stata la nostra.

Nostra stanza,

mio tempio ora zitto:

mio cielo mio scoglio

e deserto.

Non voglio non volo,

ancora non provo.

 

 

V

 

Mi alzo mi vesto esco.

Vago come un automa,

impietrita in qualsiasi

parola, o gesto.

Poi improvvisa una voce,

poi tante, musica forte da un posto

che ignoro (balera

caffè ristorante): mi chiamano

dentro, scombinata compagnia,

“sei sola?”.

Rido tra loro, angeli sconosciuti,

canto, bevo. E via dal coma,

dannata tristezza;

salvezza decisa in una sera.

 

 

Il Pickwick, 13 settembre 2020; Gli Stati Generali, 5 marzo 2023

In Rime e varianti per i miei musicanti, Marco Saya Edizioni, Milano 2020

 

 

 

POESIE

RICORDANDO LUIGI TENCO

I

Conosci il vuoto,

ore lente a passare

e l’insonnia la notte.

Speravo di incontrare

qualcuno, uscendo,

ascoltare parole.

Grazie prego grazie:

almeno.

Invece silenzio,

ombre, sguardi altrove.

Forse solo per questo

ho deciso.

Non avevo niente da fare,

niente da perdere.

Più nessun desiderio speciale.

Mi sono innamorata

per questo motivo

solamente. L’amore

c’entra poco, o niente.

 

 

II

 

È bastato un tuo ritardo,

la scorsa settimana,

per farmi tremare.

Così, improvvisamente,

ho capito, con paura di capire.

Poi una frase,

buttata lì come un saluto

del tutto indifferente,

e uno sguardo

quasi fosse una carezza.

Ho capito, e nel capire

mi sono fatta tenerezza.

 

 

 

III

 

Non mi hanno insegnato

(quando mi hanno insegnato

a parlare) a dire di te

le cose giuste (a chi di te

voleva sapere), che giusto

ti facessero apparire.

Non mi hanno insegnato

parole diverse

per fare diverse le sere

le mattine. Nostre.

Sono rimaste

di tutti e di sempre,

le mie parole.

Come le storie

e gli amori di tutti.

 

 

 

IV

 

Probabilmente non lo sai

o non vuoi confidarlo

nemmeno a te stesso.

Hai bisogno di me.

Sempre, e adesso.

Per questo sono qui, stasera:

pena di noi, oppure

un cuore troppo tenero.

Timore che perdendomi

tu finisca per perderti.

Eccomi, allora,

e non è stato facile.

Scalare una montagna

per chiederti «Lo vuoi,

il mio bene, ancora?»

 

 

 

 

V

 

Proprio non mi hai capito,

forse mai.

Sei lì che aspetti sempre.

Fermo, zitto. Non so

se insofferente.

Aspetti che sia io a parlare,

a fare il primo gesto.

Murato nel silenzio,

incementato.

Mi costa tanto

riuscire a non abbatterti

a colpi di bazooka.

Se non mi chiami adesso:

ti detesto.

 

VI

 

Tenaci a sperare

per pura abitudine,

senza scopo o ragione.

Domani uguale a ieri

(così sfocato

che non lo ricordiamo,

il nostro passato di nebbia);

un giorno, un altro giorno,

il giorno prima.

Un’ora, o l’ora dopo,

il nuovo anno.

Continuiamo,

solitudine in due;

ma non vale la pena.

 

 

VII

 

Io sì.

Non quell’altra

che alla fine ti sei scelto.

La poverina, la noiosina.

Io sì.

Non lei ubbidiente.

Dolce, silente.

La cagnolina, la cinguettina.

Io sì.

Non una brava in cucina.

La cucitrice, la stiratrice.

Donna in cornice.

Io sì.

Lei che sbadiglia,

che ti somiglia.

La sorellina, la cuginetta.

Io sì.

Ti ho consegnato,

con lei,

la mia vendetta.

 

 

VIII

 

Stanca distratta distrutta

non ho nemmeno voglia di parlare.

Mi fa fatica anche solo guardarti.

Vedrai che piano piano tornerò

quella che ero.

Non essere però troppo paziente;

non sei mio padre, non sono una bambina.

Vedrai che se mi sgridi

qualche volta, (mio severo)

ce la farò a cambiare.

Non ti deluderò

per sempre.

 

 

IX

 

Ti verrò in mente quando

mi avrai perduto.

Improvvise torneranno

a stupirti

le frasi che suggerivo,

incantate, sospese.

«Noi siamo il cielo»,

dicevo. «Siamo gli alberi».

Ricorderai

di come sorridevo,

di come sorridevi «Anche le nuvole?»,

chiedendo.

«Anche», mentivo.

 

 

X

 

E lontano in due dimensioni

ti ho nascosto nelle nove

restanti.

Sparso ovunque. Sperso

come sempre sei stato.

Ma riaffiori, ogni tanto,

imprevedibile inatteso,

a guardarmi

con la tua timidezza

di offeso, benché innamorato.

Lontano irraggiungibile,

tempo e spazio nemici.

 

«Il Pickwick», 12 gennaio 2020

In Rime e varianti per i miei musicanti, Marco Saya Edizioni, Milano 2020

 

 

 

 

 

 

 

POESIE

RICORDANDO SERGIO ENDRIGO

I

Mille cose. Troppe cose
assediano i felici,
senza lasciare loro il tempo
di accorgersi che sono
così felici.

E non lo sono, infatti:
confusi, forse; distratti.
Desiderosi d’altro.
Invece io ti ho avuto.
Ho avuto te,
e mi ricordo di questa sola cosa.
Di questa cosa sola
mi accontento.

II

Non può morire nemmeno
quando muore,
una qualsiasi storia d’amore.
La nostra, poi.
Me la coltivo come un germoglio:
la curo la sorveglio,
nella tiepida
serra
del ricordo.
Mia tenera allegria, se resto sola.
Orgoglio
che taccio in compagnia.

III

Eri con me.
Eri con me d’estate.
Probabilmente luglio, inizio agosto,
e insomma era l’estate
di una non vacanza.
La stanza, chiara; la terrazza.
Il letto, il copriletto a fiori.
Il caldo fuori, non dentro
quella stanza.
Era d’estate, l’autunno
non ci preoccupava.
Un posto senza mare,
senza dopo,
bastava.

IV

“Finirà − hai detto piano −
Come tutto finisce”.
Sembravi angosciato
dal tuo fiato, addirittura.
Perché non crederci
perché non riprovare
− riflettevo guardandoti.
Forse hai paura.
Te lo leggo negli occhi
che hai paura.

V

Non hai voluto finire.
Io ti incalzavo, ti incoraggiavo.
“Dimmi!”, dicevo.
Implorando: “Spiegami!”
Pronta a chiedere scusa,
a umiliarmi, a promettere
per l’eternità.
“Se le cose stanno così…”,
ti muravi, alzando le spalle.
Spacciando bugie
(le tue!) per verità.

VI

Giorni grigi più grigi
del cielo, con le nuvole basse
che promettono gelo
e neve. Mi regali
una vita impossibile,
se scompari nel nulla
(se resti e sei nulla).
Chi ci guarda dai vetri
ci vede infreddoliti,
tremanti nell’inverno
non solo per la neve.

VII

Non ci sarò.
E non per cattiveria.
Semplicemente, sarò lontana,
tra gente e strade
che non conosci.
Via, via, lontana da qui.
Non per vendetta.
Adesso lo capisci, finalmente?
Te lo devo ridire? Lo ripeto:
con calma, con pazienza, senza fretta.
Non ci sarò.
Adesso sì, che sono seria.

VIII

Ne ho persi, di giorni:
e sono tanti.
Il fiore della giovinezza,
direbbero gli amici
benpensanti.
È che si paga tutto
stando insieme:
il bene e il male
fatto e ricevuto.
Non tiriamo le somme
da meschini: dato/avuto,
molto/poco.
Siamo stati generosi tra noi
− perlomeno in tenerezza.
Poi, ci siamo tenuti compagnia.

IX

È inverno, nell’aria,
o cos’altro? Bambini silenziosi
spaventati, per strada.
Amici seri, quasi in lutto.
E io, anch’io: aspetto zitta
impaurita che uno
da lontano torni, mi porti
un fiore − gentile nel freddo −
a scaldarmi mani, occhi,
il cuore distrutto.

X

Cosa resta di te? Non saprei.
La tua assenza, di certo.
Un vuoto di gesti
un rosario di sguardi mancati.
Silenzi, silenzi.
Pesanti, ricattanti fantasmi
sulle scale.
Ma è passato tanto tempo.
Il tuo non dire
il tuo non essere,
non mi fa male.

 

Il Pickwick, 28 luglio 2019

In Rime e varianti per i miei musicanti, Marco Saya edizioni, Milano 2020

POESIE

RISVEGLI

Non ci sono più angeli. E quello che vediamo
intorno, sospeso (pulviscolo o respiro)
non è altro che fuliggine, nessun segno
dal cielo, nessun messaggero divino
che ci annunci salvezza, moderata
consolazione. Siamo rimasti
senza intermediari, abbiamo esplorato
ogni abisso e mistero, sbugiardato gli inganni.
E così non sarà Gabriele, e nemmeno
Lucifero a farci paura. Piuttosto
l’assenza di angeli, il silenzio
dei pianeti: e non arriveranno
comete annunciando l’atteso,
neppure i pastori col gregge,
neppure la neve a coprire le grotte.
*
La notte che è sembianza dell’eterno,
il nulla temuto che ci avvolge, ci addorme
e zittisce: nessuno ci difende dal sonno
in cui svaniamo; e non siamo.
Non siamo più noi. Dilatati confini
di un corpo irreale, polmoni viscere
inconsapevole cuore che non controlliamo
(e sì, venisse un’ala a sfiorarci,
una piuma leggera, la mano protettiva
di un padre di una madre:
saremmo più tranquilli più forti).
Invece come morti indifesi giaciamo
nel letto, impariamo a non essere
importanti, ad avere lo stesso rilievo
del piccolo ragno che dalla sua tela
in alto sul muro osserva
indifferente il nostro simulacro,
immobile sarcofago.
*
Ed ecco l’indicibile, che senza noi
non c’è coscienza o anima,
e senza mondo intorno
il niente esiste. Ancora esisterà:
sarà un lombrico, un falco,
una stella binaria; il niente
fatto cosa, essenza e tutto.
Splendida rosa che aspetti
nel vaso il mio risveglio, quando
aprirò il balcone, tu prima
a salutarmi, e sola. Aulentissima
rosa che ti schiudi al mattino
alla mia cura all’acqua
e felice di te, così orgogliosa
ti opponi al nulla tragico,
all’inutile nulla, regale delicata
certezza.
*
Anche l’ape laboriosa combatte
una sua guerra contro l’inconsistenza,
l’ape che ronza ubbidiente al destino
sicura di servire a qualcosa, tenace
minuscola apprendista del dovere
sconosciuto; la sua danza febbrile
intorno al fiore è la stessa di sempre,
da millenni: si diverte e affatica,
illusa di un’eterna libertà (la sua aria,
il suo cielo, il suo volo), incosciente
leggera puntuta. Ma non sa
quanto poco le resta da vivere
e corteggia la rosa in allegria,
si avvicina con piccoli cerchi
posandosi infine su un petalo,
fiera di sé, vincente.
*
È luce che filtra dai vetri
socchiusi, si fa strada tra le tende,
annuncia un giorno nuovo, ancora vita,
vita insperata, gratuita come un dono,
senza trionfi e giubili: discreta invece,
quasi proposta di fidanzamento.
Va bene, preparati che usciamo,
luce del giorno. Usciamo insieme,
– se mi dai la mano; miracolo di gioia,
risveglio e guarigione. Fuori il rumore
di passi e voci, fuori gli incontri
i tradimenti; e noi tra gli altri,
tra tutti e gli altri, la luce e io.
Mio corpo ritrovato, mia sola
realtà. Per poco, forse,
come la rosa o l’ape,
senza curarci dell’eterno.
In  Elegie del risveglio, Sigismundus, Ascoli Piceno 2016 e Nulla Die, Piazza Armerina 2022